headed for disaster, chasing the night

@ londra, ft. kiel

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    C’erano giorni in cui Bash saliva sul ring di Spaco con l’obiettivo di portarsi via qualche galeone extra con cui arrotondare, conscio comunque, già in partenza, del fatto che parte della vincita l’avrebbe poi utilizzata per comprare alcol – che fosse anche abbastanza forte da affievolire il dolore dei colpi subiti; e c’erano giorni, invece, in cui ci saliva armato solo del masochismo intrinseco nel suo DNA, pronto a farsi abbattere da energumenti grossi il doppio di lui solo perché era abbastanza rotto al punto da trovare piacevoli quei piccoli momenti di puro blessing tra un colpo e un altro.
    Bash Baker non era una persona funzionale. Aveva un modo tutto suo, e poco salutare, di vivere la vita; l'alcol e il sesso erano solo due dei tanti vizi che lo special aveva; la violenza era un altro.
    La trovava, molto spesso, catartica e necessaria; non la cercava per sentire qualcosa, ma piuttosto per avere ancora una volta la conferma di quanto puttana fosse quella vita. Ogni colpo ricevuto era l'ennesima dimostrazione che se c'era una cosa certa, a quel mondo, erano i colpi ben assestati dati dal destino — fisici o meno, facevano un male cane entrambi. E ogni schiaffo preso, ogni attimo di mancata lucidità quando il dolore era troppo per poter essere sopportato, ogni livido che lasciava colorare la propria pelle, Bash lo accoglieva con la stessa familiarità con cui si salutano due amici di vecchia data.
    Quella, era una delle sere in cui Bash aveva bisogno di ricordare il marcio, e quale miglior modo se non cercandolo direttamente nella casa di Spaco, tra un pugno sul naso e un calcio alle costole; la mattina dopo avrebbe mentito ancora, dicendo che stesse bene, ma senza inventare balle non necessarie — preferiva il silenzio, e lasciare che il suo sguardo nocciola scoraggiasse gli altri dal fare domande. Dopotutto, non erano molti coloro i quali si (preoccupassero) azzardassero a porre quesiti. Quanto al lavoro, beh: non c'era nulla che un po' di trucco non potesse mascherare, been there done that, avrebbe chiesto a Cass una mano se fosse stato necessario.
    Per il momento, voleva pensare solo a quel duello il cui esito era già scritto nelle stelle — Bash l'aveva scelta apposta.
    Nonostante il sangue che colava già dal labbro spaccato, e il fatto fosse poggiato contro il bordo del ring perché a malapena in grado di reggersi sulle proprie gambe, il sorriso che l'americano stava rivolgendo allo sfidante si fece più insolente e provocatorio. «Tutto qui quello che sai fare?» Gli avevano promesso che non sarebbe stata una sfida ad armi pari, e fino a quel momento era rimasto deluso: aveva insaccato un colpo dietro l'altro, ma niente a cui non fosse già abituato.
    Aveva bisogno di qualcosa di più forte, quella sera; un bisogno fisico che non sapeva spiegare, e che nemmeno la scorta di alcolici che aveva in casa avrebbe soddisfatto.
    «Dovresti colpire più forte.» Si allontanò a fatica dal bordo del ring, muovendo passi lenti in direzione del gigante che aveva di fronte — da quella poca distanza, per osservarlo in faccia, Bash doveva reclinare il capo all'indietro. Lo stava deludendo. «Colpisci più forte, coglione.» Bash Baker amava provocare: che fosse a parole, a gesti, con un semplice sguardo, non faceva differenza; gli piaceva mettere a disagio le persone e spingerle a compiere azioni che in altre circostanze non avrebbero mai fatto. Lo trovava divertente ma anche giusto: voleva vedere il marcio nascosto dietro ogni persona, voleva strappare via a morsi le maschere di finta educazione che ciascuno di loro aveva appiccicata sulla faccia.
    Quel caso non era diverso: istigare un uomo grande il doppio di lui solo per farsi picchiare più violentemente e guadagnare qualche istante di stordimento. Che razza di junkie, che era.
    «Andiamo! Più forte ho detto!»
    Il problema di riuscire a persuadere le persone a fare ciò che comandavi, comunque, era che poi queste ubbidissero.


    Aprì gli occhi lentamente, Bash, prendendo coscienza di dove fosse un centimetro di parete alla volta: le iridi nocciola setacciarono a fatica i dintorni, vista offuscata dalle palpebre gonfie e dal mal di testa che gli martellava nelle tempie.
    Era mezzo sdraiato e mezzo seduto in un vicolo buio di Londra — qualcuno, al ring clandestino, doveva averlo visto, incosciente e ad un respiro di distanza dell'esalare l'ultimo, e doveva aver pensato che fosse meglio abbandonarlo da qualche parte il più lontano possibile da lì, piuttosto che dover fornire spiegazioni riguardo un cadavere ritrovato dai Cacciatori nei loro locali occupati illegalmente.
    Che l'avessero dato per spacciato era poco ma sicuro; peccato che gli stronzi non sapessero che Bash Baker era duro a morire.
    Aveva incassato botte come un cazzo di professionista, fino all'ultimo pugno sulla tempia che, rivelandosi un po' troppo ben assestato, gli aveva fatto perdere i sensi. Beh, era stato lui a chiedere che l'avversario picchiasse più forte, dopotutto.
    Attese qualche minuto che Londra smettesse di oscillare davanti ai suoi occhi, poi raccolse le ossa doloranti e i muscoli portati allo stremo, e si alzò. Riuscì a fare ben due passi prima di finire nuovamente a terra, le ginocchia a impattare con l'asfalto umido e i palmi delle mani a frenare la caduta. Sputò a terra, e sorrise; aveva guadagnato ciò che voleva, alla fine; quello che, a causa della povertà, non poteva cercare in una dipendenza più seria. Almeno gli incontri illegali avevano il duplice effetto di eccitarlo e soddisfarlo — anche se poi rischiava di lasciarci le penne una volta sì, e quella dopo pure. Ma era parte della scarica di adrenalina che Bash andava continuamente cercando.
    Si rimise in piedi per la seconda (terza? quarta?) volta, fingendo che non avesse dei chiodi a premere contro la scatola cranica, o che il dolore alle ossa e ai muscoli non fosse così forte da provocare giramenti di testa e vista annebbiata. Aveva visto di peggio; era stato conciato molto peggio di così, picchiato dalle stesse mani che avrebbero dovuto proteggerlo, e lasciato incosciente per intere notti, ed interi giorni, al punto da sviluppare una resistenza fisica invidiabile.
    Ma aveva comunque bisogno di qualche analgesico anche lui, di tanto in tanto. Peccato che non potesse rivolgersi al San Mungo direttamente — nonostante perdesse il controllo, di tanto in tanto, era comunque intenzionato a mantenere segreto il suo stato di sangue, e consegnarsi volontariamente ai guaritori sembrava controproducente persino alla sua mente messa duramente alla prova dall'incontro.
    Ah, se solo avesse avuto un guaritore a portata di mano; uno che non facesse domande sarebbe stato ancora meglio, ma Bash doveva accontentarsi di quello che aveva.
    Come sempre.
    Passò il dorso della mano sotto il naso e sulle labbra, asciungando quel poco di sangue che non si era già addensato sul suo viso, fingendo di darsi un'aria meno disastrata di quanto non fosse in realtà, ricordandosi solo in seguito che il Kane lo aveva visto ridotto in condizioni peggiori. Non si fermò fino a che non raggiunse, interminabili minuti dopo, il portone che stava cercando; per lo meno, nel suo girovagare per le strade di Londra non aveva incontrato troppi sguardi curiosi, complice l'ora tarda e la zona.
    Citofonò e rimase in attesa.
    sebastian
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    Era tornato al San Mungo.
    Ferito, confuso, esausto, ma vivo.
    Aveva lasciato l’accampamento militare non appena gli era stato possibile – se non nel momento in cui aveva preso consapevolezza che la guerra fosse finita, in quelli immediatamente successivi: non voleva rimanere in quelle tende più di quanto non fosse necessario, ma nemmeno fingere che quella parentesi di un mese e mezzo non fosse mai esistita. Ne portava i segni nei graffi sul viso e sulle braccia, nei fori di proiettile e nelle costole incrinate, nelle nocche arrossate e nel caricatore della pistola sempre più vuoto ad ogni rientro alla base; avrebbe continuato a portarli nei giorni che ne sarebbero conseguiti, stringendo i denti e fasciando le proprie ferite, perché non poteva far semplicemente finta di nulla. Aveva passato troppo tempo ad inseguire nubi opache senza riuscire a stringere tra le dita nemmeno un singolo filo di queste, e ne aveva perso ad immaginare cosa significassero quei ricordi che gli erano stati sottratti: a ventun anni, voleva rubare tutti ciò che poteva; ogni singolo istante trascorso su quel pianeta, anche a costo di urlare e bestemmiare il cielo ogni volta che il ferro rovente imprimeva nella memoria scene che non avrebbe mai desiderato vedere.
    Era stato lui a scegliere di partecipare a quella guerra. Se n’era pentito – tutte le volte che non aveva potuto fare quello per cui aveva deciso di partire; tutte le volte che aveva dovuto scegliere tra sé ed il nemico; tutte le volte che aveva dovuto stringere i denti ed accettare che non potesse fare niente, se non cercare di arginare i danni e mettere una toppa laddove fosse possibile –, e con ogni probabilità non sarebbe successo una seconda volta se non relegandosi ai tendoni medici. Ma l’aveva fatto, ed era innegabile. L’aveva fatto, e lo vedeva in tutti gli sguardi spenti e sollevati che aveva intravisto, nelle giacche pesanti abbandonate a terra; lo cercava nei volti che non erano lì, in Mac ed in Barry, in Dominic, in Costas e persino in Mort, in Jericho, Zelda, Selena, Gali e Adrian.
    Era tornato al San Mungo, ma non prima di passare ad Hogwarts: una visita fugace, aveva chiesto al custode; la guerra è finita, ho solo bisogno di sapere che mia sorella stia bene. Nonostante tutto, nonostante avesse contribuito inconsapevolmente a distruggere un po’ di più un’esistenza che tanto integra aveva smesso di esserlo molti anni prima, Kiel non riusciva più a odiare Dylan – e forse non lo aveva mai davvero fatto, troppo ostinato a rimanere fermo sulle proprie convinzioni e certezze da scendere a patti con una realtà che non avrebbe potuto aiutarlo in alcun modo. Avrebbe danzato sulle rovine della casa dei Kane-Dubois e sulle ceneri di Sabine senza tregua per una settimana, ventiquattro ore su ventiquattro, se fosse venuto a conoscenza del fatto che era stata distrutta dalla guerra, ma non voleva nemmeno immaginare di aver passato un mese e mezzo lontano da un mondo senza fucili e pistole senza aver avuto la possibilità di parlare un’ultima volta con la ragazza.
    Non prima di contattare la sua squadra, la sua famiglia; di ricevere qualche risposta dai Corvonero, e di attendere con un groppo in gola reazioni o pollici alzati sulla chat che non erano ancora arrivati, e di dirsi che sarebbero giunte prima o poi perché – non voleva nemmeno pensarci.
    E forse era meglio così; era meglio che non sapesse di cosa avessero visto Mac e Barry, subito Neffi ed Erisha dall’altra; era meglio non avere la benché minima idea che il cuore di Jane si fosse fermato per tutto quel tempo. Una fantasia che avrebbe potuto mantenere per poco, inconsapevole di ciò che l'avrebbe atteso all'ospedale magico.

    Era tornato al San Mungo.
    Ed era rimasto al centro della corsia di un Pronto Soccorso che non era le trincee che aveva vissuto nei quaranta giorni appena trascorsi, ma poco ci si discostava. Fermo immobile, labbra dischiuse e occhi cioccolato ad ammirare le corse frenetiche di guaritori e medimaghi – troppo pochi – senza sentire i loro passi sul pavimento; a registrare, ovattate e lontane, le grida dei pazienti e i suoni dei macchinari; a chiedersi da dove cazzo potesse partire, perché da qualche parte doveva pur farlo. Attese che il muscolo cardiaco s'acquietasse, che smettesse di tamburellare con veemenza contro la gabbia toracica e la t-shirt; che trovasse pace, dato che non poteva funzionare bene se avesse continuato a sentire quel martellare incessante nei timpani.
    Si trovò a dire più volte di quante ne avesse messe in conto che non aveva bisogno di un lettino sul quale sdraiarsi, che non era lì per farsi visitare; che non stava cercando alcun familiare o amico, non in quel momento, senza far notare ai colleghi che fosse Kiel, che in quel posto ci lavorava tutti i giorni e tutte le notti, perché poteva comprendere dalle borse sotto gli occhi e dall’affanno nella voce, che non ce la facessero più.
    Così aveva raggiunto lo spogliatoio, non senza difficoltà – divincolandosi tra persone buttate ovunque ci fosse un minimo di spazio; zoppicando e anatematizzando Sabine Dubois per quella maledizione che gli aveva fatto scagliare e che con il favore delle battaglie aveva pensato di tornare a salutarlo; cercando di evitare di venire investito dai carrelli emergenziali che sfrecciavano manco fossero ad Indianapolis. Si era messo il camice, aveva fatto un grande respiro e preso il primo di quella che sarebbe stata una lunga serie di caffè.
    Avrebbe preferito della cocaina al posto della caffeina – un pensiero intrusivo che si ripresentò ad ondate lungo tutta la sua permanenza nell’ospedale, mentre saltava da un paziente all’altro come un grillo iperattivo. Non si fermò un secondo: non ce n’era il tempo e non aveva alcuna intenzione di farlo; aveva la necessità di correre senza sosta, di curare tutto il curabile, di parlare con più parenti possibile.
    Di essere utile, e di farlo bene.
    Perché erano in pochi, troppo pochi, ed il caos regnava sovrano. Perché non c’era un singolo medico o infermiere che non avesse dovuto correggere, passando per caso su casi non suoi, beccandosi sovente occhiate storte dal momento che non fosse il suo lavoro quello di mettere pezze sull’operato altrui. Perché non c’era coordinamento, solo un enorme trambusto generale, ed aveva abbastanza adrenalina in corpo da compensare il burnout dei colleghi. Perché aveva passato molto tempo con la dottoressa Ramos da quando aveva iniziato il tirocinio al San Mungo, anni prima, da sapere come muoversi quando la situazione lo richiedeva.
    «kane?» sobbalzò sulla sedia, percependo chiaramente il cuore a saltare dal petto alla gola nel giro di mezzo secondo; non si era nemmeno reso conto di essersi addormentato, ma ne aveva preso in considerazione l’eventualità. Erano passate molte ore da quando si era Materializzato nell’ospedale, ed in tutto quel tempo era andato avanti a caffè, acqua e sigarette: più che possibile, lo spegnimento del proprio sistema operativo era stato inevitabile. «puoi seguirmi?» non una domanda, quella di Benjamin Townsend; aveva visto poche volte il Direttore Generale, ma non gli era mai sembrato il tipo a cui fosse possibile dire di no. Annuì al nulla, se non alla scia dell’uomo, prima di voltarsi sulla ragazza addormentata sul lettino.
    Aveva passato un po’ di tempo con Neffi, con Erisha. Era passato a salutare Selena, si era domandato dove fosse il resto della ciurma che aveva conosciuto a Città del Messico. Aveva cercato Mac, Turo, Dominic, Costas – e non li aveva visti da nessuna parte.
    Ma era da Adalbert Behemoth che si era fermato un po’ di più. Senza dire nulla, semplicemente restando al fianco del ragazzo – della ragazza – per quanto fosse stato necessario. Cos’avrebbe potuto dirgli, o cos’avrebbe mai voluto sentirsi dire? Non ne aveva idea, Kiel. Si limitò a posarle una mano sulla spalla, stringendo appena. Forse nemmeno lo sentì, quel «andrà meglio.» sussurrato prima di andarsene.
    Bussò alla porta del Direttore, stoico nel suo desiderio di morte interiore: lo sentiva fin dentro le ossa che si sarebbe beccato una ramanzina. «dovresti farti medicare anche tu,» fu invece il massimo rimprovero che ricevette, e al quale sorrise leggero prima di prendere posto davanti alla scrivania del Townsend. «non puoi di certo mostrare tutti quei tagli nella tua nuova posizione.» corrugò le sopracciglia ed umettò le labbra, certo di non aver sentito bene: comprensibile, in fondo; ragion per cui non rispose. «l’immagine non è tutto, ma fa una buona parte del lavoro: non voglio che medimaghi e guaritori del pronto soccorso pensino che il loro responsabile sia una persona irresponsabile, e che soprattutto non tiene alla propria salute.»
    Ok.
    Fermo un secondo.
    Kiel Idowu-Kane era confuso, e troppo stanco per nasconderlo. Si sporse in avanti sulla sedia, gomiti sulle cosce e occhi scuri a cercare quelli altrettanto profondi del capo. «non ho capito.» sincero lo era sempre stato, e non vedeva mezzo motivo per il quale non avrebbe dovuto esserlo anche in quel momento. «hai preso una botta in testa?» «più di una.» e colpi di mitra, maledizioni, fendenti, attacchi tramite potere degli special: aveva solo da chiedere, la lista era lunga. Sorrise, Benjamin. «allora sarò più diretto: ti ho osservato molto, ho raccolto diversi pareri professionali, ho ascoltato i pazienti; ho pensato di chiederti di prendere il posto di responsabile del piano in cui già lavori.»
    Allora.
    Innanzitutto: «non ho capito.» di nuovo, gli sembrava giusto ribadire il concetto.
    Poi: «e la dottoressa isley?» lo domandò per proforma, pensando a quanto in quel turno l’avesse cercata senza mai trovarla; a quanto, volente e nolente, avesse preso i suoi panni e avesse cercato di gestire il reparto come avrebbe fatto lei, in sua mancanza. Aveva pensato fosse stata licenziata, perché nessun giorno di ferie o di malattia avrebbero potuto impedirle di essere lì quel giorno. «morta.» uh. Rimase in silenzio per qualche istante, non sapendo bene cosa dire: forse avrebbe dovuto chiedere come fosse successo, se anche lei fosse andata in guerra o se quest’ultima fosse arrivata alle porte di Londra, o se invece le battaglie non c’entrassero nulla. «ci sono medici molto più indicati per questo ruolo.» commentò invece, serio. «indubbiamente.» e allora perché ci sono io, qui? «con molta più esperienza di te, chi lo può negare.» e quindi? Irriverente, Kiel lo era sempre stato; non al punto di fare muso duro ad un proprio superiore, però. «nessuno che ne abbia l’intenzione, di questi tempi.» «ah –» non concluse il pensiero, quello che premeva sulle labbra: ah, quindi non sono stato la prima scelta. Deludente, irrispettoso. «e nessuno che io abbia visto tornare dopo una guerra e riuscire a dirigere per mezza giornata un reparto come se ne valesse della propria vita.» perché ne è valsa della mia vita, ma non aggiunse nemmeno questo dettaglio. Annuì soltanto. «allora, prenditi qualche giorno di riposo e ricarica le pile: ci serve un responsabile che lo sia davvero.»
    Non gli diede nemmeno modo di rifiutare, congedandolo.
    Non che volesse farlo.

    Poggiò le spalle contro la porta di casa, facendo cadere a terra il borsone.
    Ferito, confuso, esausto, ma vivo.
    Felice, addirittura – ed un po’ in colpa per esserlo, considerata la distruzione del mondo intero alla quale aveva preso parte, nonché tutte le persone che erano dovute morire per metterlo nella condizione di dimostrare al mondo quanto valesse. Si lasciò scivolare a terra, lanciando uno sguardo distratto al telefono: un po’ per vedere l’ora, e pensare da quante ore fosse sveglio e quanto si meritasse di andare in coma fino a quando non fossero finiti i giorni di riposo concessigli; un po’ per controllare se ci fossero nuovi messaggi che potessero assicurargli che i suoi amici fossero sani e salvi.
    Sarebbe volentieri rimasto a dormire lì, se solo il citofono non avesse suonato. Sorrise, passandosi una mano sul volto e domandandosi se potesse essere un’opzione ignorare il trillo del campanello.
    La risposta era .
    Sospirò, raccogliendo tutte le forze che gli erano rimaste – poche, veramente poche – per alzarsi ed aprire la porta. Aveva bisogno di riposare, vero; ma aveva ancor più bisogno di vedere qualcuno che non fosse un soldato, un dottore, un infermiere, un cadavere.
    «bash?» osservò il ragazzo, i lividi ed il sangue pesto sul volto, e tra le maledizioni a lanciargli perché ne aveva avuto sinceramente abbastanza di curare persone, quella notte, non poté impedirsi d’essere contento di sapere fosse vivo – di vederlo lì, seppure malconcio. Avrebbe preferito trovarlo come l’aveva lasciato l’ultima volta, sotto coperte sottili che non servivano a nascondere niente a nessuno; sapeva accontentarsi. Gli fece spazio per entrare, un cenno col capo alla casa che già conosceva ed un invito a mettersi dove desiderasse. Raggiunse – si trascinò verso – il frigo, vuoto come lo aveva abbandonato un mese e mezzo prima; dunque, la dispensa ove scovò una bottiglia di rum ancora integra: la stappò, e ne bevve un sorso. Non era particolarmente avvezzo agli alcolici, Kiel Idowu-Kane, ma sentiva che quello fosse uno di quei “momenti del bisogno” in cui era necessario mandare giù un po’ di distillato di canna da zucchero per sopravvivere. La portò con sé, tornando dal Baker. «perdonami, non ho fatto la spesa.» sollevò l’angolo delle labbra. «chi hai fatto incazzare?»
    kiel
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    Fu la voce, piuttosto che il rumore della serratura che scattava e dei cardini che ruotavano per far aprire l'uscio, a destare lo special dai suoi pensieri. O, per meglio dire, dallo stato confusionale in cui era ricaduto una volta scemata l'adrenalina che lo aveva spinto fino alla porta del guaritore.
    «bash?»
    Il ragazzo in questione battè le palpebre un paio di volte, lo sguardo a vagare sui lineamenti familiari del Kane, pur senza riconoscerli del tutto; l'idea che l'altro potesse non essere in casa non l'aveva nemmeno sfiorato, ma ora che se lo trovava di fronte reputava davvero una fortuna che avesse aperto. Annuì, pur sapendo razionalmente che non servisse una conferma. Erano molte le cose che Bash razionalmente sapeva, ma non tutte tornavano alla memoria in quel particolare frangente.
    Quando Kiel gli fece cenno di entrare, l'altro lo seguì all'interno, inciampando più che camminando, mosso da fili invisbili che governavano il suo corpo meglio di quanto non riuscisse a fare la sua mente. Si addentrò a fatica lungo il corridoio, le mani a cercare involontariamente un appiglio ovunque fosse possibile, per rimanere dritto, e macchiando le superfici con il sangue raccolto dalle ferite; avrebbe chiesto scusa a Kiel, e si sarebbe offerto di dare una pulita, se solo se ne fosse reso conto. Ed invece, a malapena era presente a se stesso.
    Registrava i dintorni e sapeva esattamente dove fosse, ma se gli avessero chiesto come ci fosse arrivato, non avrebbe saputo rispondere. C'erano continui e fastidiosissimi buchi neri nella sua memoria, che mangiavano i ricordi tra il momento in cui aveva riaperto gli occhi in quel vicolo puzzolente, e quello in cui Kiel Idowu-Kane aveva aperto la porta di casa sua.
    Un attimo prima attraversava l'uscio, quello dopo crollava sul divano dell'ex corvonero, testa reclinata all'indietro, e mani a premere sugli occhi, sulle tempie, sui capelli corti. Non era sua intenzione chiudere gli occhi, ma non voleva nemmeno tenerli aperti; senza rendersene conto, cedette al canto da sirena della stanchezza, respiri affannati a scivolare via dalle labbra appena dischiuse.
    «perdonami, non ho fatto la spesa.»
    Quelle parole lo destarono, di soprassalto, e Bash si ritrovò costretto per l'ennesima volta in chissà quanto tempo a contare i battiti e a far rimbalzare lo sguardo stanco su ogni superficie che fosse a portata di mano, rendendosi conto che fossero familiari, ma non abbastanza: la risposta al dove sono? arrivò con qualche istante di ritardo, seguita dalla spiacevole consapevolezza di non avere alcuna idea di come ci fosse arrivato, a casa di Kiel — un po' come pandi che torna ubriaca dal compleanno di saralessia e non si ricorda dove ha attraversato, né il tragitto per casa, ed è un miracolo sia ancora viva per raccontarlo.
    Proprio come pandi la mattina dopo, dunque, anche Bash rimase in silenzio a fissare il vuoto per più minuti di quanto fosse lecito, provando a ricostruire un percorso a cui mancavano troppi pezzi per poter essere coerente; ricordava il ring, ricordava di aver scommesso i suoi stessi soldi (e la sua stessa pelle) sul cavallo favorito, e di aver poi riaperto gli occhi in una traversa abbandonata da Dio e da ogni essere umano sulla faccia della terra.
    Quei pochi che non erano morti per la guerra, comunque.
    Tutto il resto era un blob informe di immagini vaghe, alcune troppo saturate e altre in banco e nero; non valeva la pena ingigantire il mal di testa, già padrone di ogni sofferenza, per cercare di ricordare più di quel poco che sovveniva in maniera naturale.
    «chi hai fatto incazzare?»
    Nessuna risposta da parte di Bash, non per il momento comunque. Era difficile spiegare i continui lividi e le perenni ferite che adornavano una tela pallida ma mai intonsa, Bash aveva persino perso ogni interesse a raccontare le storie sempre diverse, ma troppo simili tra loro, dietro i segni che lo marchiavano quasi quotidianamente; ma era ancora più difficile spiegare perché ne avesse così bisogno, perché le cercasse tutte disperatamente, dalla prima all'ultima. Come un qualsiasi altro essere umano affetto da una dipendenza, anche il Baker era vittima allo stesso tempo del bisogno viscerale e della vergogna che anche la sua si portava dietro.
    Allora preferì rimanere in silenzio, allungando una mano per ricevere in cambio la bottiglia ancora piena, sulle labbra spaccate un «non hai qualcosa di più forte?» d'obbligo — non voleva miracolosa medicine o un incantesimo che smorzasse il dolore, o la sensazione di torpore per la quale s'era sbattuto così tanto, altrimenti avrebbe significato faticare per nulla. Ma di qualcosa aveva bisogno, e dubitava fortemente di poter reggere qualsiasi altra cosa o attività, in quel momento, nonostante fosse abituato a lavorare anche nelle condizioni più critiche. Non era andato da Kiel per quello, non quel giorno.
    Alzò lo sguardo su di lui, a quel punto, osservandolo come se lo vedesse per la prima volta, pur faticando ancora a metterlo a fuoco ma riconoscendo comunque la stanchezza sul volto del maggiore, i segni sulla pelle d'ebano e qualcosa di spezzato nello sguardo profondo. «dove sei stato?» perché Kiel raramente faceva trascorrere più di un paio di settimane tra un loro incontro e l'altro, e invece erano passati mesi da quando s'erano visti l'ultima volta. In un primo momento Bash aveva immaginato che, con una cazzo di guerra in corso, le persone sarebbero state meno nell'umore per andare a scopare con perfetti sconosciuti — e invece gli affari, al Lilum, non erano minimamente calati. Era solo la presenza del Kane ad essersi fatta più rara, fino a sparire del tutto. Poteva capirlo, infondo: chissà quanta gente era finita al San Mungo ogni giorno, per quasi due mesi, chi in condizioni critiche, chi in un sacco nero; Kiel doveva aver avuto le mani piene.
    O così preferiva convincersi la mente stanca dello special, perché l'idea che l'altro avesse appena compiuto un viaggio di andata e ritorno dall'inferno, non risuciva nemmeno a sfiorarlo.
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    Guardò intensamente il ragazzo, soffermandosi su ogni forma e colore a cozzare con la pelle chiara del Baker. Studiandoli quei segni, la bottiglia di rum stretta nel pugno e allungata tra i due nell’attesa di venir svuotata, con l’interesse scientifico di un medico che si trovava di fronte l’ennesimo paziente da trattare, e con quello un po’ più personale, intimo, di un ventiduenne che davanti a sé non poteva vedere semplicemente un altro estraneo malconcio abbandonato su un lettino d’ospedale – che quel viso e quel corpo, lui, l’aveva già ammirato colorato come un quadro di Pollock, e mai aveva osato chiedere più di quanto non fosse strettamente necessario: d’altronde non spettava a lui indagare i passatempi più o meno ortodossi del ballerino, o tantomeno poteva dirsi nella posizione di giudicarli. Ciascuno combatteva i propri demoni come meglio riteneva e peggio si augurava, e Kiel era il primo a non aver mai saputo trovare un modo sano per placare quelli a stringergli la gola con artigli affilati e famelici: sempre troppo nervoso, costantemente in bilico come un funambolo ubriaco sul burrone di una rabbia che non sapeva gestire come avrebbe desiderato; non se li andava di certo a cercare quei lividi e quel sangue, ma osservando quelli di Bash non poteva non pensare che, tutto sommato, tanto diversi da quelli contro cui aveva più volte premuto buste di carne congelata non lo fossero affatto.
    Di base, non era un suo problema chi lo avesse ridotto in quella maniera, né il come o il perché. Non smetteva d’essere un medico una volta tolto il camice e lasciato il San Mungo: aveva deciso di aiutare e guarire le persone a prescindere da tutto – dalle loro storie, dalle loro ideologie, dai loro sbagli e dai loro crimini –, e dovunque ce ne fosse stato il bisogno; era per questo che aveva deciso di partire per la guerra, perlopiù, oltre ad un buonsenso che l’aveva portato a pentirsi delle proprie scelte più e più volte; non era andata come aveva previsto, e doveva immaginarlo che l’unica volta che aveva deciso d’essere ottimista il karma l’avrebbe punito severamente.
    Diventava affar suo, tuttavia, quando il pestato di turno era una persona che aveva iniziato a conoscere intimamente – più nel senso letterale del termine, che non in quello metaforico –, e che aveva di propria spontanea volontà scelto di bussare alla sua porta, di trascinarsi fino all’indirizzo che il Kane aveva condiviso con pochi altri, e di gettarsi sul suo divano insozzando mezzo appartamento di tracce scarlatte. Le stesse a premere appiccicose sull’avambraccio sporto a reggere il collo della bottiglia, impresse quando le pareti non erano state sufficienti a sorreggere il passo incerto ed aveva dovuto evitare che cadesse a terra e si spaccasse la testa.
    Non si aspettava comunque una risposta, dubitava avesse anche solo capito la domanda, ma non gli sarebbe dispiaciuto averne una; cosa ci avrebbe fatto, non lo sapeva nemmeno Kiel – pura curiosità, oltre al cercare di tenerlo sveglio.
    «non hai qualcosa di più forte?» arcuò un sopracciglio, sedendosi al suo fianco sullo stesso divano. Già era tanto avesse quel rum in casa sua, l’ex Corvonero; figurarsi se poteva avere un alcolico più potente di quello. «al massimo una botta in testa,» sorrise appena, appellando con un blando gesto della bacchetta il kit di primo soccorso che teneva nel bagno – pregando che, nella stanchezza con cui aveva pensato quell’Accio, l’incantesimo non decidesse di distruggergli mezza casa; decise comunque di non voltarsi ad appurare i danni, quando la scatoletta piombò sul tavolino davanti al divano. «ma forse ne hai già prese anche troppe.»
    Gli prese il volto tra le dita della mancina, cauto e leggero, premendo appena su quei lembi di pelle che non avevano tumefazioni e tagli ancora aperti per piegargli il capo in modo da poterlo guardare negli occhi, e valutare meglio quelle ferite per cui – immaginava: non aveva proferito parola da quando aveva varcato l’uscio, se non per chiedere qualcosa di più forte – era andato a trovarlo nel cuore della notte. Ed altrettanto lieve, sfiorò con ovatta ed acqua ossigenata la carne scoperta: rimedi babbani per i quali doveva zittire, con «shh» sussurrati ad un palmo di distanza dalle sue labbra, le repliche poco garbate ogni volta che il disinfettante bruciava sulla pelle, ma che preferiva alla magia in momenti come quello. Una delle poche cose che gli era rimasta della propria infanzia, dove ogni livido o ginocchio sbucciato veniva guarito con i più impensabili dei rimedi naturali, e che nella spossatezza in cui riversava poteva fare meno danni di un incantesimo lanciato con la mente pesante e le palpebre che già avevano pensato di chiudersi un’ora addietro.
    «dove sei stato?» così improvviso, inaspettato, che per un istante soltanto la mano a tenere il batuffolo di cotone aveva tremato, la mascella si era serrata e la curva delle labbra carnose appianata. Non aveva pensato che potesse chiedergli una cosa del genere, perché non aveva alcun motivo per farlo. Dubitava che senza le sue capatine, il Lilum incassasse di meno – magari era una strategia di marketing promossa da Svetlana, quella di andare a ricercare le persone che in quel mese di guerra non si erano fatte vive e depennare dalla lista dei clienti più fidati quelli che non lo avrebbero mai più fatto –; così come non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello che potesse notare l’assenza di una singola persona tra le tante che presumibilmente sceglievano la sua compagnia.
    Tanto improvviso ed inaspettato, che premette sulle sue di ferite, ancora sanguinanti e purulente. Sarebbe stato più facile rispondere alla domanda opposta: dove non era stato, Kiel?
    Dove avrebbe dovuto essere: a casa sua, al campo di Quidditch con i suoi amici, al San Mungo a fare il suo lavoro meglio di come non aveva fatto in quei quaranta maledetti giorni, nel locale a luci rosse di Diagon Alley a nascondersi tra le sue gambe e le lenzuola di un privé fingendo che il mondo non stesse per collassare su sé stesso; dalla parte giusta.
    «perché,» decise, dopo qualche istante di silenzio in cui si era premurato soltanto di pulire il viso di Bash per quanto possibile, di non rispondere affatto: non era il tipo in grado di aprirsi tanto facilmente, e non lo avrebbe fatto di certo in quel momento e con quella precisa curiosità. Non aveva idea di come dirglielo, di come dirselo, dove fosse stato – e avrebbe voluto fosse più facile, dire con assoluta nonchalance che era stato in guerra. «hai sentito la mia mancanza?» una cosa di cui, in tutta onestà, dubitava fortemente.
    Ma se così fosse stato, almeno si sarebbe sentito meno solo nell’aver ricercato nel ricordo dei loro incontri un pensiero felice in cui rintanarsi la notte.
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    Bash aveva distolto lo sguardo solo per un secondo, portandolo su qualcosa alle spalle del guaritore che in realtà non vedeva davvero, piuttosto perso ancora una volta in pensieri sconclusionati e confusi, di cui riprese il filo solo quando sentì Kiel parlare; dovette concentrarsi per comprendere la domanda, per mettere le parole nel giusto ordine e per trovare dentro di sé una risposta.
    Alla fine, aveva scelto di non darne alcuna; al Kane non sarebbe importato, era abituato ai mutismi selettivi di Bash e non sarebbe stato di certo strano, o lontano dalla sua natura, quell’evadere una risposta scomoda e una verità biasimevole.
    Chiese, invece, qualcosa di più forte – ma non sapeva nemmeno lui cosa volesse, cosa necessitasse, e lasciò dunque che la (non proprio) battuta del maggiore scivolasse nel silenzio tra loro, annuendo appena.
    «ma forse ne hai già prese anche troppe.»
    E comunque non abbastanza, aggiunse Bash mentalmente, prima di rendersi conto - finalmente - delle intenzioni di Kiel.
    Il primo istinto fu quello di bloccare la mano del Kane, stringendo le dita pallide della mancina intorno al polso del maggiore, applicando abbastanza pressione affinché mollasse la presa; essere toccato da mani sconosciute non lo preoccupava, non lo infastidiva, poiché paradossalmente erano le mani di chi conosceva ad aver fatto più danni di qualsiasi altra cosa - mani che avrebbero dovuto accarezzarlo, e che invece l'avevano sottoposto a dolori che Bash provava in tutti i modi a lasciarsi indietro, da anni, senza successo. Le mani di una madre che gli aveva lasciato addosso molte cicatrici, alcune visibili, tante altre nascoste all’occhio umano.
    Con un battito di ciglia, e abbassando lo sguardo sulle proprie gambe, Bash allentò la presa sul polso di Kiel; non poteva ridurre la linea dura delle labbra, o la posa rigida della schiena, ma poteva almeno cercare di non comportarsi da stronzo. Non con Kiel. Il problema era che ciò che lo infastidiva davvero, ciò che gli faceva serrare la mascella e indurire lo sguardo, era l'avere qualcuno che testimoniasse le sue debolezze, qualcuno che si prendesse cura di lui, che sottolineasse la fragilità di un corpo martoriato e portato allo stremo ancora, e ancora, e ancora.
    Era il tocco leggero di Kiel, e le dita delicate, e l'accortezza con cui passava il batuffolo di ovatta sulle ferite ancora aperte, a creare un problema; non era così che al Baker piaceva farsi vedere. Non c’era abituato. Nel suo mondo, quel genere di fragilità veniva sempre punito, prima o poi, o peggio: usato contro di lui. Non aveva mai lasciato che quei lividi e quei tagli fossero nient’altro se non un’armatura danneggiata e usurata, proprio come lui, e non vedeva perché iniziare proprio ora.
    Ma non aveva le forze per contrastare le attenzioni del Kane, non importava quanto volesse: si sentiva come una marionetta con i fili tagliati, incapace di alzare anche solo un braccio, o il viso, senza l’aiuto dell’altro. Il massimo che potesse fare era dissociarsi (seppur involontariamente) ed essere riportato alla realtà nel modo più brusco possibile, quando il disinfettante bruciava le ferite e lo costringeva a smorfie di dolore, e versi poco dignitosi.
    «shh»
    Fu quello a risvegliarlo, a riportarlo per l’ennesima volta - anche se per poco - nel presente; nel soggiorno silenzioso di Kiel, seduto sul suo divano (ora macchiato di sangue che Bash non si preoccupò di offrirsi per lavare via), il viso dell'ex corvonero pericolosamente vicino al suo.
    Non era la prima volta che si trovavano così, ma solitamente c'erano meno strati di vestiti ad occupare lo spazio tra loro – e, paradossalmente, non un filo di imbarazzo ad appesantire l’atmosfera. Bash aveva smesso di vergognarsi anni e anni prima, scendendo a patti con la consapevolezza che quello fosse un lavoro come un altro, e che lui avesse disperatamente bisogno di soldi al punto da non potersi permettere di arricciare il naso o scegliere di non farlo.
    Non sapeva quali fossero i pensieri, o le motivazioni, di Kiel, ma onestamente non gli interessava.
    Quella sera (notte? mattina?), però, a rendere tutto meno facile, oltre agli abiti, c'erano anche dei silenzi pesanti e sguardi troppo indiscreti, a cercare qualcosa che né Bash né Kiel avrebbero detto, ciascuno per le proprie ragioni. Una consapevolezza che non fermò comunque il ballerino dal chiedere all'altro dove fosse stato, in un momento in cui la stanchezza ebbe la meglio sul buon senso; non aveva dei filtri per rendersi conto cosa fosse giusto (lecito) chiedere oppure no, ma se avesse potuto, avrebbe evitato di aprire bocca.
    Dal silenzio di Kiel, ebbe la certezza di aver posto la domanda sbagliata; ma, ancora una volta, non era in grado di afferrare i margini confusi di quella coscienza che scivolava via come olio tra le dita, alla quale Bash, testardo come un mulo, cercava comunque di aggrapparsi per rimanere, se non vigile e attento, quanto meno presente. Era difficile, però, quando tutto quello che voleva fare era chiudere gli occhi e abbandonarsi all'oblio che la stanchezza, e lo scontro, avevano portato con sé.
    Il suo richiamo alla realtà, la sua sola ancora, rimaneva il bruciore del disinfettante che veniva a contatto con la pelle graffiata; solo in quel modo sapeva di essere ancora sveglio, e di non star sognando. Alla fine si convinse che l silenzio di Kiel, tutto sommato, poteva accettarlo e capirlo: nemmeno lui avrebbe voluto dare risposte, a parti invertite. Perciò arrivò inaspettata la risposta del guaritore, quando ormai Bash non ci contava più: si era quasi convinto che non gli importasse affatto sapere cosa Kiel avesse fatto della su vita per un mese e mezzo.
    «perché, hai sentito la mia mancanza?»
    Bash riservò a Kiel un leggero battito di ciglia, lo spazio interminabile di un secondo che sembrò durare una vita, e, quando aprì la bocca, dalle sue labbra uscì solo la verità: «sì.»
    Diretto, conciso, sfacciato.
    Sincero.
    Non era qualcosa a cui Bash era abituato, non c'era mai stato quel genere di onestà nella sua vita, nella sua natura, ma nelle condizioni in cui verteva quella sera non poteva fare a meno di cedere all'obiettività della cosa. Kiel gli era mancato — vuoi perché era un cliente fisso, vuoi perché era uno dei pochi non così egoista da lasciarlo insoddisfatto durante i loro incontri, vuoi perché, col tempo, aveva iniziato a cercare per abitudine lo sguardo scuro del Kane sperando di vederlo nella folla di clienti del Lilum.
    C'erano un sacco di motivi, fin troppi, e in quel momento premevano tutti gli uni contro gli altri nella scatola cranica del Baker, contribuendo ad un mal di testa già lancinante. Non voleva pensarci.
    Sostenne invece lo sguardo dell'altro, sfidandolo a commentare quella risposta involontaria ma necessaria, quasi istigandolo a dimostrare di essersi sbagliato — perché cos'era, Sebastian Baker, se non sempre e comunque sbagliato, fuori luogo, e inopportuno? Cos'era?
    Sulle labbra premevano altre parole scomode, quel “non hai risposto alla domanda” che l'avrebbe dipinto come ipocrita, e alle quali cercò di resistere, serrandole in una linea stretta e dura. «quei soldi mi avrebbero fatto comodo» sussurrò, mentendo solo in parte: non era una bugia, ogni falce e ogni zellino racimolato erano fondamentali per lui, ma non era nemmeno completamente onesto. Né con se stesso, né con il Kane.
    Era solo ciò che poteva permettersi di essere, di fronte a Kiel, e nelle sue attuali condizioni.
    «non sono qui per i soldi» Una precisazione inutile, ma anche necessaria, che trovò la strada verso la libertà prima Bash potesse rendersene conto. Sperava che Kiel non gli chiedesse, allora, per quale motivo fosse lì: Bash non era certo di avere una risposta.
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    Sarebbe stato stupido, da parte di Kiel, non aspettarsi le dita del minore a cercare invano di bloccare la sua mano, premendo sulla carne con una forza che era certo desiderasse avere e ch’eppure non riusciva a calibrare come avrebbe voluto – per forza di cose, immaginava: già era tanto non fosse collassato contro la porta d’ingresso nell’attesa che questa venisse aperta.
    Non perché conosceva così bene Bash da sapere quali fossero i suoi meccanismi di difesa, né tantomeno perché lui stesso avrebbe combattuto con le unghie e con i denti se si fosse ritrovato seduto al suo posto piuttosto che farsi mettere le mani addosso da chicchessia. Era semplicemente così che funzionava il loro mondo – era stato così da sempre, e non sarebbe stato il conflitto mondiale appena conclusosi a modificare la reticenza degli esseri umani nei confronti del prossimo e delle sue cure, chiunque egli fosse, prendendo a ragion veduta una carezza come la promessa di un pugnale a tranciare la carne nei suoi punti più morbidi e deboli: avrebbe solo, e senza dubbio alcuno, amplificato quella diffidenza che dilagava dalla notte dei tempi. Già al San Mungo, che in quanto ospedale avrebbe dovuto essere considerato dall’intera popolazione come un posto sicuro nel quale lasciarsi accudire, la totale mancanza di fiducia verso i Guaritori e i Medimaghi era osservabile quotidianamente; e non lasciavano la sua mente le reminiscenze di tutte le volte che gli studenti di Hogwarts avevano preferito leccarsi le ferite da soli, o lasciare che continuassero a sanguinare nella certezza che ad un certo punto avrebbero smesso di farlo di propria spontanea volontà, piuttosto che rivolgersi all’Infermeria del Castello.
    E ricordava perfettamente, impresso nella memoria corrotta e sulla pelle d’ebano, ogni singolo sorriso sporco di miele al quale aveva stupidamente creduto, prima che potesse sciogliersi e rivelare quel che era nella realtà dei fatti: il marchio incandescente di un mattatoio nel quale aveva sempre saputo di vivere, e da cui non aveva mai trovato una via di fuga.
    Non biasimava il suo istinto ferino, quel sentirsi una bestia braccata da chissà quanto tempo ed incapace di far altro se non ringhiare e mostrare i denti a ciascuno sprovveduto che osava avvicinarsi troppo. Lo condivideva, ma non era certo di riuscire a comprenderlo in quel frangente: se non voleva che qualcuno si prendesse carico di quel sangue, perché era andato da lui? Dubitava non avesse un posto tutto suo dove andar a fare riposare le membra maltrattate, e ancor di più che avesse la baldanza di dedicarsi al piacere in quelle condizioni: molte volte aveva dovuto fingere di non vedere i lividi sulla sua pelle, ed osservare la tenacia con cui lo stesso ballerino li ignorava, ma quella notte gli sembrava fin troppo stremato per qualsiasi cosa.
    Avrebbe voluto fargli molte domande in merito, ma avevano appena appurato quanto nessuno dei due avesse voglia di parlare – di esporsi; si limitò a sorridergli morbido, il leggero accenno dell'angolo delle labbra a sollevarsi in alto, quando mollò la presa sul polso e lo lasciò lavorare.
    Per questo motivo, e per tanti altri che in quell'infimo lasso di tempo il Kane non sarebbe stato minimamente in grado di processare, quel , tanto deciso e schietto, spontaneo, lo lasciò interdetto. Quella risposta non l'aveva assolutamente presa in considerazione, in nessuno degli scenari che la sua mente aveva creato nei secondi che si erano accavallati tra la domanda scivolata sardonica a riempire il silenzio, e gli occhi scuri ad affermare con tutta la semplicità di quel mondo che gli fosse mancato.
    Tra sé e sé, aveva decretato che la singola sillaba sparatogli addosso non potesse essere altro che il frutto di stanchezza e troppo sangue perso già prima di lasciarne tracce in casa sua, oltre ad un probabile gran quantitativo di alcol ingerito nelle ore precedenti: niente che potesse valere qualcosa, a dirla tutta. E se l'avesse fatto, se quel "sì" avesse contato più del semplice responso di un trauma cranico a premere sul cervello del ballerino ed a fargli sputare monosillabi privi e pregni di significato, sarebbe stato in maniera del tutto pragmatica – perché di essere un ottimo amante Kiel ne era perfettamente consapevole, ed oltre a quello una presenza fissa che poteva assicurare al Baker una certezza in una realtà che tendeva ad annullarne una dopo l'altra.
    Razionalmente, sapeva che provare una qual sorta di felicità in quel contesto, e ancor di più in un momento simile, non avesse senso; eppure gli fu impossibile mantenere ulteriormente il contatto visivo. Si ritrovò costretto ad abbassare lo sguardo sulle proprie mani, concentrandosi sui tagli aperti piuttosto che su quelli che avrebbero potuto scavare un po' più a fondo. Era abbastanza lucido e intelligente da non cedere alla tentazione di dirgli che per lui era stato lo stesso, nonostante fosse la più pura e carnale delle verità: forse perché era diventato un piacevole vizio che potesse permettersi, una costante che sapeva avrebbe sempre trovato al solito posto e che riusciva a farlo stare bene come era stato poche altre volte in vita sua, ma in quel mese e mezzo l'impossibilità di incontrarlo si era fatta sentire, così come la consapevolezza che rischiasse di non poterlo più fare e basta. Non che avesse fatto voto di castità: aveva dei bisogni da soddisfare, molte tensioni da sciogliere ed infinite immagini da nascondere nella carne e nel sudore di qualcun altro; ma per quanto non fosse rimasto deluso di quel che la guerra gli aveva concesso, c'era sempre stato qualcosa che era mancato.
    «quei soldi mi avrebbero fatto comodo.» Kiel sollevò di nuovo lo sguardo, occhi di cioccolato a sciogliersi in quelli altrettanto profondi del ballerino. Non gli chiese di cosa stesse parlando, perché era stato abbastanza stupido da aver capito soltanto in quell'istante che cosa era successo – in effetti, che si fosse fatto pestare per bene in un qualche incontro clandestino non lo stupiva.
    «non sono qui per i soldi.» anche perché avrebbe ricevuto un pugno di mosche in cambio di quella richiesta. Che non sguazzasse nell'oro non era mai stato un segreto: il risarcimento del Wizengamot gli aveva permesso di rifarsi una vita, di ricominciare lontano dai Kane e da tutto ciò che (salva Dylan) avevano rappresentato, ma non molto più di quello – e per quanto non lo avesse mai detto apertamente, dubitava l'altro non si fosse mai accorto di quanto parsimonioso fosse sulle proprie spese al Lilum.
    «non sei qui per farti medicare,» finì di disinfettare la pelle lesa con un ultimo batuffolo d'ovatta, marcando con quel gesto delicato quanto poco gliene fregasse se non voleva che qualcuno si prendesse cura di lui. «non sei qui per i soldi,» citò testualmente, rilassandosi contro il divano con il braccio a premere sulla spalliera ed il torso rivolto verso Bash. Non gli chiese per cosa gli avrebbero fatto comodo: dubitava gli avrebbe risposto, non erano affari suoi. «passavi di qui per caso?» perché un'altra cosa di cui si poteva dire abbastanza sicuro, era che non fosse in condizioni per fare altro, né glielo avrebbe chiesto: voleva evitare gli morisse sotto le lenzuola. Afferrò la bottiglia di rum dalle sue dita, tirando gli angoli della bocca nella parvenza di un sorriso stanco, e ne bevve un sorso – ah, Dio Cristo Madonna, non era davvero abituato a quella roba.
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    «non sei qui per farti medicare,»
    Eppure, l’aveva comunque lasciato fare, no? Il bruciore sordo del disinfettante sulle ferite appena trattate ne era una prova concreta e sufficiente; no, non era andato lì per farsi medicare, ma aveva comunque permesso al Kane di appellare il suo kit d’emergenza e lavare via con un batuffolo di cotone almeno parte del sangue che si era seccato intorno ai tagli e alle lacerazioni della pelle. Quindi insomma.
    Non voleva nemmeno essere costretto a fare quella vita, Bash, eppure.
    Diciamo che non avesse mai avuto molta voce in capitolo su ciò che gli aspettava, o su cosa fosse necessario fare per sopravvivere. Perché, alla fine della fiera, era sempre lì che si andava a parare no? Sopravvivenza. Alcuni erano abbastanza fortunati da riuscire persino a godersela, convincendosi di star vivendo; altri, invece, potevano sperare al massimo di arrivare a vedere il giorno successivo, strappando con le unghie e con i denti una fottuta ora in più a quell’esistenza. Bash rientrava in quella seconda categoria; e per certi versi, pure il Kane. Lo sapevano entrambi.
    Al quest’ultimo, per inciso, non rispose: si limitò ad osservarlo con occhi stanchi mentre metteva via l’ultimo batuffolo di ovatta, e prendeva nota del lavoro fatto — e di quello ancora più profondo fatto da qualcun altro. Qualcuno a cui Bash aveva lasciato la possibilità di farlo, vero, ma quello non era un problema del guaritore.
    «non sei qui per i soldi,»
    No, non credeva di potersi permettere una visita a domicilio nelle sue condizioni; un vero peccato, perché gli avrebbero fatto davvero, davvero comodo quei soldi, ma no: non era lì per i soldi. Scuotere la testa per confermare le parole di Kiel sarebbe stato superfluo, in quanto l’altro stava a malapena ripetendo quelle dette dallo stesso special, perciò fu risparmiò quel briciolo di forze che avrebbe richiesto un’azione del genere, conservandolo per un momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno.
    Perché poteva anche essere lontano anni luce dalla realtà, in quel momento, anche il più flebile dei suoi a rimbombare nella testa, gli occhi che bruciavano per le luci e per la stanchezza, e le ossa che chiedevano solo di poter riposare per qualche giorno, o qualche mese — ma a dispetto di tutto, Bash era lì. Quel suo essere ancora in piedi non aveva nulla a che fare con la resilienza, quanto più con la testardaggine e l’ostinatezza, convinto di non aver ancora finito i giorni a sua disposizione (purtroppo, o per fortuna – dipendeva sempre dai punti di vista) e di dover quindi stringere i denti ancora per un po’. E, nel suo piccolo, era pronto ad affrontare la domanda che sentiva stava per arrivare: e allora perché sei qui.
    Che fosse giunta con parole diverse, con un tono di stanca curiosità a colorarne gli spazi vuoti, non aveva importanza: era il momento di serrare i ranghi, chiudersi a riccio, e limitare i danni fatti fino a quel momento.
    «cambierebbe qualcosa se ti dicessi di sì?» Se avesse mentito, se avesse scelto per entrambi la via più comoda? Probabilmente no, non sarebbe cambiato nulla per nessuno dei due. L’alternativa era confessargli che non avesse avuto scelta, che la sua mente il suo corpo avessero agito prima ancora che potesse comprendere — e che non avrebbe comunque potuto recarsi in ospedale; non voleva, non voleva!, dichiararsi, neppure ora che per “quelli come lui” c’erano tutta una serie di benefit e vantaggi che venivano forniti insieme all’assistenza sanitaria; non voleva essere lo stronzo di nessuno, di certo non di un governo appena capovolto e ancora instabile.
    L’alternativa all’alternativa era ammettere con Kiel di non sapere perché fosse arrivato fino alla sua porta: aveva bisogno di un amico? Di un confidente? No, forse aveva sperato solo di farsi aprire la porta da qualcuno che non facesse domande, e guardate com’era stato ripagato.
    Si riprese la bottiglia, e bagnò le labbra con il liquido ambrato. «magari ero davvero in zona» infondo Kiel che ne poteva sapere, no? Quella poteva non essere una bugia, nonostante ne lasciasse l’amaro sapore a permeare sulla lingua anche dopo esser stata sputata via. «magari casa tua era la più vicina» tenendo in considerazione che Bash non potesse, per ovvi motivi, smaterializzarsi, anche quella avrebbe potuto benissimo essere una (mezza) verità. «magari mi serviva solo una bottiglia e un po’ di garze.» si strinse nelle spalle, continuando ad elencare le infinite possibilità che avrebbero spiegato la sua presenza lì. «magari se non fossi stato in casa» di nuovo, o ancora, difficile dirlo con esattezza, «sarei entrato comunque per rubarti entrambi» azzardò un sorriso, una smorfia che colorò a malapena la piega delle labbra, senza arrivare allo sguardo, «magari avrebbe lasciato che fosse Kiel a riempire i buchi di quella conversazione che non andava assolutamente da nessuna parte, infondo nemmeno lui aveva voluto rispondere alle domande di Bash. E okay, era stato il ballerino a piombare a casa del guaritore e non viceversa, forse qualche risposta la doveva concedere davvero, ma dopo un mese e mezzo di silenzi, anche Kiel aveva qualcosa da concedere.
    Non che a Bash importasse qualcosa, figuriamoci.
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    «cambierebbe qualcosa se ti dicessi di sì?» strinse le labbra tra i denti ed arcuò le sopracciglia sulla fronte, iridi di cioccolato fisse a cercare le tonalità chiare di Bash, mentre la stanchezza – prima ancora dell’istinto e l’ilarità a dettare quella risata strozzata – lo fece sbuffare dal naso. Impercettibile e delicato, udibile in quella stanza solo perché il silenzio vi regnava sovrano, ma incapace, Kiel, di dargli un vero e proprio significato.
    Cambiare qualcosa presupponeva che ci fosse, di fatto e per pura logica, una situazione statica che potesse essere soggetta ad una rimescolanza di fattori lasciati immoti. Non aveva mai creduto, o anche solo pensato, che ci fosse un qualche tipo di circostanza a legare la propria vita con quella del ragazzo martoriato e abbandonato sul suo divano; se ci si impegnava un po’ di più, e se lasciava da parte cinismo e razionalità, allora poteva immaginare che tutte le volte che aveva pagato un extra per averlo più per sé che per il resto dei clienti, e quella capatina imprevista a casa sua, gettassero le basi per una relazione sociale senza un’etichetta. Ma guardando quest’ipotesi, studiandola e rendendola un’idea concreta, faceva fatica a vederla immobile – semmai, la sua completa assenza di forma la rendeva l’esatto opposto.
    Un caotico ammasso di sequenze che tendevano all’entropia: se fosse passato di lì per caso, Sebastian Baker, non sarebbe cambiato assolutamente nulla; credeva al destino tanto quanto credeva alla fatina dei denti, il Guaritore, e reputava più facile pensare che ovunque si fosse fatto pestare fosse davvero vicino a casa sua. Nient’altro che una simpatica coincidenza.
    «cambierebbe qualcosa se mi dicessi di no.» rispose, senza distogliere lo sguardo. Perché era vero, di stabile non c’era nulla nei due ragazzi – in quanto individui e non –, ma se avesse deciso consapevolmente di cercare il suo indirizzo, di trovarlo e di aspettare una risposta, la direzione verso cui tendeva il loro sistema avrebbe scelto un altro tipo di disordine, virando completamente la propria traiettoria.
    Era sicuro di molte cose, Kiel Kane, e in misura maggiore dei suoi obiettivi. Davanti a quella possibilità, soprattutto in quel preciso momento della sua vita, tuttavia, non aveva una singola idea che fosse chiara – perché non sapeva cosa avrebbe potuto provare, se effettivamente il ballerino avesse risposto a quella domanda. L’unica certezza è che l’avrebbe spiazzato – così come era successo quando alla sua domanda, frutto d’ironia e sorpresa, gli aveva risposto che gli fosse mancato.
    Lo lasciò prendere la bottiglia, ascoltando in silenzio tutte le varie possibilità che avrebbero potuto portarlo a bussare alla sua porta, ritrovandosi a non riuscire a staccargli gli occhi di dosso. Non solo per una deformazione – professionale per l’altro, meno per lui –, perché gli veniva normale cercare il suo volto nelle camere poco illuminate del Lilum; un po’, ovvio, ma soprattutto per il motivo esattamente contrario. Al di fuori di quel locale, non l’aveva mai conosciuto, o anche soltanto incontrato: fino ad allora era rimasto limitato a quel contesto, e a fantasie recondite che gli facevano compagnia.
    Era strano, ed al contempo piacevole, averlo lì – vederlo in altre vesti, e preoccuparsi del sangue a macchiarle.
    «magari se non fossi stato in casa sarei entrato comunque per rubarti entrambi.» solo a quelle parole, spezzò il proprio silenzio. «magari sì,» sorrise appena, ricambiando la smorfia sul viso di lui. «se solo fossi in grado di tenerti in piedi.» perché faticava ad immaginarselo mentre forzava la serratura se vedeva il doppio di quelle esistenti, o a cercare garze ed alcol in una dimora che non era la sua.
    «magari
    Eh. Magari.
    Saggiò il vuoto lasciato da quell’ultima parola tra i denti, masticandolo e sentendolo incastrarsi tra le fauci mentre la piega sardonica si dissipava, un ultimo spasmo all’angolo della bocca prima di svanire del tutto.
    Magari gli era mancato davvero, perché il sentimento allora sarebbe stato reciproco.
    Magari a quella porta aveva bussato un’altra volta, o altre dieci, senza mai trovare una risposta.

    Poggiò completamente il dorso alla spalliera del divano e tirò le gambe sui cuscini, piedi ben piantati e ginocchia tra le braccia, lo sguardo scuro fisso laddove la parete dall’altra parte della stanza incontrava il soffitto. «sono stato un po’ in grecia,» incalzò, senza che gli venisse richiesto e senza alcuna intonazione – se non quel vago tremolio della voce, tenuto a bada da una forza di volontà che l’aveva sempre accompagnato, e gli aveva permesso di sopravvivere fino a quel giorno. «un po’ in polonia, ed in messico.» spinse la lingua sul palato a quell’ultima menzione, scuotendo tenue la testa: nella tragedia di quel mese, forse era stata la tappa che aveva preferito. «volevo aiutare, sai? in quanto guaritore intendo…» prima che potesse pensare se ne fosse andato in villeggiatura, gli diede modo di capire da solo dove fosse stato in quel periodo di assenza. Abbassò lo sguardo, e si concentrò sulle dita a tamburellare sui suoi stessi pantaloni. «volevo» fare la cosa giusta: quello sempre, ma era difficile dirlo ad alta voce quando nella guerra non c’era niente che riuscisse a reputare “giusto”. «fare del bene.» e rise. Rise delle sue stesse parole; lo fece senza che il suono potesse propagarsi al di fuori della cassa toracica ancora dolorante, arrivando agli occhi. «non è andata come avevo immaginato.» si inumidì le labbra, e solo a quel punto riuscì a tornare sul viso di Bash, dipingendo sul volto l’ombra di un mesto sorriso. Non disse che ci aveva guadagnato una promozione al San Mungo, perché vista così se ne vergognava soltanto, senza riuscire a gratificare tutto il duro lavoro che l’aveva portato a quel traguardo.
    «puoi restare qui se vuoi.» aveva un letto in più, o quel divano – o tanto spazio sul pavimento, come preferiva.
    Ti prego, resta qui se puoi.
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    Where the lonely go, where there's no way home
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    Bash Baker aveva fatto della filosofia del non affezionarsi mai a niente e nessuno un po’ la base di tutta la sua esistenza: mai una persona tenuta abbastanza vicina al cuore da considerarla importante e speciale, mai neppure un pesciolino rosso da accudire e da amare. Una vita solitaria, la sua, fatta perlopiù di contatti e numeri di emergenza da chiamare per chiedere – o riscuotere – un favore, ma niente cene di famiglia riuniti attorno alla tavola imbandita, né amanti con cui condividere ogni momento, bello o brutto che fosse. Aveva fatto affidamento sempre e solo su una persona, se stesso, e non aveva mai dato la possibilità a qualcun altro di fare altrettanto — di avvicinarlo, di stringerlo, di confortarlo e di rassicurarlo. Non lo aveva fatto sua madre, perché mai avrebbero dovuto aspettarselo da degli sconosciuti?
    La vita che Bash aveva deciso di vivere era una distaccata, sempre a due o tre passi da quella degli altri, mai abbastanza invadente da finire, anche solo per sbaglio, con il toccare l’esistenza altrui. Entrava a testa bassa nelle vite di chi pagava per passare con lui qualche ora, e allo stesso modo ne usciva; sempre un po’ meno suo, sempre un po’ più rotto, sempre un po’ più lasciato indietro, ad un mondo che non lo meritava e che non lo voleva. Ogni volta che accettava del denaro per concedere una parte di sé ai clienti, perdeva inevitabilmente qualcosa che, come sosteneva lui, non gli servisse comunque; cosa doveva farci, dopotutto, con un’anima, quando sentiva non gli fosse mai appartenuta sin dal principio?
    Ma con Kiel era diverso.
    Lo era sempre stato.
    Forse per deformazione professionale, o forse perché Bash si era lasciato cullare e illudere dai modi gentili del guaritore, ma in qualche modo, e senza fatica, il Kane era sempre riuscito a ridare un pizzico di qualcosa, a Bash, senza mai prendere nulla. Non se ne era accorto subito, il ballerino, ma solo gradualmente, con il tempo, quando rimaneva solo dopo ogni incontro e non si sentiva incompleto o danneggiato come succedeva con tutti gli altri. Kiel era un cliente, si ripeteva — lo faceva persino in quel momento, seduto sul divano di casa del Kane, con il sangue ad imbrattare il sofà e il pavimento. Ci credeva sempre un po’ meno, a quell’affermazione, e la sensazione che bruciava nello stomaco, più dei tagli appena disinfettati, era sconosciuta e terrificante. Non gli piaceva, perché minava le fondamenta della sua intera realtà come un carico di dinamite piazzato ai piedi dei pilastri che sostenevano un’intera vita. Della presenza delle altre persone nella sua vita, Bash non aveva mai saputo cosa farsene.
    «cambierebbe qualcosa se mi dicessi di no.»
    Non lo avrebbe detto — pur essendo, quella, la verità. Non avrebbe mai potuto, perché avrebbe implicitamente confessato ad alta voce qualcosa che non era pronto a ripetere nemmeno a se stesso, pur sapendo di aver sempre avuto quel piano d’emergenza nascosto da qualche parte nella sua mente. Non razionalizzare quel pensiero, non lo rendeva meno vero. O meno premeditato.
    L’indirizzo del suo appartamento, Bash, lo aveva letto sui documenti di Kiel una sera che quest’ultimo non aveva prestato molta attenzione; era sempre stato bravo a fornire distrazioni, il ballerino, e non aveva potuto privarsi di quell’opportunità per accaparrarsi un’informazione piovuta quasi per caso, il portafogli caduto dalla tasca dei jeans e aperto proprio sul documento di identità del Kane.
    In caso di necessità, si era detto, imprimendosi bene nella mente la via e il numero civico; avrebbe fatto comodo avere un posto sicuro dove andare, se ne avesse avuto bisogno.
    Il piano non aveva mai contemplato la presenza dell’altro ragazzo all’interno dell’appartamento, però.
    Stanco, ora che le ferite erano state disinfettate e l’adrenalina iniziava ad abbandonarlo, decise che valesse la pena sforzarsi un attimo di più ed esercitare maggior controllo sulla propria lingua, e non rispondere.
    Sia lui che Kiel avrebbero continuato a vivere benissimo pur senza avere una risposta a quella domanda. Forse, addirittura, avrebbero vissuto meglio. Voleva convincersene, il Baker.
    «magari sì, se solo fossi in grado di tenerti in piedi.»
    Kiel non aveva idea delle cose che Bash aveva superato pur non tenendosi in piedi — non era quello il momento di elencarle, però. e dubitava lo sarebbe stato mai. Erano troppo personali, tutte le volte in cui non ce l’aveva quasi fatta, persino quando non l’aveva meritato affatto. Eppure era ancora lì, per ricordarle tutte, una ad una, e tenerle chiuse a chiave nei cassetti della memoria.
    La resilienza era una caratteristica che non gli era mai mancata.
    Rimase in silenzio, labbra serrate e un occhio castano a seguire il profilo del guaritore; l’altro appannato e quasi completamente chiuso per il numero, e l’intensità, dei colpi ricevuti.
    «sono stato un po’ in grecia, un po’ in polonia, ed in messico.» per qualche motivo, Bash faticava a credere che Kiel fosse semplicemente andato in vacanza. Ed ebbe la sua conferma subito dopo. «volevo aiutare, sai? in quanto guaritore intendo…»
    Tsk, che pensiero stupido e inutilmente ottimista. Voler aiutare; non ripagava mai bene. Era una valuta di scambio sempre troppo alta, che in pochi potevano permettersi. Non di certo quelli come loro.
    «volevo» una pausa più pesante delle altre, che Bash non seppe (né volle) riempire; la loquacità non era mai stata il suo forte, né un dono di cui potesse farsi vanto. Così come non lo era mai stata nemmeno l’empatia. Attese dunque, semplicemente, che Kiel riprendesse a parlare. «fare del bene.» Lo guardò ridere, una risata amara e che non raggiungeva né gli occhi, né il cuore, e non poté fare a meno di serrare ancora di più i ranghi.
    Gelido, impassibile, esausto. Forse anche ad un passo dall’incoscienza e dall’oblio, quello tanto agognato.
    Fino a che.
    «non è andata come avevo immaginato.»
    «e come avevi immaginato che sarebbe andata?»
    Una domanda spontanea, quasi banale e di certo superflua, ma che sfuggì dalle labbra prive di colore del ballerino, mentre lo sguardo si induriva appena, indugiando sulla figura dell’altro.
    Si era trattato di una guerra, cos’altro avrebbe immaginato potesse succedere? «meno morti? meno città distrutte? meno caos?» non lo chiedeva con aria ironica, il Baker. Era genuinamente interessato. Anche troppo, per i suoi gusti. Fino a che punto poteva spingersi l’immaginazione di qualcuno interessato a cosa succedeva nel mondo? Non era mai stato il suo caso, quello.
    Forse, anche per quello, non riusciva a ricambiare il sorriso mesto offerto da Kiel; non aveva mai capito il senso di andare a combattere una guerra, Bash, in nome di qualcosa o qualcuno, e non avrebbe saputo dove andare a pescare nelle proprie riserve emotive già prosciugate, per trovare un minimo di compassione, o di solidarietà, nei confronti del guaritore.
    Non era lui quel genere di persona in grado di farlo.
    Poi la domanda di Kiel mise ancora di più tutto in discussione
    «puoi restare qui se vuoi.»
    Se avesse avuto la certezza di potersi muovere da quel divano senza crollare a terra come una marionetta a cui avessero tagliato improvvisamente i fili, Bash lo avrebbe fatto.
    Perché non era mai stato bravo a rimanere, non aveva mai voluto farlo, e iniziare proprio quella sera aveva l’aria di portare solo guai.
    Ma non si mosse, perché non poteva, e perché non riusciva.
    Quel “se vuoi” implicava che avesse la possibilità di fare una scelta, quando in realtà la sua testa aveva già deciso per lui: che gli piacesse o meno, l’avrebbe ascoltata.
    «hai paura che non riesca ad arrivare nemmeno alla fine della strada?» un dubbio, e un timore, più che lecito; non aveva affatto l’aria di uno che fosse in grado di alzarsi dal divano, figuriamoci camminare fino… a chissà dove. E non aveva bisogno di vedersi allo specchio, per saperlo; il dolore alle ossa – e a muscoli che non sapeva di avere – e la vista appannata, erano campanelli di allarme più che sufficienti.
    Distolse lo sguardo, solo per passare una mano sugli occhi stanchi e nascondere il respiro affannato dietro il palmo aperto. «penso sia una terribile idea.» Bash il ballerino era un bugiardo, per mestiere e per sopravvivenza; Bash Baker, invece, era quanto di più reale si potesse trovare in giro. Onesto, persino ai limiti della decenza e del buon costume; quando non poteva trarre beneficio da una menzogna, preferiva colpire con la verità. E in quel momento non era in servizio — poteva permettersi di essere se stesso.
    Sollevò di nuovo lo sguardo per incrociare quello scuro di Kiel, mostrando il minimo indispensabile di emozioni. «però credo anche di non avere molta scelta.» Sarebbe stato più facile, andarsene, se ne avesse avuta una? «ok.» decise infine, un sospiro pesante più che una conferma, «ma avrò bisogno di più alcol.» per frenare l’istinto che gli diceva di fuggire via, e andarsene il più lontano possibile; aveva già ottenuto quello che cercava (garze, disinfettante, un posto dove riposare il corpo martoriato), che senso aveva prolungare la sua permanenza? Non poteva permetterselo.
    «o di una doccia,» ah, quella sarebbe stata un sogno, non è così? Il getto bollente a lavare via sangue, pelle e fatica.
    Sai cosa le'? Volevo fargli dire altro, ma lo terremo invece così.
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