Reflections, visions, echoes

@ captain platinum | aperta a tutti i 2043

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    HALLEY OAKES
    RUDE ENNÈ REA BEECH JACKSON
    Running from all of the thoughts in my head
    Fighting my way to the end
    ‘Cause I can’t forget that I’m alive again
    «Ok, ricapitoliamo» uno sbuffo, cui seguì qualche istante di silenzio per riordinare i pensieri. Sollevò il braccio che aveva lasciato penzoloni fino a quel momento, appoggiò la mano sul bancone e portò il pollice verso l'alto per tenere il conto delle opzioni che avrebbe elencato di lì a poco; il tutto senza scollare la fronte dalla superficie in legno. «Niente "conosco il tuo segreto"» che era quanto di più vero potessero offrire, ma come Kieran le aveva fatto notare, la frase sembrava contenere una sfumatura vagamente minacciosa che avrebbe spinto i destinatari di quel messaggio ad attaccarle ancor prima che le special avessero la possibilità di spiegare quale fosse il segreto in questione – a quel punto, sì, i presenti avrebbero avuto tutto il diritto di dare di matto. Dunque, avevano scelto di abbandonare il pericoloso sottotesto, mantenere il mistero e provare a spostarsi su un piano più filosofico che, però, non le aveva convinte fino in fondo. «niente frasi "ti senti completo in questo mondo?"» perché sebbene si trattasse di una domanda lecita, e pertinente, non avrebbero fatto altro che rischiare di essere scambiate per dei testimoni di Geova qualunque ed essere ignorate di conseguenza. «E niente promesse di premi» dopotutto, chi mai avrebbe voluto ricevere in dono una rivelazione in grado di sconvolgere la propria esistenza? Non tanti, a naso. La stragrande maggioranza degli invitati, poi, avrebbe fiutato aria di truffa, o avrebbe pensato ad una di quelle trappole riservate ad una ristretta cerchia di cittadini magici durante il periodo di San Valentino. Ci voleva qualcosa di neutro, che ognuno potesse interpretare a modo suo. «Un invito esclusivo, al Captain Platinum!» ed era quello che avrebbero scritto, dopo una lunga serie di opzioni spuntate sui fogli da cui erano circondate; poche parole affidate alle lettere che sarebbero state recapitate qualche giorno prima dell'incontro ufficiale.

    Era ancora ferma a due mesi prima, Halley, impegnata a raccogliere i pezzi di una vita intera e a provare a rimetterli assieme – incastri differenti, in parte, perché lo erano le premesse e, un giorno, avrebbe voluto poter dire lo stesso anche dei risultati. In un primo momento, aveva pensato di delegare quel compito a qualcun altro, qualcuno con fondamenta più solide, in grado di reggere i crolli altrui. Poi, aveva scelto di aggrapparsi a quell'incarico, al suo ruolo di custode, ad uno scopo di cui per prima aveva bisogno. E all'idea di poter essere Rude, la ragazza che aveva scelto di abbandonare il suo presente per provare a salvare il futuro – di cui non sapeva tutto, ma più di quanto non sentisse di conoscere di se stessa nelle ultime settimane.
    «Che dici, FantaRivelazione?» felice di non essere da sola, si voltò verso l'amica e le sorrise brevemente, prima di dare un'occhiata al locale che Niamh aveva messo a loro disposizione e cui, in un primo momento, avevano pensato di non apportare grosse modifiche: innanzitutto, perché era accogliente senza che le special si improvvisassero arredatrici di interni; in secondo luogo, perché temevano che ridisporre tavoli e sedie potesse rendere la stanza simile ad uno di quegli ambienti destinati ad incontri terapeutici e agitare gli invitati fin dal primo istante; infine, perché restare sul vago avrebbe rischiato, sì, di destare sospetti, ma allo stesso tempo avrebbe potuto creare aspettative differenti a seconda dei destinatari del messaggio, ed invogliarli così ad accettare l'invito. Alla fine, si erano dette che delle lucine appese al soffitto sarebbero state perfette per aggiungere un tocco speciale all'ambiente. E che un'arcata fatta di palloncini non avrebbe fatto altro che rallegrare l'atmosfera («sicura funzionerà?» «non abbiamo mica scritto "benvenute aberrazioni temporali". E rallegrerà noi!»). E che avrebbero potuto concedersi giusto un paio di decorazioni ulteriori. E che avrebbero proprio dovuto organizzare una festa hawaiana trash e specificarlo nelle lettere che avevano preparato. «3 partecipanti a testa. -5 punti a chi sviene, -10 a chi inizia ad insultarci, -20 a chi prova a sfasciare il locale, -100 a chi tenta di ucciderci» e non avrebbe fatto fatica ad aggiungere decine di altre reazioni negative, ma preferiva lasciare che Kieran elencasse la sua personalissima top five. «mentre per i bonus...» quello sì che sarebbe stato complesso. Era ottimista per natura, Halley, (un po' meno in quel periodo) ma stentava a credere che avrebbero assistito a molte scene di giubilo, quella sera. «+5 a chi rimane impassibile?» perché, in un certo senso, avrebbero potuto considerarla una cosa positiva, no? O avrebbero dovuto temere un'espressione vacua più della furia cieca di chi avrebbe tentato di dare alle fiamme il Captain Platinum? «+10 a chi fa domande intelligenti» di cui non era certo conoscessero le risposte, ma avrebbero comunque apprezzato il tentativo di dare avvio ad un dialogo costruttivo. «+30 a chi ci aiuta a schiantare gli altri» non avrebbero certo rifiutato una mano in più, sebbene Halley fosse piuttosto sicura di potersela cavare con o senza magia, con o senza potere. «+100 a chi è contento della notizia» un'ipotesi remota data la portata della rivelazione, ma avrebbero potuto confidare nel fatto che qualcuno fosse idealista al punto da riuscire a trovare un lato positivo in quella faccenda – o che odiasse la sua famiglia o la sua vita tanto da non trovare così terribile il pensiero di averne un'altra, se lo sarebbe fatto andare bene. «non che ci speri troppo, ma–» si fermò, richiamata dai rumori all'ingresso del locale. «Ok, ci siamo, pronta?» rivolto tanto a Kieran quanto a se stessa. Poi, concentrò la sua attenzione sui nuovi arrivati. «Benvenuti al Captain Platinum! Mangiate, bevete,» indicò il buffet di cibo e alcol con cui speravano di ingraziarsi gli invitati. «divertitevi...» *whispering* finché potete (cit. Eli)

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    SPECIAL
    CUSTODE
    There Will Be A Way Dotan



    84-years

    ... ma HABEMUS ROLE!
    Come funziona? Avete ricevuto una lettera, qualche giorno prima dell'incontro, con un invito esclusivo al Captain Platinum per un party a tema Hawaii. Quindi potete immaginare le decorazioni (trash) che volete. Come potete scegliere se venire in costume e con una corona di fiori addosso o con una spranga perché l'invito era troppo sus per i vostri gusti.
    Postate l'ingresso (ci diamo un tempo indicativo tipo... entro il 10/08?) e arriveremo a traumatizzarvi ♥

    Se altri bimbi oblivion (che già sanno) vogliono unirsi a noi (perché vogliono mangiare popcorn e gustarsi le reazioni altrui, perché cercano un pretesto per schiantare chi si agita troppo o perché non hanno niente di meglio da fare), sono benvenuti!

    E niente, basta, credo?
     
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    madein cheena
    toast rivera hansen
    You were the sunshine of my lifetime
    What would you trade the pain for?
    I want you to breathe me in
    Let me be your air

    Qualcuno stava cercando di attirare la sua attenzione. Vedeva le loro labbra muoversi, le braccia indicargli qualcosa - qualcuno, ma raramente Fake conciliava quel genere di attività al concetto di persone: diventavano fini, obiettivi – su una sedia lì vicino, ma era impegnato. Non lo vedevano? Stava lì, al centro della stanza nella quale era entrato meno di una mezz’ora prima, con una mano sulle labbra e l’altra a coppa sull’orecchio. Non aveva ancora tolto le cuffie, e non aveva intenzione di farlo. Non era compito suo, in ogni caso, sentire cosa avessero da dire. Fake veniva chiamato solo per la sua specialità, che di certo non implicava l’intelletto necessario per scambi di informazione. Nessuno l’aveva mai creduto in grado di poterlo fare, ed all’ex Grifondoro era sempre andato bene così.
    Let me roam your body freely
    No inhibition, no fear

    Due erano i motivi per i quali un Pulitore, lo scalino gerarchico più basso dell’organizzazione criminale di cui faceva parte, veniva richiesto sul posto: il primo, ed anche quello più frequente, era quello di sterminare disertori e clan rivali per far rivaleggiare il proprio nome; il secondo, un po’ più specifico per le skills del moro, erano le torture. Aveva una fama in merito, Madein Cheena. Una che non aveva mai chiesto, della quale s’era reso conto passivamente solo quando i suoi servigi avevano iniziato ad essere demandati più spesso, e quando al Ministero avevano smesso di guardarlo come fosse un fottuto caso umano, ed avevano iniziato a battergli le mani sulle spalle. Come poteva, qualcuno cresciuto così, credere di non star facendo la cosa giusta? Si abbeverava di quell’approvazione come un naufrago, lasciando che diventassero cerotti su un cuore martoriato. L’inutile, stupido, Feng, qualcosa sapeva farlo, alla fine.
    Sempre una marionetta. Sempre un soldato di tutte le guerre in circolazione. Sempre leale, in un mondo che la lealtà la usava come moneta di scambio – sempre Fake, e Cheena, e Liu.
    How deep is your love?
    Is it like the ocean?

    Piegò il capo sulla spalla destra, poi sulla sinistra. Aprì un occhio, posandolo distratto sull’uomo che sbraitava contro di lui. Impassibile, perché ma chi cazzo era? E chi credeva di essere? Nella loro realtà, sapevano tutti che Fake fosse un cane a briglia sciolta, lasciato libero di scorrazzare in cortile solo perché rispondeva al padrone. Al padrone, sottolineo: avrebbe eseguito gli ordini del capo, sempre, ma non obbediva a chiunque. Soprattutto se erano al suo stesso, se non inferiore, livello.
    What devotion are you?
    How deep is your love?

    Teneva il tempo molleggiando sulle ginocchia, la mano ancora protettiva a premere la cuffia sull’orecchio. Non sentiva una parola di quel che andava dicendo, ma immaginava fosse qualcosa sull’avere fretta, e che cazzo stai facendo, e non abbiamo tempo da perdere. Beh? Neanche lui aveva tempo da perdere, anzi, era già in ritardo per la festa hawaiana di quella sera, ma si era presentato comunque e senza fare storie. Estrasse lentamente, molto lentamente, Sailor e Moon, i suoi fidati pugnali a mezzaluna, togliendoli dalle guaine ai polsi a ritmo con i bassi della canzone. Tendeva a non usarli per lavoro, erano i suoi bambini!, ma avrebbe fatto un eccezione. Il resto delle lame giaceva insanguinato ai piedi del fagotto legato alla sedia, il viso rigato di lacrime cremisi e la pelle così devastata che poteva vederne i muscoli muoversi a ogni respiro. Se non era ancora morto, era solo perché Fake fosse molto bravo in quel che faceva. Portò ancora l’indice alla bocca, agitando l’altra mano nell’aria. Non aveva indossato guanti, ed i palmi erano ancora imbrattati di scarlatto.
    Is it like nirvana?
    Hit me harder again

    Sciolse i muscoli della schiena, roteando le spalle. Chiuse ancora gli occhi, inspirando profondamente.
    Tu-tu-tuuun
    How deep is your love?

    Alcuni lasciarono la stanza. Ne prese marginalmente nota, e non fu l’unico.
    How deep is your love?
    Non sentì i clic delle serrature, ma dalle occhiate attorno a sé immaginava fossero scattate.
    How deep is your love?
    E quindi nessuno poteva uscire.
    Is it like the ocean?
    Pull me closer again

    Ma davvero pensavano avessero chiamato Fake per un pesce così piccolo? Cosa poteva sapere quella povera anima ancora legata alla sedia del traffico di armi magiche contraffatte, al massimo poteva suggerire dove comprassero il pranzo i suoi capi – spacciatori, nel migliore dei casi, e pure di roba blanda. Poi era Fake quello stupido. Sorrise, tutto denti affilati e labbra tirate allegramente verso l’alto, roteando i coltelli fra le dita.
    Lasciò che si rendessero conto, i rimanenti, di quanto stesse per accadere. Permise anche loro di armarsi, perché a Fake piaceva sanguinare. Voleva lo tagliassero, e spaccassero, e sminuzzassero. Voleva le cicatrici per portarle con onore e lusinga, e voleva perdere se stesso perché gli andava così e basta.
    «HOW DEEEP IS YOUR LOOOVE?»

    Venti minuti dopo, sulle sue stesse gambe lasciava la stanza e volgeva un cenno con il capo al resto della gang all’esterno. Fu l’unico ad uscirne, ovviamente; lui, e le impronte ciliegia alle sue spalle. «avete una doccia?» domandò in cinese, aggrottando le sopracciglia. Poteva passare da casa, ma voleva evitare che a Taichi venisse un infarto.
    Un altro. Era abbastanza cagionevole senza che Fake ci mettesse tutto il proprio.
    Lavare il sangue dai vestiti non era stato un problema considerando quanti pochi ne indossasse, ma si rese conto con un piede già dentro al Platinum, che avrebbe dovuto avere più cura delle unghie. Cercò di togliere le semi lune cremisi dalle cuticole, il piercing al labbro succhiato fra i denti. Alzò lo sguardo sulle decorazione del locale, già euforico ed estasiato, piroettando sul posto per farsi ammirare in tutta la sua bellezza: indossava un gonnellino che arrivava fino a poco oltre il ginocchio, ovviamente nessuna maglia, ed una meravigliosa collana di fiori che aveva montato lui stesso. Sui capelli corvini, dove il ciuffo rosso non era sangue (probabilmente) un paio di occhiali da sole a forma di cuore. Aveva più cicatrici che pelle esposta, Madein Cheena, ma non gli importava - anzi, erano parte di lui. Tra quelle e i tatuaggi, non era certo di potersi considerare nudo. C’era davvero poco di originale da vedere, nel petto dell’ex Grifondoro.
    Dondolò sul posto flettendo i pettorali, così da far muovere i piercing a forma di palma che aveva appeso per l’occasione agli anellini argentati. «BELLO! GRANDI!» Sollevò entrambi i pollici verso le due ragazze che sembravano essersi occupate di organizzarla – o forse erano le front, come i cantanti delle band: mah – e rimbalzò veloce verso il buffet per riempirsi il piatto.
    E il cocco. Perché (Sara) si rifiutava di pensare che ad una festa a tema Hawaii ci fossero bicchieri e non cocchini. «ho anche questo!1» aprì lo zainetto, dal suono.. decisamente metallico, ignorando tutte le armi ivi contenute per prendere la vera guest star della festa: «stitch!!!!» sì, aveva un peluche.
    No, non era insanguinato, grazie tante.

    pavor
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    golden
    love from the other side
    fall out boy
     
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    sebastian 'bash' baker
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    secret destroyers hold you up to the flames,
    what do I get for my pain? betrayed desires && a piece of the game
    I suppose I'll show all my cool and cold;
    despite all my rage, I am still just a rat in a cage
    Sapete di cosa non aveva assolutamente voglia Bash? Andare ad una stupida festa.
    Sapete, invece, a cosa non avrebbe mai saputo dire di no? Alla promessa di alcol gratuito.
    (Ah, non era un party con open bar? Beh, adesso sì; che razza di “invito esclusivo” è se poi, arrivato alla festa, uno si deve anche pagare da bere?)
    E, siccome il richiamo dell’alcol era più forte del suo disprezzo generale per il genere umano, alla fine, vinse il prospetto di una serata a farsi lercio a discapito degli organizzatori di quella festa hawaiana che, già solo dalle premesse, sembrava orribile; una volta lì, poi, avrebbe fatto ciò che gli riusciva meglio e, dopo aver puntato e agganciato un potenziale cliente, avrebbe fatto sì che la festa diventasse privata e si spostasse altrove, possibilmente in un altro locale, uno con alcol migliore, prima di concludersi nella stanza puzzolente di qualche motel.
    Oh, guarda un po’, un tipico martedì nella vita di Bash Baker.
    Emozionante.
    Stava già vibrando dall’eccitazione, yay, mentre con sguardo annoiato e le labbra tirate in una linea impassibile osservava il suo riflesso nello specchio della camera da letto; col cazzo che si sarebbe vestito a tema: il modo di entrare l’avrebbe trovato lo stesso, era bravo a persuadere la gente (e sapeva farlo, pensate un po’, anche senza ricorrere al proprio potere) perciò l’idea di essere trattenuto fuori dal bouncer di turno, solo perché non aveva rispettato il dress code, non lo preoccupava minimamente.
    E poi, da nessuna parte sull’invito c’era scritto che fosse obbligatorio; aveva visto un sacco di contratti, Bash, nella sua giovane vita, molti non per motivi lusinghieri, e sebbene fosse lontano anni luce dall’essere un magiavvocato – o anche solo il tirocinante di un segretario che aveva vagamente competenze di giurisprudenza – aveva letto (e sofferto le conseguenze) di abbastanza cavilli e loopholes da diventare, col tempo, molto attento alle parole messe nero su bianco su carta stampata: se non era espressamente detto, o se non era espressamente detto il contrario, non aveva alcuna valenza.
    Perciò — jeans scuri strappati in più punti, canottiera bianca, scarponcini pesanti, ogni piercing a fare bella mostra di sé, occhiali neri sulla testa e, per concludere, l’accessorio che non mancava mai nell'outfit del ballerino: l’ennesimo occhio nero, e un labbro spaccato; lividi giallognoli e cicatrici ancora fresche a rendere la sua pelle pallida l’imitazione scrausa di un Pollock.
    Bash Baker, nel bene o nel male.
    Solitamente, più nel male; ma gli importava forse qualcosa? La risposta era tutta in quel gesto secco con cui spense l’ennesima cicca di sigaretta nel posacenere già pieno, prima di calare gli occhiali sul naso, afferrare il portafogli infilandolo nella tasca posteriore dei jeans, e uscire di casa.

    Il mondo era stato sconvolto da una guerra e la gente organizzava feste a tema Hawaii.
    Perché no, infondo?
    Bash lavorava nel settore dell’intrattenimento, uno dei pochi che non si era fermato neppure durante quei quaranta lunghi giorni tra preparazione al conflitto e il conflitto stesso; ne sapeva qualcosa del bisogno sempre presente della gente di distrarsi, in qualsiasi modo o maniera fosse possibile. Lui stesso era, molto spesso, la distrazione che si concedevano. Quindi non avrebbe giudicato la scelta di quella o quell’altra persona di organizzare un party simile; d’altronde era estate, feste simili non erano certamente una novità e quella non sarebbe stata né la prima né, immaginava lo special, l’ultima.
    Quando arrivò, notò con piacere che i festeggiamenti e la musica erano iniziati già da un bel po’: a cosa si brindasse, o perché, sinceramente, era l’ultimo dei problemi del Baker — fintanto che ci fosse stato alcol, andava tutto bene, potevano anche star festeggiando il Giorno del Procione o qualche altra festività altrettanto caotica.
    Gli piaceva arrivare alle feste quando la folla era già ben compattata e discretamente sbronza; entrare in un posto e dirigersi con passo lento e mento alto verso il bancone, senza ricambiare nemmeno uno degli sguardi che si posavano, senza alcun riserbo, sulla sua figura — curiosi, malevoli, di apprezzamento o anche solo involontari; erano la dimostrazione che, almeno per un’altra giornata, Bash non avrebbe rischiato di rimanere disoccupato. O annoiato.
    Raramente lo faceva per piacere personale – la sua “seconda” professione aveva perso quel fascino già da tempo – ma quando era estremamente fortunato (quindi: non molto spesso) gli capitava di trovare quella nota non troppo stonata in una sinfonia tutta da rivedere, e la serata non era poi così insoddisfacente.
    Guardandosi intorno, però, nel locale non abbastanza affollato per i suoi gusti, dubitava sarebbe stato quello il caso di una serata fortunata.
    Arrivato alla sua meta (il bancone — dal quale, dando le spalle a chiunque, osservava la sala riflettersi negli specchi dietro le bottiglie) ordinò subito un «whiskey» decidendo che il problema del pagamento lo avrebbe risolto in un secondo momento, ancora convinto che fosse già tutto pagato e pronto per essere consumato.
    Un altro paio di bicchieri, si disse, e poi avrebbe iniziato almeno a far cadere lo sguardo nocciola sul resto dei presenti, giusto per fingere di essere interessato a quanto succedeva intorno a lui.
    Non aveva idea del perché quell'invito fosse giunto anche fino a lui; sembrava una festa ben lontana dai suoi soliti scenari, magari era stat* un* ex cliente che, nella speranza di replicare lontani dalle luci soffuse del Lilum, magari, aveva deciso di invitare lì Bash; qualsiasi fosse la ragione, davvero, non gli importava. Fin tanto che ci fosse stato alcol, Bash sarebbe rimasto.
    26.06.03
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    ryuzaki kageyama
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    twenty-two ✧ yakuza ✧ special
    Even when we're
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    Even when it's do or die
    We could do it baby
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    Ryuzaki Kageyama non era mai stato un animale da festa. Vi erano state diverse aspettative da parte dei suoi compagni durante gli anni di scuola in quanto grifondoro, ma al contrario di molti, Ryuzaki non credeva che l’appartenenza a una determinata casata lo rendesse più prono a perdersi tra la musica e l’alcol o meno. Ci aveva provato per i Golden, perché con loro anche la più tediosa delle attività si rivelava una sorpresa, ma al di fuori di quella parentesi lo special era felice di riposare le sue (stanche) membra sulla sedia in plastica di un bubble tea shop qualsiasi e ascoltare il pop scadente di decenni prima. Gli mancava il Giappone, alle volte gli mancavano persino i suoi genitori. Si chiedeva cosa avrebbero pensato di quello che era diventato, non solo più un fallimento per la sua identità di genere, ma anche per quello che gli scorreva tra le vene. Un’aberrazione. Ma Ryuzaki aveva presto imparato a non dare peso a quello che passava per la testa dei coniugi, quindi aveva inscatolato quella questione in fretta. Il suo problema era di essere un bastardo nostalgico, e alle volte non poteva fermarsi dal vagheggiare sui tempi andati, quasi fosse un maledetto vecchio. In effetti aveva un’anima antica, suo zio glielo diceva sempre. Lo stesso zio che si circondava della compagnia di donne con la metà dei suoi anni. Se Ryuzaki aveva un animo antico, il Kageyama Sr aveva un animo da quindicenne. Non credeva che fosse una fonte autorevole da cui prendere consigli di vita. Era vero che Ryuzaki non era mai stato particolarmente appassionato di festini, varie ed eventuali ma aveva ricevuto un invito, e Fake aveva detto che ci sarebbe andato. E Ryuzaki si rifiutava di rimanere a casa a sulk immaginando gli scenari in cui si sarebbe cacciato il suo migliore amico, per quanto Taichi fosse una compagnia decente. Dopo essere sparito per più di sei mesi glielo doveva. Quando lo special varcò la soglia del locale, rimase…senza parole. Senza un aggettivo in mente. Almeno poteva mimetizzarsi nella sua camicia hawaiana lasciata aperta sul petto e nel suo costume a pantalone con gli ananas stampati sopra. Lasciava scoperta più pelle di quello che era abitato, mettendo in mostra gli innumerevoli tatuaggi e cicatrici che erano sparsi sul suo corpo, ma dubitava che qualcuno ci avrebbe fatto caso con tutto quello che stava accadendo nella sala. Salutò le due ragazze che parevano essere le organizzatrici, le conosceva a vista ma non vi aveva mai instaurato una conversazione quindi il tutto era molto…particolare. Appena scorse una familiare chioma corvina, i piedi del Kageyama lo portarono diritto verso di lui. Fake sembrava distratto e nel suo mondo come al solito, intento a sventolare un peluche che per qualche ragione era lì alla festa con loro. Un peluche voodoo? Mai dire mai. Qualcuno dei Golden trasfigurato? Avrebbe spiegato la loro assenza. Lo special fece del suo meglio per ignorare il modo in cui la pelle della schiena del migliore amico era priva di qualsiasi indumento, perché non era il momento o il luogo adatto per lasciarsi andare a pensieri poco consoni. Doveva pensare a qualcosa di terribile come cuccioli morti, suo zio e le sue fidanzate, Kai e le sue camicie terribili. «hey» si sporse oltre la spalla dell’amico e portò la sua bocca vicina all’orecchio perché lo sentisse. Forse non ce n’era bisogno, la musica non era così alta, ma nessuno aveva bisogno di saperlo «vedo che sei entrato nello spirito della festa» gli angoli delle labbra si alzarono a malapena, ma Fake più di tutti avrebbe dovuto sapere che era ben più di quanto il Kageyama concedeva di solito.
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    so let the flames begin ©
     
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    renaissance barrow
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    Renaissance Beaumont-Barrow aveva quella che era descritta come una RBF. Una resting bitch face, secondo il popolo di internet. A detta del Barrow, quella che aveva lui era la faccia di qualcuno che alla veneranda età di ventisei anni aveva già visto e vissuto troppo. Quindi non capiva perché qualcuno avrebbe dovuto rivolgersi a lui come supporto emotivo, colonna portante di un evento che era destinato a cambiare vite, e che aveva a che fare con cose scomode come: emozioni. No grazie, cercava di evitare quella merda come la peste. Ma il Renée di una vita passata aveva conosciuto Leia Skywalker e Rude Beech-Jackson e per qualche motivo oscuro, la sua coscienza credeva che dovesse loro almeno la sua presenza. La verità era che non doveva niente a nessuno, non dopo che tutti erano partiti per fanculandia, ma una parte di lui voleva vedere quel caos dispiegarsi sotto i suoi occhi. Avrebbe persino fatto le foto per Joe, perché era un fratello modello e sapeva che le avrebbe volute. Renaissance aveva già avuto la sua dose di drammatiche rivelazioni, era ora che toccasse a qualcun altro- almeno loro non avevano un fratello che era incline a compiere salti nel vuoto. Giù da una scogliera, nello specifico. O una sorella che aveva tendenze a pugnalare la gente. No, Halley e Kieran non sarebbero state pugnalate, perché avevano un viso che ispirava più tenerezza che omicidio. Non poteva dire lo stesso di sé, ma era pronto a rimettere al loro posto gli animi più incandescenti. Un qualcosa che aveva dovuto fare spesso negli ultimi due mesi, ma preferiva non soffermarsi su questioni lavorative nel suo tempo libero. Stava proprio diventando vecchio che due palle. Avvicinò le labbra alla cannuccia, prendendo un sorso di drink dal suo cocchino- era chiaro che le due ragazze si fossero appassionate al tema in modo particolare. E che non fossero mai state alle Hawaii. Ma non sarebbe stato Renaissance a infrangere i loro sogni. Almeno c’era dell’alcol dentro quella roba e lui, come ogni Barrow che si rispettasse, aveva preso il gene dell’alcolismo quindi non poteva che apprezzare. La testa ondeggiava a suon di -terribile, discutibile- musica, la postura del Generale a portare con sé la tipica sicurezza di un uomo che non aveva paura a farsi vedere in dei bermuda beige e un crop top dai colori accesi e vibranti. Aveva optato per turista tedesco confuso e un po’ slutty, valeva? Si era impegnato persino a sistemare con un flair artistico gli occhiali a forma di fiamma sul capo. Che aveva rubato a qualcuno, non erano di certo suoi. E niente, per il momento si rifiutava di engage con qualcuno, non quando non sapeva nemmeno chi fossero (tranne i due bff, ma insomma). Poveri, probabilmente.
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    grey hwang
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    so could you tell me how you're sleeping easy?
    show me how you justify telling all your lies, like second nature.
    Listen, mark my words: one day karma's gonna come collect your debt.
    Non era abituato a ricevere inviti che non fossero, in verità, ingaggi per questo o quell'altro lavoro, il giovane mercenario; e di certo non aveva così tante conoscenze da poter ritenere normale quella pergamena decorata che, dal nulla, richiedeva la sua partecipazione ad una festa hawaiana in un pub di Diagon Alley. Una delle poche che avesse, di conoscenze, era seduta di fronte a lui nella penombra del PP ancora chiuso al pubblico, e dal modo in cui vibrava per l'entusiasmo e la curiosità, Grey dubitava che la missiva fosse opera dell'empatica.
    Strano, molto strano; e lo special, poi, diffidente lo era di natura — figuriamoci nei confronti di qualcosa del genere; che potesse non suscitare proprio quella reazione lì era fuori discussione.
    E per “quella reazione lì” intendo: sopracciglia aggrottate, labbra strette in una linea impassibile, occhi scuri puntati sulle parole in corsivo che descrivevano dove e quando presentarsi.
    Mh, certo.
    Si trattava chiaramente di una trappola; o di un errore, ma lo considerava già meno plausibile. Di nemici, il cuoco, ne contava sicuramente di più degli amici; era abbastanza credibile che fosse opera di qualcuno di loro. Uno che, per inciso, doveva essere davvero molto stupido se pensava che Grey potesse mai abboccare a qualcosa del genere.
    «Ci andrai?»
    Nel tono cristallino e leggero della sua partner c'era inconfondibile interesse; e forse anche una punta di aspettativa, come se la risposta a quella domanda fosse in qualche modo importante e decisiva. Ormai non lo sorprendeva nemmeno più rendersi conto di saper leggere la Diesel — perlomeno nei momenti in cui l'altra voleva farsi leggere.
    Sollevò il mento, e posò gli occhi sul viso della ragazza, le mani ancora a stringere l'invito alla festa.
    «non lo so, (palla) ci vado?»
    A chi serviva il bot di telegram quando avevi una Melvin Diesel; Grey non era il fan numero uno delle letture fatte dalla special, ma aveva sperimentato sulla propria pelle le capacità precognitive di Vin, e aveva imparato la lezione ignorando una volta di troppo i suoi consigli: finire in Siberia e avere la propria vita completamente stravolta era abbastanza per fargli decidere di non mettere più in discussione le parole di Melvin Diesel. Una cosa che non aveva esternato con la socia, ma temeva non ce ne fosse bisogno; Melvin già lo sapeva.
    Quella volta, però, la bionda si strinse nelle spalle e lo informò che non dipendeva da lei; doveva scegliere lui. Una risposta strana, che portò il coreano ad assottigliare lo sguardo studiando il viso sereno e angelico che aveva di fronte. «ok» accartocciò la missiva e la buttò nella spazzatura del locale, «ci penso» che, tradotto dalla lingua di Grey, voleva dire che aveva già deciso: non sarebbe andato.

    E, a suo favore, bisogna sottolineare come fosse stato sincero nelle sue intenzioni, perché sincero lo era in poche occasioni, Grey Hwang, ma nei propri confronti lo era sempre; quella volta non sarebbe stata diversa dalle altre, se solo una lunga serie di eventi non l’avessero portato, nel luogo designato, all’ora designata, del fatidico giorno.
    “La lunga serie di eventi”: Melvin che gli chiedeva peeeer faaaaavooooreeeee di fare una piccolissima commissione per lei in Via Vattelapesca, Quo Vadis Town.
    Avrebbe dovuto saperlo.
    Non fraintendete, la commissione era vera — ed era solo un caso che la stessa lo avesse portato proprio fuori dalla porta del Captain Platinum.
    Fece schioccare la lingua contro il palato, Grey, infilando il pacchetto recuperato per Vin (non avrebbe chiesto, né avrebbe spizzato all’interno per vedere cosa fosse) nella tasca interna del giacchetto di pelle, e poi, suo malgrado, raggiunse a grandi falcate il locale; per i suoi gusti era già troppo affollato, e non aveva bisogno di affacciarsi dentro per saperlo, lo sentiva nel modo in cui, tutti loro, ignari e beati, interagivano con i campi elettromagnetici, disturbandone i contorni e i confini. Grey aveva preso abbastanza confidenza col suo potere da poter addirittura azzardarsi a tirare una somma più o meno accurata di quanti fossero, ma non voleva farlo: erano già più persone di quante avesse preventivato di incontrare per quella sera.
    Aprì la porta e pescò fuori il telefono dalla tasca dei jean, per informare Melvin che avrebbe avuto sulla coscienza uno (o trenta) persone entro la fine della serata, probabilmente: dopotutto era lì per colpa sua, no? E per quanto si sforzasse di comportarsi bene, di mantenere l’apparenza, aveva deciso che se Grey era tutto quello che gli rimaneva, per chissà quanto tempo ancora, allora lo avrebbe rimodellato a suo piacimento; nessuno avrebbe potuto negare che la Siberia fosse stata “un’esperienza traumatica in grado di cambiare chiunque”.
    Quel Grey era più simile a Daehyun di quanto nessuna altra falsa identità lo fosse mai stata prima.
    Mise via il telefono, e si guardò intorno, prendendo nota delle uscite, degli spazi, delle persone, di qualsiasi altra cosa potesse intralciare una (non così im)probabile fuga.
    Inutile dire che fu la figura di Ryuzaki a catturare la sua attenzione (avrebbe dovuto ucciderlo in Siberia) ma non si avvicinò, rimanendo in disparte e senza parlare con nessuno; la silenziosa promessa di accoltellare il primo che si fosse avvicinato disegnata sulle labbra tirate e nello sguardo impenetrabile.
    16.02.2002
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    Non aveva mai consegnato una lettera a qualcuno che conoscesse per presenza o sentito dire. Nei confronti di quella festa, Joe King provava indubbiamente delle emozioni, che a giudicare dal viso adombrato della Oakes ed a come la Sargent continuasse a torturarsi le mani, non erano le stesse delle due Custodi. Euforia, principalmente. Estasi. Trovava tutto stravagante, eccentrico e meraviglioso, e da quello che sapeva dei poveri cristi invitati all’evento, non poteva che aspettarsi delle perle. Ma poi perché cazzo c’era anche Renny? Sospirò drammatico, spuntando dalle retrovie per allacciare un braccio attorno al collo del fratellino, attirarlo a sé, e stampargli un bacio sulla fronte, saltando nello stesso movimento sul bancone dove si sedette per osservare il resto degli invitati. «bro. Nulla spegne una festa come l’infausta presenza del Generale dell’Esercito» ammonì, adocchiando però lo stile con cui si era adeguato al tema. Apprezzava il pensiero, ed era felice che non seguisse i consigli di quello specifico neurone per guidare le truppe del loro paese. Gli sorrise, perché era orribile e lo adorava. Joe, dal canto suo, aveva scelto di seguire il dress code con un paio di pantaloncini a fantasia hawaiana, infradito, un cappello di paglia, ed una di quelle collane tamarre che andavano tante anche dalle sue parti – quelle con il dente di squalo, per intenderci.
    Insomma. Era tornato in America: quell’outfit non era poi così diverso da quello che era solito usare a Santa Ana. Era pure abbronzato, perché lui, al contrario di quei cadaveri ambulanti della sua famiglia, al sole stava volentieri, e sapeva prendersi cura della propria pelle abbastanza da scurirsi senza diventare color salsa cocktail. «te li ricordi?» domandò, chinandosi verso il BB ed abbassando il tono di voce, un cenno con il capo agli invitati. Il ghignò sulle labbra del King si allargò, sopracciglia a saettare verso l’alto. Al contrario di Renny, non era un grande ammiratore dei segreti, ma sapere tutto quello che sapeva senza che gli altri ne avessero la benchè minima idea, era comunque… inebriante, a suo modo. Non sapeva chi cazzo fossero, ma sapeva il loro futuro nome, e che un tempo avessero creduto in qualcosa abbastanza da trovarsi lì. Non aveva idea di chi fosse il ragazzo al bancone, né quello con l’espressione annoiata quasi quanto quella del Generale, ma sapete chi conosceva? Ammiccò a Renny, perché era preparato. «RYUZAKI!» Fake se l’era perso per pochi mesi, anche se sapeva della sua esistenza. Ma Ryu? Erano andati a scuola insieme! Stessa casata! E non aveva avuto assolutamente alcuna idea che fosse un Messaggero; da mente eccelsa qual era, fu con precisione chirurgica la prima cosa che disse balzando giù dal bancone per offrirgli il saluto womo per antonomasia (stretta di mano, abbraccio a metà, pacca sulla spalla): «sono passati…. Wow. Molti anni. non sapevo fossi uno di loro» non avrebbe potuto fingere il tono eccitato neanche se ci avesse provato: era sinceramente felice di essere lì, in quello specifico lasso spazio temporale. «joe» offrì la mano all’altro ragazzo, indicando con la mancina i loro matching outfit. Erano entrambi più adatti ad una festa in spiaggia che al Platinum, ma sapete a chi non importava? A loro, esatto. In perfetto stile Joe King, non diede reale tempo per rispondere, ammaliandoli con un brillante sorriso nella stessa frase in cui congedeva se stesso «immagino che ci vedremo dopo» Dita alla fronte, un’ultima pacca sulle spalle di entrambi, ed era di nuovo tornato a fare il gufo del Generale, perché non voleva rischiasse di sentire troppo la sua mancanza. «che mondo piccolo» e poi, giusto perché lui non ci vedeva nulla di male nel fattaccio, arricciò il naso divertito. «chissà se viene anche sunday» un sogno, una favola!
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    Some people fear the end but I carry it,
    it's in my pocket, it keeps me safe
    «e quindi.»
    Non c’era inflessione alcuna nella voce atona dello stratega, né c’era emozione nello sguardo chiaro posato sulla figura di Isaac, dall’altra parte del bancone, che lo osservava di rimando.
    «gli affari vanno così male?»
    Come altro si poteva spiegare quella festa, altrimenti, se non con il vano (e francamente un po’ scialbo) tentativo di tirare su quattrini organizzando una serata a tema nella speranza di vendere più drink possibili a persone con la passione per i gonnellini di paglia e le camice a stampe floreali?
    «ma pensa.»
    E pensare che Reese aveva contribuito così tanto, nel corso degli anni, prendendo molto a cuore il destino economico del Captain Platinum, e svuotando spesso le sue tasche per riempire la cassa del locale, il tutto in cambio degli alcoli più in alto sugli scaffali, perché non beveva le poveracciate, lui.
    «pessima idea.»
    Lasciare l’organizzazione della serata in mano a Oakes e Sargent; Reese non le conosceva così bene, ma avevano entrambe l’aria di due persone che non erano solite mettere mano a preparativi di quella portata; stando al modo in cui si guardavano di sottecchi, preoccupate e giocando con le dita con fare nervoso, sembravano molto poco a loro agio.
    «mah.»
    Forse Isaac e Niamh avrebbero dovuto pensare a qualcosa di diverso, e affidarsi a qualcuno con più esperienza.
    «boh.»
    Quella sera – un po’ come tutte le sere – Reese aveva scelto di non esplicare nemmeno un singolo pensiero, e di lasciare che le frasi amletiche scivolate via dalle labbra inumidite dall’alcol fossero abbastanza per far comprendere il proprio punto di vista agli altri; non valeva la pena spiegare, se non erano in grado di arrivarci da soli non avrebbero comunque capito.
    «un altro. doppio!»
    Fasciato nel completo grigio antracite, con tanto di cravatta e panciotto di qualche sfumatura più scuro, Reese Withpotatoes stava a quella festa come un Alister Black stava alla convention di Sherry Otter: fuori posto, ma pur sempre in maniera elegante.
    In verità, quando era arrivato al locale di suo fratello, non aveva immaginato di trovarlo così pieno; nemmeno a dirlo, poi, non si era aspettato di essere trasportato in una rivisitazione scadente di una spiaggia tropicale, le orecchie violentate dalla musica che si spargeva a volumi disumani dalle casse. Era andato lì, tappa fissa di quasi tutti i post lavoro, per ordinare i suoi due (o tre, o dieci) bicchieri di vino o di amaro, mangiare qualcosa per fingere di essere responsabile abbastanza da lasciare ai carboidrati l’ingrato compito di assorbire e attenuare un po’ il potere stordente dell’alcol, e giudicare silenziosamente le scelte di vita di Isaac Lovecraft, uno dei suoi passatempi preferiti.
    Che ci fosse un doppio fine, a quella festa, Reese non ne aveva la minima idea.
    Che avesse ricevuto la stessa notizia che, di lì a poco, suo fratello e molti altri avrebbe ricevuto, non ne aveva la minima idea. La sua lettera, la lettera di Salem Hilton-Peetzah, era stata recapitata quasi un decennio prima, ad un Reese poco più che diciottenne, ingenuo e certo che da quella vita potesse reclamare molto più di quello che gli era stato dato; che se lo meritasse. E che, allo stesso tempo, potesse dare indietro anche qualcosa di suo.
    Una lettera che Reese aveva letto, compreso e accettato, ma sulla base della quale non aveva mai agito; avvicinare Morley o Penn, praticamente suoi coetanei, era sembrata dapprima una follia e poi, via via, era mancato il motivo giusto o il momento giusto. Si era ripetuto spesso che, se avesse trovato l’occasione perfetta, se davvero fosse stato necessario confrontarli, lo avrebbe fatto; ma fino ad allora, avrebbe tenuto quel segreto solo per sé, senza farne parola a nessuno dei suoi amici o, peggio ancora, a nessuno dei suoi fratelli.
    Quel segreto, alla fine, era andato perduto insieme a tutto il resto dei ricordi che avevano caratterizzato la sua vita fino al giorno dell’incidente che lo aveva lasciato, di fatto, smemorato e vuoto.
    Ora, a quasi sette anni di distanza, Reese non aveva più né la forza per reclamare una vita andata perduta, né il bisogno di volerlo fare: la sua nuova esistenza, gli piaceva. Gli andava a genio. Ci stava bene.
    Sapere che avesse perso non una, ma ben due identità, nello spazio di qualche istante, era solo un dettaglio trascurabile nel grande schema delle cose.
    Le sue priorità erano altre, tipo: «isaac! dov’è il mio scotch?» e dire che lo pagava anche profumatamente, quel bastardo di un fratello; il minimo che potesse fare era assicurarsi che il suo bicchiere fosse sempre pieno.
    23.12.95
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    in teoria reese già sapeva ma ha dimenticato anche questo insieme a tutto il resto; è qui solo perché mi diverse il drama (e magari triggera qualcosa? lo scopriremo insieme)
     
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    «mh.» appollaiato sulla panchina di fronte al Captain Platinum, Sunday De Thirteenth continuava a rigirarsi tra le mani nodose la lettera ricevuta qualche giorno prima, torturandola più in quei minuti di attesa di quanto non avesse fatto dal momento in cui Thor gliel’aveva portata in camera sua – una stanza dalla quale era uscito fin troppo di rado negli ultimi due mesi, ed unicamente per mangiare con chi della propria famiglia capitava in casa per pranzo o per cena; di mettere il naso fuori dal portone d’ingresso della villa non se n’era parlato per molte settimane e, fosse dipeso da lui, la propria reclusione avrebbe potuto protrarsi ancora a lungo.
    Non si sentiva pronto.
    Non si sentiva a proprio agio.
    Riflesso nello specchio vedeva sé stesso, senza alcun problema. Che gli occhi ambrati a ricambiare il suo sguardo fossero diversi da quelli dipinti nei ritratti disseminati per casa, o che la mano accarezzasse lineamenti più morbidi e meno affilati, capelli ramati decisamente più chiari e mossi rispetto a quelli nei quali era abituata a perdersi, gli era del tutto indifferente. Sapeva quello fosse lui, il vero Sandy – che non ci fosse niente di sbagliato, nel diverso aspetto con cui aveva bussato alla porta dei De Thirteenth all’alba di una guerra che avrebbe di lì a poco travolto l’intero mondo, magico e non.
    E quando distorceva i connotati di quel nuovo corpo a proprio piacimento e nei modi più disparati, lo faceva con una facilità e leggerezza che non aveva affatto preventivato nel momento in cui aveva percepito qualcosa cambiare nella propria magia. Non aveva avuto paura, non aveva provato alcun tipo di dispiacere, quando si era reso conto che i poteri di cui gli avevano fatto dono le sorelle anni prima avevano iniziato a scemare, fino a sparire completamente: era un tipo strano quello che gli aveva permesso di usare la bacchetta, ed altrettanto stravagante era la stregoneria che aveva usato; credere che sarebbe durata per sempre era un’idiozia. Si chiedeva perché fosse successo, , se avesse a che fare con l’incedere di Abbadon sul loro piano della realtà o se fosse semplicemente scaduto qualsiasi contratto che le gemelle avevano stipulato con Kosmo otto anni prima; quesiti di pura curiosità, che per quanto lo riguardavano potevano rimanere irrisolti per tutta la vita – non gli era nemmeno interessato perdere completamente ciò che lo legava all’universo nel quale aveva sempre vissuto, a dire il vero. Scoprire di avere quelle capacità fu strano, quello senz’ombra di dubbio, ma non di certo sconvolgente: a dire il vero, la semplicità con cui ci aveva preso dimestichezza gli avevano fatto pensare di averle sempre avute; un abito comodo e cucito su misura per lui, chiuso in un cassetto di un vecchio armadio ed ivi dimenticato per un sacco di anni.
    Tornare a Londra non era stato facile. Restare in America sarebbe stato inutile (aveva lasciato l’università, non aveva niente nel Nuovo Continente per cui valesse la pena trattenercisi; sentiva di volersene andare già da tempo, sebbene non ne comprendesse il motivo) ma doversi svegliare la notte perché non riusciva a respirare, non era facile; ritrovarsi con le guance rigate e la testa che minacciava di esplodere da un momento all’altro, non era facile. L’idea di girare per la capitale del Regno Unito, incontrare persone di cui non aveva più mezza memoria nonostante ricordasse di averci vissuto – e di aver vissuto Hogwarts, e delle maledette battaglie, e la cazzo di California dei ruggenti anni Venti, e la Resistenza alla quale non aveva ancora avuto il coraggio di rivolgersi – consapevole di quanto sarebbe stato assurdo per lui e per loro, non era fottutamente facile.
    Infatti, aveva inizialmente declinato l’invito. Una festa hawaiana, che già per definizione non poteva non essere trash, a Diagon Alley? Un sogno, forse una favola. Eppure, non gli c’era voluto molto, dopo aver letto la lettera, a ridarla alla sorella: le aveva proposto di andarci lei al posto suo, o magari qualche sua amica che immaginava avesse accettato. Thor gliel’aveva sbattuta in faccia con la delicatezza di un rinoceronte, dicendogli – testuali parole – di “non rompere il cazzo, idiota” e che “ti ci faccio arrivare a calci in culo se non ti alzi da quel letto”.
    Tutto sommato non poteva fargli così male una festa.
    «cazzo guardi?» aveva comunque ritenuto opportuno prendere le dovute cautele prima di infilarsi nella mischia. Precauzioni quali: prendere l’aspetto di una vecchietta, appostarsi su una panchina, fissare il locale da dietro le lenti scure, cercare di riconoscere qualcuno degli invitati man mano che entrava. Ma se non era riuscito a riconoscere nessuno – solo brividi lungo la schiena, o sorrisi trattenuti perché incomprensibili –, era invece stato capace di attirare l’attenzione di una giovane coppietta. «una signora della mia età non può farsi una canna in santa pace?» assurdo, non c’era davvero più rispetto per gli anziani. Attese che i due passassero oltre smettendo di fissarlo, osservandoli di rimando con l’aria torva dell’ottantenne qual era indispettita dalla gioventù dell’epoca; dunque, si alzò in piedi, scivolando in un vicolo per spogliarsi degli abiti della vecchietta – quasi letteralmente: toltosi di dosso quell’aspetto gli rimaneva una camicia a fiori sbottonata, un paio di bermuda abbinati e gli infradito, oltre allo spinello spento che pendeva dalle labbra.
    Inspirò.
    Quanto poteva essere tragica, una festa?
    Espirò.

    «si può fumare qui dentro?» non attese il «in realtà… no.» del proprietario del Captain Platinum, prima di accendere nuovamente la canna e sorridere sornione al Lovecraft. Sedeva sullo sgabello del bancone, gomiti poggiati sullo stesso e occhi rivolti alla sala: di tanti posti, non riusciva davvero a comprendere perché avessero scelto quello come location per un party con quel tema. Non aveva un cazzo di senso, e lo adorava.
    «duh.» rispose ai versi dell’altro ragazzo, piegando le labbra verso il basso e annuendo solenne ai suoi mah e boh: un mood, doveva ammetterlo. «un altro. doppio!» «anche per me!» non aveva assolutamente idea di cosa avesse ordinato il Withpotatoes, ma non gli interessava: la promessa dell’alcol gratuito era tra i due unici motivi per cui alla fine si era spinto fino a Quo Vadis Town (l’altro era, chiaramente, il trash), e non era un tipo particolarmente schizzinoso; mandava giù di tutto senza battere un ciglio. Anche avesse detto cosa voleva, non l’avrebbe davvero ascoltato: era troppo impegnato a guardarsi attorno, e a soffermarsi su poche persone.
    Il biondo dall’aria di uno che nel giro di pochi istanti sarebbe potuto morire seduta stante, e che una vocina nella testa di Sandy gli sussurrava che, se fosse successo, avrebbe avuto tutto il diritto di ballare sul suo corpo ancora caldo.
    La ragazza che sapeva essere tra le organizzatrici di quella serata, Kieran – non sapeva perché, ma la osservava e istintivamente pensava agli UFO. Okay, il metamorfo pensava spesso agli alieni, ma quella era una sensazione diversa, serena e leggera.
    Il ragazzo che «chissà se viene anche sunday.» uh.
    Aggrottò le sopracciglia e, guardandolo meglio, lo riconobbe. Prese il suo («cos’è?» «scotch.» «meh.») bicchiere e si avvicinò al moro, puntandogli contro indice (e medio, dato che erano uniti a tenere fermo lo spinello). «tu sei… quello che mi ha mandato il selfie, giusto?» era stato un momento davvero strano, quello in cui aveva ricevuto il messaggio ominous da parte sua – ma tanto a quel punto non si stupiva più di nulla. «sono io sandy,» strinse il filtro tra le labbra storte in un sorriso a metà, allungando la mano verso di lui. «ci conosciamo?» insomma – al diavolo l’idea di starsene in disparte e limitarsi a bere qualche cocktail, partecipando a quella festa senza farlo davvero.
    D’altronde, Sunday De Thirteenth era fatto così: o tutto o niente; nessuna zona grigia.
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    Elwyn Huxley non si sentiva un complottista. Non perdeva tempo dietro ad assurde teorie su celebrità sostituite da sosia, a loro volta impegnati a inviare inquietanti messaggi tramite canzoni da ascoltare al contrario – anche perché della musica e degli altri non gli interessava abbastanza. Non si univa a quei babbani convinti che venissero nebulizzate nell'aria miscele in grado di provocare violenti fenomeni atmosferici, ma aveva ascoltato ipotesi secondo cui i cibi più buoni contenevano droga o qualunque altra sostanza capace di creare dipendenza; e a quello un po' ci credeva – e continuava a mangiarli, dimostrando che con lui quella tecnica funzionava benissimo. Non pensava che l'intera società venisse spiata dall'equivalente dell'occhio di Sauron o del Grande Fratell– un momento, ok, anche di quello era più che convinto, e il suo egocentrismo e le manie di persecuzione che lo affliggevano lo avevano portato a concludere che la maggior parte delle attenzioni fossero rivolte alla sua persona. Non gliene fregava nulla dello sbarco sulla Luna, dello scambio tra Titanic e l'Olympic per i soldi dell'assicurazione, delle scie chimiche, della Terra piatta o di qualunque altra teoria diffusa da quelle persone, sui social, che si vantavano del loro acume con strane icone nei nickname – anche perché il mercenario non sapeva usare la tecnologia babbana, quindi non avrebbe potuto leggere quella robaccia neanche se avesse voluto. Elwyn Huxley non era quel tipo di complottista, non del tutto. E se qualcuno lo avesse affermato, offendendo così la sua indubbia intelligenza, avrebbe risposto (malamente) che erano state le circostanze della vita a renderlo diffidente. Avrebbe persino sfidato il suo interlocutore a valutare da sé ciò che era accaduto negli ultimi anni, se solo avesse avuto voglia di ripercorrere gli sciagurati eventi che avevano costellato le sue apparizioni pubbliche.
    Era normale, dunque, che nutrisse sospetti su quella festa. Perché avrebbero dovuto riservargli un invito esclusivo? Non per la sua contagiosa euforia, sicuramente. Per il suo ruolo di personaggio pubblico? Era famoso, sì, ma mai per le giuste ragioni; e se qualcuno avesse voluto un rappresentante del SUB o degli Almighty Gunners, avrebbe indubbiamente scelto la metà brillante di quella partnership. Dunque, restavano due opzioni: poteva trattarsi di una trappola oppure Isaac (aveva battuto la testa e) si era sentito in dovere di invitarlo pur sapendo che il maggiore avrebbe preferito un agguato a quel tipo di tortura.
    Ma ci era andato ugualmente, alla fine, perché era in quella fase della sua vita in cui (si) stava (rammollendo) tentando di diventare una persona migliore e riallacciare i rapporti con i suoi fratelli. E aveva concluso che presentarsi al Captain Platinum – badare bene: presentarsi, non necessariamente mostrarsi contento – rientrava negli sforzi che avrebbe potuto compiere. Ciò che non avrebbe fatto, neppure per Isaac, sarebbe stato indossare una gonnellina di erba, infilare coroncine di fiori tra i capelli o mostrarsi a petto nudo – sì, momento sbagliato per decidere di usare i vestiti come le persone civili. L'unica eccezione che scelse di concedersi e, insieme, il suo massimo contributo al tema, fu la camicia floreale, non troppo eccentrica e parzialmente coperta dalla giacca leggera che aveva addosso.
    Quando fece il suo ingresso nel locale, diede un rapido sguardo alle decorazioni prima di cercare il fratello e constatare, con orrore, che era circondato da altre persone. Troppe persone. E se lo avessero coinvolto in conversazioni di gruppo? Elwyn sopportava a stento il suono della sua stessa voce, figurarsi quella di un mucchio di sconosciuti. E se avessero erroneamente pensato che fosse lì per divertirsi o fare amicizia? Non voleva correre quel rischio. Allo stesso tempo, gli premeva rivolgere al Lovercraft domande del tipo «come ti è venuto in mente di invitarmi?» ok, avrebbe provato ad edulcorarla, ma lo aveva visto? Gli sembrava forse tipo da festa hawaiana? Oppure «devo andarci giù pesante con l'alcol?» quesito di cui, però, conosceva già la risposta: doveva bere abbastanza da sopportare la serata e diventare tollerabile a sua volta, ma non troppo da rivelarsi assoluto protagonista dell'evento. O, ancora: «quanto dovrebbe durare?» che, tradotto, equivaleva a "quanto tempo devo restare affinché risulti un fratello decente, in grado di apprezzare le tue iniziative, prima di poter tagliare la corda senza che tu ti offenda?". Ugh, era così difficile non ferire la sensibilità altrui.
    Per il momento, dunque, si limitò a sollevare una mano in direzione del minore, una volta assicuratosi che l'altro potesse accorgersi di quel gesto, e ad attendere che fosse Isaac ad avvicinarsi a lui. Glielo doveva, no? No.
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    «e quindi. gli affari vanno così male?» sollevò un sopracciglio, spostando lo sguardo dalla sala del Captain Platinum che andava pian piano riempiendosi al viso di suo fratello, incontrandone gli occhi chiari. «no?» non nascose la punta di fastidio ed offesa nella voce, ed anche un pizzico di inattesa incertezza, il solito che in fondo era da sempre abitudine provare confrontandosi con Reese: lo adorava nonostante fosse un infame di prima categoria, ed era avvezzo ai suoi modi ruvidi e grezzi, ma ogni volta che ci parlava si sentiva in torto di qualcosa – ed a ragione, se soltanto pensandoci bene avesse potuto comprenderne il perché anziché ricevere soltanto immagini sfocate e suoni distorti; senso di colpa, disagio, ma per cosa?
    Il maggiore era un cliente abituale, sapeva che le cose lì andassero bene: come osava insinuare che fossero ridotti tanto male da aver bisogno di quello per ritirare su il locale. Ma, soprattutto: «cos'hai contro le feste a tema, scusa?» enfatizzò la domanda sistemando la collana di fiori colorati sopra la maglietta bianca, le rughe tra le sopracciglia a farsi più pronunciate.
    Una domanda abbastanza retorica, in realtà: sapeva bene cosa avesse da ridire – le persone, i colori, la gioia, la musica, la vita, tutto. Era un po' come avere un Dissennatore a chiedere (anzi, a pretendere: quanto avrebbe voluto non essere il proprietario del locale e potergli liberamente lanciare quel doppio whiskey in faccia) da bere al bancone, ma non poteva certo pretendere che tutti gli avventori fossero simpatici e con un briciolo di voglia di esistere su quel pianeta.
    Al contrario suo, sebbene non avesse messo mano all'organizzazione se non sistemando il locale e maledicendo Niamh per essersi presa i giorni di ferie proprio in quel periodo, Isaac era entusiasta: ammetteva che fosse una scelta bizzarra quella di fare un party hawaiano nel bel mezzo della grigia Londra magica, ma ne aveva visti di più assurdi; dopo la guerra, poi, forse quella era la cosa meno strana che si potesse decidere di fare.
    «potresti smettere di insozzarmi il bar con la tua negatività?» ci mettevano tanto impegno, lui e la Barrow, a mantenere le giuste vibes lì dentro. Versò il whiskey al ballerino del Lilum, sorridendogli prima di tornare sul Withpotatoes. «abbiamo già jay per quello.» un innegabile dato di fatto: chissà dov'era il Matthews, tra l'altro. Avevano tutti deciso di lasciarlo da solo ad affrontare una festa? Ok, poteva accettarlo. Non era più giovane come ai tempi dei festini clandestini ad Hogwarts, ma poteva comunque farcela.
    Schioccò la lingua sul palato, servendo sia Reese che l'altro ragazzo – che... aveva una faccia conosciuta, forse, chi poteva dirlo –, prima di rendersi conto del nuovo ingresso.
    «invece di lagnarti, mi sostituisci un attimo?» e prima che potesse rifiutarsi, saltò oltre il bancone posandogli il canovaccio sulla spalla e lasciandogli un buffetto sulla guancia. «grazie bro ti vu bi.»
    Tra le tante persone che aveva pensato di vedere varcare la soglia del Cap, non si era aspettato di vedere proprio Elwyn Huxley. Non poté negare, avvicinandosi a lui e distanziandosi dalla folla, di esserne felice – sorriso a trentadue denti, volto rilassato, un bicchiere di vino perché non era certo di cosa piacesse all'allenatore ma era abbastanza sicuro che tra queste non rientrasse lo stare in mezzo a un sacco di gente.
    «che ci fai da queste parti?» domandò, porgendogli il calice. «prima che tu me lo chieda: no, non ho mandato io gli inviti.» il che non era nemmeno troppo strano: era una festa immaginava pseudo-privata, era normale che fossero le organizzatrici a mandarli. Quel che suscitava interesse era quanto poco sembravano conoscersi tutti fra di loro, o il fatto che anche allo stesso Isaac fosse stato formalmente chiesto di restare. «mi fa piacere tu ci sia.» gli diede una pacca sulla spalla, cercando di nascondere l'imbarazzo di quel gesto nella piega delle labbra. Che fosse felice, era vero: era pur sempre suo fratello; era contento andasse a trovarlo spesso e volentieri quella merdina secca di un Reese, come poteva non esserlo se ad entrare nel bar era Elwyn?
    Il fatto era che fosse proprio Elwyn fucking Huxley. Aveva bisogno di un manuale per sapere come approcciarsi correttamente, come legare con lui, e dubitava che in quel momento della vita potesse andare a chiedere a Bells un aiuto.
    15.03.1997
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    Si pentiva di un sacco di cose, dall'essersi svegliata quella mattina, all'aver scelto un outfit a tema imbarazzante (camicia hawaiana aperta, con sotto una canottiera, e bermuda, con tanto di collanine e calze colorate diverse) - ma più di tutto si pentiva di non fatto un tiro per calmarsi prima di entrare alla festa, ma essersi limitata a fumare un po' a casa (non abbastanza, decisamente). Se avesse saputo che ci sarebbero stati dei ministeriali - dei capi ministeriali - forse non si sarebbe presentata affatto.
    Si sentiva esplodere la testa e voleva tornare a casa - ma strinse i denti e restò, perchè voleva divertirsi, e, non meno importante, voleva segnare la task "fare qualcosa fuori dalla tua comfort zone" nella nuova app di self care che aveva scaricato (più economica e meno imbarazzante che andare da uno psicomago, soprattutto quando pensi di non meritartelo quando c'è gente messa peggio di te). Poteva farcela. Poteva stare lì, mangiare, chiacchierare un po', trovare qualcosa di divertente da raccontare poi a Meh, e tornare a casa stanca ma fiera di sè per averci provato.
    Certo, quando aveva deciso di accettare l'invito non si aspettava una stanza piena di semi-sconosciuti, di conoscere qualcuno di vista per gli anni a Hogwarts o il lavoro ma non abbastanza da poterci parlare, ma dettagli. Poteva fare una (1) cosa per se stessa approfittando dello slancio sociale che aveva sentito quella mattina, dopo gli ultimi mesi passati a odiarsi e fingere di non esistere; poteva sempre tornare a nascondersi sotto le coperte, se non avesse funzionato.
    ...Anche se sparire era incredibilmente più facile che socializzare, uh.
    Persino avvicinarsi a Halley e Kieran non era troppo scontato (erano in buoni rapporti post guerra? Odiavano ancora Nicky per essersi arruolata? Lui non dice io non chiedo), e le salutò da lontano con un sorriso tirato e agitando la manina.
    Alla fine, scelse la strada più facile: scelse il cibo. O meglio: le bevande, alcoliche possibilmente, con la speranza di sciogliersi un po'.
    Ringraziò Isaac del drink (ma doveva pagare quindi?), e
    stette lì
    attendendo di trovare coraggio liquido per fare alcunchè. Parlare. Andare da Kieran e Halley.
    Che bello sentirsi da soli in una stanza piena di gente!!!!
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    Non fa nulla ✨ va a bere, si siede, osserva fingendosi viva.
    so che non ha senso (nicky post guerra è solo confusa come me) ma volevo Ci Fosse quindi ingresso random prima della rivelazione
     
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    C’erano volte in cui non desiderava altro che prendere la testa di Leia Skywalker e aprirla in due, sporgersi oltre il bordo sulle punte dei piedi per spiare dentro a quel cosmo che ancora le sfuggiva. Dubitava che qualsiasi cosa vi avrebbe trovato le sarebbe piaciuto, dall’assaggio che aveva vissuto nelle lettere dal futuro. In quel momento le sarebbe piaciuto prenderla per le spalle e scuoterla ripetutamente, chiedendole perché avesse deciso di destinarle a quel ruolo tanto importante quanto paralizzante. Lasciò vagare lo sguardo sui capi delle persone radunate nella stanza, gli occhi nocciola a scivolare sui volti dei presenti in cerca di uno in particolare, una chioma di capelli corvini e un sorriso che conosceva bene. Era solita condividere quei momenti con lei, trarre la sua forza dalla guerrigliera, ma Gwen non era lì in quel momento. Era una adulta, poteva farcela. Quello il mantra che continuava a rimbalzare da un neurone all’altro, ma che sembrava fare poco. Aveva bisogno del Lexotan, o di una sana dose di sangria «Che dici, FantaRivelazione?» o di un po’ di gioco d’azzardo, perché no. Poteva non avere Gwen con lei, ma non poteva lamentarsi della compagnia: Halley Oakes le piaceva. E sì, era vero che alla Sargent piaceva la maggior parte della popolazione mondiale, but still. Alla menzione del FantaRivelazione, il volto della mimetica si illuminò, ogni pensiero ad appesantire le spalle ora sollevato- era come i cani, bastava distrarla con un gioco. «3 partecipanti a testa. -5 punti a chi sviene, -10 a chi inizia ad insultarci, -20 a chi prova a sfasciare il locale, -100 a chi tenta di ucciderci» la special iniziò a tenere il conto sulle proprie dita, e non poté trattenere una piccola smorfia ad ogni reazione negativa. Sperava solo che il Captain Platinum ne uscisse più o meno integro, non se lo sarebbe mai potuto perdonare altrimenti. «Spero che nessuno provi ad ucciderci» anche se, a guardarsi intorno, i soggetti presenti non parevano così affidabili. Almeno potevano contare su Joe e Zelda, o almeno così credeva- non li conosceva abbastanza bene ma voleva sperare che il Generale dell’Esercito potesse riportare l’ordine. «Facciamo così: -10 se ci rovesciano il drink addosso e -20 se iniziano a lanciarci cose» come i pomodori marci ai buffoni, stessa cosa. Kieran era ottimista per natura come Halley, ma era abbastanza realista da sapere che quella rivelazione sarebbe stata ben diversa dalla prima- specie con il periodo delicato che stavano attraversando. Ma non poteva più aspettare. «mentre per i bonus...+5 a chi rimane impassibile? +10 a chi fa domande intelligenti, +30 a chi ci aiuta a schiantare gli altri e +100 a chi è contento della notizia» dovevano…schiantare genter? Kieran @ telecamera: aiuto. Avrebbe voluto avere lì Hold come supporto morale. Ma aveva preferito tenerla fuori da quella delicata questione. E perché egoisticamente aveva paura che la vedesse diversamente- sì, sì okay aveva come fratelli delle figure discutibili ma non era quello il punto. Prese due fogli di carta e due penne dal bancone (sì, i proprietari li tenevano lì per giocare a tris) e li passò ad Halley per scrivere i nomi dei loro campioni. «chi prende più punti vince un milkshake al bde» Kieran era più che seria, evidentemente non le era ancora capitato il gelato con lo sputo. O altro. Fa schiuma ma non è sapone. Lasciò che Halley desse il benvenuto alle loro vittime, poveri agnelli del Signore, mentre tentava di tamponare il nervosismo con delle arachidi. Ugh, ma dov’era il sale? Come minimo erano come quelle sottomarca dell’Eurospin e stava tutto in fondo. Un numero indeterminato di minuti dopo -quando ormai le arachidi erano state tutte aspirate- la Sargent decise che fosse arrivato il momento di prendere le redini della situazione in mano. Come un adulto avrebbe fatto, cosa che lei era. Sì, assolutamente un adulto funzionale. Niente da vedere lì. Si fece strada verso il piccolo palco rialzato che stava verso il fondo del locale, niente di vistoso, letteralmente un gradino che aveva scelto generosamente di chiamare palco. Ma era meglio di niente, e lo spazio le sarebbe servito per lo spettacolo che lei e Halley avevano preparato. Kieran aveva chiesto gentilmente a un suo amico di metterle a disposizione il suo potere, così che potesse imitarlo- ah, aveva sempre amato la realtà artistica. Batté le mani in aria per richiamare l’attenzione -o almeno sperava, sarebbe stato mortificante il contrario- e cercò di ignorare tutti i paia di occhi su di lei. Menomale che dall’altra parte del palco c’era Halley. «Buonasera! Benvenuti alla nostra umile festa» inserire risata generale e musica d’atmosfera «sono sicura che alcuni di voi si staranno chiedendo il perché del loro invito, ma non temete vi posso assicurare che non abbiamo sbagliato indirizzo» tentò di rivolgere un sorriso incoraggiante e caldo a tutti i presenti, sperando di infondere la stessa giovialità che (non) sentiva «e che festa sarebbe senza una sorpresa?» fece cenno ad Halley di avvicinarsi e di mettersi al suo fianco, in quel momento aveva bisogno di un supporto morale di cui poteva sentire la presenza. «Siete familiari con il film Ritorno al futuro? In pratica, il protagonista Marty McFly riesce a viaggiare nel passato grazie a una DeLorean modificata. Qui incontra i suoi genitori quando erano ancora giovani e finisce per stare lì per qualche tempo prima di tornare al suo presente» cercò quella scintilla di comprensione negli occhi dei presenti, o forse erano troppo gen z per conoscere un film del genere. Forse avrebbe dovuto cercare un’analogia più vicino ai loro tempi, magari Dark. «Ora, immaginate di trovarvi in questo film e di essere tutti dei Marty McFly e che anzi di essere negli anni 80, ci troviamo nel 2043» sperava non ci provassero con la propria madre, ma non ci avrebbe messo la mano sul fuoco. Si mosse verso il centro del palco, evocando affianco a lei i paesaggi desolati di cui aveva letto e riletto all’Istituto, città devastate da guerre e famiglie lacerate dalla Malattia «malattie senza cura e interminabili guerre hanno devastato il mondo come lo conosciamo, è ormai chiaro che qualsiasi futuro si prospetti, non è uno in cui vale la pena di vivere» ma non le sarebbe dispiaciuto, o almeno quello avrebbe confessato un Leia Skywalker nei suoi momenti più fragili. Ma moving on «e qui la sorpresa di cui vi avevo parlato! e se vi dicessi che un gruppo di maghi e special avessero trovato un modo per tornare nel passato? niente di fantascientifico, semplicemente sono riusciti a sfruttare la cronocinesi in un modo che non si credeva possibile fino a quel momento. tornare indietro per trovare una soluzione a quei problemi che affliggevano il futuro, questo il loro scopo» inserire figure morenti sul pavimento, famiglie che piangevano e bambini che si stringevano al petto della madre- sì, con tanto di pianti drammatici in sottofondo. E poi! All’improvviso! Una fiammata con tanto di scintille sceniche a rivelare un gruppo di eroi con i volti dei presenti «hanno radunato dei volontari da mandare indietro in anni diversi sotto forma di neonati, ogni memoria del futuro cancellata se non per le lettere scritte dagli stessi volontari e spedite nel passato insieme a loro» cercò nel pubblico quella scintilla di comprensione, o i pomodori ad emergere dalle loro tasche. Non era certa che avessero capito, dopotutto diversi tra i presenti erano uomini, e si sapeva che faticavano a comprendere dei concetti semplici. Fece un cenno del capo ad Halley, che durante la narrazione era scesa dritta nelle fauci della bestia, così che iniziasse a distribuire le lettere agli invitati. Sì, l’istituto inglese era un’istituzione seria e aveva conservato la copia delle lettere dei volontari inglesi. «Volete sapere il plot twist? Siete voi quei volontari, sorpresa!» per la prima volta in vita sua, dovette sforzarsi per sollevare gli angoli della bocca e fingere un entusiasmo che non sentiva- anzi. era già pronta a schivare oggetti volanti. Chissà quanti punti avrebbe fatto al FantaRivelazione. «Se avete dubbi e domande siamo qui, capisco che non sia un concetto particolarmente facile da digerire» e che fortuna avere un altro custode tra le loro fila! Avrebbe trovato il modo di trascinare la prole Barrow in mezzo, facevano sempre comodo un paio di bersagli in più.
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    PSA: potete ancora rispondere alla rivelazione anche se non avete postato l'entrata!
     
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    ryuzaki kageyama
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    Non aveva molti rimpianti nella vita, ma l’essersi presentato a quell’evento privato rientrava tra questi. Aveva capito che non fosse cosa già quando aveva posato lo sguardo su troppe conoscenze, persone che parlavano troppo forte e musica dai generi variopinti. Il primo pensiero che gli venne in mente era che fosse un peccato che non vi fosse il limbo, avrebbe voluto vedere qualcuno cimentarsi e rompersi la schiena. «RYUZAKI!» davvero, non aveva mai sentito nessuno pronunciare il suo nome con tanto entusiasmo, fatta eccezione per il ragazzo al suo fianco. Il Kageyama ci mise qualche attimo a trovare un posto nella sua memoria a quei lineamenti, ma quando lo fece finalmente i circuiti elettrici si connessero e una memoria distante si innescò. Una memoria ben poco legale, ma che era rimasta impressa al grifondoro. Incredibilmente, Ryuzaki era sollevato di vederlo lì: una persona normale, che non pareva sul punto di inscenare un omicidio. Già aveva i suoi problemi a Casa Golden, con Kiel che gli avanzava proposte per una sperimentazione scientifica su Godric. «hey, joe» ricambiò il saluto da womo wero, se non con un velo di impacciataggine dovuta al fatto che non era solito toccare così tanto (.) la gente- a meno che non si trattasse di violenza. «sono passati…. Wow. Molti anni. non sapevo fossi uno di loro» ok, whatever that means. No davvero, cosa voleva dire. Ryuzaki cercò un indizio nel volto del King, ma non fu utile perché l’unica cosa che riuscì a decifrare aveva a che fare con lo stato di ubriachezza dell’ex grifondoro. Per forza.
    Puntini
    Di
    Sospensione
    Un respiro profondo, poi: «omosessuale?» la domanda sorgeva spontanea. In ogni caso, Joe se ne andò prima di chiarire con un’uscita di scena per niente ominous. Si voltò verso Fake poco prima che Kieran salisse sul piccolo, terribile palco che il Captain si ritrovava, le labbra a formare «in che cosa ci siamo cacciati?» dopotutto, il Kageyama era abbastanza benestante da potersi permettere cibo e alcol senza doverlo scroccare a un paio di ventenni. Anzi, avrebbe dovuto fare loro la carità a giudicare dagli addobbi. La domanda posta al Cheena divenne sempre più attuale man mano che la special sul palco si lanciò nella sua discussione su…un film? Su un futuro apocalittico? Si sentiva come quando in piena notte gli appariva la parte 33 di un film su TikTok senza alcun contesto. «Volete sapere il plot twist? Siete voi quei volontari, sorpresa!» non era una sorpresa, era un incubo. La sua intera realtà a sgretolarsi su se stessa, le stesse fondamenta su cui aveva eretto la propria vita a venire meno. Abbassò il capo ad osservare la lettera che gli era stata data, una grafia sulla busta che riconosceva come la sua ma che non aveva memoria di aver impresso sulla carta. «Forse saremmo dovuti stare a casa» tentò di smorzare la tensione, di strappare una qualsiasi reazione a Fake- Fake, che come lui veniva dal futuro. Era inutile sprecarsi a formare congetture quando non aveva nulla di concreto tra le mani, quindi si decise reclutante ad aprire la lettera.
    Avrebbe preferito non farlo.
    Per molti motivi.
    C’era un volto che lo fissava dalla fotografia un po’ sbiadita incastrata nelle pagine della lettera, un volto che quando alzò lo sguardo era lì con lui a pochi passi di distanza. «Cristo, no. No, non-» era difficile, se non impossibile, catturare il Kageyama in uno stato che non fosse la sua solita calma e compostezza. Al momento, con le dita affondate tra le ciocche corvine e lo sguardo spiritato, era difficile combaciare le due persone. Non stava avendo un crollo nervoso, ma poco ci mancava. E avrebbe evitato di avvicinarsi a Grey, a suo fratello, se solo i suoi piedi non lo avessero portato lì prima ancora di rendersene conto. Non aveva molto da dirgli, se non uno strozzato «è uno scherzo, vero?» sperava per lui che avesse aperto la lettera, perché si rifiutava di elaborare oltre. L'unica spiegazione che si sentì di offrire fu la foto di famiglia che ancora stringeva nella mano, e tanto bastava.
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    Listen, mark my words: one day karma's gonna come collect your debt.
    L'intenzione di rimanere in disparte mentre si consumava quella sottospecie di farsa, da parte dello special, c'era tutta e sarebbe rimasta nonostante gli sguardi curiosi o i vaghi cenni di saluto (se così potevano essere definiti i menti alzati in maniera quasi impercettibile nella sua direzione) da parte di questo o quell'altro invitato, gente che Grey era abbastanza sicuro di aver beccato per strada, o più probabilmente in qualche via un po' losca di Hogsmeade o, ancora, al PP; non gli interessava abbastanza collegare i visi ad un luogo preciso nel tempo e nello spazio, stavano bene dove stavano, nel calderone confuso di gente che Grey non conosceva e con la quale non avrebbe intrattenuto conversazioni, neppure quella sera, neppure ad una festa, no.
    Solo su Ryuzaki mantenne lo sguardo per qualche battito di ciglia più del necessario, solo per fargli capire che lo avesse notato, e che fosse pronto a prenderlo a calci se avesse anche solo rivolto uno sguardo di troppo in sua direzione; quei due camminavano ancora su sentieri pericolosi, e pericolanti, e sarebbe bastato davvero un niente per riaccendere la miccia, mai del tutto spenta, ma quantomeno raffreddata dopo la permanenza in Siberia. Interruppe quel contatto solo quando una terza parte (o quarta, se si considerava il Cheena come identità a parte, e non qualcosa di irremediablemente incollato a Ryuzaki) entrò in scena, qualcuno che Grey non conosceva, così ne approfittò per scivolare in un angolo del locale che fosse più in ombra e distante da tutto, e da lì osservò la minuscola Sargent cercare di farsi un po' più grande, un po' più sicura, e chiedere l'attenzione degl invitati.
    Grey roteò gli occhi al cielo, dissociandosi da quella scenetta il più possibile, ma per forza dell'abitudine, le sue orecchie rimasero aperte abbastanza da riuscire a captare quel tanto che bastava a farlo pentire ancora più di essersi lasciato convito a presenziare a quella “umile festa”, tanto per citare le parole della mora.
    «sono sicura che alcuni di voi si staranno chiedendo il perché del loro invito, ma non temete vi posso assicurare che non abbiamo sbagliato indirizzo» Grey, che era precisamente uno di quelli che si stava domandando giusto quello, portò le iridi scure sull'organizzatrice della festa, e lì li tenne per svariati minuti; era ancora abbastanza certo che un errore ci fosse stato eccome, ma non era il genere di persona da parlare (punto.) quando non interpellato, perciò non disse nulla.
    «e che festa sarebbe senza una sorpresa?» una festa migliore, poco ma sicuro: a Grey le sorprese non erano mai piaciute — così come non erano mai piaciute nemmeno a Psy.
    «Siete familiari con il film Ritorno al futuro?» No.
    «In pratica, il protagonista Marty McFly riesce a viaggiare nel passato grazie a una DeLorean modificata.» Noioso.
    «Qui incontra i suoi genitori quando erano ancora giovani e finisce per stare lì per qualche tempo prima di tornare al suo presente» Tsk, una gran palla senza ombra di dubbio.
    «Ora, immaginate di trovarvi in questo film e di essere tutti dei Marty McFly e che anzi di essere negli anni 80, ci troviamo nel 2043» Huh? No, grazie, hard pass. Perché stava raccontando quelle cose? Non interessava a nessuno. Nemmeno gli effetti speciali ricreati grazie all'ausilio di qualche potere avevano la minima possibilità di catturare l'attenzione di Grey: di morte e guerre e desolazione e malattie e disperazione, il coreano, ne aveva viste già parecchie. Era diventato – o forse era sempre stato – impassibile a tutto quanto, e un mondo devastato da “malattie senza cura e interminabili guerre” non rientrava di certo nei suoi problemi; non lo era per il mondo in cui viveva, figurarsi uno lontano vent'anni nel futuro.
    Non poté fare a meno di gettare un'occhiata in giro per osservare le reazioni altrui, domandandosi se ci fosse qualcuno dei presenti che credesse davvero a quelle parole, o qualcuno a cui interessasse; a lui sembrava assurdo e impossibile che fosse così, ma sull'intelligenza umana aveva sempre avuto un sacco di dubbi.
    «e se vi dicessi che un gruppo di maghi e special avessero trovato un modo per tornare nel passato?» mh, che culo; Grey non era contrario ai viaggi nel tempo, anzi l'idea lo incuriosiva parecchio, ma farlo per salvare il mondo gli pareva una motivazione un po' banale. Persino le figure morenti evocate dalla Sargent, insieme ai bambini piangenti stretti al petto delle madri disperate non era abbastanza. L'attenzione venne invece attirata dalla figura dell'altra organizzatrice, che cominciò a distribuire lettere agli invitati; Grey non sciolse le braccia, neppure quando la bionda di fronte a lui, e la osservò con fare annoiato — un'altra lettera? Ma per favore. Non la accettò, e la Oakes per tutta risposta, gliela incastrò tra petto e braccia.
    Rude — di nome e di fatto.
    Ciò non cambiava il fatto che Grey non aveva scritto un bel niente, a nessuno, e che tutto quel discorso fosse solo fiato sprecato per lui.
    «Volete sapere il plot twist?» No. «Siete voi quei volontari, sorpresa!» Qualcuno avrebbe dovuto spiegare a Kieran Sargent il concetto di sorpresa
    Quel qualcuno non sarebbe stato Grey Hwang.
    «Se avete dubbi e domande siamo qui, capisco che non sia un concetto particolarmente facile da digerire» Neah, Grey non aveva domande — non riguardo quella storia, comunque; invece, sulla sanità mentale della Sargent qualche dubbio lo aveva. Rimase immobile al suo posto, lo special, felice nella sua isola fatta di ombra, lontano da anima viva e libero di gustarsi ogni reazione suscitata dal discorso strampalato della mimetica.
    Qualcuno aveva aperto le lettere, e ora le leggeva con occhi sgranati e aria incredula; altri avevano riversati sulle due ragazze un mare di domande; altri, come lui, non avevano reagito affatto.
    Fu impossibile per Grey non cercare Ryu con lo sguardo, curioso della sua reazione; lo vide borbottare qualcosa verso il pavor, mentre gli occhi scuri percorrevano le lettere impresse sulla busta e per un attimo una curiosità atipica si impossessò del cuoco: era curioso di sapere cosa dicesse la lettera di Ryuzaki, ma aveva zero riguardo nei confronti della propria.
    Proprio perché lo stava già osservando con attenzione, notò il momento stesso in cui l'altro special alzò lo sguardo dalla missiva — per cercare il suo. Forse si era sentito osservato? Grey non aveva fatto alcunché per mascherare il suo improvviso interesse.
    Qualsiasi cosa avesse letto in quella lettera, era stata abbastanza per far perdere al Kageyama la sua solita compostezza e impassibilità: intriguing. Se non si allontanò, vedendolo avvocinarsi, fu solo perché la curiosità in quel caso ebbe la meglio.
    Una curiosità che non avrebbe ucciso quel gatto.
    Forse.
    «è uno scherzo, vero?»
    Abbassò lo sguardo sulla foto, lentamente e con gesti in netto contrasto con la follia che poteva leggere nelle iridi scure del mafioso. «ti ho mai dato –» fece una piccola pausa, le parole a venire meno quando nella foto mostrata da Ryuzaki, Grey riconobbe il proprio viso; gli stessi occhi a mandorla, la stessa mascella, lo stesso naso storto. Ma un sorriso diverso. Si ricompose in fretta, riprendendo il filo del discorso da dove l'aveva interrotto, «l'impressione di essere uno che fa scherzi?» Così, per chiedere; lungi da lui dargli l'impressione sbagliata.
    Indicò la foto stretta nel pugno di Ryu, e alzò le spalle. «non so cosa sia.» poi, come se potesse contribuire alla spiegazione, sventolò la sua lettera, ancora sigillata.
    Sulla busta, solo una parola.
    PSY CHO.
    Beh, almeno quello era giusto.
    «quello,» disse, indicando la foto, «è chiaramente un falso.» chiaramente. «e dubito che qualsiasi cosa sia scritta in questa lettera possa cambiare qualcosa.» era vagamente incuriosito, però, dal fatto che Ryuzaki ci credesse. «non sapevo fossi un appassionato di trame fantascientifiche.» derogatory.
    16.02.2002
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