Posts written by maluma‚ baby

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    baltasar:
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    <i class="fas fa-long-arrow-right" style="color:#1B5583;padding-right:3px;font-size:15px;"> <b>baltasar</b></i>: <i class="fa fa-star-o" style="color:#bfbd3d;padding-right:3px;font-size:10px;"></i>
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    A little bad luck has taught me how to stand
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Avrebbe potuto farlo per ogni presunta frequentazione che portava a casa dai genitori, soltanto per far loro un dispetto o per reclamarne l’attenzione, quando non per trasformare la rabbia celata dietro il trucco sempre impeccabile in divertimento fine a sé stesso. Non lo aveva mai fatto: non era un suo diritto tanto quanto non lo era di nessun altro; si limitava ad essere un buon fratello nel terrorizzare tutte le compagnie che sapeva non essere opportune per Liz, stringendo i ranghi attorno alla maggiore per proteggerla dalle sue stesse scelte – sempre che questo significasse esserlo, un buon fratello. Aveva sempre sperato di sì – aveva sempre creduto che esserlo volesse dire prendersi cura di lei, e non soltanto amarla per com’era; rispettare ogni decisione che la facesse stare bene e anche quelle che facevano il contrario, fintanto che fossero state prese da lei e non dai demoni nella sua testa. Ma non c’era mai stato giudizio negli occhi cioccolato, né nelle mani a sfiorarle le ciocche dorate ad ogni rottura.
    Avrebbe potuto giudicarla quando era caduta in una spirale senza fine, vorticando attorno ad un buco nero dal quale solo ultimamente era riuscita a tirarsi fuori, aggrappandosi al primo fascio di luce disponibile. Chi in un modo e chi nell’altro, tutti lo facevano – tutti, gli dicevano che avrebbe dovuto farlo anche lui. Non ci era mai riuscito, non ci aveva nemmeno mai provato: si era lasciato trascinare sul fondo con lei, piuttosto, sciogliendo una pasticca dietro l’altra sotto la lingua e non potendo fare altro che capirla, e sentirglisi un po’ più vicino. Perché non c’era mai stato nulla di capriccioso o vizioso nei gesti della ragazza – piuttosto un bisogno, ed il modo più semplice per soddisfarlo; e tutte le volte che aveva potuto, l’avevano condiviso. Non c’era mai stato giudizio nei sorrisi poco lucidi, né nei glitter appiccicati tra un abbraccio e l’altro.
    Avrebbe potuto farlo quando era partita per la guerra. Avrebbe voluto farlo, nel momento in cui si era ritrovato con un semplice biglietto – un messaggio, niente più, per comunicargli fosse andata dove non poteva raggiungerla, e dal quale forse nemmeno sarebbe tornata. Ma anche allora, non ci era riuscito: si fidava di Liz più di quanto il buonsenso potesse suggerire di fare, e se l’aveva reputato necessario lo accettava. L’aveva odiata, forse; l’aveva voluta odiare perché non gli aveva detto niente, perché se aveva pensato alle conseguenze aveva ponderato anche l’ipotesi di rimanere nel fuoco incrociato e non aveva reputato opportuno salutarlo come si doveva, ma non era certo di essere stato in grado di fare nemmeno quello. Ed aveva fatto l’offeso, ovviamente aveva fatto l’offeso, perché era suo fratello ed era suo obbligo morale farle pagare in qualche modo il fatto di non avergliene parlato: era la sua vita, poteva fare quello che più riteneva giusto per sé; Balt voleva soltanto essere avvertito, finché poteva. Ma non c’era stato giudizio nel broncio appuntato sul viso del diciassettenne, né tantomeno nel silenzio che le aveva riservato per quei pochi giorni.
    Non avrebbe iniziato ad esserci, quel sentore di giudizio che chiunque poneva con tanta superficialità su Lissette Monrique, nemmeno in quel momento. Aveva pensato di sì, ed avrebbe voluto che fosse vero. Sarebbe stato più facile stare lì, davanti a lei, con i pugni affondati nei jeans e la visiera di un cappellino da baseball a coprire lo sguardo puntato sui fili d’erba ai propri piedi, se solo avesse deciso di riservarle tutto il proprio sdegno – perché avrebbe significato l’essere andati oltre all’odio, ed aver sublimato tutto il proprio rancore nell’indifferenza: non aveva mai creduto d’essere capace di una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta.
    Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire ogni singola, e fottuta, cosa provata tre giorni prima.
    La felicità di aver ritrovato Wren, ed il non aver reputato importante il fatto che fosse stato messo a dormire per due mesi interi: stava bene, glielo avevano assicurato, e tanto gli bastava per portarlo fuori di lì tirandoselo sulla spalla – malgrado non ce la facesse, e la magia fosse più semplice in una situazione del genere; voleva stringerlo, e sentirlo vivo contro di sé, e tenerselo lì perché magari si sarebbe svegliato mentre lo trascinavano fuori ed avrebbe avuto lui al suo fianco.
    Lo sbigottimento, quando aveva visto Kaz e Clay impugnare le armi in favore dell’uomo che li aveva rapiti due mesi prima – un sentimento prettamente egoista, e superficiale: era andato lì anche per loro, il tassorosso; era andato lì per riportarli a casa, e non sarebbe successo.
    Il sollievo, perché tutti i suoi amici (i tibiavorio compresi) erano sani e salvi.
    La paura ad ogni battito troppo potente o troppo debole contro lo sterno, perché non voleva morire, e non aveva un singolo muscolo nel proprio corpo che lo aiutasse a tenersi in piedi come avrebbe dovuto.
    Il dolore di quelle mani premute sulle spalle, di quelle parole a fare più male di ogni colpo ricevuto – persino della pugnalata al petto. La sofferenza della propria voce a rompersi contro le pareti della gola, e ad uscire come singhiozzi privi di forma e senza lacrime a solcare tracciati tra il sangue.
    Cosa stai dicendo, Liz. Non potrei mai dimenticarti. Perché dovrei farlo? Cosa vuoi fare? Non mi lasci da solo, vero? Non puoi lasciarmi da solo, ti prego.
    Ricordava ancora il momento in cui gli era stata tolta la magia, la libertà, la sua scelta; quello in cui era caduto a terra, e di non essere riuscito a provare niente che valesse la pena di essere ricordato – confusione, vuoto, abbandono.
    Ma faceva più male sollevare gli angoli delle labbra, ed il capo per cercare le iridi chiare di Liz. Non perché fosse forzato, ma perché piuttosto era l’unica cosa che volesse fare: voleva che se lo ricordasse così, suo fratello. Voleva non sentirsi abbandonato, per quanto partendo per lo Sri Lanka avesse perso più di quanto avrebbe mai potuto immaginare; voleva rimanere stoico, con i denti stretti ed i nervi tesi per bloccare il prurito agli angoli degli occhi.
    Annullò quella poca distanza che c’era tra loro, e non le diede modo di allontanarsi per qualche stupido motivo che poteva funzionare solo e soltanto nella sua testa: le strinse le braccia attorno alle spalle prima che potesse opporsi, e nascose la testa nell’incavo del collo per qualche istante.
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Non avrebbe iniziato a farlo per una scelta del genere; non se sarebbe stata bene, in pace con le proprie decisioni. Si era sempre preso cura di lei, ma mai quanto il contrario – non l’avrebbe potuta lasciare in altro modo, se non in quello.
    «te quiero, noona.» soffiò sulla pelle della bionda, occhi strizzati per impedire che uscisse anche solo una singola lacrima. Non le disse che non l’avrebbe mai dimenticata, né che non gli sarebbe mancata: non faceva promesse che non poteva mantenere, il Monrique. «vedi di diventare l’imperatrice di questo stupido posto. fatti valere.» deglutì, lasciando che il suo profumo gli si imprimesse addosso quanto più possibile prima di staccarsi da lei. «ci vediamo presto, va bene?» quelle parole uscirono un po’ più secche, ma non poté controllarlo: sapeva sarebbe tornato lì, e che non dipendesse da lui.
    Posò lo sguardo su Kaz, arretrando fino ad essere ad un passo dall’uscita della Bolla, due dita premute sulla fronte ed il sorriso stampato sulle labbra: non gli interessava cosa avessero scelto, era felice fintanto lo fossero anche loro; sperava soltanto che il lumocineta tenesse fede alla promessa, e che si prendesse cura della sorella al posto suo.
    Quando la Città scomparve alle sue spalle, dovette passare il palmo contro il viso e spingere sugli occhi: a quanto pareva, le lacrime non avevano più motivo di stare al loro posto.

    La cosa peggiore, fu credere fino all’ultimo che salutare Liz e gli amici rimasti al fianco di Lancaster sarebbe stata la cosa più difficile.
    Si era sbagliato, e se ne era reso conto quando la realtà che aveva deciso di ignorare gli si era abbattuta addosso con tutta la forza che il golem che avevano combattuto nel teocalli poteva soltanto sognare di possedere.
    Aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, quando lo aveva accolto in un’aula del Castello. Lo conosceva per la nomea che si era fatto nel corso degli anni all’interno della scuola, e perché non c’era una singola persona che il Monrique non conoscesse, ma dopo essere stato tra quelli che avevano contribuito a portarli fuori dalla piramide mesoamericana trovava terribilmente ironico – giusto, eppure così sbagliato – che fosse proprio lui a dirgli che non potesse più rimanere lì. Che non avrebbe più frequentato le lezioni di Hogwarts, che non si sarebbe mai diplomato, che non poteva più passare ogni istante della sua vita con i propri amici.
    Che doveva tornare a casa, parlarne con i suoi genitori, spiegare cosa fosse successo.
    Che era il loro unico figlio, che erano sicuramente preoccupati per lui.
    Allora aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, e di scoppiare in lacrime senza riuscire a fermarsi. Non voleva sembrare un pazzo nel dirgli che non fosse figlio unico – che sua sorella era lì dove il legionario aveva passato gli ultimi due mesi della sua vita, dove era andato per riprendersi un fratello che nessuno sapeva avesse tranne lui –, né disperato nel tranquillizzarlo – era più facile che i suoi genitori lo lasciassero in mezzo ad una strada, piuttosto che preoccuparsi di quel che gli era successo. Aveva chinato il capo perché non voleva che lo vedesse piangere, ma da qualche parte doveva aver fallito – forse nella superficialità con cui aveva creduto che all’ex battitore dei Corvonero non potesse fregare di meno: il suo era un copione, in fin dei conti, frasi fatte e di circostanza da riadattare in base alle esigenze; aveva sentito il sentimento con cui aveva condito quelle parole, ed aveva voluto che fosse per lui, ma crederci era un altro discorso. «non è la fine, balt.» annuì, ma senza alzare lo sguardo sul maggiore. «non sarà facile, ma non sei da solo. hai un gran bel gruppo di amici, no?» a quello assentì con più convinzione, felice al solo sentir nominare i Ben – ma.
    «è stato bello quello che avete fatto in bangladesh.» furono forse le prime, sicuramente le ultime, parole che rivolse al Hale, alzandosi dalla sedia sulla quale si era affossato sempre di più con un sorriso caldo sul volto tirato e stanco. «grazie.»
    Quello aveva fatto male, sì.
    Ma non quanto andare nel dormitorio mentre tutti gli altri erano a lezione di Incantesimi e fare davvero le valigie. Non quanto aspettarli laddove si erano incontrati prima di partire, senza voler guardare fuori dalla grande finestra oltre al pendolo, rimanendo con la testa affossata nelle ginocchia strette al petto – meno guardavano un volto che non riconosceva più nemmeno lui, e meglio era. Non doveva dir loro addio: avrebbe semplicemente vissuto fuori dal Castello, non lo avrebbero dimenticato una volta oltrepassato il cancello – «venite da me quest’estate? ad ibiza.» caso mai pensassero volesse tornare a Barcellona dai suoi –; allora perché lo sembrava? Un anticipazione di quello che Michael aveva profetizzato, che sentiva vibrare nel petto – torna a casa.
    Parlare con Mac non aveva fatto nemmeno male quanto far cadere tutte le valigie nel scontro, chiedere quello «scusa!» prima di rendersi conto a chi lo stava rivolgendo, e che questo lo guardava come se fosse uno studente qualunque? Alla fine quello era Balt, per il guardiacaccia: cosa ne poteva sapere Galen Acharya del fatto che in un giorno, un solo fottutissimo giorno, si fosse fidato più di lui che di quanto avesse mai fatto con Adam Monrique.
    Né aveva fatto male quanto passare davanti all’Aconitea, e sentire sulla bocca dello stomaco e nel petto che ci fosse qualcosa di sbagliato – come se poi se ne sarebbe sbattuto più di tanto le palle, il diciassettenne, che qualsiasi cosa fosse Wren facesse a pugni con qualsiasi cosa fosse lui ora: non avrebbe perso l’unica cosa che era riuscito a riportarsi a casa.
    Non aveva fatto minimamente male quanto lo aveva fatto tornate nella casa che aveva preso con Liz quando si erano trasferiti a Londra, e trovare tutte le sue cose ancora lì: a quel punto, non aveva potuto evitare di cadere a terra e piangere – e piangere, e piangere, fino a quando non ebbe più fiato in corpo per singhiozzare o acqua nei dotti lacrimali per irrigargli il volto.
    Trasse un profondo respiro, ed iniziò a raccogliere quello che aveva lasciato in giro sua sorella. Svuotò il proprio baule, e mise tutto quanto lì dentro, scrivendoci sopra il nome di lei: poteva pur finire per dimenticarla, ma prima o poi quegli averi avrebbero significato qualcosa. Così come avrebbe significato qualcosa quel diario di viaggio, tutte le informazioni e i vari Kaz è pompatissimo e Paris + Theo = </3 ma andrà meglio.
    Avrebbe significato qualcosa anche il ciondolo infilato nella collana – e anche non lo avesse fatto, l’importante era che in quel momento sapesse che la stellina appuntata al collo voleva dire che la avrebbe sempre avuta con sé.
    Fu nel sistemarsela, che posò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Non lo aveva fatto davvero da quando si era risvegliato nella bolla; avrebbe preferito non farlo nemmeno lì. C’era... qualcosa di sbagliato. Fece scivolare le dita sulla pelle del viso, sulle labbra, sul naso, sugli occhi – forse non era nemmeno così sbagliato, soltanto tremendamente diverso; eppure uguale a com’era prima di partire, se non si consideravano le occhiaie e il colore meno acceso dell’incarnato. Chiuse con prepotenza gli occhi fino a sentire il dolore alla radice del naso, e quando li riaprì non guardavano più la propria immagine riflessa, ma una piccola scatolina abbandonata sul mobile.

    Ricordava la prima pasticca che aveva fatto sciogliere sotto la lingua, ma non se ce n’erano state delle successive. Supponeva di sì, perché non era ben certo di come fosse arrivato seduto sul prato dell’Aetas sotto il cielo stellato di Maggio.
    Aveva pianto? Ancora? Anche lì, poteva darsi una risposta soltanto premendo il polso sul viso: sentendolo umido, immaginava di sì – immaginava di aver solo creduto avesse finito, in casa, e che ne avesse ancora bisogno.
    Ma soprattutto: aveva chiamato lui Mimmo? O era stato l’italiano a chiamarlo? Oppure era lì di passaggio anche lui, a vagare senza alcuna meta? Battendo il palmo sull’erba accanto a sé per invitarlo a fargli compagnia, occhi liquidi e sorriso ebbro sul viso, decretò che non gli interessasse affatto.
    «sgodiamo?»
    baltasar
    monrique

    mom, dad
    i failed again
    chosen
    sacrifice
    what did
    you expect?
    nothing but an angel — hufflepuff — 2006It's taken my spirit
    It's taken the words out of my mouth
    I feel like I'm disappearing
    And all I ever seem to say is-
    down with my demons
    Lø spirit
    moonmaiden, guide us
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    nome pg: harrison bonnay
    fazione: pro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — NORMALE

    nome pg: tvattbjorn commstaj
    fazione: pro
    dov'è: RAPITO OBLINDER O MINIQUEST



    nome pg: baltasar monrique
    fazione: contro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — OSTACOLO NELLA BOLLA

    nome pg: daveth gallagher
    fazione: contro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — NORMALE

    nome pg: wyborowa moskovskaya
    fazione: contro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — NORMALE

    nome pg: remo linguini
    fazione: contro
    dov'è: RAPITO OBLINDER O MINIQUEST
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    devotees have the soul of saviors, the paladin complex,
    and are ready to sacrifice themselves to defend their companions.
    Al sentire il proprio nome, Balt non si scompose affatto. Rimase immobile a guardare la stessa vetrina, nonostante la vista si fosse appannata nel breve tempo di inattività e la mente persa in ragionamenti altrettanto offuscati, senza capo né coda. Le uniche cose che avrebbe voluto dire in quel momento le tenne per sé, strette tra i denti e l’interno della guancia fino a quando quel che avrebbe potuto ferirlo nel riascoltarsi non divenne mero dolore fisico e sangue amaro sul palato – più sopportabile, più gestibile; meno logorante.
    Non sapeva quale necessità avesse spinto la stanza va-e-vieni a spalancargli le sue porte, ma odiava che tra le possibilità ci fosse proprio quella di sentirsi così – con addosso sguardi giudiziosi, sorrisi a metà tra la compassione e l’incredulità usati come un’arma puntata al suo petto, e pensieri tanto fitti a ronzare nelle menti altrui che non gli serviva essere un Legilimens per riuscire a distinguerli. A volte credeva di essere masochista, senza il bisogno di sconfinare nell’autolesionismo dal momento che ci pensava la vita a mettergli i bastoni tra le ruote un giorno sì e l’altro pure per farlo ammazzare da qualche parte, ma c’era un limite a tutto: gli bastava lo sprezzo dei genitori, la delusione nei loro occhi per quanto lui ci provasse, per quanto lui gli volesse bene; non voleva che altri rincarassero quella dose, e l’idea che ne avesse bisogno lo disturbava nelle viscere più profonde, stringendole e bruciandole.
    Avrebbe voluto dire a Mood che lo sapeva, che non serviva aggiungesse altro a quel «balt» semplice, ed esplicativo.
    Che gli dispiaceva, ma Dio solo poteva dire per che cosa fosse rammaricato: per aver fatto una domanda tanto stupida? Per essere tanto stupido? Era superficiale, il Monrique, e raschiava soltanto gli strati più apparenti delle situazioni, delle persone, perché non aveva mai avuto modo di doversi preoccupare di cosa ci fosse in profondità. Era buono, gentile; la casualità aveva voluto che nascesse in un ambiente fortunato che l’aveva tenuto in una torre d’avorio per tanti anni, crescendo all'oscuro di molte circostanze appena fuori da quelle mura: se tutto questo voleva dire che fosse un ingenuo, un ignorante, probabilmente lo era. Non spiccava nell’ingegno perché affianco ai suoi amici non poteva essere altrimenti, erano tra le menti più brillanti che avesse mai avuto l’onore e la fortuna di conoscere ed era felice che fosse così, ma non si era mai definito uno stupido – perché, semplicemente, non voleva esserlo, e possedeva da sempre abbastanza caparbietà e buona volontà per imparare dai propri sbagli ogni giorno.
    Che stava scherzando, perché con quel sorriso sulle labbra per molto tempo aveva creduto che gli si potesse perdonare tutto; spesso, era stato così.
    Tutte stronzate che aveva dovuto ingoiare giù per la gola fino a rigonfiare i polmoni. Un pattern che non voleva ripetere, che non voleva spostare da casa sua su qualcun altro – forse per capriccio, forse per principio, o forse perché sapeva non fosse giusto. O più banalmente, perché non era quello che stava cercando lì dentro.
    «sai quando il ministero apre le missioni ai civili?» non rispose, ma non perché non conoscesse la risposta: viveva con un ministeriale, uno dei pezzi grossi per giunta, da quando era nato; sapeva più cose su quel mondo di quante dovesse, o volesse.
    Quando non vogliono perdere risorse.
    Sentire quello che già pensava da una voce diversa da quella nella sua testa fu la conferma di cui non aveva assolutamente bisogno – e di certo, non per una specie di negazione della realtà dei fatti. Ancora, non si spezzò al suono di quelle parole. Ancora, rimase stoico ed impassibile, cosciente dal principio di ciò che sarebbe stata quella missione: il suo unico tarlo al riguardo era stato il fatto di trascinare i suoi amici in una vasca piena di squali, ma aveva risolto quel problema quando aveva capito (come se poi già non ne fosse consapevole) che non poteva andare diversamente da così.
    «la mente umana è facile da manipolare. o la è la nostra, o quella di chi è tornato. saperlo, o supporlo, non cambierà il fatto che andremo.» solo allora, tornò con lo sguardo su Mood, piegando appena l’angolo destro delle labbra. Voleva sapere se ci credesse davvero, in quelle parole. Non dubitava che avesse ragione, ed era ben conscio di essere incluso tra quelle persone facilmente condizionabili, ma faceva fatica a credere si trattasse solo di quello: una delle ragioni principali, è che dal primo momento aveva visto il Bigh come una di quelle persone complesse da influenzare, e che con altrettanta difficoltà seguirebbe qualcuno di meno tenace. Se proprio avesse dovuto sbilanciarsi al riguardo, a prima impressione sarebbe stato più propenso a supporre il contrario – che fosse lui, quello manipolatorio; non che questo cambiasse qualcosa per lo spagnolo, l’affetto ch’elargiva alle persone prescindeva da cosa queste fossero.
    «penso che…» chinò il capo sulle garze alle mani, tirandone i lembi con le dita – un passatempo e un antistress al contempo, oramai. «non era quello che volevo sapere da te.» enunciò quel pensiero con tutta la semplicità di cui era capace, senza un’unghia di amarezza a far tremare la voce: era un semplice dato di fatto, così come lo erano la sfilza di informazioni che gli aveva appena dato il serpeverde – nozioni di cui, straordinariamente, non era all’oscuro, e che confermavano solo ipotesi e teorie già consolidate. Dello studio matematico di come andasse il mondo secondo Mood Bigh se ne faceva poco: voleva qualcosa in più, che fosse un’emozione o una motivazione – non poteva del tutto dire di non averla ricevuta, ad ogni modo, bastava saper interpretare.
    «e che preferisco non pensare affatto.» non che quella fosse una novità: lungi da lui essere razionale e machiavellico, il Monrique rifletteva soltanto quando sentiva di star per dire qualcosa per cui ci fosse bisogno di porre un filtro tra cervello e labbra. «a cosa serve farlo? non cambierà il fatto che andremo, giusto?» sorrise un po’ più gioviale al ragazzo davanti a lui, lasciando affiorare la proverbiale spensieratezza per cui era più noto al mondo – come se niente potesse scalfirlo.
    Era così.
    Voleva, che fosse così.
    «promettimi solo una cosa:» si fece più serio, come se l’altro fosse effettivamente tenuto a promettergli qualcosa. «che andrà tutto bene.» l’aveva fatto con i Ben, e l’aveva fatto con Liz: non voleva essere confortato; non aveva nemmeno paura, per quanto lo riguardava. Del fatto che sarebbe andato tutto bene, trappola o non trappola, ne era sicuro – idealista e fiducioso, forse sì.
    Voleva soltanto che le persone a cui voleva bene sapessero di avere una promessa a cui tenere fede prima di partire.
    baltasar
    monrique

    We all wanna be somebody
    we just need a taste of who we are
    paladino devoto
    [ prende l'attacco di un altro ]
    MAGO
    lvl MASTER
    lycan — 2006's — hufflepuffI'm just the boy inside the man
    not exactly who you think I am
    Trying to trace my steps back here again, so many times
    I remember where it all began, so clearly
    be somebody
    thousand foot krutch
    moonmaiden, guide us
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    devotees have the soul of saviors, the paladin complex,
    and are ready to sacrifice themselves to defend their companions.
    Non aveva avuto bisogno di proferire una singola parola, Balt. Non gli era servito fare assolutamente nulla. Per sua fortuna, perché di cose da dire ne avrebbe avute fin troppe, ma non aveva idea di come dargli una forma o un senso che fosse compiuto e comprensibile – tanto a sé stesso, quanto agli altri –; e gli prudevano le mani per tutte le cose che invece avrebbe preferito fare in quel momento, come in tanti altri passati e futuri.
    Tutto quello che aveva fatto, però, era stato attendere. Non era mai stato bravo in quello: sempre in movimento, alla costante ricerca di qualcosa con cui impiegare e sprecare il proprio tempo, incapace di rimanere fermo per più di due minuti affinché ciascun passatempo, anche il più inutile e stupido, occupasse uno spazio mentale nel quale non piantare il seme di dubbi di cui voleva fare a meno, ed evitare che sbocciassero i fiori di pensieri che avrebbero soltanto potuto danneggiarlo. Un modo tutto suo, e che non pretendeva gli altri capissero né tantomeno condividessero, di salvaguardare quella volubilità e spensieratezza, quella superficialità che gli aveva sempre permesso di vedere il mondo con tinte più accese e leggere rispetto a quelle con le quali veniva realmente dipinto – malgrado nell’ultimo anno quello stratagemma avesse iniziato a lamentare crepe che, per quanto le spingesse sotto tappeti e letti e dentro agli armadi insieme a tutti gli altri scheletri, continuavano a ripresentarsi ed a scricchiolare rumorosamente.
    Ma, nonostante tutto, aveva aspettato.
    La torre dell’orologio non era esattamente quella che avrebbe definito come suo personale comfort place: ciò che meglio metteva a proprio agio lo spagnolo era stare in mezzo alla gente, saltare al ritmo della musica, urlare senza che nessuno potesse distinguere la voce da quella che si spandeva dalle casse; era quell’emicrania che faceva sorridere alla fine della serata, la pelle sudata, le mani a toccarsi e cercarsi e lasciarsi. L’effimerità di una pista da ballo che non aggiungeva niente alla vita e soltanto si limitava ad alleggerirla. Dal momento che il preside di Hogwarts non aveva ancora accettato le sue continue richieste di aprire una discoteca nei seminterrati del Castello, però, quel posto era diventato un buon rifugio. Senz’ombra di dubbio uno dei luoghi in cui la connessione prendeva meglio, permettendogli di registrare qualche video e farsi una o due partite online tra una lezione e l’altra – se non poteva avere l’Ushuaïa in quel di Scozia, poteva almeno sperare di convincere il Chow ad allestire una saletta per i videogames da qualche parte.
    Non aveva il telefono con sé, quella volta; non la Switch, né un televisore cui attaccare la PS5. Nulla, se non quelle bende sul palmo della mano che continuava a stuzzicare e martoriare.
    Aveva aspettato – abbarbicato sul davanzale dell’enorme finestra ed assuefatto dai rintocchi del pendolo, iridi di cioccolato a scivolare assenti sulle tiepide giornate d’aprile quando non seguivano i movimenti dei polpastrelli sulle garze bianche, ignorando le macchie scarlatte ad imbrattarle o il prurito sulla carne aperta: non era strano vedere il Monrique ferito; era peculiare, invece, sapere che non fosse stato un danno accidentale quanto più calcolato, ricercato nelle nocche a spaccarsi contro la carne e avvalorato tra le tetre mura di pietra della sala delle torture. Fermo lì per quelle che avrebbero potuto essere delle ore o soltanto una manciata di secondi, preparandosi a nulla in particolare, se non quel tutto che era arrivato sotto forma di adolescenti come ogni volta che ce n’era stato il bisogno.
    Non si trattava né di chiedere né di attendere per davvero, perché nella prerogativa dell’attesa c’era un fondo di aspettativa, insita nella quale la possibilità che qualcosa non andasse come previsto: non era così per i Ben, e pochissime volte i fatti avevano confutato quella legge universale – la fantomatica eccezione che conferma la regola doveva esistere anche per loro, purtroppo. Che l’avrebbero raggiunto senza nemmeno domandarsi dove fosse andato, l’aveva dato per scontato. Dove volevano che andasse, d’altronde, se non lì? , in quello spazio liminale dalla grandezza di un battito, valvola cardiaca che li faceva confluire e stringere assieme tra uno pezzo e l’altro del cuore, e che in altro modo non avrebbero potuto chiamare se non Bencaverna.
    Ed aveva aspettato ancora, anche quando quel gigantesco filo a piombo pareva aver oscillato troppe volte, prima di alzare lo sguardo ed incontrare quello dei suoi amici.
    Era egoista, Balt; viziato. Voleva tutto, e lo voleva subito – almeno così poteva sembrare, se non per il fatto che ci fosse una sola cosa che desiderasse davvero, e che tutto il resto fossero solo vane richieste che potevano solo colmare quegli spazi per un periodo limitato di tempo: ce l’aveva lì davanti agli occhi; ce l’aveva in un’aula non molto distante; ce l’aveva dispersa in un luogo di cui si iniziava a scorgere l’orizzonte.
    Con loro non aveva potuto tenere quel segreto che aveva taciuto a sua sorella e a Wren (un po’ perché aveva la necessità impellente di dire a qualcuno che il pasticciere fosse suo fratello, ed un po’ perché gli era fisicamente impossibile non spifferare i fatti propri ai suoi migliori amici), ed avrebbe voluto in parte sentirsi in colpa per avergli detto tutto quanto – perché non aveva avuto bisogno di proferire una singola parola, e sapeva benissimo cosa significasse quel silenzio.
    Poi guardava Paris, e si ricordava che non era l’unico ad avere qualcuno da recuperare, che si sarebbe gettato tra le fiamme per aiutarlo a ritrovare ciò che aveva perso – così come sarebbe stato per ciascun altro dei Ben.
    Poi si ricordava che era un egoista, un viziato.
    Che non avrebbe potuto affrontare tutto quello senza di loro, e che la loro presenza rendeva tutto quanto un po’ meno pesante, ed un po’ più fattibile.
    Lasciò che dalle labbra uscisse una singola parola – perché si vedeva dagli occhi che fosse commosso, e che più di quello non sarebbe stato in grado di dire.
    «megagodo.» e c’era ancora chi diceva non possedesse abilità oratorie degne di nota.

    «posso andarmene, se preferisci.» tentennò, preso alla sprovvista dalla voce, ma non ebbe nemmeno bisogno di ricercarla per più di tanto tempo prima di capire di chi fosse.
    Nemmeno sapeva come ci fosse arrivato, in quel posto. Aveva semplicemente iniziato a camminare, privo di alcuna meta, ma guardandosi intorno era chiaro che volesse fare qualcosa di specifico. O che, quantomeno, avesse delle precise richieste.
    Che non sapesse con esattezza quali fossero non era un problema di nessuno; sicuramente non di Mood, che raggiunse con la piega più tirata che riuscisse a dipingersi sul viso. Non aveva mezza intenzione di fingere con lui che tutto andasse bene: se gli aveva sorriso era perché fosse davvero felice di trovare una faccia amica – indipendentemente dal come, e dal quando.
    «c’eri prima tu.» rispose soltanto, dando per scontato sia il fatto che preferiva non se ne andasse, sia che al massimo avrebbe dovuto proporsi il Monrique. Cosa che chiaramente non fece, andandosi a sedere per terra poco lontano dal serpeverde, ginocchia al petto e mani ancora fasciate mollemente adagiate sulle gambe.
    Guardò per un breve periodo il Bigh, prima di distogliere lo sguardo. Nonostante Dara ne dicesse di tutti i colori sul suo conto, Balt non riusciva a vederlo per come lo raffigurava: per qualche motivo, si trovava bene con lui, ed in qualche modo sentiva di potersi fidare.
    «pensi…» gli occhi puntati su una vetrina non sapevano dire davvero cosa ci fosse al suo interno: avrebbe potuto trattarsi di un artefatto perduto secoli prima, nascosto alla luce del sole, e non l’avrebbe comunque riconosciuto. La sua testa, era da tutt’altra parte. «pensi sia una trappola?» non specificò il che cosa, perché era chiaro a cosa si riferisse: aveva una lama tra le mani, in fin dei conti, il suo compagno di sventure.
    Poteva non essere il più furbo dei suoi amici – il suo compito era quello di farsi male al posto loro, e di farli sorridere quando ce ne fosse bisogno –, ma non era così stupido.
    O magari sì, dal momento che in realtà non gliene sarebbe importato un fico secco se fosse o meno finito in una fossa di vipere: era preoccupato per i Ben, che avrebbero partecipato insieme a lui, ma non per sé se questo significava avere la possibilità di ritrovare Wren, Kaz, Clay, persino il pappagallo.
    baltasar
    monrique

    We all wanna be somebody
    we just need a taste of who we are
    paladino devoto
    [ prende su di sé l'attacco
    riservato ad un altro ]
    MAGO
    lvl MASTER
    lycan — 2006's — hufflepuffI'm just the boy inside the man
    not exactly who you think I am
    Trying to trace my steps back here again, so many times
    I remember where it all began, so clearly
    be somebody
    thousand foot krutch
    moonmaiden, guide us
  6. .
    HTML
    <i class="fas fa-angle-right" aria-hidden="true"></i> [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/?t=63005133]rain comes following an endless drought[/URL]ft. balt [marzo '24 - st. mungo]


    e perché no, aggiorno pure
  7. .
    baltasar r. b. monrique
    24.10.2006
    barcelona, sp
    Trisha Burns era una ragazza come tante altre, eppure non aveva mai avuto niente a che vedere con le sue coetanee.
    Aveva la pelle del colore dell’ebano più pregiato, lunghi capelli ondulati e neri come la pece, e grandi occhi nocciola, ma con pagliuzze di brillante ambra indossate attorno alla pupilla come se fossero una corona.
    Non aveva mai giocato a Quidditch, quando era ad Hogwarts: raccontava spesso di aver fatto i provini per la squadra di Serpeverde, con un sorriso divertito e sempre presente sulle labbra carnose, e di come avesse preso ogni pluffa di faccia – la parte più esilarante, diceva lei, era che l’unico ruolo per il quale non si fosse mai proposta era quello del portiere. E quando gli veniva chiesto il perché non avesse deciso, a quel punto – sei così bella Trish! –, di fare la cheerleader, intervenivano le sue amiche, sciorinando una per una tutte le volte che la goffaggine della ragazza aveva attentato alla propria vita, e a quella di mezzo castello – ci manca solo che la mettiamo a fare la piramide, altro che sala delle torture!
    Era un portento in Storia della Magia e Trasfigurazione, ma Pozioni era il suo tallone d’Achille.
    Si era diplomata nel duemila diciannove: un anno a dir poco particolare, quello, per conseguire i M.A.G.O., ma che l’avevano aiutata a capire molte cose; in primo luogo, quale fosse il suo destino fuori dalla scuola. Aveva sempre pensato di aprire una boutique, qualcosa di elegante in cui vendere chissà cosa – ma nessuno aveva dubbi che, con il carisma che si ritrovava, sarebbe stata in grado di vendere anche l’erba selvatica raccolta nel prato dietro casa a prezzi inauditi –, ma all’ultimo secondo aveva intrapreso una carriera che mai aveva pensato essere nelle sue corde: si era messa sotto con lo studio, recuperando tutto ciò che non aveva imparato con il tirocinio, ed era diventata una magi-avvocatessa. Voleva dare voce a tutti quelli che ne avevano necessità, difendere i più deboli, fare la differenza.
    L’aveva sempre fatta, senza mai rendersene conto. Dopotutto, in un mondo come quello, anche un sorriso ed una parola gentile lasciate come balsamo sulla pelle nel momento del bisogno facevano più di mille azioni.
    Baltasar Monrique non l’aveva mai davvero conosciuta, ma l’aveva vista in giro per Hogwarts durante il suo primo anno. Non si erano mai scambiati più di due parole – d’altronde, cos’aveva da spartire una ragazza alla fine del proprio percorso di studi, con uno appena entrato? –, ma non poteva dire di non ricordarsela affatto. Rimaneva impressa, senza assolutamente fare nulla di particolare.
    Riconoscerla, però, immobile in quel letto d’ospedale, fu complicato; quando aveva letto il suo nome sulla cartella clinica, aveva pensato immediatamente che non potesse essere lei, com’era possibile?, che doveva essere un caso di omonimia. Il motivo per il quale fosse stata messa lì, nel reparto delle Malattie Infettive del San Mungo, era un mistero – tanto per il tirocinante, quanto per l’equipe medica.
    Aveva timbrato il cartellino d’ingresso ad ottobre, ma aveva iniziato a stare male da giugno: resiliente e testarda, si era trascinata fino all’autunno credendo fosse cosa da nulla, che sarebbe tutto passato prima o poi. Si sbagliava, e giorno dopo giorno, mese dopo mese, lo aveva accettato anche lei. Dicevano che fossero gli effetti collaterali della sua partecipazione alla Guerra della Primavera Magica – c’era chi lo affermava sostenendo se la fosse cercata, e chi invece doveva far uscire le parole tra i denti stretti, tacendo quanto poco fosse giusto.
    Anche Balt aveva creduto non fosse giusto, ma non si era mai azzardato a dirlo ad alta voce. Come poteva ritenere se la fosse cercata, quella situazione?
    Wren non l’aveva fatto: mai aveva anche solo pensato il contrario, e sarebbe stato ipocrita da parte sua credere che Trisha si meritasse di stare lì, la pelle tirata e pallida, senza sapere – lei, e tutti quelli che se ne prendevano cura – che cosa la stesse deteriorando.
    Tutte le volte che poteva, si affacciava nella sua stanza. Non sempre il giro letti glielo permetteva, né tantomeno le continue richieste per il numero sempre crescente di entrate nei reparti – figurarsi quando gli toccava il pronto soccorso –, ma piuttosto che buttarsi su una scomoda sedia nella stanzetta dei Medimaghi ed annichilirsi dietro ai video di TikTok, sempre che non si addormentasse prima di riuscire a prendere il telefono, aveva preso l’abitudine di bussare alla porta della ragazza, e chiederle se volesse compagnia.
    Lei non diceva mai di no, e lui aveva sempre qualcosa da raccontarle: nei suoi primi giorni di tirocinio, lasciava che lo facesse lei.
    Negli ultimi, aveva avuto modo di tirarle fuori più risate di quanto fosse riuscito fino ad allora. Si offese, perché il tassorosso era esattamente quel tipo di persona, ma capiva che dovesse essere davvero divertente vedere un infermiere entrare per assistere i malati, ma messo peggio di loro. Se poi si presentava con una fasciatura all’addome, un tutore al braccio ed una benda sull’occhio degna di Capitan Cory, peggio ancora: allora, non aveva potuto non narrarle di tutte le lezioni nelle quali era quasi morto, ultima tra tutte quella contro un uccello che lo sbatteva ripetutamente al muro. «non era nemmeno il mio tipo», le aveva confessato in un broncio.
    Quando aveva deciso di timbrare l’uscita, era sulla sua porta. Di passaggio, perché serviva altrove, ma il suono l’aveva costretto a gettare uno sguardo all’interno della stanza.
    Avrebbe preferito non farlo. Non vedere la linea piatta sul monitor, il corpo immobile sotto le lenzuola; non urlare aiuto, non sentirsi scansare fisicamente da Medimaghi e Guaritori che affannati si catapultavano all’interno; non chiedere a Joe, balbettante ed incerto, cosa potesse fare – perché voleva fare qualcosa, ed essere d’aiuto, e non vedere la linea piatta sul monitor –; non sentirsi dire dal suo tutor di andarsene, che fosse d’impiccio là in mezzo.
    Non rimanere fuori, e guardare attraverso il vetro, e sentir decretare l’ora del decesso.
    Quel «ma dove cazzo» – sussurrato in un font dieci volte minore al normale, perché erano pur sempre in un ambiente sanitario e bisognava fingere di essere persone a modo – «ti sei cacciato, balt?» lo aveva sentito, ma non aveva ritenuto opportuno rispondere. Rimase seduto a terra nel magazzino del reparto, le gambe strette al petto ed il viso nascosto tra le ginocchia, anche quando il King aprì la porta scoprendo dove fosse finito. Non sollevò il capo, perché non voleva vedesse gli occhi gonfi e le guance rigate dalle lacrime, ma non disse niente quando anche il maggiore si sedette a terra, ed ivi restò in silenzio.
    Potevano essere passati dieci secondi, o dieci minuti, o dieci giorni – non l’avrebbe saputo dire, e gli interessava solo relativamente del tempo trascorso lì dentro –, quando Joe decise di aprire bocca. «sapevamo sarebbe successo.» che lo sapesse non necessariamente doveva significare che non avesse sperato fino all’ultimo che le cose andassero diversamente: non l’aveva desiderato anche lui? Il diciassettenne era abbastanza sicuro di sì. «certe cose non possiamo impedirle.» e Balt lo sentì che si stava riferendo a più di quello che era appena accaduto, ma non gli interessava indagare ulteriormente. Quel giorno pensava sarebbe andato diversamente: doveva dirle che si era tolto il tutore, farle vedere il braccio nuovamente libero anche se dolorante; certo, avrebbe aggiunto che ancora non ci vedeva da un occhio, ma almeno avevano evitato rimanesse completamente sfregiato.
    E invece, Trisha Burns era morta.
    «sono arrivati i genitori,» solo allora tolse la testa dallo spazio tra le ginocchia, poggiando il mento sulle braccia conserte. «perché non ci vai a parlare tu? è tutto esperienza, e saranno felici di parlare con te.»

    Allerta spoiler: non erano felici di parlare con lui.
    Non la madre, con il viso coperto dalle mani e rannicchiata su una delle sedie della Sala Attesa. Non la sorellina più piccola, il cui pianto era meno contenuto. Non Curtis Burns, le cui dita invece stringevano il camice di un Guaritore. Conosceva meglio il fratello di Trish, di quanto avesse mai conosciuto lei. Aveva concluso gli studi l’anno precedente, ed era impossibile non notare la somiglianza con la magi-avvocatessa – se non fisicamente, almeno caratterialmente: sempre solare e giocoso, buono come poche altre persone che aveva visto passare per Hogwarts. Vederlo così, era innaturale e del tutto comprensibile.
    Balt era molto meno ben piazzato del ventenne, per non dire che fosse la sua metà, ma non poteva di certo rimanere con le mani in mano mentre picchiava uno strutturato. «ehi, fermo!» si lanciò tra i due, insinuandosi negli spazi liberi e premendo le mani sul suo petto per spingerlo via, facendolo arretrare di un passo o due. «sta bene?» si girò brevemente verso il Guaritore, ricevendo un cenno con il capo come risposta, e volgendosi nuovamente pensò a cosa fare – o dire, o non lo sapeva; ma Cristo santo, perché non era venuto anche Joe? «curt, ora ci calmiamo e –» e un cazzo, perché come veniva ricompensato per fare del bene? Con un pugno in faccia, una spinta sulla spalla malandata ed un «levati dalle palle, nano», ovviamente.
    Nano a chi poi, oh.
    Fece perno sul gomito per non restare a terra dov’era appena stato lanciato, passandosi il polso sotto al naso per raccogliere qualche goccia di sangue, e non perse troppo tempo nel vedere il Burns avventarsi di nuovo sul medico.
    Ce l’aveva con tutti, e sinceramente non riusciva a biasimarlo. Ciò non significava che potesse permettergli di fare quel che gli pareva – non quando il resto del personale non c’era, e gli astanti se ne lavavano le mani, ed aveva tanto sentito parlare di lui. Pregò Nelia di dargli la forza, ma di più l’agilità, quando approfittò della propria posizione per fare uno sgambetto al ragazzo e buttarlo a terra; stupendosi di esserci effettivamente riuscito, gli si buttò sopra, bloccandolo a terra con le ginocchia e tenendogli le mani ferme sul petto.
    Gli occhi rossi di lui, i solchi sulla pelle scura del percorso delle lacrime, la voce tremula – l’aveva tutto colpito più profondamente di quanto non potesse fare quel ringhio che, ancora, gli diceva di togliersi di mezzo.
    «è tutta colpa vostra,» strinse i denti – per farsi più forza, ma anche per non parlare. Perché diceva così? «lei non…»
    «lei non ti vorrebbe vedere così.» disse soltanto, trovando la voce più rauca del normale. Rise, Curtis, ma non ci vedeva niente di così divertente nel suo: «è morta, che importanza ha cosa vorrebbe ormai.» deglutì, e rinforzò la presa quando con uno strattone cercò di liberarsi – cosa che sarebbe successa di lì a poco: non era così forte, il Monrique – e gli ricordò che era tutta colpa loro, che era anche colpa sua, che «dovevate curarla, e l’avete lasciata morire.»
    Alzò lo sguardo, cercando brevemente nei dintorni qualcuno della sicurezza. Ancora niente.
    «mi…» dispiace, mi dispiace davvero tanto. «ha parlato tanto di te.» ed era vero: quando aveva ancora forze e voglia di raccontare, di raccontarsi, i suoi unici argomenti erano Curtis e Stacey; parlava anche della madre, e poco del padre che li aveva abbandonati poco dopo la nascita della più piccola. «di come ti prendevi cura di tutta la famiglia, anche se non eri il più grande. di quello che volevi fare e non hai mai fatto per stare con tua madre e tua sorella. di quanto ti vole– vuole bene,» perché credeva davvero, Balt, al fatto che lei continuasse a vivere in qualche modo. «e di come vorrebbe il mondo per te. per voi lo vide serrare la mascella, mollando appena un po’ la presa – cosa che, ingenuamente e d’istinto, fece anche il minore; grazie al cielo, quella del Burns non fu una finta per fargli abbassare la guardia. «se andate via ora che non c’è la security, non passerai alcun guaio.» sperava.
    Credeva abbastanza nel ragazzo, pur conoscendolo appena, da lasciarlo completamente libero di muoversi ed aiutarlo ad alzarsi in piedi. Quando lo vide avvicinarsi pericolosamente al Guaritore che aveva aggredito poco prima, provò molta paura; tuttavia, l’unica cosa che fece fu puntargli un dito al petto. «voglio delle spiegazioni e giustizia, e le troverò.» non fece altro, se non prendere sua madre e sua sorella ed uscire dall’ospedale.
    Tirò un sospiro di sollievo, portando la propria attenzione sul medico. «non lo denuncerà, vero?» l’uomo gli diede semplicemente una pacca sulla testa, che Balt decise di non interpretare in alcun modo se non positivamente. «vatti a mettere un po’ di ghiaccio sulla faccia e prenditi una pausa.»

    Non se lo fece ripetere due volte: con una mano a tenere il pacchetto di ghiaccio secco sul volto e l’altra una sigaretta, si sedette su una delle panchine del cortile interno dell’ospedale, abbandonando il corpo contro lo schienale.
    «non pensavo che parlare con i parenti fosse così faticoso.» un pensiero che doveva rimanere nella sua testa, e che nemmeno si accorse di aver lasciato fuggire. E vabbè, andava così.
    hogwarts
    hufflepuff
    healer internlycanben10deatheater

    Dry bones rattle in a lonely soul
    Slipped and fell into a deep black hole
    I can tell you're lost, I'm here for you
    Wildfires burning you down to stone
    Blind eyes, turning from a world so cold
    A million miles apart, within my reach


    Role aperta con il prompt del tirocinio:

    CITAZIONE
    Dovrebbe essere compito della security, e se non risolvi la questione in fretta, probabilmente sarà così - ma dai, andiamo: i guaritori sono sempre impegnati, non hanno tempo di conoscere i loro pazienti; i medimaghi si. Conoscevi la giovane donna morta quel pomeriggio, confinata in una stanza dedicata alle malattie infettive, malgrado la sua non la fosse. Portava i segni della guerra di giugno. L'esposizione alla magia nuda e cruda di Abbadon, l'ha cambiata - si è insinuata nelle cellule. I magibiologi hanno cercato, e stanno continuando a cercare, una cura, ma non esiste. I Guaritori special assunti al San Mungo, non possono farci niente. Le persone muoiono; lei, è morta. Una ragazza tranquilla, solare, con il sorriso sulle labbra fino alla fine. La sua famiglia è devastata: incolpa l'ospedale, la società, guaritori e medimaghi in egual misura. Se la prendono anche con te. Trova un modo per farli uscire dall'ospedale senza guai, o trattienili il tempo che arrivi la security ad occuparsene.

    e niente, sentitevi liberi di essere chiunque (???): spettatori del teatrino, personale del san mungo, gente che passa per caso, quello che vi pare!!
  8. .

    hufflepuff

    vi year

    17 y.o.
    stuck
    unlike pluto
    Era tutto terribile.
    Tutto.
    Avrebbe voluto dire, o anche solo pensare, che non ci fosse una sola persona coinvolta in quella lezione che non odiasse dal profondo del cuore – dai professori, agli assistenti, ai suoi stessi compagni. Tristemente, sapeva di non esserne davvero capace: si limitò, dunque, a morire.
    Nell’anima, ma anche un po’ nel corpo.
    Ma che problemi avevano con le navi, i docenti di Hogwarts? Quali traumi infantili gli avevano causato i genitori per portarli a spostare i propri istinti sadici mandando i loro studenti in mare aperto su veicoli in balia delle onde?
    Non lo sapeva. Probabilmente, non lo avrebbe nemmeno mai scoperto.
    Perché dopo lo schiaffo di Ben sulla schiena ed il suo «sei proprio un uomo», a cui rispose con un grugnito poco elegante, comprese di aver lottato contro i suoi organi interni fin troppo – lì, seduto sul pavimento del ponte, occhi chiusi e viso pallido; avrebbe voluto essere fatto come una pigna, così da resistere almeno il tempo di quel tragitto così come aveva sopportato un’intera vacanza estiva in yacht.
    «mood,» gutturale, provato; le mani strette attorno alla balaustra della prua e la testa piegata oltre quest’ultima. Non aveva davvero bisogno di aprire gli occhi e di alzare il busto, per sapere che il Serpeverde fosse lì: trauma buddies et al, riconosceva la sua presenza ormai nel momento del bisogno, ossia – «sto vomitando.» parafrasi di una citazione cult, con tanto sentimento ma probabilmente diverso da quello provato da una Kate Winslet a braccia spalancate che viveva il momento migliore della sua esistenza.
    Le circostanze, com’era ovvio che fosse, resero quell’esperienza, minuto per minuto, una tragedia sempre peggiore.
    Prima il Jackson, inizialmente suo compagno di nausea, che aveva deciso fosse il momento giusto per lanciare via un essere umano dalla sua vagina in affitto ed annunciarlo a tutti quanti. Avrebbe voluto urlare – sia per l’entusiasmo, perché una bella notizia era sempre ben accetta, sia per l’orrore al pensiero del possibile parto in mondovisione –, ma il suo corpo interpretò diversamente quelle intenzioni, e dalla bocca non poterono che uscire altri contenuti gastrici e versi da pterodattilo.
    Poi il video del Barrow, che grazie al cielo era troppo impegnato a cercare di lanciarsi di sotto per prestare attenzione al video che mostrava l’ex professore di strategia posare in mutande: per carità, very slay, ma era un qualcosa che se lo aiutava, lo faceva solo nella discesa a capofitto.
    Infine, delle ostriche che facevano il cosplay di sua sorella. «dovete rimanere immobili», disse lo Skylinski; [bestemmia] [sospiro] [bestemmissima], disse Baltasar Monrique, facendosi maledettamente leccare da cima a fondo come un Chupa Chups.
    «voglio cambiare scuola.» chissà come se la passavano a Durmstrang, probabilmente una favola rispetto a quella tortura.

    Comunque.
    «ma voi avete ascoltato?» ancora pallido, ancora trascinandosi, si limitò a guardare Bennet. Non una singola emozione a dipingere il volto del tassorosso, il che era già indicativo di molte cose; decise di risparmiare le forze, di non esplicare quel “ho la faccia di uno che ha ascoltato qualcos’altro oltre ai suoni del mio intestino che si accartocciava su sé stesso come carta straccia, o ai versi disumani provenienti dalla mia gola?”, ma non aveva dubbi lei, Ictus e Dara avrebbero capito. «avete la xamamina?» chiese piuttosto, a loro e un po’ a chiunque fosse nei paraggi.
    Nessuno?
    No?
    Okay.
    E poi Barrow lo separò dai suoi amici. Pure. Non c’era davvero alcun rispetto per gli studenti.
    Guardò Kul, cercando (per quanto la nausea residua glielo permettesse) di sorridergli. Non aveva grandi rapporti con lo special, ma voleva bene a suo fratello. «ehi, mh…» si morse le labbra, chinando brevemente il capo a terra: voleva dirgli che fosse amico di Kaz, se non lo sapeva, che era il colpevole del suo rapimento di quell’estate, che lo aveva portato a più party di quanti potesse aver avuto idea fino ad allora; che anche a lui mancava, e che sicuramente – sicuramente! – stava bene, stavano bene. «come stai?» fortunatamente, non era abbastanza in vena di parlare a sproposito e rievocare i traumi.
    «è un buscofen.»
    Kul guardò Balt.
    Balt guardò Kul.
    Intensamente.
    «ma io non ho il ciclo…» corrugò le sopracciglia. «mi serve la xamamina.» beh, forse prima non lo aveva sentito, ma apprezzava molto il tentativo di aiutarlo con un antidolorifico per i – «aaaaah!» intendeva la creatura. Pensa te.
    «dai fai qualcosa per salvarlo!!!» iniziava ad allargarsi un po’ troppo con la confidenza: cosa voleva che facesse, di grazia. Al massimo poteva cercare di comunicare con il Buscofen per farsi guardare negli occhi e farsi lobotomizzare.
    Un sogno.
    «forse so cosa succede… devo averlo letto da qualche parte.» o, molto più probabilmente, ne aveva sentito parlare dai Ben.
    Un incantesimo originario dell’antica Grecia, inizialmente ideato per rendere più fertili le donne così da generare sempre più soldati da mandare in guerra, che si era rivoltato prima contro le stesse (perché evocato male, prendendo i connotati della maledizione arrivata fino al ventunesimo secolo) e poi sugli uomini che avevano avviato una simile barbaria, per mano delle loro stesse mogli, ed il cui unico controincantesimo, sostanzialmente, (castrava) rendeva magicamente sterili chi veniva guarito? Decisamente qualcosa che le Monet avrebbero raccontato loro per cultura generale di Arti Oscure e Incantesimi.
    «so anche come curarlo, ma non sarà piacevole.»
    Build me a fantasy
    With the lights on,
    The darker the history
    Turn the lights off, forget
    balt-o


    CITAZIONE
    2. Balt, Kul
    Buscofen: il corpo piumato è piegato in modo contorto per il dolore costante e presenta chiazze di pelle nuda dove mancano le piume

    HTML
    <div class="card objs apprendista oscuro">
    <h2>maledizione della fecondità</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>permotum ubertas</i>. L'incantesimo induce nel soggetto forti dolori addominali e pelvici, causati da emorragie interne degli organi riproduttivi dovute ad una crescita abnorme degli stessi che andranno a distruggerne i tessuti. La conseguente sovrapproduzione ormonale può causare alopecia, disturbi neurocognitivi e comportamentali, forte nausea ed emicranie. Può condurre alla morte in tempi brevi.</p>
    <h6><span>non verbale, di colore rosso sangue. per essere eseguito, bisogna disegnare con la bacchetta una linea ondulata dal basso verso l'alto, terminando con un cerchio.</span></h6>
    </div>


    HTML
    <div class="card objs apprendista guarigione">
    <h2>incanto della sterilità</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>cruoris lustratio</i>. Controincantesimo della maledizione della fertilità, agisce direttamente sugli organi colpiti riportandoli alla dimensione originaria e necrotizzando i tessuti lesi. Il prodotto di scarto di questa guarigione viene espulsi in maniera indolore e fisiologica: salva il soggetto maledetto, ma induce una condizione di sterilità irreversibile.</p>
    <h6><span>non verbale, di colore giallo paglierino. bisogna disegnare con la bacchetta tre onde dall'alto verso il basso all'altezza dell'inguine.</span></h6>
    </div>
  9. .
    gifs16 y.o.lycanpuffbaltasar monrique
    currently playing
    colors
    halsey
    You're dripping like a saturated sunrise
    And you're spilling like an overflowing sink
    You're ripped at every edge
    But you're a masterpiece
    «sì, decisamente la prima volta. non è il tipo di… luogo che frequento» sollevò un angolo della bocca, riservando al bloc-notes un sorriso divertito e colpevole. A Baltasar Monrique piaceva stare all'Aconitea perché adorava passare del tempo con Wren e Vals, ma non aveva effettivamente alcun bisogno di lavorare, e tantomeno avrebbe considerato quel locale come alternativa in cui trascorrere i propri pomeriggi: i passatempi preferiti dello spagnolo erano ben diversi dal sorseggiare una tazza di tè seduto beatamente ai tavolini che serviva durante i suoi turni. Si trattenne comunque dal rispondere d'istinto al nuovo cliente, dicendogli quanto lo capisse nel profondo, perché era diventato un dipendente modello (a suo dire, e non solo perché spesso posava all'ingresso del locale con pochi vestiti addosso) e desiderava che le cose lì andassero bene, che ci tornasse quanta più gente possibile.
    Le abilità di deduzione del tassorosso non erano tra le più invidiabili, ma osservando meglio il nuovo arrivato era davvero facile capire quanto fosse semplicemente capitato nel posto sbagliato al momento... migliore e più comodo; di certo non in quello sbagliato, ma giusto? Gli sembrava sempre più un pesce fuor d'acqua. Un primino che aveva sbagliato scala scappando da un bullo e si era ritrovato dentro un aula in disuso nel bel mezzo di un rituale satanico: si era salvato, ma a quale prezzo.
    Per l'appunto: «davvero? non ne approfitterei se non fosse che sono piuttosto famoso, e penso mi stiano cercando» una faccia conosciuta, in effetti, ce l'aveva: sotto il cappello, nascosto dietro il menù, non avrebbe saputo davvero dire chi fossa, ma che l'avesse già visto sì, senza dubbio. «la capisco.» sussurrò a mezza bocca, la mano libera dal blocco poggiata sul proprio petto e il busto appena piegato in avanti, quasi quello fosse un segreto che non doveva ascoltare nessun altro – come se poi, quel giorno, l'Aconitea avesse il pienone. A dire il vero, a Balt piaceva quando la gente lo cercava per il suo nome (per i suoi soldi, per la sua visibilità); gli piaceva stare al centro dell'attenzione, sulla bocca e tra le mani di tutti. Ma a volte, raramente, la voglia di essere lasciato in pace, di non essere Baltasar Monrique, superava l'istrionica necessità di essere ammirato – e grazie a quei momenti, comprendeva la voglia di nascondersi.
    «a meno che questo non sia un invito.» uh? Sollevò un sopracciglio, sentendosi offeso da simili illazioni: sembrava così poco professionale?
    (Valerie in background, braccia incrociate e occhi al cielo, che ripensa a tutte le volte che lo ha ripreso perché no, non puoi provarci con qualsiasi ragazza o ragazzo che viene a prendersi una tisana)
    «cosa? ahah no.» sbuffò una risata, gesticolando vago: era pure vecchio, e lui nemmeno aveva bisogno di un sugar daddy. Si guardò attorno per un po', individuando poi un tavolino fuori dalla portata delle finestre ed abbastanza isolato; c'era sempre l'opzione della Sala Verde, ma pur essendo un VIP era nuovo in quell'ambiente e non gli sembrava il caso di portarcelo – senza contare che lì ci fosse Wren, e non aveva intenzione di disturbarlo. «può accomodarsi lì se preferisce, io intanto le porto un... caffè?» gli sembrava più un tipo da Cold Brew che non caffè, ma di certo non da tisanina – doveva accontentarsi di ciò che offriva il convento.
    Caffè che, per inciso, non trovò: c'era qualcosa di molto simile, un intruglio che dal colore e l'odore sembrava esserlo (per quanto ne sapeva Balt, poteva essere una nuova invenzione di Val o una miscela diversa dalla solita), ed optò per quella. In ogni caso, alle persone come loro piacevano le cose stravaganti e inusuali, sentiva che qualsiasi cosa fosse avrebbe apprezzato.
    «se volesse ordinare altro, non esiti a chiederlo!» piegò ancora le labbra, dopo aver lasciato la tazza di fronte al ragazzo – uomo? Mah. «io sono balt, per qualsiasi cosa.»
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
  10. .
    nome pg: baltasar monrique
    anno scolastico e casata: vi anno, hufflepuff
    tirocinio: medimago
    tutor: joe king
  11. .
    baltasar monriquevi annocacciatore
    Assurdo quanto fosse diverso guardare una partita dagli spalti, e farlo da sopra la scopa. Nessuno (tutti, in realtà, se solo avesse avuto una soglia di attenzione appena più alta) l’aveva avvertito al riguardo, e gli allenamenti non erano proprio la stessa cosa.
    Non ci si poteva prendere un attimo di tempo per fare un applauso a Paris per aver parato la pluffa (che significava che non era nel suo team, era comunque stato bravissimo il suo bro), per unire indici e pollici e mandare un cuoricino a Bennet («dici che se cado da quest’altezza mi rompo solo una gamba?» chiedeva: era un uomo di parola, Balt), o urlare a squarciagola quanto fosse bravo il suo baby Ficus, che la gente moriva.
    «oddio, stanno bene???» domandò alla Meisner, che sicuramente era lì da qualche parte, indicando con un cenno del capo le due tizie che non aveva mai visto in vita sua. «le conosco?» un po’ più sottovoce, perché gli pareva brutto.
    Comunque, ad un certo punto si trovò a dover lasciare la corvonero con un bacio soffiato nel vento, perché a quanto pareva aveva di nuovo l’occasione di ritrovarsi tra le mani la pluffa. L’ultima volta non era andata esattamente come aveva immaginato, ma c’era sempre tempo per migliorare.
    E perché doveva essere proprio davanti agli anelli. Ma quando ci era arrivato, poi. «aiuto.» guardò il Tipton.
    Guardò la pluffa.
    Guardò i cercatori iniziare ad impazzire per il boccino.
    Guardò gli anelli.
    «BRO!!!» bro… «GIÀ LO SAI!!!» ne avevano già parlato, sicuramente, forse in mezzo ad altre mille cose, di dove avrebbe tirato se mai si fosse trovato lì davanti: toccava a Paris interpretarlo come un “dai fammi fare bella figura” o come un consiglio per pararla e fare lui il figo.
    O ricordarselo.
    E tirò la pluffa.
    colors
    halsey
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    tiro in porta
  12. .
    baltasar monriquevi annocacciatore
    C’erano tante cose che Baltasar Monrique avrebbe voluto chiedere – al cielo perché avesse deciso di fottutamente nevicare proprio quel giorno; a Kaz cosa gli era saltato in mente quando aveva pensato fosse una buona idea metterlo come titolare in squadra; ai suoi amici, compagni e avversari, quanto gli donasse la divisa da Quidditch; a sé stesso se avesse sbattuto la testa da qualche parte nei mesi precedenti –, ma optò per il non porne nessuna e contemplare l’infinità dell’universo e del campo, battendo i denti come se non ci fosse stato un domani. A onor del vero, come possibilità non era nemmeno poi così remota.
    Non si pentiva di niente, perché non era quel tipo di persona e anche solo pensarlo avrebbe significato in qualche modo deludere Kaz – praticamente l’unico motivo che l’aveva spinto a dire “perché no, proviamoci”: la squadra era in sofferenza, voleva bene al capitano, Thor gli aveva detto che avrebbe potuto essere un buon giocatore, cosa gli costava provarci? –; tuttavia iniziava a valutare le proprie scelte di vita, ciascuna compiuta senza lungimiranza e senza prendere in valutazione del karma avverso.
    Ah! Non vedeva davvero l’ora di fallire come solo lui sapeva fare, magari rompendosi due arti al prezzo di uno quella volta. Il dover competere con Ben nel suo stesso ruolo, e di avere lo scopo di segnare nei buchi di Paris, rendeva il tutto molto più poetico.
    Alzò una mano per salutarli con un sorriso a trentadue denti (pronti ad essere spaccati: niente pessimismo, semplice realtà dei fatti), prima di virare sulla scopa e rivolgere i propri saluti ai propri fan e due pollici alzati alla propria squadra. Quasi non si rese conto del fischio d’inizio, o della pluffa a volargli in braccio di punto in bianco.
    «uh!» assolutamente nessuna pressione. Sollevò la palla in aria manco fosse il boccino – un po’ per incredulità, un po’ per far vedere ai suoi amici che guardate sono riuscito a prenderla!!!: non così scontato. «showbiz» quando invece avrebbe voluto chiedere al gruppo a chi cazzo la passo mo’, ma aveva una reputazione da mantenere mentre andava un po’ avanti nel campo e la lanciava a… qualcuno. Chissà chi. C’era molta neve.
    colors
    halsey
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    passaggio tassorosso
  13. .
    NOME PG: Baltasar Monrique
    CASATA: tassorosso
    RUOLO: cacciatore
  14. .
    nickname: zugzwang.

    role attive:
    1. DAVE
    2. KIEL
    PE accumulati sulla carta fidelity: 20
    scheda livelli:
    justin | baltasar | aloysius | daveth
    isaac | twat | kiel | jekyll

    role attive:
    1. SANDY
    PE accumulati sulla carta fidelity: 5
    scheda livelli:
    sunday

    aggiornato

    Edited by ad[is]agio - 11/9/2023, 12:21
  15. .
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    baltasar r. b. monrique
    15 y.o. | hufflepuff | ben10's | wtf hermano
    «mangiare, principalmente. ma non ho del caviale con me.» istintiva ed istantanea, giunse la risposta del Monrique – senza che potesse pensarci, attivando il filtro tra labbra e cervello, dal momento che non aveva minimamente ritenuto opportuno farlo. «deve essere uscita davvero di corsa…» perché quale persona, in fin dei conti, metteva piede fuori di casa sprovvisto di una scatoletta di uova di storione? Gli stolti, ovvio; i poveri, ma la Abbott per forza di cose non poteva rientrare in tale categoria. «se vuoi – vuole, posso andare in dormitorio a recuperarne un po’!» la sua scusa era che non fosse decisamente l’ora della merenda – né il luogo adatto per consumare una deliziosa fetta di pane, burro e caviale.
    Anche se, ora che l’avevano tirata in ballo, ne aveva decisamente voglia.
    «ama vedere i bambini piangere, ma non possiamo prendere in prestito nessuno.» esitò, picchiettando con il tappo della penna sul taccuino: era particolarmente bravo nella parte del bambino in lacrime – mamma e papà lo avevano addestrato bene, fino a quando aveva preferito non dargli più alcuna soddisfazione e rinchiudersi in camera a sfogare la propria frustrazione –, ma non era abbastanza sicuro da volersi mettere così tanto in ridicolo davanti ad uno dei suoi idoli. «secondo me, ci sono professori che ti pagherebbero per rapire un bambino e farlo piangere per tutta hogwarts.» sollevò le spalle, il tono di voce basso e colpevole, vagando lo sguardo per tutta la stanza come a volergliela indicare per farle rendere conto di dove fossero. In una scuola con una maledetta Sala delle Torture, dubitava che il problema dello staff fosse qualcuno che chiedeva in prestito un ragazzino che piangesse a comando; a dire di Balt, non avrebbe avuto nemmeno bisogno di spiegare il perché. «ma magari la copertina va bene ugualmente, sì!» le sorrise, labbra scoperte a mostrare la dentatura perfetta. «mmmh,» si grattò la nuca, rigorosamente con la penna, arricciando il naso. «non penso, me la ricorderei.» aveva una buona memoria riguardo alle lezioni speciali – e lo sarebbe diventato ancora di più, nel corso di quell’anno, accavallando traumi e colazioni rigettate su più navi pirata di quante avrebbe mai pensato di vederne in vita sua, ma questo non poteva ancora saperlo; meglio così.
    Confidava che la scrittrice gli facesse un dono, finita quella loro prima conoscenza, quello sì. Immaginava un autografo (sulle tette), una sua prima edizione, qualche perla di saggezza, un’imposizione delle mani che gli donasse ispirazione e conoscenza. Qualche consiglio.
    «no, baltasar, non posso privarti dell’esperienza di accoltellare ME. Io posso basarmi sulle mie esperienze di vita, sulle testimonianze…….ma te, un giovane scrittore, hai la possibilità u n i c a di fare una nuova esperienza» e invece lei gli diede il coltello.
    Gli diede il fottuto coltello.
    Che già era tanto Baltasar Ramon Benito Monrique sapesse come tenere in mano senza farsi del male (le lezioni del Barrow insegnavano un sacco di cose!), figurarsi usarlo se non per tagliarsi il palmo della propria mano e fare patti di sangue con i propri amici – o evocare qualche entità mistica, insomma, cose così. «il dolore è solo temporaneo» ok, ma lo shock è eterno.
    «oh no. hahaha.» rise fuori, ma gli occhi castani potevano chiaramente lasciar trasparire il terrore che provava all’interno. «no no no non aveva assolutamente idea di come pugnalare una persona senza rischiare di colpire organi vitali. «ci sono almeno un migliaio di motivi per cui io dovrei privarmi di quest’esperienza unica.» il primo, indubbiamente, quello sopracitato; poi il fatto che avrebbe potuto denunciarlo, o che era uno studente e non avrebbe dovuto trovarsi lì e avrebbe rischiato l’espulsione, senza contare il fatto che non fottutamente voleva pugnalare un cazzo di nessuno. «è… è meglio se questo lo riprende lei, io non vorrei davvero… insomma, hahaha, no, cioè –» ed allungò il coltello verso di lei.
    Ora.
    Comprendeva che parte della colpa fosse sua – ma era in preda al panico, e non si era reso conto di aver tenuto il pugnale dalla parte del manico anziché della lama. Ma pure lei che… che cosa aveva fatto. Si era avvicinata.
    Si era avvicinata.
    «oddio. oddio.» estrasse l’arma che l’avrebbe condannato a molte notti insonni e a qualcuna in una cella, ed osservò il sangue. «oddio.» ancora: chissà, magari lo avrebbe ascoltato e fulminato seduta stante. «scusa! io… io non volevo???» no, non voleva, non sapeva perché gli fosse uscita come una domanda. Fece cadere carta e penna a terra, prendendo le mani della Abbott ed infilandogli il coltello in mano (stavolta dalla parte giusta). «no senti, tocca a te. pugnalami. ti prego.» la guardò intensamente, occhi spalancati di terrore e supplica a cercare quelli di lei. «ti prego.» magari uccidendolo pure perché cosa aveva appena fatto.
    «non stai morendo, vero?»
    We take strange things
    to feel normal
48 replies since 28/4/2022
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