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[preq. 11] mood ft. balt

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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    Non si muoveva da un po’, Mood. Fermo come quand’era arrivato, la guancia posata contro il metallo – freddo, un tempo, ed oramai scaldato dal contatto con la pelle – le braccia incrociate sul petto a stringere la lama senza tagliarsi, una gamba allungata oltre la poltroncina. Affondato nel cuscino su cui aveva piantato lo stocco come se potesse ingurgitarlo. Lo sguardo era posato su quella o l’altra pietra del pavimento di Hogwarts, nulla di entusiasmante. Non stava realmente guardando nulla, distratto dalle sue due cose preferite al mondo (se stesso, ed il silenzio) permettendo ai pensieri di vagare indisturbati fino al placido nulla della meditazione. Quel labirinto di passato e ricordi che non gli appartenevano (non lo facevano? Un intero corridoio di libri di storia, e di piante ormai secche, ed appunti ordinati al limite dell’ossessione) non era il posto in cui avrebbe voluto essere – l’oro del podio andava al suo laboratorio sotterraneo a Praga – ma quello che più vi si avvicinava, non potendo permettersi altro. Di cui aveva bisogno, se il nome della Stanza poteva essere di qualche indicazione. L’aveva scoperta l’anno prima, e da allora, era stata spesso la dimora del suo non esistere per un po’. Si spegneva fra quelle mura come uno stoppino stretto fra pollice ed indice. Un tempo, aveva lasciato quell’onore all’ufficio di Check, l’unico posto in quella maledetta scuola dove poter essere più Mood, se non solo Mood - quello era un privilegio che concedeva unicamente a se stesso, e neanche tutti i giorni.
    Si cresceva. Si cambiava. Un giorno aveva guardato suo fratello ed aveva capito che fosse giunto il momento di prendere le distanze, perché l’avrebbe fatto comunque ma preferiva fosse graduale. Non voleva esserci sempre, nella sua vita; doveroso un passo indietro per iniziare ad abituarlo alla sua assenza, perché non voleva diventasse un effetto collaterale delle sue decisioni. Si dicesse quel che si volesse di Mood, ed a ragione, ma sapeva amare abbastanza da capire quando non fosse il caso di superare una linea. Non significava abbastanza da non farlo, come dimostrava quotidianamente nel suo mero, ma mai semplice, esistere; lo faceva, e spesso. Aveva giusto appena finito di farlo. Semplicemente, non voleva farlo con Check.
    Non sarebbe tornato a casa per un po’, il Serpeverde. Scelta, non necessità. Nella vita a scacchiera che aveva diligentemente creato, aveva spostato gli ultimi pezzi solo poche ore prima. Non gli rimaneva che aspettare la mossa successiva, e decidere come muoversi una volta che le sue azioni avessero avuto delle conseguenze quantificabili – ah, la storia della sua vita.
    Adorava la sua famiglia. In maniera misurata, e calcolata, ma lo faceva. Perfino Justin e Hold, apparsi nella sua vita solo per andarsene di continuo, occupavano un posto nel suo mondo, e neanche quello più in basso. Avrebbe fatto qualunque cosa per loro, eccetto sacrificare se stesso – un fardello che lasciava loro più che volentieri, ciascuno alquanto propenso al martirio in ogni caso – ed aveva deciso di dimostrarlo nel modo che gli riusciva meglio. Quello incomprensibile ai più, ma che importanza aveva; quello crudele, perché era pur sempre Mood, e tenere a qualcosa significava farlo al suo peggio.
    Era puntuale nei suoi appuntamenti mensili a Francoforte, perché non si mangiava mai bene come a casa propria e perché gli aggiornamenti in merito alle sue giornate erano doverosi. La leggenda narrava che i genitori amassero i propri figli in maniera eguale, e forse era davvero così, ma certamente con il minore dei fratelli Case-Beer-Vibe-Bigh erano più ovvi. Magari non era il preferito, ma sicuro come l’oro lo sembrava, e Mood calzava quella parte con la perfezione di chi c’era nato e si era allenato per diventarlo. Pensavano di averlo modellato a piacimento, che l’ultimo fosse stato infine un successo formativo, senza considerare che la storia amasse ripetersi, e fosse avvenuto esattamente il contrario: si era modellato su di loro, cambiando forma e spigoli fra mamma e papà. Era rimasto ore a guardare Cole Beer dipingere, la guancia sulla sua gamba mentre distrattamente gli carezzava i capelli; aveva appreso i nomi di tutti i colori apposta per indicarle il tramonto e dirle fosse vermiglio. Si era addormentato centinaia di notti sul divano insieme a Penn Case mentre il padre gli leggeva poesie e romanzi, ed aveva imparato a distinguere i sonetti solo per interromperlo e farlo ridere. Interi pomeriggi con Rue Vibe nel laboratorio dove non avrebbero dovuto entrare a guardarlo lavorare su quello o l’altro meccanismo, imparando il nome degli attrezzi solo per poterglieli passare. Il lavoro migliore di Mood, restava comunque Krush Bigh - e viceversa. Aveva lasciato lo guidasse, modificando poco del proprio tragitto; permesso gli tenesse la mano, e portandola distrattamente dove voleva andare lui. Sua madre gli aveva insegnato a sorridere e non farlo significare un cazzo, ad amare e saperlo contenere. Impeccabile, fino a quando decideva di non esserlo. Due anni prima, con l’accusa di omicidio e la conseguente espulsione, aveva rischiato ed aveva vinto, permettendo a tutti di passarci sopra. Giustificarlo.
    E poi, «andrete? Per hold» aveva gelato il sangue di tutti i presenti, mentre lui sollevava inquieti e pesanti occhi scuri a cercare i loro sguardi. Fece in modo che lo vedessero deglutire con fatica il boccone, e si rendessero conto di quanto (quanto?) gli fosse costata quella domanda. Era stato così prevedibile, il resto. Così scontato, che Mood non potè che rimanerne parzialmente deluso. Sapeva di essere bravo, ma non così bravo da prevedere la reazione di tutti i presenti; poteva significare solo una cosa: che fossero semplici. Che avesse finito di combattere, ed avesse già vinto. Tollerava tanti difetti nel genere umano, ma non la mediocrità.
    Tua sorella - divertente, come fosse sua sorella, e non anche loro figlia - ha fatto la sua scelta, molti anni fa. In modi diversi, ed in toni differenti, ma tutti e quattro gli avevano risposto al medesimo modo. Ed allora, «ma noi possiamo ancora farlo, no? sceglierla» labbra dischiuse in sorpresa, la voce a scendere di qualche nota. Non nascose la propria delusione, Mood; sapeva avrebbero scelto loro come interpretarla, e che l’avrebbero fatto nel modo sbagliato.
    Sapeva non avrebbero mai partecipato alla missione. Nessuno di loro. L’aveva saputo anche quando giorni prima aveva lasciato segnassero il suo nome, e quando aveva alzato un sopracciglio a Check come se non avessero saputo entrambi che l’avrebbe usato come scusa per fare la stessa cosa – come se parte del motivo per cui Mood avesse deciso di rischiarsi la giocata, non fosse sapere che ci sarebbe stato il fratello. Per Hold? Anche. Una interpretazione come un’altra, quasi tutte corrette, e forse perfino migliore rispetto alla realtà. Più lusinghiera di certo: non faceva altrettanta scena dire che fosse annoiato e curioso. Inoltre, non una bugia. Voleva sapere dove fosse finita sua sorella, anche solo per sfarfallare le dita in saluto e soffiarle un bacio a distanza. Il fatto che, potenzialmente, potesse essere pericolosa, lo riguardava solo marginalmente – avrebbe trovato qualcuno a cui faceva abbastanza tenerezza da farsi proteggere a costo della vita. Oltre a Check, si intendeva. Sperava fosse l’ultimo a morire, che era più di quanto Mood concesse a chiunque altro.
    «e se fossi io» aveva domandato, in un bisbiglio. «se fossi io. Verreste, per me?» Certo che l’avrebbero fatto. Cole era stata la prima a prendergli il viso fra le mani, i pollici a premere sulle guance, e dirgli che l’avrebbero fatto, ma lui non avrebbe mai dato motivo perché dovessero farlo, non è vero? Aveva annuito, poco convinto. Aveva atteso un altro paio di battiti.
    «è mia sorella»
    Un’altra pausa. Se loro non le davano importanza, gliene avrebbe data lui, sottolineando che riconoscesse fosse parte della sua famiglia. «se le succedesse qualcosa -» Labbra umettate.
    «vi importa?»
    La voce a tremare. «vi è mai importato?»
    «justin? e-» finse di interrompersi, permettendo di completare l’orchestra. Check.
    «crederà che l’abbiamo abbandonata. L’abbiamo fatto?» Stupore, come se non fosse stato scontato. Il millesimo tabù in una casa di segreti di pulcinella. «lascerete che muoia? come -» Justin. Tacque solo per lo schiocco. Non improvviso, se l’era aspettato, ma comunque… strano. Krush Bigh non aveva mai, mai alzato un dito su Mood.
    C’era sempre una prima volta.
    Con il bruciore sulla guancia dello schiaffo, il sedicenne si sentì in diritto di forzare le lacrime e dire fosse esattamente per quello che tutti li odiavano. Che se gli era rimasto solo lui, avrebbero dovuto farsi due domande. Che l’avrebbero perso, inevitabilmente.
    Ma non lo fece. Fosse mai. Perchè lo sapevano già, e Mood aveva sentito il crack delle loro illusioni in ogni parola, nel battito irregolare visibile sul collo. Se avesse reagito come un qualunque altro adolescente, avrebbe davvero cambiato le cose: sarebbero andati, forse. Guariti tutti. Serviva uno strappo netto per aggiustare i fallimenti di una decade.
    Però non voleva andassero. Voleva solo -
    «loro se ne sono andati, ma non dobbiamo fare lo stesso» prese la mano di sua madre fra le proprie, portandole alle labbra per premere un bacio di Giuda sulle nocche. «vi voglio bene» perfino vero, nella sua assurdità. Trattenne il sorriso, perché era certo di aver sentito quelle stesse parole centinaia di volte dopo ogni maldestro tentativo di manipolare il suo affetto nei loro confronti. «lo sapete, vero?»
    - spezzargli il cuore, perché era l’unico a poterlo ancora fare. Farli sentire in colpa.
    Stava ancora pensando all’occhiata ferita dei suoi genitori, quando sentì la porta aprirsi e chiudersi. Non si scompose troppo: era un crocevia di anime disperse, quel posto lì che si trovava ovunque ed in nessun luogo. Accoglieva chiunque avesse bisogno di spazi, e di qualcosa da fare. Non era altro se non un enorme e labirintico mausoleo di chiunque fosse passato fra quelle mura da che il castello era stato costruito. Sostanzialmente, un posto dove farsi i cazzi propri, motivo per cui non accennò a mostrarsi, rimanendo seduto ed immobile alla sua poltrona.
    Fino a che non riconobbe il suono dei passi. Molto peculiare da parte sua, ma aveva imparato a riconoscere il rumore delle catastrofi prima che potessero avvicinarsi troppo. Si sporse oltre la libreria che lo nascondeva alla vista, tenendosi in equilibrio con lo stocco rubato a Francoforte a far da leva sulla poltrona. Sorrise a Balt Monrique come se fossero sulla stessa barca (non quella. Quella metaforica, della vita) che, di per sé, era già ironico considerando il Tassorosso soffrisse di mal di mare. Gli offrì l’espressione triste e morbida di chi avesse perso una parte della propria famiglia, e pur essendo troppo giovane per avere un peso nell’universo, rischiava tutto pur di fare qualcosa. Che era vero, immaginava. In parte. Una parte decisamente non importante in egual misura, per l’uno o l’altro. «posso andarmene, se preferisci»
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    Edited by honestly‚ mood - 6/4/2024, 22:24
     
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    Non aveva avuto bisogno di proferire una singola parola, Balt. Non gli era servito fare assolutamente nulla. Per sua fortuna, perché di cose da dire ne avrebbe avute fin troppe, ma non aveva idea di come dargli una forma o un senso che fosse compiuto e comprensibile – tanto a sé stesso, quanto agli altri –; e gli prudevano le mani per tutte le cose che invece avrebbe preferito fare in quel momento, come in tanti altri passati e futuri.
    Tutto quello che aveva fatto, però, era stato attendere. Non era mai stato bravo in quello: sempre in movimento, alla costante ricerca di qualcosa con cui impiegare e sprecare il proprio tempo, incapace di rimanere fermo per più di due minuti affinché ciascun passatempo, anche il più inutile e stupido, occupasse uno spazio mentale nel quale non piantare il seme di dubbi di cui voleva fare a meno, ed evitare che sbocciassero i fiori di pensieri che avrebbero soltanto potuto danneggiarlo. Un modo tutto suo, e che non pretendeva gli altri capissero né tantomeno condividessero, di salvaguardare quella volubilità e spensieratezza, quella superficialità che gli aveva sempre permesso di vedere il mondo con tinte più accese e leggere rispetto a quelle con le quali veniva realmente dipinto – malgrado nell’ultimo anno quello stratagemma avesse iniziato a lamentare crepe che, per quanto le spingesse sotto tappeti e letti e dentro agli armadi insieme a tutti gli altri scheletri, continuavano a ripresentarsi ed a scricchiolare rumorosamente.
    Ma, nonostante tutto, aveva aspettato.
    La torre dell’orologio non era esattamente quella che avrebbe definito come suo personale comfort place: ciò che meglio metteva a proprio agio lo spagnolo era stare in mezzo alla gente, saltare al ritmo della musica, urlare senza che nessuno potesse distinguere la voce da quella che si spandeva dalle casse; era quell’emicrania che faceva sorridere alla fine della serata, la pelle sudata, le mani a toccarsi e cercarsi e lasciarsi. L’effimerità di una pista da ballo che non aggiungeva niente alla vita e soltanto si limitava ad alleggerirla. Dal momento che il preside di Hogwarts non aveva ancora accettato le sue continue richieste di aprire una discoteca nei seminterrati del Castello, però, quel posto era diventato un buon rifugio. Senz’ombra di dubbio uno dei luoghi in cui la connessione prendeva meglio, permettendogli di registrare qualche video e farsi una o due partite online tra una lezione e l’altra – se non poteva avere l’Ushuaïa in quel di Scozia, poteva almeno sperare di convincere il Chow ad allestire una saletta per i videogames da qualche parte.
    Non aveva il telefono con sé, quella volta; non la Switch, né un televisore cui attaccare la PS5. Nulla, se non quelle bende sul palmo della mano che continuava a stuzzicare e martoriare.
    Aveva aspettato – abbarbicato sul davanzale dell’enorme finestra ed assuefatto dai rintocchi del pendolo, iridi di cioccolato a scivolare assenti sulle tiepide giornate d’aprile quando non seguivano i movimenti dei polpastrelli sulle garze bianche, ignorando le macchie scarlatte ad imbrattarle o il prurito sulla carne aperta: non era strano vedere il Monrique ferito; era peculiare, invece, sapere che non fosse stato un danno accidentale quanto più calcolato, ricercato nelle nocche a spaccarsi contro la carne e avvalorato tra le tetre mura di pietra della sala delle torture. Fermo lì per quelle che avrebbero potuto essere delle ore o soltanto una manciata di secondi, preparandosi a nulla in particolare, se non quel tutto che era arrivato sotto forma di adolescenti come ogni volta che ce n’era stato il bisogno.
    Non si trattava né di chiedere né di attendere per davvero, perché nella prerogativa dell’attesa c’era un fondo di aspettativa, insita nella quale la possibilità che qualcosa non andasse come previsto: non era così per i Ben, e pochissime volte i fatti avevano confutato quella legge universale – la fantomatica eccezione che conferma la regola doveva esistere anche per loro, purtroppo. Che l’avrebbero raggiunto senza nemmeno domandarsi dove fosse andato, l’aveva dato per scontato. Dove volevano che andasse, d’altronde, se non lì? , in quello spazio liminale dalla grandezza di un battito, valvola cardiaca che li faceva confluire e stringere assieme tra uno pezzo e l’altro del cuore, e che in altro modo non avrebbero potuto chiamare se non Bencaverna.
    Ed aveva aspettato ancora, anche quando quel gigantesco filo a piombo pareva aver oscillato troppe volte, prima di alzare lo sguardo ed incontrare quello dei suoi amici.
    Era egoista, Balt; viziato. Voleva tutto, e lo voleva subito – almeno così poteva sembrare, se non per il fatto che ci fosse una sola cosa che desiderasse davvero, e che tutto il resto fossero solo vane richieste che potevano solo colmare quegli spazi per un periodo limitato di tempo: ce l’aveva lì davanti agli occhi; ce l’aveva in un’aula non molto distante; ce l’aveva dispersa in un luogo di cui si iniziava a scorgere l’orizzonte.
    Con loro non aveva potuto tenere quel segreto che aveva taciuto a sua sorella e a Wren (un po’ perché aveva la necessità impellente di dire a qualcuno che il pasticciere fosse suo fratello, ed un po’ perché gli era fisicamente impossibile non spifferare i fatti propri ai suoi migliori amici), ed avrebbe voluto in parte sentirsi in colpa per avergli detto tutto quanto – perché non aveva avuto bisogno di proferire una singola parola, e sapeva benissimo cosa significasse quel silenzio.
    Poi guardava Paris, e si ricordava che non era l’unico ad avere qualcuno da recuperare, che si sarebbe gettato tra le fiamme per aiutarlo a ritrovare ciò che aveva perso – così come sarebbe stato per ciascun altro dei Ben.
    Poi si ricordava che era un egoista, un viziato.
    Che non avrebbe potuto affrontare tutto quello senza di loro, e che la loro presenza rendeva tutto quanto un po’ meno pesante, ed un po’ più fattibile.
    Lasciò che dalle labbra uscisse una singola parola – perché si vedeva dagli occhi che fosse commosso, e che più di quello non sarebbe stato in grado di dire.
    «megagodo.» e c’era ancora chi diceva non possedesse abilità oratorie degne di nota.

    «posso andarmene, se preferisci.» tentennò, preso alla sprovvista dalla voce, ma non ebbe nemmeno bisogno di ricercarla per più di tanto tempo prima di capire di chi fosse.
    Nemmeno sapeva come ci fosse arrivato, in quel posto. Aveva semplicemente iniziato a camminare, privo di alcuna meta, ma guardandosi intorno era chiaro che volesse fare qualcosa di specifico. O che, quantomeno, avesse delle precise richieste.
    Che non sapesse con esattezza quali fossero non era un problema di nessuno; sicuramente non di Mood, che raggiunse con la piega più tirata che riuscisse a dipingersi sul viso. Non aveva mezza intenzione di fingere con lui che tutto andasse bene: se gli aveva sorriso era perché fosse davvero felice di trovare una faccia amica – indipendentemente dal come, e dal quando.
    «c’eri prima tu.» rispose soltanto, dando per scontato sia il fatto che preferiva non se ne andasse, sia che al massimo avrebbe dovuto proporsi il Monrique. Cosa che chiaramente non fece, andandosi a sedere per terra poco lontano dal serpeverde, ginocchia al petto e mani ancora fasciate mollemente adagiate sulle gambe.
    Guardò per un breve periodo il Bigh, prima di distogliere lo sguardo. Nonostante Dara ne dicesse di tutti i colori sul suo conto, Balt non riusciva a vederlo per come lo raffigurava: per qualche motivo, si trovava bene con lui, ed in qualche modo sentiva di potersi fidare.
    «pensi…» gli occhi puntati su una vetrina non sapevano dire davvero cosa ci fosse al suo interno: avrebbe potuto trattarsi di un artefatto perduto secoli prima, nascosto alla luce del sole, e non l’avrebbe comunque riconosciuto. La sua testa, era da tutt’altra parte. «pensi sia una trappola?» non specificò il che cosa, perché era chiaro a cosa si riferisse: aveva una lama tra le mani, in fin dei conti, il suo compagno di sventure.
    Poteva non essere il più furbo dei suoi amici – il suo compito era quello di farsi male al posto loro, e di farli sorridere quando ce ne fosse bisogno –, ma non era così stupido.
    O magari sì, dal momento che in realtà non gliene sarebbe importato un fico secco se fosse o meno finito in una fossa di vipere: era preoccupato per i Ben, che avrebbero partecipato insieme a lui, ma non per sé se questo significava avere la possibilità di ritrovare Wren, Kaz, Clay, persino il pappagallo.
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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    «c’eri prima tu.» Vero, e reale. Non passò inosservato al Bigh come Balt, pur consapevole ci fosse stato prima lui, non offrí la medesima cortesia invitando se stesso ad andarsene. Non si era aspettato nulla di diverso, e mantenne placido il fantasma di un sorriso sulle labbra, consapevole che non gli avrebbe comunque chiesto di farlo. Trovava Baltasar Monrique un caso di studio interessante, reso ancor più intrigante dal suo essere diametralmente opposto non solo a tutto ciò che Mood era, ma anche quello in cui credeva. Era una delle creature che più al mondo avrebbero dovuto fargli rimpiangere di non aver bruciato quella scuola incolpando uno special quando ancora quella scusa avrebbe attecchito, ed invece provava nei suoi confronti una sorta di… tenerezza fredda, e calcolata. Poteva allungare una mano per stropicciargli dolcemente i capelli, e con la stessa percentuale di probabilità, rimanere a guardare senza battere ciglio mentre lo picchiavano a sangue. Non voleva attivamente ucciderlo, che di per sé, conoscendo un minimo Mood, non era così scontato, ma l'idea che potesse trovarsi in una situazione di vita o morte e dovesse cavarsela da solo, lo affascinava più di quanto non facesse saperlo al sicuro. Voleva metterlo in un'arena, e guardarlo come uno spettatore di lotte fra galli - cosa che sarebbe stata a tutti gli effetti, a ben pensarci: aveva visto galli meno polli del Tassorosso.
    Voleva vederlo rovinato. Usurato dal tempo e dalle persone come una moneta. Avrebbe retto, quel sorriso? Si sarebbe ancora fidato, dei Mood del mondo? Chiuse gli occhi, sentendolo sedersi poco distante, ed immaginando quale futuro avrebbe atteso lo spagnolo se fosse rimasto così …Balt. O forse, quello che pensava come un ingenuo, dalla vita aveva in realtà capito tutto, ed aveva scelto il Serpeverde come male minore sapendo l'avrebbe trovato più intrattenente da vivo che da morto. D'altronde, Mood non era il più cattivo in circolazione: era solo il più vicino. Era così terribile, farsi usare dal Serpeverde? Se non ricordava male (spoiler: non faceva niente male, neanche ricordare.), le persone che lo circondavano erano ancora tutte vive, vegete, ed in salute - se non lo erano, non per colpa sua.
    aSi concesse l'intero minuto di silenzio con il quale Balt lo grazió, perché non sapeva quando avrebbe avuto un'altra occasione - o se l'avrebbe voluta, un'altra occasione: le uniche volte in cui il Monrique non parlava, era perché impegnato ad essere triste o a vomitare, ed avrebbe felicemente evitato entrambe le opzioni; checché se ne dicesse, le persone miserabili gli piacevano solo quand'era lui a causare la loro sofferenza, non quando doveva sorbirsi gli effetti collaterali del danno di qualcun altro. - persistendo ad osservare come le fiamme delle torce di riflettessero sul cimelio di famiglia. Scollò gli occhi scuri dallo stocco quando, inevitabile come la morte ed il coinquilino di Alessandro, Balt aprì bocca per dire qualcosa di inequivocabilmente stupido.
    Arrivavano proprio da universi differenti, Balt e Mood, se era arrivato a fare quella domanda. A lui, poi. In un battito di ciglia, nell'espressione onestà dello spagnolo vide l'immagine speculare di Dara. Lo stesso pressante bisogno di - cosa, poi. Di cosa. Aveva solo verità scomode e bugie dolci come sciroppo per la gola, e nessuna delle due era mai la risposta giusta. Sapeva che Baltasar volesse una replica sincera, e faceva già ridere che la cercasse da Mood, ma non era certo fosse quello di cui avesse bisogno in quel momento.
    Gli importava?
    Studiò il profilo del compagno, intrecciando le dita sopra l'elsa della spada per poterci poggiare il mento. Piegò le labbra in un sorriso divertito e triste, pur non provando propriamente nessuna delle due emozioni. Non escludeva ci fossero, da qualche parte, solo perché statistica e percentuali avevano il potere di smentirlo, ed amava troppo avere ragione per darla vinta alla matematica. «balt» mormorò semplicemente, perché pur non essendo l'attrezzo più affilato della scatola, neanche lui poteva essere così stupido da metterlo in dubbio. Era lo stesso, identico pattern adottato a San Valentino: rapimento, ostaggio, salvatori; rapimento, ostaggio, salvatori. Non era il se la fosse, la questione sul piatto, ma il perché. Tristemente, a quello non aveva risposta, e solo teorie. Teorie facilmente scartabili, per giunta: considerando che avessero rapito Hold, dubitava avessero bisogno di menti affini o capacità particolari con cui conquistare il mondo, il che, purtroppo, escludeva molti dei suoi perché. Temeva che ci fosse una sola soluzione, e fosse anche la più ovvia.
    Sarebbe stato alquanto anticlimatico.
    Inspirò dalle narici, soffiando piano l'aria dalle labbra dischiuse. «ho sentito dire ci siano tante mete, e che non andremo tutti nello stesso posto» di quello, Baltasar poteva farsene quello che preferiva: era un fatto, e come tale, aveva senso solo quando interpretato. Avrebbe sperato toccasse a qualcun altro? Sentito, nel cuore, che quel qualcun altro sarebbe stato lui? Si strinse nelle spalle. «sai quando il ministero apre le missioni ai civili?» accarezzò con il pollice il metallo dello stocco, osservando distratto lo stesso punto del Monrique. La voce si era fatta più fredda e distante, più Mood, ma d'altronde, non aveva un vero e proprio motivo per mostrarsi un raggio di sole con Baltasar: l'aveva pur sempre ucciso, insomma. Con tutte le attenuanti del caso, si, ma se non era bastato quello a convincerlo fosse il caso di mantenere le distanze, non lo sarebbe stato il grammo più di cinismo che usualmente teneva per sé.«quando non vogliono perdere risorse» spostó gli occhi scuri sull'altro, osservandolo attentamente. Non solo credeva fosse una trappola, Mood, ma pensava anche che qualcuno ai piani alti sapesse esattamente di cosa si trattasse, ed avesse scelto di usare i propri cittadini come carne da macello. Non poteva giudicare: avrebbe fatto lo stesso. «la mente umana è facile da manipolare. o la è la nostra, o quella di chi è tornato» ancora scosse le spalle, decisamente meno preoccupato di quanto avrebbe dovuto. «saperlo, o supporlo, non cambierà il fatto che andremo» quindi. «quindi» punto. E la conversazione, per Mood Bigh, avrebbe potuto finire (molto prima. magari neanche iniziare) li, ma non lo fece. Tacque solo un paio di istanti prima di domandare in un filo di voce, attento a non disturbare la quiete della stanza, «a cosa pensi?» sinceramente curioso della risposta, perché con Balt, tutto poteva essere.

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    Al sentire il proprio nome, Balt non si scompose affatto. Rimase immobile a guardare la stessa vetrina, nonostante la vista si fosse appannata nel breve tempo di inattività e la mente persa in ragionamenti altrettanto offuscati, senza capo né coda. Le uniche cose che avrebbe voluto dire in quel momento le tenne per sé, strette tra i denti e l’interno della guancia fino a quando quel che avrebbe potuto ferirlo nel riascoltarsi non divenne mero dolore fisico e sangue amaro sul palato – più sopportabile, più gestibile; meno logorante.
    Non sapeva quale necessità avesse spinto la stanza va-e-vieni a spalancargli le sue porte, ma odiava che tra le possibilità ci fosse proprio quella di sentirsi così – con addosso sguardi giudiziosi, sorrisi a metà tra la compassione e l’incredulità usati come un’arma puntata al suo petto, e pensieri tanto fitti a ronzare nelle menti altrui che non gli serviva essere un Legilimens per riuscire a distinguerli. A volte credeva di essere masochista, senza il bisogno di sconfinare nell’autolesionismo dal momento che ci pensava la vita a mettergli i bastoni tra le ruote un giorno sì e l’altro pure per farlo ammazzare da qualche parte, ma c’era un limite a tutto: gli bastava lo sprezzo dei genitori, la delusione nei loro occhi per quanto lui ci provasse, per quanto lui gli volesse bene; non voleva che altri rincarassero quella dose, e l’idea che ne avesse bisogno lo disturbava nelle viscere più profonde, stringendole e bruciandole.
    Avrebbe voluto dire a Mood che lo sapeva, che non serviva aggiungesse altro a quel «balt» semplice, ed esplicativo.
    Che gli dispiaceva, ma Dio solo poteva dire per che cosa fosse rammaricato: per aver fatto una domanda tanto stupida? Per essere tanto stupido? Era superficiale, il Monrique, e raschiava soltanto gli strati più apparenti delle situazioni, delle persone, perché non aveva mai avuto modo di doversi preoccupare di cosa ci fosse in profondità. Era buono, gentile; la casualità aveva voluto che nascesse in un ambiente fortunato che l’aveva tenuto in una torre d’avorio per tanti anni, crescendo all'oscuro di molte circostanze appena fuori da quelle mura: se tutto questo voleva dire che fosse un ingenuo, un ignorante, probabilmente lo era. Non spiccava nell’ingegno perché affianco ai suoi amici non poteva essere altrimenti, erano tra le menti più brillanti che avesse mai avuto l’onore e la fortuna di conoscere ed era felice che fosse così, ma non si era mai definito uno stupido – perché, semplicemente, non voleva esserlo, e possedeva da sempre abbastanza caparbietà e buona volontà per imparare dai propri sbagli ogni giorno.
    Che stava scherzando, perché con quel sorriso sulle labbra per molto tempo aveva creduto che gli si potesse perdonare tutto; spesso, era stato così.
    Tutte stronzate che aveva dovuto ingoiare giù per la gola fino a rigonfiare i polmoni. Un pattern che non voleva ripetere, che non voleva spostare da casa sua su qualcun altro – forse per capriccio, forse per principio, o forse perché sapeva non fosse giusto. O più banalmente, perché non era quello che stava cercando lì dentro.
    «sai quando il ministero apre le missioni ai civili?» non rispose, ma non perché non conoscesse la risposta: viveva con un ministeriale, uno dei pezzi grossi per giunta, da quando era nato; sapeva più cose su quel mondo di quante dovesse, o volesse.
    Quando non vogliono perdere risorse.
    Sentire quello che già pensava da una voce diversa da quella nella sua testa fu la conferma di cui non aveva assolutamente bisogno – e di certo, non per una specie di negazione della realtà dei fatti. Ancora, non si spezzò al suono di quelle parole. Ancora, rimase stoico ed impassibile, cosciente dal principio di ciò che sarebbe stata quella missione: il suo unico tarlo al riguardo era stato il fatto di trascinare i suoi amici in una vasca piena di squali, ma aveva risolto quel problema quando aveva capito (come se poi già non ne fosse consapevole) che non poteva andare diversamente da così.
    «la mente umana è facile da manipolare. o la è la nostra, o quella di chi è tornato. saperlo, o supporlo, non cambierà il fatto che andremo.» solo allora, tornò con lo sguardo su Mood, piegando appena l’angolo destro delle labbra. Voleva sapere se ci credesse davvero, in quelle parole. Non dubitava che avesse ragione, ed era ben conscio di essere incluso tra quelle persone facilmente condizionabili, ma faceva fatica a credere si trattasse solo di quello: una delle ragioni principali, è che dal primo momento aveva visto il Bigh come una di quelle persone complesse da influenzare, e che con altrettanta difficoltà seguirebbe qualcuno di meno tenace. Se proprio avesse dovuto sbilanciarsi al riguardo, a prima impressione sarebbe stato più propenso a supporre il contrario – che fosse lui, quello manipolatorio; non che questo cambiasse qualcosa per lo spagnolo, l’affetto ch’elargiva alle persone prescindeva da cosa queste fossero.
    «penso che…» chinò il capo sulle garze alle mani, tirandone i lembi con le dita – un passatempo e un antistress al contempo, oramai. «non era quello che volevo sapere da te.» enunciò quel pensiero con tutta la semplicità di cui era capace, senza un’unghia di amarezza a far tremare la voce: era un semplice dato di fatto, così come lo erano la sfilza di informazioni che gli aveva appena dato il serpeverde – nozioni di cui, straordinariamente, non era all’oscuro, e che confermavano solo ipotesi e teorie già consolidate. Dello studio matematico di come andasse il mondo secondo Mood Bigh se ne faceva poco: voleva qualcosa in più, che fosse un’emozione o una motivazione – non poteva del tutto dire di non averla ricevuta, ad ogni modo, bastava saper interpretare.
    «e che preferisco non pensare affatto.» non che quella fosse una novità: lungi da lui essere razionale e machiavellico, il Monrique rifletteva soltanto quando sentiva di star per dire qualcosa per cui ci fosse bisogno di porre un filtro tra cervello e labbra. «a cosa serve farlo? non cambierà il fatto che andremo, giusto?» sorrise un po’ più gioviale al ragazzo davanti a lui, lasciando affiorare la proverbiale spensieratezza per cui era più noto al mondo – come se niente potesse scalfirlo.
    Era così.
    Voleva, che fosse così.
    «promettimi solo una cosa:» si fece più serio, come se l’altro fosse effettivamente tenuto a promettergli qualcosa. «che andrà tutto bene.» l’aveva fatto con i Ben, e l’aveva fatto con Liz: non voleva essere confortato; non aveva nemmeno paura, per quanto lo riguardava. Del fatto che sarebbe andato tutto bene, trappola o non trappola, ne era sicuro – idealista e fiducioso, forse sì.
    Voleva soltanto che le persone a cui voleva bene sapessero di avere una promessa a cui tenere fede prima di partire.
    baltasar
    monrique

    We all wanna be somebody
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    paladino devoto
    [ prende l'attacco di un altro ]
    MAGO
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    lycan — 2006's — hufflepuffI'm just the boy inside the man
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    Trying to trace my steps back here again, so many times
    I remember where it all began, so clearly
    be somebody
    thousand foot krutch
    moonmaiden, guide us
     
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