Posts written by walking contradiction.

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    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    Da Sara e Sara, da Hugo a Stiles, tutti i presenti sapevano che nulla, lì, sarebbe stato breve e indolore. A partire da questo post, che ho come l’impressione che arriverà a misurare millemila caratteri. Tutti sconclusionati, naturalmente.
    Ma Hugo si era scusato, per l’ennesima volta, e Stiles non gli aveva detto di non scusarsi.
    L’aveva ringraziato.
    Si sentì stranito, ma poi si rese conto che, prima ancora di essere stupefatto, era sollevato. Per quanto sapesse di non avere nulla di cui scusarsi, razionalmente parlando almeno, sul piano irrazionale le motivazioni erano invece infinite. Eppure odiava quando gli veniva fatto notare che non avrebbe dovuto farlo, che non avrebbe dovuto scusarsi. Anche perché, chi gli diceva così, era la stessa persona che, nelle più uniche che rare occasioni in cui lui non lo faceva, sforzandosi con molte più forze, ed energie, di quelle che effettivamente aveva, poi gli rinfacciava di essere egoista e concentrato solo su sé stesso e incapace di guardare al di là del proprio naso, negli affari e soprattutto nei sentimenti altrui. Il che naturalmente era vero, ma era anche falsissimo. Hugo era concentrato su sé stesso proprio come chiunque altro. Ma, a differenza di molti, o così gli piaceva pensare, quello che gli altri sentivano e pensavano occupava i suoi pensieri fin troppo spesso.
    E dunque era felice che Stiles non gli avesse detto che non c’era bisogno di scusarsi. Anche perché, lo sapeva bene, c’era sempre bisogno di scusarsi. Una ragione, un motivo, li si potevano trovare sempre.
    Ma non un amico.
    Perché, tra le righe, lo Stilinski gli aveva detto pure questo. Non stava lavorando, spronandolo a capire dove fosse il problema, quale fosse il problema. Lo fissò, vedendolo in modo appena appannato, sebbene a dividerli ci fossero solo uno striminzito tavolino di legno traballante e lui avesse negli occhi le lenti a contatto, e si sforzò di ricacciare giù per la gola, in fondo in fondo, il magone. Batté le palpebre, sperando di riuscire a scacciare le lacrime, e in qualche modo stranamente ci riuscì, perché quando seguì il movimento della mano dell’ex tassorosso la vide a fuoco. Per una volta era convinto di avercela fatta, se non fosse stato per le ciglia imperlate, e per le parole successive dello psicomago.
    «Come fanno gli amici», ripeté piano, la voce un po’ strozzata dal groppo alla gola che, in un attimo, era riuscito a risalire. Schiuse le labbra cercando di prendere fiato, e di mandare nuovamente giù, tristemente consapevole del maledetto potere che le lacrime avevano su di lui. Si risistemò sulla sedia, un piede che teneva nervosamente il tempo delle soffuse note che si spandevano nell’aria da casse nascoste chissà dove, dentro il locale, senza rendersene nemmeno conto. Poi buttò fuori l’aria, e sorrise. «Non volevo darti di quello che la fa a pagamento.» Fece una smorfia. «La terapia, dico. Cioè, ovvio che sì, è il tuo lavoro e fai solo bene, ma…» Sbuffò, passandosi le dita tra i ricci già spettinati. «Quello che intendo è che… sono sorpreso che tu voglia essere mio amico», ammise finalmente, fissandogli le mani, troppo imbarazzato per guardarlo in faccia. «In modo positivo. Non credo di essere una persona antipatica, spero di non esserlo, ma sono… noioso?? E per nulla interessante. E parlo troppo. O non parlo per niente, tipo quando non rispondo ai messaggi per giorni, d’accordo, settimane, anche, perché mi sento esausto.» Si avvicinò la tazza di tè che ormai da un bel po’ non fumava più e bevve un sorso con una mezza smorfia, sentendo il liquido a malapena tiepido. «Amo l’earl grey, ma quando si raffredda sembra profumo per auto. Ew.»
    Non disse a Stiles che tutto quel suo parlargli così, a ruota libera, senza paletti e senza vergogna, era un privilegio. In parte perché non era così convinto, dato che era terribilmente consapevole, appunto, del suo essere pesante e verboso (sebbene, al contempo, non potesse fare a meno di sentirsi una spanna sopra agli altri, pur essendo sempre e comunque l’ultima delle merde); in parte perché si vergogna di crederci davvero. Tuttavia, questo gliel’aveva detto, invece: parlava troppo, o non parlava per niente. Tra i due fare opposti c’era una linea sottile, una linea che non sapeva tracciare né a parole né a gesti. Spesso e volentieri parlava troppo per colmare il silenzio, nella speranza che l’altra persona non si sentisse troppo a disagio nel dover passare del tempo con lui. Parlava perché dall’altra parte tutto risultasse più facile, più leggero, più sopportabile. Era sincero, quasi sempre almeno, ma era anche il re delle mezze verità. Non si faceva problemi a schernirsi e a ironizzare costantemente su sé stesso, lasciando scoperte parecchie delle sue vulnerabilità. Eppure, era bravissimo a nascondere il vuoto che sentiva dentro dietro una battuta di troppo.
    Lo stava facendo anche adesso, ma ora c’era qualcosa di diverso.
    Stava davvero parlando con Stiles.
    «cosa ti ha fatto male?»
    Lo fissò, ancora, le mani strette intorno alla tazza irrimediabilmente fredda. Sarebbe bastato un semplice incantesimo per farla tornare bollente, ma Hugo sapeva bene che il tè riscaldato era un’enorme truffa. Cambiava sapore, si mostrava per quello che era: acqua sporca, dove vi era stata fatta galleggiare dentro dell’erba secca. Una porcheria, in poche parole. «Non lo so.» Lo buttò fuori così, come se nulla fosse, come se fosse la cosa più normale, e scontata, del mondo. «Tutto… e niente. Io stesso, probabilmente. Anzi, quasi di sicuro. Credo di essermi sempre imposto da solo fin troppe cose… eppure, al contempo, non abbastanza. Ho sempre desiderato sapere – del mondo, degli altri, di me, più di tutto. Ma qualcosa… è andato storto.»
    Era dannatamente difficile. Perché era vero, non sapeva nulla. Eppure sapeva, sentiva che c’era qualcosa. Qualcosa che non riusciva a esprimere, che non riusciva a formulare nemmeno dentro la sua testa, dove non avrebbe dovuto esserci bisogno di parole.
    E si sentiva in colpa. Era liberatorio, per certi versi, cercare di dire ad alta voce quello che si imponeva di non sentire dentro. Però non era giusto vomitare ogni cosa addosso a Stiles. Se davvero stava prendendo in considerazione di ritenerlo suo amico, quello che stava succedendo gli avrebbe di certo fatto cambiare idea. Certo, era il suo lavoro dover supportare, e sopportare, chi andava da lui per cercare risposte su sé stesso e sul mondo. Ma Hugo non aveva alcun diritto di farlo. Intanto perché non era un suo paziente, e poi perché i suoi problemi non erano tali. Tutti avevano bisogno di fare terapia, anche la persona apparentemente più felice del mondo, ma lui… lui che aveva da lamentarsi?
    La breccia, però, era stata aperta. Assecondò la strana scenetta della presentazione e ancora, sempre, riversò addosso allo Stilinski cose di cui non importava – giustamente – a nessuno. Si sentì appena meglio, ma anche infinitamente peggio.
    Un classico, insomma.
    «te ne intendi di videogiochi?» Aggrottò le sopracciglia confuso, cercando di ripercorrere con la mente quello che si erano detti negli ultimi minuti. Cosa c’entravano i videogiochi? «Mmh… vorrei dire di sì, ma oggettivamente no, non davvero. Mi piace giocare, ma ho giocato davvero a poche cose. Giochi, emh, veri. Perché l’unico a cui ho davvero, davvero giocato è The Sims. Credo di essere drogato. Quando ci ricasco è la fine, ci gioco mille ore di fila.» D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Vedere altri che vivono esistente soddisfacenti, piene di amici, avvenimenti, amore… Guardò Stiles colpevole, sapendo perfettamente quello che doveva stare pensando: The Sims non era un vero gioco. Era adatto solo a chi non sapeva giocare veramente, a chi cercava di scappare dalla realtà.
    Tanto per cambiare.
    Eppure, Hugo capì il suo ragionamento. Non pensò subito ai Pokémon, non davvero, almeno, ma la sua mente riportò a galla Paperino operazione papero e quel maledetto livello finale. Aveva tutto perfettamente senso. Non si sentiva pronto. Non si era mai sentito pronto. «Perché ho paura», completò a bassa voce, per poi sentire Stiles ribadire quanto fosse bloccato, quanto avesse bisogno di una spinta.
    Era tutto così semplice, così vero… eppure così assurdo. Perché Hugo sapeva quelle cose. Sapeva di essere bloccato, di non avere un obiettivo. Sapeva che avrebbe dovuto darsi una mossa, spingersi, o farsi spingere, certo, tuttavia… «Non so se ce la faccio. È… difficile.» Anche questo era scontato. Era difficile per tutti, non solo per lui, ma gli altri non facevano tutte quelle storie. Lo sapeva benissimo.
    Però gli altri non avevano la sfortuna di essere lui.
    E lo Stilinski gli stava offrendo delle opzioni concrete e fattibili.
    «Cosa ti piacerebbe fare?»
    Gemette.
    O forse no.
    «morire non vale. Non è divertente come sembra, in ogni caso»
    Gemette di nuovo. «Divertente?» Non l’aveva mai vista così. «Comodo, se mai. E non facile, no. Per niente facile. Ma forse, anzi, di sicuro è perché, anche qui, sono un incapace.» Ridacchiò nervoso, stringendosi nelle spalle. «E comunque i miei ci starebbero troppo male. Non se lo meritano.»
    Stava evitando quella domanda?
    Assolutamente sì.
    «Non ne ho idea… ed è anche questo, il problema.»
    gif code
    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA
  2. .
    nickname: sehnsüchtig.

    role attive: If I had it all I'd be dead in a week, if I had my way I'd be king for a day (thor) [26.12]
    PE accumulati sulla carta fidelity: 15
    scheda livelli: gruppo 1 [bertie + thor + hugo + adam]

    role attive: morbus amoris (ictus) [05.12]
    PE accumulati sulla carta fidelity: 15
    scheda livelli: gruppo 2 [ictus]
  3. .
    (Non io che domani non avrò il coraggio di guardare nessuno negli occhi.)

    Vorrei dire che non era la mia prima scelta, ma mentirei. Chiaramente è lontano anni luce da quello che poteva essere perché non sono capace e sto un po’ (tanto) morendo, ma eh. Ci ho provato. Diciamo sempre che vogliamo farlo, no?
    Quindi ecco!!!!!!!!!!!

    I tried.
    :perv pat pat:

    Spero che almeno ti faccia un po’ sorridere per la stupidità del tutto (?).

    BUON NATALE PAPÀ ROBERTA!!!


    THE PARENT TRAP


    Sara fallirà in questa impresa?
    Molto probabile, ma lo farà a cazzo duro.
    (Un po’ come Moka.)
    summary
    Javier Iglesias ha trentadue anni, è single e vedovo. Anche se ha sempre tra i piedi le sorelle Julieta e Mireia, ha bisogno di una baby-sitter che badi a sua figlia di dieci anni Aracoeli.
    Moka Telly ha diciannove anni, è single e universitario. Anche se sua madre fa di tutto per aiutarlo dalla Francia, qualche soldo in più fa sempre comodo, e le sue abilità con i bambini sono innegabili.
    Da quando Moka ha cominciato a farle da baby-sitter, Aracoeli ha notato che suo padre ha ricominciato a sorridere come non faceva da molto tempo…

    Tag: romcom, family, found family, fluff and humor, idiots in love, alternative universe – modern setting, Disney, ooc

    TW – spoiler: pwp, oral sex, age difference, dilf



    Aracoeli
    Quando un Javi un tantino esasperato le aveva fatto notare che, forse, era ora di provare a guardare un po’ un altro film, invece di far ripartire per la quarta volta, e solo quella settimana, Genitori in trappola, non aveva tutti i torti. Ma Aracoeli sapeva fin troppo bene che suo padre avrebbe fatto di tutto, per lei, compreso riguardare la consacrazione a leggenda cinematografica di Lindsay Lohan e della sua gemella (di cui, stranamente, non riusciva a trovare nulla in rete, quando convinceva Mira a lasciarle usare il suo iPad), e non si era fatta troppi problemi. Anche perché, chissà come mai, si era magicamente illuminato, scoprendo chi avrebbe fatto loro compagnia durante quella visione. Sapeva che era contento che ci fossero anche Mireia e Julieta, naturalmente, sebbene per l’ennesima volta avesse chiesto alle sorelle se non avessero il loro appartamento a cui tornare, ma le sue zie non erano capaci di scatenare, in lui, quella reazione. Persino lei non ne era capace, o comunque, non in quel modo. Lo sguardo che riservava a lei era unico e speciale, e sapeva che nessuno gliel’avrebbe mai portato via.
    Ma suo padre meritava di illuminarsi così.
    Aveva dei ricordi confusi, forse quasi più sogni, di quei giorni, tuttavia ne era certa. Gli occhi di suo padre avevano assunto quell’espressione solo guardando el amor de su vida, sua madre. Probabilmente era troppo piccola per ricordarlo davvero, ma sapeva, sentiva, che Javier si era illuminato così ogni volta che Xiomara era entrata in una stanza.
    «Anche Moka ha detto che vuole rivederlo», aveva sottolineato quella sera Aracoeli con studiata noncuranza, sfoderando un sorriso innocente mentre si godeva l’espressione di Javi. Perché ci fosse bisogno del suo baby-sitter quando lei aveva ben dieci anni (e soprattutto quando in casa c’erano suo padre e le sue zie, ma questo era solo un dettaglio) non era davvero un problema suo, mentre invece lo era fare in modo che quei due zucconi aprissero gli occhi una volta per tutte, esattamente come Nick e Lizzie in Genitori in trappola.
    *
    Anche e soprattutto perché era una bambina sveglia, Aracoeli sapeva di non poter fare tutto da sola. E sapeva anche dove avrebbe trovato delle validissime alleate, anzi, le migliori. Non aveva neanche dovuto spiegarsi davvero, perché entrambe avevano non solo già capito, ma la pensavano esattamente come lei: anche Julie e Mira si erano accorte del modo in cui Javier e il baby-sitter si guardavano. Certo, Julieta aveva provato a far notare alla sorella e alla nipote che forse l’età di Moka avrebbe potuto essere un problema, essendo l’universitario poco più di un ragazzino, ma Mireia aveva alluso a qualcosa che aveva fatto lei, a diciannove anni, e la maggiore si era trincerata dietro una delle sue occhiate truci. Aracoeli era un po’ confusa, visto che le sembravano tutti decisamente vecchi, Moka compreso, ma si era stretta nelle spalle e aveva esposto alle zie il suo piano.
    *
    Era tutto pronto, nell’appartamento delle sorelle Iglesias. Aracoeli rimirò il proprio lavoro con le mani puntellate sui fianchi, chiedendosi ancora una volta perché suo padre e il suo baby-sitter fossero tanto fissati con la Siberia. Certo, anche lei amava la neve e cercare di ricreare un paesaggio invernale nel piccolo salotto delle zie era stato divertente, ma non era meglio Porto Rico, con i suoi colori e il caldo? Sul menu, in effetti, si erano allontanate, e di molto, dal tema inverno in Siberia scelto per la serata, ma non era mai stato in discussione: la cucina di nonna Iglesias batteva all’infinito quella siberiana. Anche perché, a dirla tutta, qual era il piatto tipico della Siberia? La renna arrosto? Ew, non voleva nemmeno pensarci.
    Poi il campanello suonò, e il piano ebbe inizio.


    Moka
    Non si era fatto domande, quando Julieta, con il suo tono professionale e un po’ autoritario, gli aveva chiesto di recuperare Aracoeli all’appartamento che condivideva con Mireia e di portarla a casa. Anche perché, in fondo, non era nemmeno la prima volta.
    *
    All’inizio si era sentito un po’ sopraffatto da tutto il calore, e soprattutto il caos, di quella famiglia, ma prima di rendersene davvero conto, aveva cominciato a sentirsene parte. Un po’ si sentiva in colpa nei confronti della sua, di famiglia, ma da quando suo padre era morto e sua madre era tornata in Francia aveva cominciato a dimenticare cosa volesse dire avere una famiglia. L’università, poi, aveva ulteriormente peggiorato le cose. Una città nuova significava infinite possibilità, ma anche infinita solitudine. Specie poi se i soldi scarseggiavano. Per questo, e anche un po’ per scherzo, aveva messo quell’annuncio. Forse era stato subdolo da parte sua mantenere tutto così neutrale, ma conosceva il boomer medio: un baby-sitter con il pene? Neanche morto.
    E in effetti il primo sguardo che si era scambiato con Javier Iglesias aveva confermato i suoi sospetti. Aveva un pene e si era offerto come baby-sitter di sua figlia. Ma era bastata qualche ora in compagnia di Aracoeli per rendere il tutto ufficiale, sancendolo persino nero su bianco, con il primo, vero contratto di lavoro della vita di Moka. Quella bambina lo adorava e lui adorava lei.
    Certo, più e più volte si era chiesto se davvero gli Iglesias avessero bisogno di lui, dal momento che, spesso e volentieri, arrivavano a casa non una, ma ben due zie, Julieta e Mireia, più che disposte a occuparsi di ogni necessità della nipote. Ma le settimane erano diventate mesi e lui era ancora lì e, anzi, con il passare del tempo le ore che trascorreva a prendersi cura di Aracoeli (e, a dirla tutta, dell’intera famiglia), non avevano fatto che aumentare, così come, di conseguenza, il suo stipendio. I suoi coinquilini avevano persino cominciato a chiedergli se non dormisse con il suo datore di lavoro, visto che trascorreva buona parte della sua giornata, e spesso anche della serata, a casa Iglesias.
    Sinceramente, Moka l’avrebbe fatto più che volentieri. Per un breve, brevissimo periodo aveva soffocato quel pensiero tra le braccia di chi gli capitava, etichettandolo come semplice esigenza fisica. Ma poi aveva cominciato a vedere i suoi occhi tristi ovunque, a sentire nelle orecchie il suono della sua voce, a chiedersi che sapore avessero le sue labbra. E alla fine era stata Cherry, da vera signora come suo solito, a svelare l’arcano. Non era stata una domanda, la sua, ma una semplice affermazione: «Te lo vuoi scopare, Moka».
    Vero.
    Verissimo, anzi.
    Stavolta era stato più consistente, e costante, nella sua convinzione. Era un cliché vivente, se ne rendeva conto, l’amato baby-sitter e il genitore vedovo!, ma non è che gli importasse più di tanto. Prima di tutto perché non voleva perdere il lavoro, quindi non avrebbe mai e poi mai fatto nulla, e in secondo luogo perché era semplice esigenza fisica, la sua. Certo, Javier era un uomo affascinante, e la malinconia che trasudava, per non parlare del suo essere una figura così paterna, anche letteralmente parlando, non facevano che aumentare il suo sex appeal, ma, appunto, si trattava solo di questo. Era fisicamente attratto da lui e si sarebbe più che volentieri infilato nel suo letto. Tutto qui.
    Per mesi si era ripetuto che si trattava di pura e semplice chimica animale. Non poteva essere altro. Intanto, era il suo capo. Ed era vecchio. Non avevano nulla in comune, davvero niente. Le sue sorelle un po’ (tanto) pazze e soprattutto la sua adorabile figlia lo avevano fatto sentire parte della famiglia sin dal primo giorno, e persino lui, con quei suoi modi un po’ burberi, lo aveva accolto a braccia aperte. Gli faceva semplicemente ribollire il sangue, specie tra le gambe.
    Il batticuore che provava anche solo pensandolo era una normale, e naturale, reazione fisica.
    Non poteva essersi innamorato di Javier Iglesias.
    *
    «C’è nessuno?» Si guardò di nuovo intorno, Moka, un po’ confuso. L’atmosfera era molto bella, lì dentro, sembrava quasi di essere in una foresta innevata. Ma dov’erano tutte? «Ara? Tutto bene?», provò di nuovo, senza ottenere risposta. Si chiuse la porta alle spalle e tirò fuori il cellulare, non sapendo bene come muoversi. Forse aveva capito male? Magari non doveva andare a prendere Aracoeli dalle zie, ma raggiungerla già a casa. Però qualcuno doveva avergli aperto la porta…
    E comunque quella sala aveva tutta l’aria di essere stata addobbata per un appuntamento.
    Sorrise divertito, domandandosi quale delle sorelle aspettasse visite. Tuttavia, ecco di nuovo la confusione: né Mireia né Julieta erano grandi fan dell’inverno e della neve. Entrambe, se mai, preferivano sfoggiare le proprie radici latine, come anche l’appartamento stesso dimostrava in ogni dettaglio. Evidentemente, quindi, la persona per cui era stato preparato il tutto doveva piacere molto alla sorella in questione, ed essere altrettanto fortunata…
    «Ay, Moka, eccoti!!» La voce trillante di Mira arrivò dall’ingresso delle camere, per poi essere seguita dalla sua proprietaria. «Mi amor sta finendo di prepararsi per andare a casa, ora arriva! Io devo uscire un attimo a prendere una cosa per stasera…» Gli fece l’occhiolino e, senza aspettare davvero la risposta, lo strinse in un abbraccio e infilò la porta d’entrata. Moka sospirò, per nulla sorpreso, e si avvicinò al tavolo ben apparecchiato, spiando senza toccare le varie pietanze già disposte lì sopra. Aveva tutto un profumino molto invitante… Forse poteva assaggiare giusto qualcosina, non se ne sarebbe accorto nessuno… Specie poi Mireia, visto quanto aveva la testa tra le nuvole!
    Andò in cucina, si lavò le mani e prese un piattino. Quanto ci stava mettendo Aracoeli, però? Le zie la stavano proprio istruendo bene… Il gorgoglio del suo stomaco lo riportò alle prelibatezze sul tavolo apparecchiato, quindi vi si riavvicinò per prendere uno stuzzichino.
    Aveva appena addentato una buonissima empanada quando la serratura scattò, facendolo sobbalzare.
    «Cielita, mi amor, va todo bien? Tu tía me dijo que...»
    Moka si leccò via dalle labbra le briciole di empanada fissando Javier Iglesias nel rettangolo della porta d’ingresso.
    No, non era decisamente Mireia. E neanche il suo date misterioso. Qualcosa cominciava a puzzargli…
    Dal vecchio stereo vintage che Julieta si rifiutava di buttare via, perché le ricordava la sua infanzia, cominciarono a risuonare note decisamente famigliari. Non l’avevano guardato tante volte quante avevano visto il film con la finta gemella di Lindsay Lohan, ma era comunque nella top five di Aracoeli. E poi la voce di Elton John era inconfondibile. Can You Feel the Love Tonight era indubbiamente un capolavoro, al pari di Simba, in grado di scatenare in lui (e in chiunque avesse gli occhi) domande importanti sui propri gusti.
    Qualcosa, o meglio, qualcuno gli sfrecciò accanto, stringendolo per un attimo prima di ripartire e fare lo stesso con Javier. «HolapapiholaMokaiovadodivertitevibesosssss!!!», squittì una figurina dai lunghi capelli neri, per poi infilare la porta e chiudersela alle spalle dopo aver soffiato a entrambi dei baci. Nello spiraglio intravide Mireia con espressione ammiccante e Julieta con il pollice in su e uno sguardo tutt’altro che rassicurante.
    «Ricordami di metterla in punizione, domani.» Javi sospirò, passandosi le mani sul viso, ma a Moka non sfuggì il sorrisetto che stava nascondendo tra le dita.
    «Ma se dici sempre che non credi in questo genere di cose…», gli fece notare scherzoso, non riuscendo, e forse non volendo nemmeno, ricacciare indietro una punta di malizia.
    «No, infatti, ma forse dovrei semplicemente punire qualcun altro. Per essersi fatto ingannare, sai. Tipo te
    Cosa?
    Cosa.
    Per fortuna aveva già mandato giù il boccone di empanada, altrimenti gli sarebbe andato di traverso. Ma il suo cuore, traditore, reagì prepotentemente, agitandoglisi nel petto. E non solo lui, in effetti.
    «Mi pare che qui, a essere stati ingannati, siamo in due.» Si mise in bocca con noncuranza quello che rimaneva dell’empanada, lasciando vagare lo sguardo per la stanza per evitare incidenti, puntandolo come invece avrebbe voluto sull’Iglesias. Aveva la solita aria stanca e un po’ sfatta da troppe ore di lavoro sulle spalle, che avrebbe volentieri voluto far distendere con un bel massaggino. Non era bravo come Lelepgvero, ma per lui avrebbe volentieri imparato. «Certo, peccato non essere davvero sul ponte di uno…»»
    «… yatch, già.» Incapaci di resistere, i suoi occhi trovarono quelli scuri ed espressivi di Javi, fissandosi per un istante. Poi entrambi scoppiarono a ridere. «Pensa se fossero davvero due…»
    «Un incubo!»
    «Oi chico, stai pur sempre parlando di mia hija!»
    Sì, vederlo e sentirlo fare il daddy TM quale era gli faceva decisamente effetto. Che si trattasse di pura attrazione fisica o anche di altro, Moka sapeva benissimo di desiderare solo una cosa, in quel momento. E non era mangiare tutto quello che c’era su quel tavolo, per quanto buonissimo. Aveva fame d’altro. Una fame che lo divorava dentro da mesi, e che non faceva che acuirsi ogni volta che passava con Javier più di due secondi. «Forse dovrei davvero pun-»
    Una parte di lui fu contenta che Iglesias si schiarì la voce e dichiarò: «Non sprecheremo tutta questa bondad de Dios», ma d’altro canto, la sua successiva richiesta non fece che peggiorare la situazione: «Vai a lavarti le mani, su».
    Maledetto daddy Javi.
    «Me le sono già lavate. E comunque non sono tua figlia.»
    «Oh, lo so benissimo. Lei è molto più intelligente di te.»
    Avrebbe dovuto sentirsi offeso, non fosse stato per il modo in cui Javier lo stava guardando. Forse, anzi, sicuramente era tutto nella sua testa, ma gli parve che lo stesse spogliando con gli occhi. Se solo l’avesse fatto anche con le mani…
    «Che cosa hai detto?»
    «Io? Niente, perché?»
    Javier si era avvicinato. Anzi, era così vicino che, adesso, poteva percepire anche il suo odore. E poteva guardare i muscoli tesi delle braccia sotto la camicia, ora che le aveva incrociate davanti al petto, il cappotto abbandonato sul divano poco distante. Un sopracciglio inarcato, l’uomo lo fissava con fare serio.
    «Oi papi, cominci già con la demenza senile…», lo canzonò incrociando a sua volta le braccia, scimmiottandolo. Era il suo capo e non avrebbe dovuto prenderlo in giro, ma Aracoeli l’aveva portato sulla cattiva strada, e le sorelle Iglesias non avevano fatto che istigarlo, dicendo che il fratello meritava di essere un po’ sfottuto. Per Moka, in realtà, meritava anche varie altre cose, ma questo non lo poteva dire.
    «L’unica demenza che vedo qui è la tua…» Gli si avvicinò ancora di più, Javier, gli occhi fissi nei suoi. In quell’oceano onice distingueva nettamente qualcosa agitarsi, qualcosa che lo avviluppava e sembrava volerlo trascinare giù, sempre più giù… «Per cui concentrati, e dimmi: cos’è che dovrei fare con le mani
    E, in effetti, le mani dell’Iglesias l’avevano già trovato. E lo stringevano. Non c’era delicatezza, non c’era grazia in quella stretta. C’erano solo le dita forti dell’uomo che combattevano contro la durezza del cavallo dei suoi jeans, che nonostante questo non riuscivano del tutto a celare quello che stava succedendo sotto.
    «Dillo, Moka.»
    Sbuffò, sostenendo il suo sguardo. Non era uno che arrossiva, Moka Telly, né che si piegava al volere altrui. Persino se questo altrui era l’uomo a cui desiderava saltare addosso da mesi. E che ora lo stava quasi letteralmente tenendo per le palle.
    La morsa della mano di Javier si intensificò, costringendolo a mordersi una guancia per trattenere un gemito.
    «Dillo
    Stava per cedere, l’avrebbe fatto davvero, ma successe. Dapprima percepì il pizzicore della barba folta e ispida, poi la contrastante morbidezza delle sue labbra. E il suo corpo reagì di conseguenza, per quanto costretto nella stoffa rigida dei jeans. Aveva immaginato quel momento infinite volte, e in altrettanto infinite situazioni. Ma mai nel salotto delle sorelle Iglesias, immersi in una fiaba invernale che, chissà come mai, gli faceva pensare alla Siberia.
    La sua lingua cercò quella di Javier, mentre le mani correvano a sfilargli la camicia da dentro i pantaloni, insinuandosi a saggiare la pelle calda della schiena. Eppure quel contatto non bastava, sentiva il bisogno di intensificare ancora di più quel bacio… Ma con uno strattone si ritrovò a cercare l’aria, e a fissare nuovamente gli occhi neri e ardenti dell’Iglesias.
    «Sto ancora aspettando.»
    Moka grugnì, alzando gli occhi al cielo, le mani strette ai fianchi dell’altro. «Sei un cazzo di boomer, lo sai vero?» Sbuffò e rise, anche se la stretta di lui sul suo cavallo gli fece venire ben presto voglia di fare tutt’altro. «Bene.» Chiuse gli occhi e si inumidì le labbra, percependo ancora benissimo il sapore di lui. «Spogliami
    Anche se aveva gli occhi chiusi, Moka capì di aver vinto. O forse a vincere era stato Javi, ma cosa importava? Come se non aspettasse altro lo sentì trafficare con il bottone e la zip dei suoi jeans, provocandogli un sospiro sollevato non appena cominciò a percepirsi un po’ meno costretto. Aveva visto decisamente tanti film cominciare così, ma era impaziente di vedere il seguito.
    E di sentirlo, soprattutto.
    Strusciandosi contro le sue mani riaprì gli occhi quel tanto che bastava per lanciargli un’occhiata, compiacendosi del suo viso e della sua espressione. Un attimo dopo aveva già trovato le sue labbra, mentre le mani si spostavano a cercare di slacciargli i bottoni della camicia. Non era molto facile, però, visto l’immensa distrazione del tocco di Javier sopra i suoi slip. E quando lo sentì infilarsi all’interno, pelle contro pelle, finì per mordergli un labbro, scatenando in lui una risata gutturale, quasi un ringhio, che subito volò ad acuire la tensione tra le sue gambe.
    Javier lo strinse ancora, stavolta direttamente, facendogli quasi girare la testa. Non era un ragazzino alle prime armi, non avrebbe dovuto reagire così tanto… Eppure, era più forte di lui. L’Iglesias era intossicante. Lo desiderava dal primo giorno, quando l’aveva accolto sulla porta dell’appartamento dove viveva con la figlia. Lo baciò ancora, intensamente, dopo aver ripreso fiato solo per una manciata di istanti, maledicendosi mentalmente per aver aspettato tanto. Era quasi riuscito a slacciare tutti i bottoni, quando l’altro gli strappò uno sbuffo, facendo scivolare via la mano da dentro i suoi slip.
    «Impaziente, chico?», lo rimbeccò Javi malizioso, dopo avergli preso il mento con la mano con cui fino a poco prima stringeva tutt’altra parte di lui. Poi corse a sfilargli la maglietta, e Moka ringraziò mentalmente per le ore passate in palestra ad allenarsi. Non solo non sembrava affatto un diciannovenne, ma il suo corpo era capace di scatenare l’invidia di parecchie persone. Sorrise, trionfante, sentendo lo sguardo dell’Iglesias scivolargli addosso.
    «Non finisci quello che hai cominciato?» Javier tornò a fare quella risata profonda, scatenandogli l’ennesimo brivido. Certo che era impaziente! Come avrebbe potuto essere altrimenti? Desiderava, aspettava, anzi, quel momento da mesi. E il suo capo anche, a giudicare dall’aspetto dei suoi pantaloni eleganti. Gli lasciò andare il mento e lo fece sospirare attraversandogli il corpo con le mani, fino a fermarsi all’altezza dei fianchi. Senza preoccuparsi di fargli male tirò giù con uno strattone secco e deciso jeans e slip, liberandolo finalmente da ogni costrizione.
    Non era giusto, però. Adesso lui era quasi completamente nudo, mentre Javier aveva sì e no la camicia slacciata. Avrebbe voluto lamentarsene, ma l’uomo sparì dalla sua vista. Dove…? «Impaciente», tornò a ripetergli, stavolta nella sua lingua madre, il fiato caldo sulla pelle bollente della sua erezione. Javier Iglesias si era inginocchiato davanti a lui. La sua bella bocca era a pochi centimetri dalla tensione più tesa che avesse mai sperimentato in vita sua, o così gli sembrava. Gli affondò le dita nei capelli, respirando a labbra schiuse, per poi guidarlo ancora più vicino. Lo sentì, più che vederlo, ridacchiare, ma si impose di tenere gli occhi ben aperti: non voleva perdersi la scena.
    Tuttavia, fallì miseramente non appena lo accolse tra le labbra, puntandogli addosso quello sguardo indagatore, che persino adesso sembrava chiedere di spogliarlo. Ma come poteva essere più nudo di così? Non gli stava nascondendo più nulla… a parte quello che gli si agitava nel petto. Sospirando forte lo spinse maggiormente contro di sé, sentendo nella testa la sua voce che gli ripeteva di essere impaziente. Non poteva negarlo, non con la sua lingua che a ogni mossa danzava sulla sua pelle bollente, non con quello sguardo che, anche se ora non poteva vederlo, sapeva starlo scrutando accigliato ma malizioso.
    Si sforzò di riaprire gli occhi giusto il tempo di vederlo andare ancora più giù. «Cristo. Santo.» Era imbarazzante, ma si sentiva già sul punto di non ritorno. Non voleva fare la figura del ragazzino che viene dopo tre secondi, non quando Javier Iglesias gli stava facendo la migliore fellatio della sua vita. Ma naturalmente, da sadico bastardo quale era, decise di spostare le mani dai suoi fianchi per andare a solleticarlo ovunque non batteva il sole. Il tutto senza smettere di provocarlo con quella bocca che sembrava decisamente uscita da uno di quei film che aveva visto cominciare, crescere, culminare e finire.
    E, a proposito di crescere e culminare, i brividi che da tutto il corpo andavano a concentrarsi lì, in ogni millimetro della sua tensione, erano ormai quasi elettrici. Forse era egoista da parte sua, ma in fondo non gli aveva chiesto nulla: attirò la testa di Javi ancora più tra le gambe, sentendosi a un soffio dall’apice.
    «Basta così, cachorro.» Il tono ruvido di Javier non ammetteva repliche. Moka stava andando a fuoco, il fiato corto e le gambe molli. «Sediamoci e mangiamo, prima che… si freddi tutto.»
    «… Fai sul serio?» Lo stava lasciando lì, dopo averlo portato (in un lasso di tempo a dir poco imbarazzante, ma quello era solo un dettaglio di poco conto) a un passo dal baratro, come se nulla fosse?
    Javier si rassettò i pantaloni, scostò una sedia e prese posto, per poi distendersi il tovagliolo sulle gambe e servire il cibo nel piatto di entrambi. «Te l’ho già detto. Eres un maldito impaciente.»

    Maledetto daddy Javi.
  4. .
    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    In teoria aveva smesso di chiedersi da tempo perché la gente lo odiasse. Prima di tutto perché non era poi così vero, essendo più che altro frutto della sua immensa coda di paglia. Tuttavia, c’erano stati e c’erano eventi che, al contrario, sembravano confermarlo. Ad esempio ogni volta che incrociava un pg di Alessia, tanto per dirne una. Motivo per cui anche Sara, da coda di paglia suprema quale era, alle volte finiva per chiedersi se, dunque, valesse la proprietà transitiva. Confondendosi, infine, in mezzo a tutti questi teoremi (?) matematici. Comunque, in secondo luogo, Hugo aveva smesso di chiedersi perché la gente lo odiasse perché sapeva che, in realtà, a nessuno fregava di lui. Certo, alla sua famiglia e ai suoi (pochi – ciao Nathan) amici forse un filino sì, ma proprio in quanto famiglia&amici non valevano nel conto. Era a tutto il mondo a non fregare nulla, mentre odiare avrebbe significato dargli una qualche importanza, cosa che invece lui non aveva.
    Non solo si sentiva un niente, ma lo era anche.
    Però c’era anche la pratica. In pratica Hugo sapeva perché la gente lo odiava. D’accordo, forse, anzi, sicuramente parlare di odio era eccessivo, proprio per le ragioni appena elencate, ma non era difficile capire perché faticasse ad avere un grande gruppo di amici o, a voler essere del tutto onesti, che lo amasse in tutto e per tutto. Era faticoso avere a che fare con lui. Il che era assurdo, naturalmente, visto che era ben consapevole di essere la persona più mediocre sulla faccia della Terra (anche se poi, al contempo, si sentiva superiore – e inferiore – al resto del mondo). Ma aveva comunque senso, a suo modo.
    Perché il problema era lui.
    E infatti, non a caso, lo lesse nello sguardo confuso di Stiles. Una confusione troppo limpida e sensata per poter davvero riflettere quel magma indistinto che, invece, si sentiva nella testa. Così gli sorrise istintivamente, di rimando, stringendosi appena nelle spalle per la sua domanda. Sapeva di parlare a sproposito, spesso e volentieri, ma conosceva il significato delle parole e gli piaceva pensare di saperle usare magari non come meritavano, ma almeno non a caso. Non del tutto, almeno. «puoi aspettarti il peggio ed essere comunque un fiducioso ottimista» «Questo è un ossimoro, invece.» Rise di nuovo, piano, sentendosi contemporaneamente soddisfatto e scemo per quel finto sfoggio di ancora più finta ars retorica. «E comunque aspettarsi il peggio è semplicemente essere realisti», aggiunse, incassando inconsciamente la testa tra le spalle nella più tipica delle sue pose, quella da gobbo – o da vecchio, punti di vista.
    Non aggiunse che gli ottimisti erano tutti stupidi, e che lui li invidiava. Sia in quanto ottimisti che in quanto stupidi. Si riteneva il più stupido di tutti, naturalmente, eppure non lo era abbastanza per essere ottimista e, ancora di più, per vivere bene. Si sarebbe accontentato persino di poter staccare il cervello, almeno per un po’, e fluttuare nell’oblio più totale.
    «chi ti ha fatto del male per lasciarti questo pessimismo leopardiano?»
    Ma il senso di colpa era sempre lì, prontissimo a tenerlo con i pensieri, e soprattutto l’umore, ben piantati a terra.
    «se vuoi dirmelo. Non importa se non pensi che sia vero. fintanto che lo credi tu, lo è»
    «Scusa.»
    Di cosa?
    «Per tutto.» Un modo per mettere le mani avanti, certo, ma anche la verità. Perché Hugo non sapeva quello che stavano facendo lui e Stiles (un appuntamento? Un’uscita tra quasi amici? Una rimpatriata voluta per pietà – dello Stilinksi, naturalmente, non sua?), ma all’improvviso gli fu drammaticamente chiaro. «Non voglio… sfruttarti. Specie in questo posto, dove ti hanno già sfruttato abbastanza», cercò di spiegare, di giustificarsi, mangiandosi nervoso le parole.
    Perché Stiles, con tatto e un pizzico di ironia, si stava comportando da professionista quale era. Lo aveva inquadrato in quelle pochissime ore passate insieme, tra l’oblinder e ora. Aveva capito che c’era del marcio non in Danimarca, ma nella sua testa.
    E voleva aiutarlo, facendo il suo lavoro.
    «Cioè, ok, lo sto facendo, quindi poi ti pago!! Per cui ecco. Insomma. Grazie. Però scusami comunque.»
    Se Stiles era un bravo psicologo, Hugo era un paziente terribile. Ci mancava solo che prendesse il portafoglio e gli tirasse addosso qualche galeone, manco fossero stati nel bordello indiano di Lapo. Specie perché quella domanda semplice e persino scherzosa continuava a ronzargli in testa, mettendolo in crisi. «Non è che non voglia risponderti», si premurò infine di fargli sapere, perché era un paziente terribile, certo, ma era pur sempre educato. «Il fatto è che… non lo so? Non so chi mi ha fatto del male. O meglio, so che nessuno me ne hai mai fatto. Sono sempre stato un privilegiato. Famiglia amorevole, mezzi e consensi per fare tutto quello che volevo. Eppure…» Era un po’ tardi per mordersi la lingua. «Eh.»
    Per fortuna che aveva appena detto di non volerlo sfruttare. E che si era appena scusato.
    Dopo quel primo, inutile, insensato rant, dove il non detto era naturalmente che, ad averlo ferito, era stata la vita (e più probabilmente sé stesso), Hugo si buttò a capofitto nel successivo, quasi senza nemmeno riprendere fiato. Per Stiles sarebbe stato meglio se non l’avesse proprio fatto, in effetti, se avesse esaurito tutta l’aria che aveva nei polmoni, così da smettere una volta per tutta di parlare, e di vivere.
    Invece dovette sorbirsi Hugo ancora e ancora, assumendo un’espressione sempre più confusa. Come dargli torto? Razionalmente il Cox sapeva di esagerare quasi sempre, ma il silenzio dell’ex tassorosso parlava chiaro. Non solo l’aveva sfinito, ma confermava quello che pensava di sé stesso da sempre. Qualcosa gli diceva che lo Skilinski avrebbe trovato un modo delicato per farglielo sapere, ma che, alla fine della giostra, l’avrebbe comunque fatto. Perché, appunto, Stiles era un bravo psicomago. Mentre lui era una causa persa.
    «se sai cosa non sei, significa che sai chi vorresti essere? E chi non vorresti essere?»
    «Eh?»
    Altre… domande? Anzi, quelle domande?
    Non era tanto confusione quella sul volto dell’ex corvonero, quanto più… paura. «Mi stai… chiedendo un po’ troppo», si schernì, la bocca un po’ impastata dall’ansia, specie perché in gola sentiva già stringersi quel groppo fin troppo famigliare. Il fatto che non sapesse chi fosse non significava che sapesse chi non fosse e, ancora di più, chi volesse essere. Certo, non era una persona simpatica, intelligente, bella, di successo, amata, ma questo era scontato. Non era il figlio che i suoi genitori meritavano, né l’amico di cui Nathan aveva bisogno. Non era…
    Fissò la mano di Stiles per parecchi secondi, accigliandosi senza rendersene conto, e solo con molta lentezza mise a fuoco il volto del ragazzo, senza però rilassare la fronte. Si stava… presentando?
    Hugo era molto confuso.
    Così confuso da colpirsi da solo, almeno mentalmente.
    Tuttavia, la tecnica dell’ex tassorosso funzionò, perché per tutto il tempo rimase zitto, ascoltandolo con attenzione. C’erano cose che sapeva, in quel discorso, quasi tutte, in effetti (non era uno stalker, naturalmente; era solo diventato molto bravo a usare il computer, visto che aveva passato buona parte della vita a fare amicizia attraverso uno schermo, invece che faccia a faccia), ma ce n’erano anche di nuove, che lo portarono a sollevare le sopracciglia, fissando l’altro con stupore e dispiacere e ammirazione.
    E a ridere.
    Una risata genuina. Sollevata.
    «Scusa.» E un’altra richiesta di scusa. Perché non stava ridendo di lui, ma, sperava, con lui. O magari semplicemente perché l’avrebbe fatto ridere a sua volta, in questo caso davvero di lui.
    Il gomito già sul tavolo, lo fece scivolare nella direzione di Stiles, per poi afferrargli la mano senza stare troppo a pensare a se e quanto la sua fosse sudaticcia e dalla stretta molle e incerta. «Hugo Cox, e non ho un soprannome perché. Eh. Ho un nome troppo corto per essere storpiato. Perché mia madre odia essere chiamata Alex o simili, invece di Alexandra, quindi ha dato a me e ai miei fratelli nomi corti, che non si potessero abbreviare. Ho, umh, ventitré anni.» Era già partito malissimo, ma era pur sempre Hugo. «Inglese.» Annuì in direzione di Stiles. «Due fratelli.» Annuì di nuovo, appuntandosi mentalmente di chiedere delucidazioni sul termine che aveva usato. «Ex universitario, ho fatto giusto in tempo a laurearmi prima di… be’, questo Mosse la mano libera intorno a loro, con una risatina nervosa, guardandolo con fare eloquente. «Sinceramente avrei volute continuare a usare lo studio come modo per sfuggire alle responsabilità e al mondo degli adulti, ma ora come ora frequentare un’università babbana sarebbe come attaccarsi sulla schiena un tiro al bersaglio, quindi…» Un’altra risatina, stavolta molto più isterica. «… quindi sono disoccupato. E terrorizzato. E inutile. E… stanco.» Lasciò ricadere la mano libera sul tavolo, come se fosse senza vita. «Il che non ha senso, dato che passo le mie giornate senza combinare nulla. Però non credo di essermi mai sentito così stanco.»
    Stava ancora tenendo stretta la mano di Stiles.
    «Scusa.»
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    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA


    Mi dispiace, davvero.

    CIT.
  5. .
    Hugo Cox23 y.o.assistant prof
    «hughie, tienimi la mano»
    Con un gemito da gatto ferito, dopo aver alzato gli occhi al cielo, Hugo afferrò la mano guantata di Nathan e la strinse. Almeno si sarebbero scaldati. Forse. Come minimo il giorno dopo avrebbe avuto la polmonite e si sarebbe dovuto imbottire di Synflex e pozione antiraffreddore prima di presentarsi in aula di trasfigurazione accanto a professor Faustus.
    Lo stomaco pensò bene di strizzarsi e contorcersi sotto tutti gli strati che aveva indossato quella mattina.
    Sebbene ormai lavorasse a Hogwarts già da qualche mese, continuava a capitargli.
    Lui a insegnare.
    «anzi, grazie per essere venuto con me, so quanto poco ti piaccia il quidditch.»
    «Hhhh.» In risposta all’eufemismo del suo migliore amico, ma anche alle sue riflessioni silenziose su quanto avesse fallito su tutta la linea, nella vita. Non che la cosa lo sorprendesse, anzi. Ma faceva comunque male.
    «Voglio un ringraziamento in forma scritta. E un regalo. Non quello di Natale, eh. Un altro», aggiunse, con un tono così serio da lasciar trapelare benissimo quanto fosse, in realtà, ironico.
    «oddio non posso guardare»
    «Mi sa che dovrai tenere gli occhi chiusi per tutta la partita… Vedi perché il quidditch è inutile e fa cagare?» Sospirò e aggrottò la fronte, vedendo appunto l’ennesimo bolide dirigersi su componenti di entrambe le squadre. Non riusciva a immaginare uno sport più adatto a sua sorella: senza senso e violento. Proprio da Zoe.
    «STOP! SALVATI!!
    QUESTO BOLIDE NON VALE NEANCHE UNA PAROLA
    NÉ UNA SOLA E QUINDI…
    STOP! SALVATI, PERCHÉ???
    E TUTTO IL RESTO ANDRÀ DA SÉ!!!
    SALVATI PERCHÉ, SALVATI PER MEEEEE!!!»

    Tanto non poteva essere peggio di quando aveva cantato Hey Jude al karaoke del Tre Manici decisamente brillo.
    Give Me Novacaine
    Green Day
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    TIFO CORVI.
  6. .
    Hugo Coxex ravenclaw, 23 y.o.assistant prof

    «Ripetimi di nuovo cosa ci faccio qui.»
    Un lamento gutturale uscì dalla gola di Hugo, che alzò gli occhi al cielo in un modo che a qualcuno avrebbe ricordato il roll eye (????) di Berenice Hillcox. Teneri figli dell’estate, che non sapevano che era stato lui a insegnarlo a lei, pochi anni dopo quel momento.
    Comunque, l’esasperazione era proprio quella.
    Cosa ci faceva a una partita di quidditch?
    Da quando, per fortuna (cosa? Cosa) sua sorella Zoe aveva smesso di giocare, ormai una mezza vita prima (una intera, anzi: quella di sua nipote Florrie), era riuscito a sottrarsi a quella tortura. O meglio, anche ai tempi in cui la Cox maggiore calcava prima il campo di Hogwarts, poi quello delle più importanti città internazionali, l’ex corvonero aveva cercato, e spesso era riuscito, a evitare quel supplizio. Perché Hugo era masochista, ma solo sulle cose che piacevano a lui. E il quidditch non era una di queste.
    «Il quidditch è stupido. E i tifosi ancora di più. Fa schifo, come tutti gli sport», sentenziò vicino all’orecchio di Nathan, visto che lui, invece, non era stupido per niente. Farsi beccare a insultare i tifosi sugli spalti del campo da quidditch di Hogwarts? Non era la più saggia delle idee, ecco.
    «E poi mi sto congelando. Che cazzo di freddo fa?? Proprio oggi doveva nevicare????» Non che avesse dubbi: l’unica volta che di domenica (era domenica? Sabato? Chissà) metteva il naso fuori di casa, cosa succedeva? Neve. E un freddo assassino. «HHHHHHH», inspirò tra i denti stretti, scocciato a lamentoso.
    Non era già una punizione sufficiente essersi alla fine arreso all’idea di mandare il curriculum per fare l’assistente? Ed essere stato (WHAT) assunto????
    «Voglio morire.» Cosa che evidentemente rischiava di fare anche una delle due battitrici corvonero, visto il bolidazzo che rischiava di colpirla. «Amo sei ancora in tempo per rivedere le tue priorità, molla la scopa e mettiti sui libri!!!»
    Give Me Novacaine
    Green Day
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    TIFO CORVI.


    Edited by walking contradiction. - 1/12/2023, 14:47
  7. .
    nickname: sehnsüchtig.
    role attive:
    bertie [18.11.23]
    ictus [03.11.23]
    PE accumulati sulla carta fidelity: 10
    scheda livelli:
    bertie + thor + hugo + adam
    ictus
  8. .
    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    Si era sempre ritenuto una persona introversa, uno non esattamente capace, se non addirittura per niente, di stare in mezzo alla gente. E questo era molto, troppo vero, ma Hugo non aveva tutte le caratteristiche degli introversi. Gli piaceva fare la tappezzeria nelle situazioni sociali e si sentiva costantemente a disagio, ovunque fosse, convinto com’era di fare e dire di continuo la cosa sbagliata, di essere sbagliato. Eppure, e con il tempo sempre di più, in quelle situazioni di imbarazzo, ovvero sempre, faceva quello che nessun vero introverso avrebbe fatto.
    Parlava.
    Parlava e parlava e parlava.
    Spesso a vanvera, come ormai fin troppi sfortunati sapevano bene, Stiles in primis.
    Parlava e si apriva, rivelando sé stesso e i propri pensieri come davanti al più caro degli amici.
    In parole povere, Hugo era un fallimento anche come introverso. Non che la cosa lo sorprendesse, naturalmente. Anzi, per certi versi lo faceva persino sorridere. Era ovvio che, persino in una così banale, riuscisse a sbagliare su tutta la linea. Di certo non era estroverso, neanche lontanamente, ma non era nemmeno introverso. Non era né l’uno né l’altro.
    Non era niente?
    No, una cosa lo era di certo. Terribilmente stupido. Aveva detto a Stiles che sperava che, quando anni prima aveva lavorato ai Tre manici di scopa, la paga fosse buona. Un adolescente che serve ai tavoli e al bancone di un pub: c’erano poche cose maggiormente classificabili come sfruttamento minorile di quella.
    «Non credo di aver mai lasciato una mancia in vita mia…», ammise con sincerità, a mezza voce. Eccellere era un verbo fuori dalla sua portata, ma bisognava riconoscergli che, nello scavarsi la fossa da solo, ci andava parecchio vicino. «Di sicuro non l’ho mai lasciata qui.» Appunto. «Non per te, eh!! È che… sono tirchio. Cioè, sì, lo sono, ma poi spendo in stronzate inutili?? E in cibo… ecco, il cibo è l’unica cosa in cui non mi pesa davvero spendere.» Ridacchiò appena, con un accenno di nervosismo. «E si vede.»
    L’introverso che non riusciva a stare zitto, e che, parlando ancora e ancora, riusciva a raggiungere sempre nuove profondità di disagio.
    «… Vabbè, insomma, scusa. Per tutte le volte in cui sicuramente non ti ho lasciato la mancia.»
    Dopotutto, senso di colpa era il suo secondo nome, molto più calzante di quel pomposissimo, e stupido, Victor.
    E infatti, a proposito di senso di colpa, gli sembrò di notare qualcosa nello sguardo dello Stilinski, quando lo definì masochista. Gli era uscita spontaneamente, senza chissà quanto rimuginare. O meglio, il fatto è che, per sfortuna di Stiles, qualcosa gli diceva che, tra loro, c’erano dei punti di contatto. Il masochismo, ad esempio. Quel continuo e solo alle volte inconscio ricercare la sottilissima linea che divideva il piacere dal dolore. Hugo, di certo, lo faceva in continuazione. Odiava sentirsi così, ma si crogiolava nel proprio malessere. Perché almeno, quel malessere, era famigliare. Era qualcosa che conosceva, che lo accompagnava da così tanto tempo da averlo ormai convinto che non esistesse un prima, ma solo quel malessere costante e onnipresente. Hugo non era un malessere, ma il malessere era Hugo.
    «tempi più semplici, non so.»
    «Mh.» Per una volta rimase zitto, rimuginando sulle parole di Stiles. O forse no. Non il rimuginare, il tacere. «Sicuramente allora non sembravano semplici», concordò, con un piccolo cenno di assenso del capo.
    «di sicuro più speranzosi»
    Stavolta il suo cenno di assenso fu più profondo, sebbene quella frase gli strappò anche un ghigno. «Mi fa ridere definirmi speranzoso, anche se a posteriori. Io speranzoso…» E in effetti rise, con una mezza smorfia sulle labbra. «Un paradosso.»
    Sperava che in questo, almeno, Stiles non gli somigliasse affatto. Certo, adesso, evidentemente, non si sentiva più pieno di grandi speranze, ma un tempo poteva esserlo stato. Un tempo, poi. Hugo si sentiva un vecchio e, dentro, lo era da sempre, ma razionalmente né lui né lo Stilinski lo erano davvero. Cos’era successo in quei pochi anni da fargli cambiare così tanto prospettiva?
    Lo osservò, la fronte appena aggrottata, vedendolo stringere la tazza piena di caffè tra le mani. Il caffè che aveva incoraggiato il barista a versargli ancora e ancora, fino quasi a raggiungere l’orlo. Poteva anche essere stato un cameriere pessimo, ai suoi tempi, ma non aveva rovesciato nemmeno una goccia, portandoselo alle labbra. Quasi come se non volesse sprecarlo.
    «pensi che questi non lo siano? Tempi più semplici, intendo»
    Schiuse le labbra, partendo dal prendere un respiro. Perché gli veniva tanto facile parlare con gli estranei? D’accordo, Stiles non lo era, non del tutto, almeno, e il pazzoide che si nascondeva dietro l’oblinder aveva decretato fossero anime gemelle, ma rimaneva comunque una persona che, di lui, sapeva ben poco, a parte conoscere il suo innato talento per il pianto e per la lamentela. Non che ci fosse molto altro, in effetti, visto il suo essere un tipo non solo ordinario, ma terribilmente noioso e mediocre e forse persino insopportabile. Tuttavia, il fatto rimaneva tale: da introverso sbagliato quale era, Hugo tentava di superare l’imbarazzo, e la paura, non indossando alcun tipo di corazza. Anzi, non aveva nessuna protezione. Se ne stava lì, metaforicamente nudo, perché non aveva nulla da nascondere.
    O almeno, con gli altri.
    Doveva, e voleva nascondersi solo e soltanto da sé stesso.
    Strinse le labbra, sentendo lo Stilinski nominare la guerra, e cercò di placare il brivido che, inarrestabile, gli risalì fin nella nuca. «Sì. Sì, non lo sono. Sento che è così, a pelle. Però… però, se ci rifletto, dovrei invece dire che non lo so. Perché forse il fatto è questo… non lo so. Non so niente. Non so…» Era così facile, eppure così difficile. «Non so cosa voglio, tanto per dirne una. Non so chi sono.» Lo sbuffo che gli sfuggì si mescolò a una risata, mentre le mani gesticolavano in cerca delle parole giuste, non impedendogli, però, di tenere la bocca chiusa, lasciando così fluire altre parole, che gli suonavano tutte sbagliate. «Anzi, mi sento come Balto: so solo quello che non sono.»
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    23 Y.O.
    INEPT
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    Mi dispiace, davvero.
  9. .
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    HUGO VICTOR COX
    22 YO | RAVENCLAW | INFJ | INEPT | PAIN IN THE ASS | CAT LADYLORD
    A differenza dei suoi fratelli, Hugo non si era mai ritenuto un tipo manesco. Anzi, in un qualche modo, con lo scorrere del tempo, mentre le manipolazioni di Zoe e Adam si erano tanto ampliate quanto affinate, le sue avevano finito per avvizzirsi del tutto. Se una volta, a quattro anni, aveva azzannato un altro bambino nella pancia (ma dopotutto non era colpa sua se il bambino in questione era stupido), e un’altra, durante il primo anno a Hogwarts, aveva letteralmente scarnificato un compagno con il solo uso delle unghie (ancora, non doveva essere lui a rendere conto della stupidità altrui), con il tempo il suo gioco di mani nei confronti degli altri era sparito del tutto. Ne faceva un vanto, naturalmente, l’ennesimo modo per distinguersi da quelle bestie di suo fratello e sua sorella. Eppure non erano poche le occasioni in cui si sentiva fremere dalla voglia di mettere le mani addosso a qualcuno.
    Tipo sentendo Nathan sostenere che non aveva capito nemmeno quella semplice cosuccia.
    Fece una smorfia per ostentare quanto si sentisse mortalmente offeso e stizzito, ben attento a non farsi sfuggire un sorriso. «Il mio criceto è depresso e medita il suicidio, mentre il tuo ha l’ADHD e presto o tardi si farà ammazzare con una delle sue idee», decretò con professionalità, improvvisandosi psichiatra dei poveri. Tuttavia, per quanto iperbolica, quella descrizione non si discostava poi così tanto dalla realtà. C’erano stati momenti in cui aveva davvero temuto il peggio, conoscendo il suo migliore amico. In giro per il mondo, chissà dove, sapeva che Nathan avrebbe fatto di tutto. Lo ammirava per questo, lo invidiava, persino, incapace com’era, all’opposto, di uscire dalla sua confort zone, ma non poteva fare a meno di sentirsi in ansia per lui. Non voleva vedersi recapitare via gufo la notizia che lo Shine era morto, specie, poi, facendo qualcosa di estremamente idiota.
    «O forse morirà per mano mia quando ti tirerò tutti i libri della biblioteca in testa.» Visto che Nathan gesticolava, fece lo stesso, simulando il tiro di un libro diretto verso l’orecchio che gli stava tendendo. Ovviamente non sarebbe mai successo, non tanto perché Hugo non avrebbe mai colpito l’ex tassorosso (cosa che, invece, aveva fatto, giusto per tornare al fatto che, in fondo, non era così pacifista come gli piaceva pensare), ma perché non avrebbe mai rischiato di rovinare un libro lanciandolo. E anche perché, pur volendolo con tutte le sue forze, la sua mira era così scarsa che, invece di piantare uno degli spigoli di copertina nella fronte dello Shine, avrebbe fatto finire il volume da tutt’altra parte.
    Avevano ragione entrambi, in fondo. I criceti nei loro cervelli erano sì diametralmente opposti, ma, ognuno a suo modo, erano tutti e due masochisti e sempre pronti ad ammazzarsi di lavoro. Mentre però quello di Nathan era sempre rivolto all’esterno, quello di Hugo preferiva rifugiarsi nelle più recondite profondità della sua scatola cranica, salvo poi pentirsi di tutto e piagnucolare perché solo abbandonato. Un cane, anzi, un criceto che si mordeva la coda.
    Forse a Hugo non andava davvero bene così, sebbene non facesse che ripeterselo, ma in quel preciso momento non aveva rimostranze, puzza di sangue a parte. Certo, interrogato a riguardo avrebbe comunque trovato una lista infinita di cose di cui lamentarsi, ma la realtà era che, quando era con Nathan, andava sul serio tutto bene. Solo negli ultimi anni (che ormai, in realtà, non erano ultimi, ma svariati), si era reso conto di quanto avesse dato per scontata quella sensazione, e, ancora di più, il suo miglior amico. Non poter più passare ore e ore, ogni giorno, in sua compagnia, da quando si erano diplomati, l’aveva fatto rendere conto di quanto, senza di lui, il mondo fosse ancora più insopportabile.
    «Sono sconvolto.»
    «No, sei insopportabile», lo corresse con il suo solito fare da maestrino, per quanto fosse assolutamente non vero. Tuttavia, ancora una volta, l’avrebbe volentieri strozzato con le sue stesse mani e, al contempo, invitato a continuare ancora e ancora. Farsi sfottere da Nathan e sfotterlo di rimando era da sempre uno dei piaceri più profondi e dolorosi della sua vita e, quel giorno, prima di approdare nella puzzolente sala torture di Hogwarts, gli era mancato particolarmente.
    O meglio, per essere ancora più precisi, gli era mancato Nathan.
    Esattamente come gli aveva confessato.
    Ad alta voce.
    Come una persona adulta.
    Forse lo Shine aveva ragione a essere sconvolto, anche se Hugo non l’avrebbe mai ammesso.
    «Hai fatto bene, ci pensavo da giorni anche io ma come vedi qui le cose–»
    Sospirò e scosse appena il capo, come a dirgli che non c’era problema. E non c’era davvero, perché non voleva accusarlo di niente. Sapeva che Nathan non avrebbe mai fatto nulla per ferire qualcuno, specie poi se quel qualcuno era lui, quello sfigato piagnucolone del suo migliore amico. Perché lo riteneva ancora tale, vero? Anche qui, Hugo non si sarebbe mai neanche sognato di accusare l’ex tassorosso di nulla, ma come gli capitava da solo metà della sua vita, spesso e volentieri finiva per chiedersi se, giustamente, lo Shine avesse trovato con chi rimpiazzarlo. Quando sarebbe successo, non avrebbe potuto che appoggiarlo: perché mai tenersi vicino un tipo come lui, capace solo di brontolare e diffondere cattivo umore? Fosse stato almeno bravo in qualcosa, tipo dispensare consigli!
    Eppure questi pensieri gli facevano male. E lo facevano sentire egoista. E in preda ai sensi di colpa.
    Tutto nella norma, insomma, se ci si chiamava Hugo Cox.
    Proprio per questo, però, in pubblico, e persino con Nathan (soprattutto con Nathan!), a un passo dal baratro eccolo pronto a tirare il freno a mano e schizzare a tutta velocità dalla parte opposta, tornando a punzecchiarlo come se nulla fosse. O meglio, le (terribili) battute del Cox, seconde solo a quelle altrettanto terribili dello Shine, erano sempre molto, molto borderline, in bilico sulla sottilissima fune a picco sul precipizio. A Hugo piaceva pensare di essere dotato di un finissimo humor nero, ma la realtà era che il suo sarcasmo era di una triste tonalità di grigio e, spesso, lasciava trapelare un velato grido d’aiuto.
    «Ti ho… conquistato?» Ghignò, pronto a cogliere la palla al balzo.
    «E figurati, i miei piani al momento prevedono solo una doccia bollente per lavare via tutto questo sangue.»
    Oh, caro, carissimo Nathan. Il ghigno sulle labbra di Hugo si allargò, fino a trasformarsi in una risata trattenuta a fatica. «Lo sai che con me non devi trattenerti…» Sfarfallò le ciglia con fare civettuolo, per poi riuscire a trasformare la grassa risata che gli pizzicava la gola in una risatina acuta e nascosta dietro le dita. «… Puoi dirmi in faccia chiaro e tondo quello che desideri Se Hugo avesse dovuto flirtare veramente non sarebbe riuscito a spiccicare parola. Qui, però, si trattava di mettere a disagio Nathan e, ancora di più, di prenderlo in giro, per cui non gli passò per la testa nemmeno per un secondo quanto la cosa, in un altro contesto, l’avrebbe messo in difficoltà. «Ma va bene, farò tutto da solo: certo che ti accompagnerò sotto la tua doccia bollente
    Nessuno avrebbe dato torto alla saggia Rob se, in quel momento, vedendoli, avrebbe commentato di aver visto certi film cominciare proprio così.
    Anche perché, incurante di tutto, a partire dalle zaffate nauseabonde di sangue che facevano ballare la samba al suo stomaco, e degli avvertimenti non esattamente velati di Nathan, Hugo riempì la distanza che li separava e strinse l’amico a sé.
    Lo strinse davvero, fregandosene della puzza, dell’imbarazzo e del suo solito realizzare di non saper abbracciare. Certo, il fatto che le braccia di Nathan fossero schiacciate tra di loro gli fece pensare, come sempre, di non essere capace di compiere quel gesto così normale e scontato e umano, ma non mollò la presa, deciso ad arrivare fino in fondo.
    Doveva dirgli quanto fosse deficiente, e dunque quanto gli volesse bene.
    «Aww, ti voglio bene anche io.»
    Hugo sentì qualcosa sciogliersi nel petto e dovette lottare con tutte le sue forze perché non strabordasse dagli occhi. Ma, naturalmente, fallì, come scoprì stringendo con decisione le palpebre. L’occhio sinistro, traditore come sempre, non riuscì a intrappolare una lacrima che, sfuggita allo scoglio delle ciglia, gli rotolò giù per la guancia.
    Una ragione in più per non lasciar andare Nathan, in tutti i sensi.
    Vomitino a parte.
    Con un mezzo scatto si scostò, il naso arricciato per trattenere il respiro, e fece un balzo indietro. Nonostante le lacrime che premevano per uscire, nonostante il calore al petto, nonostante l’enorme affetto che provava per lo Shine… il suo riflesso faringeo rischiò di avere la meglio. «Che problema c’è se mi sono sporcato?» Si strinse nelle spalle, ben attento, però, a non guardarsi il maglione. «Tanto c’è la doccia bollente che ci aspetta, no?» Tentò di respirare a pieni polmoni, salvo che, così facendo, sentì il puzzo ferroso del sangue entrargli ancora di più nelle narici. «E comunque figurati, mica ne sto parlando qui e ora con te… Mi hanno consigliato di parlarne con Stilinski. Dicono che sia bravissimo a far sparire tutti quelli che hanno a che fare con lui… per cui sarebbe a dir poco perfetto! Finalmente un modo per sbarazzarmi una volta per tutte di me
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  10. .
    HUGO COX
    You finally met your nemesis
    Disguised as your fatal long-lost love
    So kiss it goodbye
    Until death do we part
    Chiaramente, quello non era un appuntamento. Non solo, e non tanto, perché Hugo non ne aveva mai avuto uno, non davvero (e qualcosa gli diceva che avrebbe continuato a non averne), ma soprattutto perché Andrew Stilinski non lo meritava. No, non è che non meritasse un appuntamento (anche se rischiava di far sparire chiunque, o così gli avevano detto), anzi, solo amore per lui (cosa? Cosa), ma non meritava un appuntamento con Hugo.
    Nessuno meritava un appuntamento con Hugo.
    Nemmeno Dominic.
    Per cui, quello non era un appuntamento. Hugo ne era perfettamente consapevole, ma, come sempre, la sua mente continuava a giocargli brutti scherzi, che lui avrebbe imputato, al solito, alla depressione, pur sapendo che la realtà era ben diversa. Certo, tante cose nella sua vita avrebbero potuto essere diverse senza la malattia, ma il problema principale era e restava sempre uno solo: Hugo Cox. L’aveva persino dichiarato a gran voce, all’ultimo Oblinder: I’m the problem.
    E lo era davvero.
    Di conseguenza, anche se non era un appuntamento, si sentiva in colpa. Che fosse un’uscita tra amici (anche se, povero Stiles, nemmeno quello gli augurava, sebbene Nathan meritasse di non portare quella croce da solo) o una seduta di terapia gratuita, il succo rimaneva sempre lo stesso: l’ex tassorosso aveva scelto di passare del tempo con lui. C’era evidentemente del masochismo in quella mossa, era una decisione presa da qualcuno che non stava tanto bene. Lo stereotipo non vuole forse che gli strizzacervelli diventino tali perché sono i primi a non essere del tutto a posto? Ecco.
    «E quindi.»
    E quindi cosa? Hugo Cox che si concentrava egoisticamente solo e soltanto su sé stesso per non pensare a, be’, tutto il resto?
    Assolutamente sì.
    Non per niente era l’inetto per eccellenza. Tutta la sua famiglia, nessuno escluso, era scesa in guerra. D’accordo, Adam no, ma aveva le sue ragioni ed erano giusto un tantino più sensate dell’incapacità di schierarsi del fratello. Hugo era bravo a riempirsi la bocca di mille parole (o così gli piaceva pensare), a fare discorsi su discorsi su cosa fosse giusto e cosa sbagliato, a disquisire su libertà e democrazia; era, insomma, un perfetto prototipo di PD. Ma quando c’era da sporcarsi davvero le mani, da agire… si bloccava. Letteralmente. Il criceto già di per sé mezzo morto che aveva al posto del cervello stramazzava a terra e ci rimaneva per giorni e giorni.
    Come sempre, Hugo aveva guardato gli altri vivere.
    E morire.
    Il mondo adesso faceva ancora più schifo, ed era anche colpa sua. Non che le cose sarebbero cambiate, è ovvio, se per una volta avesse agito, invece di rimanere in disparte; tuttavia, avrebbe potuto dire di averci almeno provato. O avrebbe smesso di provarci e basta.
    Perché Hugo era un codardo, e non voleva davvero morire.
    Ma non sapeva vivere.
    «da ragazzo lavoravo qui»
    «Mi dispiace.»
    Era sincero, Hugo. Sapeva per esperienza diretta quanto fosse orribile lavorare a contatto con il pubblico (e in generale stare con la gente, suo malgrado). Ma poi in un pub? Sempre pieno di gente? Un incubo vero. «Spero che almeno la paga fosse buona.» Ma aveva forti, fortissimi dubbi a riguardo.
    «che esperienza. Un po’ mi manca» Hhhh.
    «Allora sei davvero un po’ masochista.» Cosa? Cosa. «Voglio dire.» Tossicchiò, sorridendo imbarazzato, e abbassò lo sguardo sulla tazza di tè, dove prese a muovere su e giù lo stantuffo per l’infusione. «Con il tempo si tende a… romanticizzare tutto. O almeno. Io lo faccio decisamente un po’ troppo spesso.» Con un piccolo sospiro, rialzò lo sguardo verso lo psicomago, tornando a rivolgergli un mezzo sorriso. «Subito dopo Hogwarts ho lavorato tre mesi in un negozio di vestiti per bambini. Io», si indicò, derogatory, «sì, lo so, fa già ridere così. È stato… orrendo?? Sotto tutti i punti di vista?? Eppure…».
    Eppure, eh.
    «Anche a me delle volte manca. Perché era… un tempo più semplice.»
    Era giovane.
    E non c’era appena stata una guerra.
    gif code
    23 Y.O.
    INEPT
    HALF BANANA
  11. .
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    HUGO VICTOR COX
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    Voleva piangere? Un po’ sì. Nulla di strano, certo, per Hugo Cox, ma per una volta le sue non sarebbero state lacrime di tristezza o di rabbia. Quelle che ora sentiva pizzicargli gli occhi, prepotenti come sempre nel loro desiderio di uscire, erano lacrime di tenerezza. E di nostalgia. Perché adesso Nathan era proprio lì, davanti a lui, fisicamente presente, vivo, ma presto non lo sarebbe stato più. Non perché sarebbe morto, eh (quel pensiero non doveva sfiorarlo neanche da chilometri di distanza, naturalmente; se l’avesse fatto allora sì che avrebbe pianto, e per sempre), ma perché, da lì a poco, ognuno sarebbe dovuto tornare alla propria routine e sarebbero di nuovo passate settimane, per non dire mesi, prima di trovarsi così, faccia a faccia. Per non parlare del fatto che realizzare che, nonostante tutto, Nathan fosse lì, per lui, sempre e comunque, lo faceva commuovere. L’idea di avere non solo un amico, ma quell’amico, gli faceva venire voglia di piangere.
    Perché era così?
    Se lo chiedeva da ventidue anni e non era ancora riuscito a trovare una risposta. Perché non riusciva a godersi neanche le cose belle? Perché la sua mente, anche in quei momenti, già scivolava al dopo, a quando sarebbe rimasto di nuovo solo con sé stesso, e con i suoi maledetti, e stupidissimi, pensieri?
    «Non sei... Prevedibile.» Ecco, appunto. «Certo che lo sono.» Sospirò, stringendosi nelle spalle. Sapeva benissimo come la pensava Nathan a riguardo, ma Nathan, a sua volta, sapeva come la pensava lui. Mentre per il tassorosso non c’era nulla di male nell’essere prevedibili e, anzi, era qualcosa di positivo, nel suo essere un punto fermo, per il corvonero era una delle (tante) cose terribili che lo contraddistinguevano. «Non riesco a rassegnarmi all’idea di essere…» «Sei Hugo. Affectionate.» «Già.» Sospirò di nuovo, tenendo lo sguardo basso. «Una bella fregatura.»
    Eppure, non era arrivato fin lì per farsi compatire. O almeno, non solo. Era consapevole di suscitare pietà anche involontariamente, e sempre, così come sapeva che, presto o tardi, avrebbe finito per lamentarsi di qualcosa. In entrambi i casi, poi, in compagnia dello Shine era inevitabile, perché con lui Hugo sapeva di poter essere fino in fondo sé stesso e, dunque, un concentrato di lamentosa pietà. Tuttavia, non voleva starsene lì a piagnucolare, ma, molto più semplicemente, passare del tempo con il suo migliore amico. Perché il suo cervello non riusciva a capirlo?
    E, a proposito di cervelli, annuì sentendo Nathan dire che il suo non era un criceto morto, ma, parafrasando, uno fin troppo iperattivo. «Non è mai troppo… Cioè, non lo è finché non ti fa stare troppo male… Anche se comunque ti rende Nathan», iniziò serio, per poi, però, scivolare nell’ironia, incapace di non sdrammatizzare. Ognuno a suo modo, entrambi avevano decisamente un po’ troppi problemi con i rispettivi cervelli, che, in modo simile ma diversissimo, sembravano davvero incapaci di stare un attimo zitti e buoni. Strinse le labbra, osservandolo, non potendo fare a meno di chiedersi – e di rispondersi – cosa passasse per la testa all’amico. In parte lo sapeva, o credeva di saperlo, ma non voleva davvero pensarci. Perché Hugo sapeva che, presto o tardi, Nathan non sarebbe più riuscito a starsene lì fermo. Poteva impegnarsi in tutte le attività scolastiche ed extrascolastiche del castello, crearne di nuove, aiutare studenti e professori, persino lavare ogni giorno il sangue nella sala torture… ma non sarebbe bastato. «L’hai appena detto tu: non c’è niente di male nell’essere prevedibili… e sé stessi.» Cercò i suoi occhi, stavolta senza la minima traccia di ironia nella voce, ma, al contrario, un pizzico di malinconia. Nella sua imprevedibilità, Nathan era prevedibile: Hugo sapeva che, presto o tardi, avrebbe spiccato il volo di nuovo. Nel suo egoismo avrebbe voluto dirgli di non farlo, di non andare. Ma non poteva farlo. Non voleva.
    Così come non poteva, e non voleva, ascoltarle quel discorso sul diventare assistente. Alzò gli occhi al cielo e si tappò le orecchie con fare teatrale, mimando con le labbra un: «LALALALA TANTO NON TI SENTO». Lui assistente? Neanche nei sogni più sfrenati di sua nonna (che, per la cronaca, gli ribadiva la cosa ogni volta che lo vedeva – quindi, come minimo, una volta alla settimana: Perché non vai a insegnare?). I suoi incubi, invece, erano pieni di quella possibilità. E, anche se non lo sapeva, avevano pure un nome: Sara. Sara che chiede alla palla cosa fare, e che ottiene la risposta che mai e poi mai Hugo avrebbe voluto avere… «Ma forse pozioni non sarebbe proprio il massimo per te...» «Senti, non ho ancora digerito del tutto quella E- ai MAGO, per cui non infierire…!», sbuffò con l’ennesima smorfia, dimostrando di aver sentito tutto quello che l’amico aveva appena detto. «E poi la Queen mi fa paura. E i cinni. E il preparare le lezioni. E il non sapere le cose. E i cinni. E il non essere all’altezza. E i cinni, l’ho già detto? E…» Si interruppe, per riprendere fiato, torcendosi le mani agitato. Non voleva farlo per una serie infinita di motivi. E allora.
    E allora niente, in classic stile Sara che non sa affrontare le discussioni, cambiò discorso. «Per andare dove?» Dai però, se gliela serviva così, su un piatto d’argento… «Non farmelo dire, su…» Ridacchiò e scosse il capo all’ennesima domanda confusa di Nathan, intenerito ma un po’ esasperato. «Anche se l’idea di torturarti psicologicamente è molto allettante, non lo farò…» Lo guardò a braccia incrociate, sorridendo per la sua espressione persa e preoccupata. «Non ti sei dimenticato di niente, tranquillo. Non avevamo alcun piano… non avevamo un appuntamento Gli fece l’occhiolino, poi continuò: «Non sei tu ad aver dimenticato pezzi per strada, ma io a… essere stato imprevedibile? Wow, unexpected in effetti». Tornò a ridere da solo, scuotendo appena il capo. «Te l’ho detto subito: volevo solo… vederti?», cercò nuovamente di spiegare, mentre, all’improvviso, una nuova consapevolezza gli cadde addosso, facendolo vacillare. «Ma forse tu… hai altri piani…»
    Mentre Hugo si buggava, Nathan continuava a fare lo stesso: se già a distanza il neurone che condividevano rimbalzava tra loro, quando erano a pochi metri l’uno dall’altro impazziva del tutto, confondendosi e confondendosi a vicenda. Così, da una parte, Hugo cominciava a farsi venire il panico all’idea che l’amico avesse altre cose più importanti e interessanti da fare che passare del tempo non previsto con lui; dall’altra, Nathan pensava davvero che qualcuno potesse prendere il suo posto nella vita del Cox.
    Perché erano così?
    «è perché ho dimenticato l’appuntamento di oggi? Giuro che posso essere un amico, e una persona, migliore di così. Sicuro di non volermi abbracciare?!» «Sei davvero.» Un passo avanti. «Davvero.» Un altro. «Davvero Un altro ancora e, nonostante le zaffate ferrose, nonostante lo stomaco che si contorceva, più per quello che stava per fare che per la puzza, in effetti, Hugo si slanciò verso Nathan. «Un deficiente.» Lo strinse forte, incurante dell’odore, dell’imbarazzo e, soprattutto, della sua incapacità nel compiere quel gesto.
    E con una grande, grandissima voglia di piangere.
    Becoming older than 12 years old
    was the biggest mistake of my life.
  12. .
    Dato che Elisa mi ha fatto venire in mente cose importanti.
    (Ma sì dai metto anche i wip.)

    CODICE
    <tr><td>thursday de thirteenth</td><td>152</td></tr>

    <tr><td>aracoeli iglesias miranda </td><td>160</td></tr>

    <tr><td>lucrezia linguini </td><td>163</td></tr>

    <tr><td>milena shevchenko</td><td>168</td></tr>

    <tr><td>adalbert behemoth (+ Rita) </td><td>170 (176)</td></tr>

    <tr><td>hugo cox </td><td>179</td></tr>

    <tr><td>adam cox </td><td>183</td></tr>

    <tr><td>benedictus deogratias</td><td>188</td></tr>
  13. .
    HTML
    [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/m/?t=62411167]Hugo Cox[/URL]

    - assistente di Trasfigurazione

    ciao Freddie siamo pronti a piangere!!
  14. .
    ↳ PRIMA UTENZA: sehnsüchtig.
    ↳ NUOVA UTENZA: the goblin.
    ↳ PRESENTAZIONE: dai lo sapete che è colpa di federica
    ↳ ROLE ATTIVE:
    - bertie [05.06]
    - adam [06.06]
    - thor [07.06]
    - hugo [08.06]
    ↳ ULTIMA SCHEDA CREATA: adam [10.04]
  15. .
    HUGO VICTOR COX
    Ora. Hugo non voleva lamentarsi. Sul serio. Non voleva essere additato per l’ennesima volta come quello che apriva la bocca solo per avere da ridire su tutto e tutti e, dunque, per farla breve, per lamentarsi. Era una vita che se lo sentiva dire ed era a dir poco stufo di quella stupida banalizzazione. Si sentiva costretto in quel ruolo, nei panni del lamentoso di turno, di quello che proprio non ce la faceva a stare zitto e a far notare, più o meno acidamente (ma di solito più, per non dire troppo, d’accordo), che qualcosa non andava, che era sbagliato, che sarebbe stato meglio fare in un altro modo, che lui aveva ragione.
    D’altronde, però, non era colpa sua.
    Se aveva sempre ragione, s’intende.
    Era solo una delle sue tante, troppe, appunto, sfortune.
    Si sentiva una Cassandra, o qualcosa del genere, ad avere sempre ragione e a essere puntualmente ignorato. Davvero, la gente non si rende proprio quanto di quanto la cosa possa essere snervante. Hugo l’aveva capito molto presto, quando a quattro anni aveva candidamente ammesso con sua madre che sì, era stato lui a mordere la pancia di Lawrence perché proprio non ne voleva sapere di ascoltarlo su come si disegnava un cavallo. Non era colpa sua se Lawrence era stupido e non sapeva disegnare. Così come non lo era se lui, all’opposto, era bravissimo già allora nel replicare su carta l’anatomia equina e aveva intelligenza di un bambino di otto anni (come minimo).
    Hugo non voleva lamentarsi, né pensare di essere il catalizzatore di tutte le sfighe di questo mondo.
    Ma era dannatamente consapevole, purtroppo per lui, di essere un catalizzatore di sfortuna. Uno sfigato insomma, in tutti i sensi.
    La National Art Gallery era a dir poco immensa, ma quel tizio dove era andato a gironzolare, se non nella stanza dov’era anche lui? E in quale corsia, se non in quella che stava attraversando a sua volta? Davanti a quale libreria si era fermato? Su quale scaffale aveva lasciato vagare lo sguardo? Dove l’aveva, infine, posato?
    Sì, sì e ancora sì.
    Sua madre diceva di non aver scritto giocondo in fronte, quando uno dei tre fratelli Cox tentava – invano – di ingannarla grazie all’eloquio – straordinariamente sviluppato persino in quelle teste calde di Adam e Zoe –. Hugo, invece, era abbastanza certo di aver marchiato a fuoco, proprio sotto a quell’ammasso di riccioli scuri che si trovava in testa, lì dove già cominciava ad apparire qualche segno, a forza di aggrottare la fronte per scazzo o preoccupazione che fosse, proprio la parola sfigato.
    Se poteva succedergli qualcosa, qualcosa di stupido, si intende, per lo più, gli sarebbe sicuramente successo.
    E infatti.
    «Certo che voglio leggerlo.» Cosa aveva da ridere? Cosa??? Va bene, lo sapeva perfettamente e, dalla sua parte, avrebbe fatto lo stesso. Insomma, come non si poteva ridere di lui? Per onestà intellettuale lo riconosceva, ma questo non voleva dire che non gli desse fastidio, anzi… «Cosa dovrei farci con un libro? Costruire un fortino? Usarlo come arma? In effetti l’opzione di leggere era l’ultima opzione.»

    Eh.
    Si trattenne con tutte le sue forze dall’alzare gli occhi al cielo. Ci riuscì, in effetti, ma concentrato com’era su quel particolare, sprecò tutte le sue (misere) energie, finendo quindi per lasciar trapelare il disappunto e decisamente un tantino troppo sarcasmo. «E adesso cosa mi dirai? Che la penna ferisce più della spada?» Una parte di lui se ne pentì subito, per paura che il ragazzo si indispettisse e cominciasse letteralmente a scappare con il suo libro, ma non poté farci nulla. Sebbene avesse fin troppo spazio, specie in larghezza e non in altezza, almeno per i suoi gusti, dove immagazzinare il sarcasmo, era sempre così tanto che, da qualche parte, doveva pur sfogarsi.
    D’altro canto Hugo rimaneva pur sempre una contraddizione vivente, quindi, vedendo il biondo mettersi comodo contro una libreria, non solo non si calmò (anche se, d’accordo, non stava scappando), ma quel briciolo di forza racimolata grazie all’essere pungente si dissolse, lasciandolo nuovamente alle prese con le sue ansie.
    Lo sapeva che non si sarebbe mai laureato. L’aveva sempre saputo.
    «Aaah, sei qualcosa come… uno studente?» “Hhhhhhhhhhh.” Ecco appunto. Che il ragazzo fosse davvero un telepate? O quantomeno un sensitivo? Certo, lo sapevano tutti che divinazione era una fuffa, però………. «No, leggo per piacere personale libri come quello», finì però per ribattere, in una nuova vampata di sarcasmo, sottolineando con lo sguardo il libro in questione, a cui lanciò un’occhiata significativa prima di tornare al viso dell’altro. Reincrociando i suoi occhi scuri, però, qualcosa dentro di lui sobbalzò, come preso alla sprovvista e, soprattutto, investito ancora una volta dall’agitazione. «… D’accordo, vorrei farlo, per poter dire di essere un vero intellettuale eccetera eccetera, ma nella realtà? Eh. Cioè, sì, queste cose mi piacciono, altrimenti non farei quello che faccio, ma procurarmele così, per una semplice questione di volontà? Come passatempo?» Stavolta fu lui a ridere. Sempre di Hugo Cox, certo, ma con una nota stonata, in cui era racchiusa tutta la propria pateticità. Perché sì, si sentiva patetico. Anzi, era patetico. Sospirò scuotendo il capo e incrociò le braccia, non sapendo cosa farsene di quelle mani sgraziate che si ritrovava. «Quello che voglio dire è che… sì. Sono uno studente. Non un liceale, eh!!» Classic Rob, insomma. «Io, umh… studio Lettere al King’s College?» Si morse quasi la lingua per impedirsi di continuare e non sbrodolare fuori quanti esami gli mancavano per laurearsi e che, soprattutto, di quel passo non si sarebbe mai laureato, sarebbe finito fuoricorso, l’avrebbero cacciato con infamia tanto dall’università quanto da casa e sarebbe morto solo e abbandonato e di fame e di freddo sotto un ponte qualsiasi.
    Tuttavia, in un qualche modo il suo sguardo impanicato diceva tutto. «È arrivato il momento della verità: non mangio le persone. Rilassati.» Impanicato? Alterato, di colpo. Possibile che quel tizio fosse così irritante? E dire che era lui, di solito, il re degli irritanti, con le sue lamentele e i suoi modi precisini da so-tutto-io e ho-sempre-ragione (per la cronaca, ovviamente erano verissime entrambe)! Eppure, al contempo, lo terrorizzava, dal momento che aveva la sua vita, pardon, il suo libro tra le mani. Letteralmente. «Se anche lo facessi… Beh, ok, vorrei dire che non ti giudicherei perché non giudico, ma…» Si strinse nelle spalle con una smorfia. «… Non è vero. Giudico tutto. Tutti. sempre», ammise, lasciandosi finalmente andare a un mezzo sorriso. Non perché fosse tutto a posto, anzi, ma provò per un attimo un vago senso di distensione. Circa.
    Di conseguenza, ne approfittò per tessere mentalmente un discorso capace di convincere il ragazzo a dargli il tanto agognato libro. Peccato che, così facendo, finì per lasciare al biondo tutto lo spazio necessario per intervenire. In che senso voleva uno scambio? Aggrottò la fronte (uno dei tanti motivi per cui aveva già qualche ruga, appunto), osservandolo confuso e accigliato. Cosa poteva volere in cambio del libro? No, non avrebbe pensato male di nuovo, non l’avrebbe fatto, non…
    Troppo tardi.
    «Non mi sembra affatto un buon patto se non mi dici co-» « Io ti do questo libro, se me ne presti uno dalla tua libreria.» «Ah Doveva aver capito male. Vero? VERO? «Un libro. Dalla mia libreria.»
    In caso ci fossero dubbi, Hugo era proprio una di quelle persone. Quelle che trattano i propri libri come pezzi da museo, come reliquie, come figli. Quelle che li rimirano sospirando alla stregua di innamorati che si struggono per la passione. Quelli che hanno imparato a proprie spese cosa significa prestare i libri al resto del mondo, che si tratti di parenti o amici. Quelli che, consci della propria esperienza, non affiderebbero mai, mai e poi mai uno dei propri figli a un perfetto sconosciuto.
    Deglutì rumorosamente, all’improvviso a corto di parole. Non poteva voler dire sul serio. Non a lui. Non così.
    Restò lì, a fissarlo basito, mentre il biondo gli voltava le spalle e riprendeva a scorrere i titoli lungo gli scaffali. «Ho gusti difficili in fatto di libri.» Si augurò davvero che non fosse Charles Xavier dei poveri, perché lo insultò mentalmente in modo tutt’altro che leggero. E pensò male. Ancora (sempre).
    Non voleva, ma doveva farlo. Si sentiva come… No, d’accordo, era un po’ troppo persino per lui come termine di paragone. Era di tutto, Hugo, ma non così sessista. «…» Gemette. «D’accordo.» Un altro gemito mezzo strozzato. «Va bene.» Sospirò e si spostò sulla traiettoria del biondo, per tagliargli la strada. «Te lo darò.» Anche se sentiva morire dentro, cercò di intercettare il suo sguardo e… L’aveva appena detto davvero? L’aveva appena detto davvero. «Il mio libro, intendo», ci tenne quindi a precisare, serissimo, continuando a morire internamente. «Però devi darmi qualche, umh, indizio? Del tipo… cosa ti piace? Hai gusti difficili, sì, ma… sai cosa ti piace, no? Cosa ti fa sentire bene?» Sempre peggio. «Quando. Leggi.»
    Fu nelle notti insonni,
    vegliate al lume del rancore
    che preparai gli esami:
    diventai procuratore,
    per imboccar la strada
    che dalle panche d’una cattedrale
    porta alla sacrestia,
    quindi alla cattedra d'un tribunale.
    Giudice, finalmente,
    arbitro in terra del bene e del male.

    22 Y.O. | INFJ-TFORMER RAVENCLAWINEPT EMO BOY


    Sara: daje scrivo due stronzate!
    Sempre Sara, 1500 parole dopo: oh no I failed.

    E niente, siamo stupidi, tutti e due.
35 replies since 26/1/2022
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