rain comes following an endless drought

[tirocinio] ft. libera come il vento

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    baltasar r. b. monrique
    24.10.2006
    barcelona, sp
    Trisha Burns era una ragazza come tante altre, eppure non aveva mai avuto niente a che vedere con le sue coetanee.
    Aveva la pelle del colore dell’ebano più pregiato, lunghi capelli ondulati e neri come la pece, e grandi occhi nocciola, ma con pagliuzze di brillante ambra indossate attorno alla pupilla come se fossero una corona.
    Non aveva mai giocato a Quidditch, quando era ad Hogwarts: raccontava spesso di aver fatto i provini per la squadra di Serpeverde, con un sorriso divertito e sempre presente sulle labbra carnose, e di come avesse preso ogni pluffa di faccia – la parte più esilarante, diceva lei, era che l’unico ruolo per il quale non si fosse mai proposta era quello del portiere. E quando gli veniva chiesto il perché non avesse deciso, a quel punto – sei così bella Trish! –, di fare la cheerleader, intervenivano le sue amiche, sciorinando una per una tutte le volte che la goffaggine della ragazza aveva attentato alla propria vita, e a quella di mezzo castello – ci manca solo che la mettiamo a fare la piramide, altro che sala delle torture!
    Era un portento in Storia della Magia e Trasfigurazione, ma Pozioni era il suo tallone d’Achille.
    Si era diplomata nel duemila diciannove: un anno a dir poco particolare, quello, per conseguire i M.A.G.O., ma che l’avevano aiutata a capire molte cose; in primo luogo, quale fosse il suo destino fuori dalla scuola. Aveva sempre pensato di aprire una boutique, qualcosa di elegante in cui vendere chissà cosa – ma nessuno aveva dubbi che, con il carisma che si ritrovava, sarebbe stata in grado di vendere anche l’erba selvatica raccolta nel prato dietro casa a prezzi inauditi –, ma all’ultimo secondo aveva intrapreso una carriera che mai aveva pensato essere nelle sue corde: si era messa sotto con lo studio, recuperando tutto ciò che non aveva imparato con il tirocinio, ed era diventata una magi-avvocatessa. Voleva dare voce a tutti quelli che ne avevano necessità, difendere i più deboli, fare la differenza.
    L’aveva sempre fatta, senza mai rendersene conto. Dopotutto, in un mondo come quello, anche un sorriso ed una parola gentile lasciate come balsamo sulla pelle nel momento del bisogno facevano più di mille azioni.
    Baltasar Monrique non l’aveva mai davvero conosciuta, ma l’aveva vista in giro per Hogwarts durante il suo primo anno. Non si erano mai scambiati più di due parole – d’altronde, cos’aveva da spartire una ragazza alla fine del proprio percorso di studi, con uno appena entrato? –, ma non poteva dire di non ricordarsela affatto. Rimaneva impressa, senza assolutamente fare nulla di particolare.
    Riconoscerla, però, immobile in quel letto d’ospedale, fu complicato; quando aveva letto il suo nome sulla cartella clinica, aveva pensato immediatamente che non potesse essere lei, com’era possibile?, che doveva essere un caso di omonimia. Il motivo per il quale fosse stata messa lì, nel reparto delle Malattie Infettive del San Mungo, era un mistero – tanto per il tirocinante, quanto per l’equipe medica.
    Aveva timbrato il cartellino d’ingresso ad ottobre, ma aveva iniziato a stare male da giugno: resiliente e testarda, si era trascinata fino all’autunno credendo fosse cosa da nulla, che sarebbe tutto passato prima o poi. Si sbagliava, e giorno dopo giorno, mese dopo mese, lo aveva accettato anche lei. Dicevano che fossero gli effetti collaterali della sua partecipazione alla Guerra della Primavera Magica – c’era chi lo affermava sostenendo se la fosse cercata, e chi invece doveva far uscire le parole tra i denti stretti, tacendo quanto poco fosse giusto.
    Anche Balt aveva creduto non fosse giusto, ma non si era mai azzardato a dirlo ad alta voce. Come poteva ritenere se la fosse cercata, quella situazione?
    Wren non l’aveva fatto: mai aveva anche solo pensato il contrario, e sarebbe stato ipocrita da parte sua credere che Trisha si meritasse di stare lì, la pelle tirata e pallida, senza sapere – lei, e tutti quelli che se ne prendevano cura – che cosa la stesse deteriorando.
    Tutte le volte che poteva, si affacciava nella sua stanza. Non sempre il giro letti glielo permetteva, né tantomeno le continue richieste per il numero sempre crescente di entrate nei reparti – figurarsi quando gli toccava il pronto soccorso –, ma piuttosto che buttarsi su una scomoda sedia nella stanzetta dei Medimaghi ed annichilirsi dietro ai video di TikTok, sempre che non si addormentasse prima di riuscire a prendere il telefono, aveva preso l’abitudine di bussare alla porta della ragazza, e chiederle se volesse compagnia.
    Lei non diceva mai di no, e lui aveva sempre qualcosa da raccontarle: nei suoi primi giorni di tirocinio, lasciava che lo facesse lei.
    Negli ultimi, aveva avuto modo di tirarle fuori più risate di quanto fosse riuscito fino ad allora. Si offese, perché il tassorosso era esattamente quel tipo di persona, ma capiva che dovesse essere davvero divertente vedere un infermiere entrare per assistere i malati, ma messo peggio di loro. Se poi si presentava con una fasciatura all’addome, un tutore al braccio ed una benda sull’occhio degna di Capitan Cory, peggio ancora: allora, non aveva potuto non narrarle di tutte le lezioni nelle quali era quasi morto, ultima tra tutte quella contro un uccello che lo sbatteva ripetutamente al muro. «non era nemmeno il mio tipo», le aveva confessato in un broncio.
    Quando aveva deciso di timbrare l’uscita, era sulla sua porta. Di passaggio, perché serviva altrove, ma il suono l’aveva costretto a gettare uno sguardo all’interno della stanza.
    Avrebbe preferito non farlo. Non vedere la linea piatta sul monitor, il corpo immobile sotto le lenzuola; non urlare aiuto, non sentirsi scansare fisicamente da Medimaghi e Guaritori che affannati si catapultavano all’interno; non chiedere a Joe, balbettante ed incerto, cosa potesse fare – perché voleva fare qualcosa, ed essere d’aiuto, e non vedere la linea piatta sul monitor –; non sentirsi dire dal suo tutor di andarsene, che fosse d’impiccio là in mezzo.
    Non rimanere fuori, e guardare attraverso il vetro, e sentir decretare l’ora del decesso.
    Quel «ma dove cazzo» – sussurrato in un font dieci volte minore al normale, perché erano pur sempre in un ambiente sanitario e bisognava fingere di essere persone a modo – «ti sei cacciato, balt?» lo aveva sentito, ma non aveva ritenuto opportuno rispondere. Rimase seduto a terra nel magazzino del reparto, le gambe strette al petto ed il viso nascosto tra le ginocchia, anche quando il King aprì la porta scoprendo dove fosse finito. Non sollevò il capo, perché non voleva vedesse gli occhi gonfi e le guance rigate dalle lacrime, ma non disse niente quando anche il maggiore si sedette a terra, ed ivi restò in silenzio.
    Potevano essere passati dieci secondi, o dieci minuti, o dieci giorni – non l’avrebbe saputo dire, e gli interessava solo relativamente del tempo trascorso lì dentro –, quando Joe decise di aprire bocca. «sapevamo sarebbe successo.» che lo sapesse non necessariamente doveva significare che non avesse sperato fino all’ultimo che le cose andassero diversamente: non l’aveva desiderato anche lui? Il diciassettenne era abbastanza sicuro di sì. «certe cose non possiamo impedirle.» e Balt lo sentì che si stava riferendo a più di quello che era appena accaduto, ma non gli interessava indagare ulteriormente. Quel giorno pensava sarebbe andato diversamente: doveva dirle che si era tolto il tutore, farle vedere il braccio nuovamente libero anche se dolorante; certo, avrebbe aggiunto che ancora non ci vedeva da un occhio, ma almeno avevano evitato rimanesse completamente sfregiato.
    E invece, Trisha Burns era morta.
    «sono arrivati i genitori,» solo allora tolse la testa dallo spazio tra le ginocchia, poggiando il mento sulle braccia conserte. «perché non ci vai a parlare tu? è tutto esperienza, e saranno felici di parlare con te.»

    Allerta spoiler: non erano felici di parlare con lui.
    Non la madre, con il viso coperto dalle mani e rannicchiata su una delle sedie della Sala Attesa. Non la sorellina più piccola, il cui pianto era meno contenuto. Non Curtis Burns, le cui dita invece stringevano il camice di un Guaritore. Conosceva meglio il fratello di Trish, di quanto avesse mai conosciuto lei. Aveva concluso gli studi l’anno precedente, ed era impossibile non notare la somiglianza con la magi-avvocatessa – se non fisicamente, almeno caratterialmente: sempre solare e giocoso, buono come poche altre persone che aveva visto passare per Hogwarts. Vederlo così, era innaturale e del tutto comprensibile.
    Balt era molto meno ben piazzato del ventenne, per non dire che fosse la sua metà, ma non poteva di certo rimanere con le mani in mano mentre picchiava uno strutturato. «ehi, fermo!» si lanciò tra i due, insinuandosi negli spazi liberi e premendo le mani sul suo petto per spingerlo via, facendolo arretrare di un passo o due. «sta bene?» si girò brevemente verso il Guaritore, ricevendo un cenno con il capo come risposta, e volgendosi nuovamente pensò a cosa fare – o dire, o non lo sapeva; ma Cristo santo, perché non era venuto anche Joe? «curt, ora ci calmiamo e –» e un cazzo, perché come veniva ricompensato per fare del bene? Con un pugno in faccia, una spinta sulla spalla malandata ed un «levati dalle palle, nano», ovviamente.
    Nano a chi poi, oh.
    Fece perno sul gomito per non restare a terra dov’era appena stato lanciato, passandosi il polso sotto al naso per raccogliere qualche goccia di sangue, e non perse troppo tempo nel vedere il Burns avventarsi di nuovo sul medico.
    Ce l’aveva con tutti, e sinceramente non riusciva a biasimarlo. Ciò non significava che potesse permettergli di fare quel che gli pareva – non quando il resto del personale non c’era, e gli astanti se ne lavavano le mani, ed aveva tanto sentito parlare di lui. Pregò Nelia di dargli la forza, ma di più l’agilità, quando approfittò della propria posizione per fare uno sgambetto al ragazzo e buttarlo a terra; stupendosi di esserci effettivamente riuscito, gli si buttò sopra, bloccandolo a terra con le ginocchia e tenendogli le mani ferme sul petto.
    Gli occhi rossi di lui, i solchi sulla pelle scura del percorso delle lacrime, la voce tremula – l’aveva tutto colpito più profondamente di quanto non potesse fare quel ringhio che, ancora, gli diceva di togliersi di mezzo.
    «è tutta colpa vostra,» strinse i denti – per farsi più forza, ma anche per non parlare. Perché diceva così? «lei non…»
    «lei non ti vorrebbe vedere così.» disse soltanto, trovando la voce più rauca del normale. Rise, Curtis, ma non ci vedeva niente di così divertente nel suo: «è morta, che importanza ha cosa vorrebbe ormai.» deglutì, e rinforzò la presa quando con uno strattone cercò di liberarsi – cosa che sarebbe successa di lì a poco: non era così forte, il Monrique – e gli ricordò che era tutta colpa loro, che era anche colpa sua, che «dovevate curarla, e l’avete lasciata morire.»
    Alzò lo sguardo, cercando brevemente nei dintorni qualcuno della sicurezza. Ancora niente.
    «mi…» dispiace, mi dispiace davvero tanto. «ha parlato tanto di te.» ed era vero: quando aveva ancora forze e voglia di raccontare, di raccontarsi, i suoi unici argomenti erano Curtis e Stacey; parlava anche della madre, e poco del padre che li aveva abbandonati poco dopo la nascita della più piccola. «di come ti prendevi cura di tutta la famiglia, anche se non eri il più grande. di quello che volevi fare e non hai mai fatto per stare con tua madre e tua sorella. di quanto ti vole– vuole bene,» perché credeva davvero, Balt, al fatto che lei continuasse a vivere in qualche modo. «e di come vorrebbe il mondo per te. per voi lo vide serrare la mascella, mollando appena un po’ la presa – cosa che, ingenuamente e d’istinto, fece anche il minore; grazie al cielo, quella del Burns non fu una finta per fargli abbassare la guardia. «se andate via ora che non c’è la security, non passerai alcun guaio.» sperava.
    Credeva abbastanza nel ragazzo, pur conoscendolo appena, da lasciarlo completamente libero di muoversi ed aiutarlo ad alzarsi in piedi. Quando lo vide avvicinarsi pericolosamente al Guaritore che aveva aggredito poco prima, provò molta paura; tuttavia, l’unica cosa che fece fu puntargli un dito al petto. «voglio delle spiegazioni e giustizia, e le troverò.» non fece altro, se non prendere sua madre e sua sorella ed uscire dall’ospedale.
    Tirò un sospiro di sollievo, portando la propria attenzione sul medico. «non lo denuncerà, vero?» l’uomo gli diede semplicemente una pacca sulla testa, che Balt decise di non interpretare in alcun modo se non positivamente. «vatti a mettere un po’ di ghiaccio sulla faccia e prenditi una pausa.»

    Non se lo fece ripetere due volte: con una mano a tenere il pacchetto di ghiaccio secco sul volto e l’altra una sigaretta, si sedette su una delle panchine del cortile interno dell’ospedale, abbandonando il corpo contro lo schienale.
    «non pensavo che parlare con i parenti fosse così faticoso.» un pensiero che doveva rimanere nella sua testa, e che nemmeno si accorse di aver lasciato fuggire. E vabbè, andava così.
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    healer internlycanben10deatheater

    Dry bones rattle in a lonely soul
    Slipped and fell into a deep black hole
    I can tell you're lost, I'm here for you
    Wildfires burning you down to stone
    Blind eyes, turning from a world so cold
    A million miles apart, within my reach


    Role aperta con il prompt del tirocinio:

    CITAZIONE
    Dovrebbe essere compito della security, e se non risolvi la questione in fretta, probabilmente sarà così - ma dai, andiamo: i guaritori sono sempre impegnati, non hanno tempo di conoscere i loro pazienti; i medimaghi si. Conoscevi la giovane donna morta quel pomeriggio, confinata in una stanza dedicata alle malattie infettive, malgrado la sua non la fosse. Portava i segni della guerra di giugno. L'esposizione alla magia nuda e cruda di Abbadon, l'ha cambiata - si è insinuata nelle cellule. I magibiologi hanno cercato, e stanno continuando a cercare, una cura, ma non esiste. I Guaritori special assunti al San Mungo, non possono farci niente. Le persone muoiono; lei, è morta. Una ragazza tranquilla, solare, con il sorriso sulle labbra fino alla fine. La sua famiglia è devastata: incolpa l'ospedale, la società, guaritori e medimaghi in egual misura. Se la prendono anche con te. Trova un modo per farli uscire dall'ospedale senza guai, o trattienili il tempo che arrivi la security ad occuparsene.

    e niente, sentitevi liberi di essere chiunque (???): spettatori del teatrino, personale del san mungo, gente che passa per caso, quello che vi pare!!
     
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    jj gigio linguini
    05.03.2004
    milano, IT

    aveva smesso di fumare.
    una promessa a se stesso – e se ne faceva ben poche, gigio linguini: potendo scegliere, preferiva andare sul sicuro. una rob che pensa di iscriversi alla bet con mezzo post già scritto, per dire; e anche lì, sempre a valutare i pro e i contro, calcolo delle probabilità.
    sapeva di avere tutte le carte in tavola per vincere la sua guerra contro la nicotina, riducendo il bisogno spasmodico di infilarsi una sigaretta tra le labbra a mero gesto meccanico cui poteva facilmente trovare un'alternativa. No, pervertiti, non nel senso che la soluzione era mettersi altro in bocca (unless… ciao swag). Era la mente, che doveva occupare: il primo giorno come tirocinante al san mungo aveva concesso al milanese un piccolo assaggio di ciò che lo aspettava; il primo come guaritore era stato sufficiente a risucchiare tutto il tempo a sua disposizione, togliendogli anche quei cinque minuti di pausa cool che era solito prendersi tra una lezione e l’altra. Pochi mesi, innumerevoli feriti e morti dopo, e l’idea di intossicarsi i polmoni gli era completamente passata dalla mente. In compenso aveva iniziato a farsi strada con insistenza quella di darsi al crack, terribile ma non meno affascinante soluzione
    aveva smesso di fumare.
    nonostante tutto.
    un pensiero fugace, rapido quanto il battito d'ali di una farfalla che causa l'uragano dalla parte opposta del mondo — il tempo di estrarre il pacchetto dal taschino della divisa, e si era già volatilizzato. una volta stretta la decima sigaretta della giornata tra le labbra, di quel pensiero non era rimasta traccia «giornata di merda, eh? » per qualche motivo, sentiva di non dover specificare: il gonfiore che si andava accentuando sul volto di Baltasar raccontava una storia già sentita; ai dettagli ci avevano pensato le urla provenienti dal corridoio, e il bisbigliare concitato dei suoi colleghi a sfiorargli le orecchie.
    fosse stata la fine di un turno normale, con già quasi tre ore di straordinario non pagato sulle spalle, l'incedere di gigio lo avrebbe portato direttamente all'uscita del SanMungo senza nemmeno passare dal via — così com'era, camice da lavare e crocs ai piedi, pacchetto completo. aveva imparato a considerare normali un sacco di cose, il linguini; non ne andava fiero, ma lo accettava per puro, istintivo spirito di sopravvivenza. le decine, forse centinaia, di feriti giunti all'ospedale durante la guerra - un flusso continuo che non si era fermato nemmeno una volta decretata la fine - aveva cambiato le prospettive dell'italiano su cosa potesse o non potesse.
    poteva fare del suo meglio, sempre, ogni fottuto giorno.
    non poteva salvare tutti, e restituire la vita a chi l'aveva persa prima ancora di finire tra le sue mani.
    poteva rivolgere a balt un sorriso stanco, ma sincero, lasciare che il fumo si unisse a quello soffiato dal ragazzino mentre prendeva posto accanto a lui.
    non poteva indorare la pillola, anche se una bugia era forse quello di cui il monrique pensava di volere — l'avrebbe meritata, una prospettiva più rosea sul futuro, ma era della verità che aveva bisogno.
    «con il tempo non diventa più facile. ma imparerai a gestire anche le loro emozioni, oltre alle tue» indicò il suo volto tumefatto disegnando una virgola a mezz'aria con la sigaretta, un sopracciglio appena inarcato «non puoi farti usare come pungiball ogni volta» una scelta di parole non casuale, quella di gigio. perché poteva anche essere alla sua prima esperienza, il Tassorosso, ma di certo non sarebbe stata l'ultima: lo aspettavano centinaia di battaglie perse, altrettante famiglie con un dolore insopportabile sulle spalle e nessuna valvola di sfogo. lasciarsi prendere a pugni non sembrava affatto una soluzione a lungo termine «devi stabilire dei confini, o lo faranno loro per te» gli venne improvvisamente da ridere, ma si trattenne.
    l'isteria che sentiva crescere nel petto, risalendo lungo le corde vocali, avrebbe finito per spaventare balt invece che rassicurarlo. strinse la sigaretta accesa tra le labbra, piegato in avanti con entrambi i palmi premuti sugli occhi: ogni tanto, senza preavviso, la consapevolezza di quanto stava accadendo attorno a loro lo colpiva come una mazzata sui denti — confini, aveva detto. quelli che lui stesso non era riuscito a mettere tra sé e la sua famiglia, finendo per perdere il sonno all'idea di averli perduti. quei bastardi. quei pirla maledetti. li odiava, gigio, per essere spariti senza lasciare tracce; si odiava, per non aver impedito a giacomino di ficcarsi in una strada senza uscita, che ovviamente si era rivelata fatale «mi dispiace per Trisha. la conoscevi?» fu rapido a scacciare i propri pensieri dalla testa, utilizzando il nome della ragazza morta come un talismano; egoista da parte sua, probabilmente, ma non gli importava.
    e continuò a fissare il cemento sotto i loro piedi, il mento appoggiato alla mano destra, iridi cerulee venate di stanchezza a cercare segni premonitori nei mozziconi spenti che qualche incivile aveva lasciato cadere per terra. alla faccia della transizione ecologica.

    former slyth
    healer, sanmungo
    deatheaterclan linguini🇮🇹, ⚽sad boy hour

    It's been a couple months
    That's just about enough time
    For me to stop crying
    when I look at all the pictures
     
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