your (beloved) personal curse.

hugo&nathan

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    La maledizione di Hugo stava colpendo ancora.
    No, non solo quella per cui, ogni volta che (ri)nasce, poi Sara, da madre degenere quale è (visto che odia i bambini, anche se, diciamocelo, vi sembra un bambino? Eh.), poi non lo muove perché è SaraHugo.
    Quella per cui, in un normalissimo sabato sera di inizio dicembre qualunque, quando quindi, come le persone normali, avrebbe dovuto essere in giro a divertirsi, Hugo si ritrovò a Hogwarts. D’accordo, ritrovarsi non è il termine adatto, dal momento che non fu un puro caso, bensì il frutto del suo tanto odiato libero arbitrio. Come fece non si sa, dato che il Castello e tutte le sue proprietà sono protette da potentissimi incantesimi onde evitare pericoli provenienti dal mondo esterno (ah sì?), ma, fatto sta che, proprio quel sabato sera, la maledizione, come d’altronde altre infinte volte, stava per compiersi.
    Hugo, in tutta la sua prevedibilità, non aveva assolutamente nulla da fare. Non solo di bello, sia chiaro, ma proprio nulla nulla, a parte ovviamente crogiolarsi nella sua (solita) solitudine depressa. Uscire di casa era stato uno sforzo atroce, e forse anche arrivare a Hogwarts, chissà, ma la voglia di fare quello che gli riusciva meglio aveva vinto tutto il resto. Un conto, però, era lamentarsi via messaggio, su Telegram o WhatsApp che fosse, mandando contemporaneamente reel sarcastici e depressi su Instagram e no, niente TikTok, perché era un boomer nel corpo di un TikTok; un altro era poterlo fare faccia a faccia. Peccato che quel maledetto del suo migliore amico fosse lontano chilometri e chilometri da Londra, impegnato in quella vita da badger adulto che, outrageous, prevedeva anche avere un lavoro. Anzi, un lavoro vero, come puntualmente gli veniva fatto notare dagli adulti della sua famiglia (quindi no, non Adam e Zoe, è chiaro), visto che faceva il docente. Non ancora al cento per cento, certo, ma prima o poi, da assistente quale era, sarebbe passato al livello successivo, si sarebbe evoluto da badger adulto a badger adulto TM.
    Per cui eccola lì, la maledizione di Nathan. O di Hugo. Anzi, e, perché tutto dipendeva da una piccola, ma fondamentale, sfumatura di significato. Nathan era maledetto, mentre Hugo era la maledizione. Lo Shine era maledetto da quando, undici anni prima, aveva avuto la sfortuna, sfortunatissima idea di accogliere sotto la sua ala il Cox. Hugo gli ripeteva di continuo quanto quella decisione fosse stata stupida e avventata: non se lo sarebbe scollato di dosso mai più. Perché, appunto, Hugo era la maledizione.
    Continuando le tre conversazioni costantemente aperte tra loro – una per social –, l’ex Corvonero si addentrò per i corridoi del Castello, sapendo benissimo dove trovare il suo migliore amico. Come mai stesse passando il suo sabato sera non solo tra quelle vecchie pietre, ma, nello specifico, nella Sala delle Torture, Hugo non era del tutto sicuro di volerlo sapere. Menzogna, chiaramente, visto che, pettegolo com’era, voleva saperlo eccome. Quindi presto l’avrebbe quindi scoperto e poi, finalmente, finalmente, avrebbe potuto lamentarsi a voce. Ma a voce sul serio, non al telefono o in videochiamata, opzioni che, entrambe, gli mettevano i brividi. Insomma, parlare con la gente? Rispondere al telefono? Un incubo. Inoltre, c’era una tutt’altro che sottile ironia nel fatto che stesse andando a trovare Nathan in quel luogo. Quale peggiore tortura, per lo Shine, che ritrovarsi davanti un Hugo totalmente inaspettato e non annunciato?
    Con un po’ di fiatone, avendo camminando con il passo Bologna Londra per mezza Hogwarts, su questi pensieri arrivò davanti alla pesante porta che lo divideva dall’ex Tassorosso. Sospirò e, spingendola, un sorrisetto gli si dipinse sulle labbra, accompagnato da un lieve batticuore. No, non era una cosa da gay ingenuo, come si era sentito dire da sua sorella un’infinità di volte, ma una semplice e purissima constatazione: Nathan era la sua persona preferita, nel modo più puro e innocente possibile. Mai sentito parlare di agape?
    Si schiarì la voce tossicchiando, come se non avesse fatto già abbastanza rumore aprendo la porta con tutta la sua mancanza di grazia, e si annunciò: «Lo so che non vedevi l’ora».
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    Alcuni giorni era difficile per Nathan ricordarsi che c'era un lato estremamente bello nell'insegnare (o, insomma, contribuire ad insegnare) ad Hogwarts, nel ritrovarsi a formare giovani menti e condividere con loro il sapere, e la storia. Sapeva che ci fosse, lo vedeva tutti i giorni negli sguardi interessati degli studenti che si approcciavano alla materia con sete di conoscenza e domande (erano pochi, ma c'erano — e a lui sarebbe bastato anche solo uno di loro per alimentare la scintilla che lo animava e gli dava la voglia di continuare, di insistere, nel trovare la gioia necessaria per fare quel che faceva); lo ritrovava nelle lezioni con più o meno partecipazione, quasi sempre il suo momento preferito della giornata (tranne, ovviamente, quelle dove finivano quasi per morire tutti quanti.); lo cercava nelle domande di chi si tratteneva oltre l'orario di lezione per approfondire un argomento, o in quelle di chi chiedeva titoli da reperire in biblioteca per fare da sé.
    Sapeva ci fosse, ne era certo — ma era difficile ricordarselo chino sul pavimento della sala torture, intento a rimuovere il sangue fresco dell'ultimo malcapitato studente che era finito lì dentro per anche il più stupido dei motivi.
    Non avrebbe mai accettato che quello potesse essere un metodo valido per correggere comportamenti o impartire disciplina; mai, mai, Nathan Shine-Clythorne avrebbe trovato valido l'utilizzo di torture in ambito scolastico. C'erano così tanti modi alternativi per punire uno studente — perché scegliere proprio la tortura?
    Va da sé che era un argomento delicato, quello lì, che prescindeva dalla scuola in sé: lo trovava barbarico anche in relazione al sistema giudiziario, e non digeriva molto bene le solite voci che raccontavano dell'ultima tortura avvenuta al ministero per mano dei pavor specializzati! Cioè, voglio dire!!! Delle persone decidevano volontariamente di intraprenderla come carriera. Perché.... Solo perché; era tutto ciò che Nathan fosse in grado di domandarsi. E non aveva alcuna risposta in merito.
    Non era in grado di accettare la violenza, di qualsiasi genere e in qualsiasi forma si mostrasse; persino il Quidditch era troppo, per lui. Figuriamoci se l'idea di lasciare segni visibili sulla pelle di un altro essere umano, o invisibili, ma altrettanto dolorosi, nella psiche potesse mai essere qualcosa che gli faceva dormire sonni tranquilli.
    Ogni volta che poteva, intercedeva per gli studenti e si affrettava a proporre punizioni più adeguate al misfatto per cui erano stati beccati: alcune volte aveva successo e riusciva a strappare ai ragazzini una piccola occasione per fare meglio la prossima volta; altre, non era così fortunato e il massimo che poteva fare era essere lì quando i giochi sadici dei torturatori si concludevano, per aiutare i malcapitati a trovare la strada dell'infermeria. Odiava quei momenti con tutto se stesso.
    E, per esorcizzare un po' le proprie colpe (era pur sempre parte di quell'organo che decideva quotidianamente che le punizioni corporali fossero una necessità, sebbene volesse disperatamente distaccarsi da quella posizione) spesso tornava nella stanza per rimettere in ordine e far sparire i segni dell'ultimo, evidente, supplizio.
    Anche quel giorno aveva deciso di sporcarsi le mani, sotto lo sguardo di disapprovazione del torturato o di chiunque passasse in zona e lo trovasse a fare la Cenerentola della situazione.
    Ma gli interessava forse qualcosa? No, infatti.
    Era abituato alle voci che lo prendevano in giro o lo ritenevano troppo debole per sopravvivere in quel sistema; le voci di chi non lo reputava abbastanza.
    Quello che non si era aspettato di sentire, invece, era la voce familiare di Hugo Cox. Non aveva bisogno di voltarsi per sapere che fosse lui, ma lo fece comunque perché com'era possibile che fosse lui.
    «Come... da dove sei entrato.» Era ovviamente confuso dalla sua presenza lì, talmente tanto da sembrare addirittura ingrato del fatto che ci fosse davvero, in carne ed ossa.
    Non lo era.
    Anzi, se possibile era il contrario: una faccia amica, e che lo conoscesse davvero, in quei momenti era esattamente ciò di cui Nathan aveva bisogno.
    Scosse la testa in una cascata di riccioli castani (di recente li aveva accorciati drasticamente, ma erano ancora lunghi abbastanza da solleticargli il mento e finire sugli occhi in maniera fastidia) «Hughie!» il sorriso che gli rivolse era in netto contrasto con la tristezza del suo sguardo. «Cosa ci fai qui!» Nella sala delle torture, certo, ma anche ad Hogwarts e basta. Posò le mani sulle ginocchia, senza alzarsi da terra e senza preoccuparsi di sporcare la stoffa: era già macchiata di sangue, a quel punto. «Che bello vederti!» ed era incredibilmente sincero ogni volta che lo diceva, «come mi hai trovato, e...no, davvero, come sei entrato.» era confuso su più livelli, lo Shine. Avevano sollevato le barriere per far entrare l'amico? Aveva forse appuntamento con qualcuno?? Lo stavano aspettando???
    Perché, dubitava si fosse imbucato, aggirando tutti i controlli che la scuola metteva in piedi per proteggersi dal mondo esterno.
    E non era nemmeno giorno di lezione special! Non che Hugo fosse special (ma era speciale, a modo suo) perciò Nathan non sapeva darsi davvero risposte.
    «Scusa per il... disordine.» Eufemismo della giornata, ma vabbè.
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    «Gnam gnam.»
    No, non era la reazione per tutto quel, be’, sangue, dato che, al contrario, ancora prima di realizzare cosa fosse esattamente quella roba sul pavimento, l’odore, anzi, il tanfo metallico gli aveva già invaso le narici, facendogli attorcigliare le budella nello stomaco.
    Era, ovviamente, la risposta alla domanda, o meglio, all’affermazione di Nathan. «Come... da dove sei entrato.» Aveva senso? No. Ma ne aveva anche tantissimo. Non che Hugo si fosse mai sentito rivolgere davvero quelle parole, anche perché non erano esattamente, ecco, positive, se ci si pensa bene, ma aveva letto molte più fanfiction di quello che avrebbe mai ammesso, quindi... eh. Quindi. «Vorrei potertelo spiegare, ma… no, ok, non sono credibile se dico che non voglio annoiarti», aggiunse stringendosi nelle spalle con un mezzo sorriso, sentendo nuovamente una zaffata ferrosa colpirlo in pieno. Represse il mezzo conato che già cominciava a solleticargli la gola, scostando per un attimo lo sguardo. «Scusa», bofonchiò. «Non è per te! Lo sai… è che non voglio fare come al solito… cioè…» Sbuffò, tappandosi il naso per qualche istante, come se la cosa potesse davvero aiutare (per poi rendersi conto che, al contrario, se mai peggiorava il tutto). «Non voglio essere il vomitino come sempre, ecco», si decise a precisare, come se davvero Nathan ne avesse bisogno. Dall’alto della sua dolcezza, quello era uno dei modi in cui sua madre amava definirlo, spesso e volentieri, andando a ritirare fuori fatti accaduti mille anni prima, come quella volta in cui, in vacanza in Sicilia con gli zii, si era sentito male nell’istante esatto in cui si erano seduti in un ristorante nel porto di Castellamare del Golfo, costringendo tutti a scappare a casa immediatamente (e sì, per la cronaca, sua zia glielo rinfacciava ancora).
    Comunque.
    «…» Schiuse le labbra per dire qualcos’altro, ritrovandosi però a sorridere solamente quando Nathan lo chiamò, spiazzato dallo stridore tra lo sguardo e il sorriso di lui. «Ehi…», mormorò piano, spostando il peso da un piede all’altro. Nathan era l’ultima persona al mondo con cui sentirsi in imbarazzo, naturalmente; il problema, infatti, era la propria persona, non quella del suo migliore amico. Non c’era nulla di cui fosse più certo che del buon cuore dell’ex tassorosso, con tutti i suoi annessi e connessi, eppure, guardandolo lì, con i jeans e le mani imbrattate di sangue non suo, Hugo non poté fare a meno di sentirsi una merda. Nathan non l’avrebbe giudicato mai e poi mai, nemmeno sotto tortura (ah ah), ma Hugo era bravissimo a fare da sé: il suo migliore amico stava letteralmente lavando via la sofferenza altrui, chiedendogli cosa ci facesse lì, mentre lui era appunto lì e… quale era la sua utilità? «Finalmente ho deciso di esaudire i desideri più profondi di mia madre…», cominciò estremamente serio e contrito. «Hai davanti il nuovo assistente di trasfigurazione!» Resse lo sguardo dell’amico per qualche istante, ma poi rabbrividì e scoppiò a ridere. «No, piuttosto mi uccido. Senza offesa, eh», tossicchiò arrossendo. «Il fatto è che… mi mancavi?»
    Ecco. Era tutto lì, in quelle due semplici, eppure difficilissime, parole.
    Hugo lo osservò alzarsi con un altro brivido dovuto alla vista, e all’odore, del sangue, ripetendosi che non era davvero sangue, sebbene fosse una balla colossale. Più dello stomaco in subbuglio, però, il cuore sobbalzò e si contorse, al contempo intenerito, fiero e dispiaciuto per quello che stava facendo Nathan lì dentro. Sapeva perfettamente dei suoi sforzi contro il sistema ed era completamente d’accordo con lui; ne era orgoglioso, certo, ma non poteva fare a meno di preoccuparsi. E se avessero deciso di prendere provvedimenti? Nathan non faceva niente di male, anzi, ma il pensiero dei piani alti, lì al Castello, non era esattamente sulla stessa linea… Eppure, egoisticamente, la gola gli pizzicò nel sentirsi dire che era bello vederlo, invece che per la preoccupazione. «Vorrei dire lo stesso, ma… ew.» Arricciando il naso alzò le mani e fece un passo indietro. «Non venire più vicino di così», lo intimò fintamente schifato con una smorfia. «come mi hai trovato, e...no, davvero, come sei entrato.» «Ho le mie fonti…» Inizialmente serio, inarcò un sopracciglio. «… tu. Tu sei la mia fonte.» Dopo aver estratto il telefono dalla tasca del cappotto, glielo sventolò davanti. «Sei stato tu a dirmi i tuoi entusiasmanti piani per stasera. Il tête-à-tête tra te, la spugna e il sangue, mmh?» Il mezzo conato che ne seguì non fu poi davvero così mimato, ma almeno non uscì niente. Tornando a frugarsi nelle tasche del cappotto, stavolta ne estrasse una pergamena ripiegata. Si schiarì la voce tossicchiando e cominciò a leggere una lettera cerimoniosa in cui chiedeva di poter consultare un’edizione a stampa di inizio Seicento di un astruso poema epico-agiografico che, con suo grande, grandissimo stupore si trovava solo nella biblioteca di Hogwarts. «… e quindi ecco come ho ottenuto il mio pass super mega vip per il Castello», concluse ghignando. Quella della seicentina non era neanche del tutto una balla, ma era stata la scusa perfetta per poter entrare a Hogwarts e andare a tormentare Nathan.
    «Scusa per il... disordine.» Sollevò le sopracciglia, ma la sorpresa durò solo qualche istante. «Sei proprio un adult badger», lo canzonò con un sospiro, anche se, in realtà, nel suo tono emerse perfettamente la nota di orgoglioso affetto. «Kinky, ma non giudico…» Si sfilò il cappotto appoggiandolo sulla prima superficie disponibile che gli sembrò relativamente pulita – e, almeno apparentemente, non contaminata dal sangue –, poi si rimboccò le maniche del maglione. «Se vuoi ti, emh, aiuto…» Deglutì un po’ troppo rumorosamente. «Prometto di non vomitare.» Cercò gli occhi dell’amico. «Spero
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    «Gnam gnam.»
    «...sei entrato dalle cucine?» Nathan era confuso, ma sapeva che ogni tanto il Cox andava interpretato, e lui con gli anni era diventato un vero esperto.
    «Vorrei potertelo spiegare, ma… no, ok, non sono credibile se dico che non voglio annoiarti» le labbra si distesero in un sorriso sereno, divertito da quella conclusione che avrebbe potuto prevede anche senza la Vista. «Scusa non è per te! Lo sai… è che non voglio fare come al solito… cioè…» ancora una volta, Nathan avrebbe potuto fingere di non capire, ma lo conosceva fin troppo bene e infatti non si stupì di quel «Non voglio essere il vomitino come sempre, ecco» che seguì subito dopo.
    «Se può consolarti, tutto questo sangue fa star male anche me...» di stomaco, ma soprattutto di cuore. «Ma... andava fatto.» Per espiare quelle colpe autoinflitte. «Poteva farlo chiunque» ma aveva deciso di farlo lui, perché voleva.
    Meglio cambiare un po' argomento, però, o comunque alleggerire un po' i toni.
    «Finalmente ho deciso di esaudire i desideri più profondi di mia madre…» «e sei venuto a farti torturare? Non bastava Zoe per quello?» oh, ad uno dei due doveva pur toccare l'ingrato compito di smorzare i toni, e non sarebbe stato di certo Hugo a farlo.
    «Hai davanti il nuovo assistente di trasfigurazione!» attese qualche secondo in silenzio, sguardo fisso in quello chiaro dell'altro, senza fare nulla se non battere le ciglia un paio di volte in veloce successione.
    In attesa della punchline — perché lo sapeva che sarebbe arrivata.
    E infatti.
    «No, piuttosto mi uccido. Senza offesa, eh» ah ecco, infatti. Le labbra curvarono verso l'alto nell'ennesimo sorriso. «Mi pareva...» Quelle erano parole già più adatte all'Hugo che Nathan conosceva. Assistente di Trasfigurazione? Per favore. Tutt'al più, Nathan avrebbe potuto cedergli il suo di assistente di Storia: tra tomi voluminosi ed impolverati si sarebbe trovato certamente più a suo agio. «Figurati, nessuna offesa» quando mai avrebbe potuto!
    «Il fatto è che… mi mancavi?»
    Maledetto Hugo, dritto dritto alla giugulare cuore. L'espressione di Nathan si ammorbidì, e l'assistente si trattenne a stento dall'abbracciare l'ex corvonero — non voleva creargli ulteriori scompensi cardiaci avvicinandosi a lui con tutto quel sangue. «Anche tu mi sei mancato, amico.» Ripensandoci, a parte qualche messaggio ogni tanto, non ricordava quando avessero passato del tempo insieme l'ultima volta. «Scusa, i giorni passano in fretta e tutti insieme, basta distrarsi un momento ed è passato già un mese.» Voleva dare la colpa di ciò alle movimentate giornate del castello, ma anche gli impegni fuori da lì ai facevano sentire. D'altro canto, Hugo lo conosceva da tutta la vita e sapeva che Nathan non fosse il tipo di persona da starsene con le mani in mano, o che campasse di infiniti momenti liberi.
    Fece comunque per abbracciarlo, solo per divertimento, e la reazione suscitata in Hugo lo fece scoppiare a ridere. «Non venire più vicino di così» Allargò le braccia, muovendosi verso di lui. «No?? E perché mai? Credevo ti fossi mancato, non lo vuoi un mio abbraccio?» Scherzo che fece durare poco: l'espressione sul volto ancora più pallido del solito non prometteva nulla di buono.
    «Ho le mie fonti…» Inarcò a sua volta un sopracciglio, «… tu. Tu sei la mia fonte.» «ah sì?» «Sei stato tu a dirmi i tuoi entusiasmanti piani per stasera. Il tête-à-tête tra te, la spugna e il sangue, mmh?» oddio. Ma pensa? Strizzò gli occhi per leggere meglio il messaggio, poi strinse le spalle. «L'avevo dimenticato.» tendeva a succedere quando avevi altre mille cose per la testa.
    Ma comunque non rispondeva a come avesse fatto ad entrare a scuola: lo Shine non aveva ancora la facoltà di garantire l'accesso ad ospiti, non senza chiedere lui stesso un permesso.
    Quando Hugo iniziò a leggere la missiva, Nathan spalancò la bocca in una «ahhhh» che finalmente lo illuminava. «Ha senso. In effetti, ci sono libri che nessuno cerca da secoli, serviva giusto un Hugo Cox che arrivasse a salvarli.» Ad ognuno i propri kink interessi. «Oppure era tutta una scusa per venirmi a trovare?!» davvero, non gli serviva la Vista per percepire quelle cose: doveva solo conoscere il suo migliore amico.
    E Nathan lo conosceva molto bene.
    Così bene da sapere che le successive parole gli stavano costando davvero uno sforzo enorme. «Se vuoi ti, emh, aiuto…» «No, ho già fatto il possibile» per rimediare al resto avrebbe chiesto aiuto agli elfi domestici. E poi «non voglio doverti trascinare fino in infermeria, quando finirai con lo svenire» e non era nemmeno una questione di se, ma piuttosto di quando sarebbe successo. «Dominic non lavora più qui, in caso finire in infermeria fosse il tuo scopo sin dall'inizio......» in che senso credevate davvero che Nathan non sapesse nulla dell'anima gemella del suo migliore amico........ loro si dicevano tutto.
    Beh, quasi tutto.
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    Certo che erano davvero… stupidi. Tutti e due. Nel senso più affettuoso del termine, ovviamente (almeno per Nathan. Lui si sentiva davvero stupido, sebbene, al contempo, si ritenesse sempre una spanna sopra agli altri. Ma Nathan? No, Nathan non lo era sul serio, se non fosse per il fatto che… aveva scelto di essere suo amico. Volontariamente). Ma restava il fatto che lo erano parecchio. Da sempre.
    E Hugo adorava la cosa.
    «...sei entrato dalle cucine?» «Sì, dal buco del lavandino??» Gesticolò facendo una smorfia esasperata per canzonarlo, anche se poi finì in uno dei suoi (infiniti) ranting. Sapeva fare molto di peggio, è vero, ma era pur sempre un susseguirsi di dispiaceri, sensi di colpa, improvvise fiammate d’ira, battute cretine e tanto, troppo altro; nonostante fossero amici da metà delle loro vite, spesso Hugo si chiedeva quando Nathan si sarebbe stufato. O meglio, razionalmente sapeva che l’ex tassorosso era troppo Nathan per farlo, eppure… Hugo era razionale, sì, ma solo in certi campi, e solo quando questi non riguardavano la sua stessa sfera emotiva. Da sempre il suo lato più irrazionale, quello più umano, che sedava spaccandosi di studio o immergendosi in mondi immaginari, che fossero cartacei, cinematografici o inventati direttamente da lui, e per non parlare, poi, del cibo, era terrorizzato all’idea che, presto o tardi, lo Shine si sarebbe stancato di avere a che fare con lui. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni, naturalmente, ma Hugo era troppo egoista per farselo bastare.
    «Se può consolarti, tutto questo sangue fa star male anche me... Ma... andava fatto.» Sospirò, dispiaciuto. Ecco, appunto. «Lo so…» Tra le cose che, da sempre, li accomunavano, c’era il senso del dovere. Tuttavia, spesso finivano per declinarlo in modi decisamente diversi. Non che Hugo non si spendesse mai per gli altri, anzi, ma il modo in cui lo faceva Nathan era totalmente diverso, e sempre disinteressato. «Ma non hai niente da lavare via, tu», non riuscì a non aggiungere dopo qualche istante, con tono più basso e più serio. «Poteva farlo chiunque» «Sì… ma no. E lo sai.»
    E ovviamente eccoli lì, capaci di passare da un argomento tanto serio e pesante, fatto di non detti capaci di urlare, alla peggiore delle catastrofi, a qualcosa, o meglio, qualcuno, capace di far impallidire e vergognare la sala torture di Hogwarts: Zoe Cox, sua sorella. La distruttrice di palle. Si strinse nelle spalle, con fare noncurante. «Meh. Lo sai che sono emo. E masochista.» Ma non abbastanza da diventare davvero assistente di trasfigurazione. O di qualsiasi altra cosa, in effetti. Se fosse stato per lui avrebbe studiato tutta la vita, sì, e aveva anche mezzo intenzione di farlo. Ma insegnare? Eh. E, come lo sapeva lui, lo sapeva benissimo anche Nathan. Questo però non gli impedì di fare comunque della scena, almeno finché, vedendo l’amico sorridere, non riuscì a non fare lo stesso, finendo anche per ridacchiare. «Sì ok, però fa schifo essere sempre così… prevedibile», si lamentò, in extremis, come se lo Shine non sapesse benissimo anche questo. Gli si gonfiò il cuore, sentendogli dire che no, non era offeso, anche se, come sempre, la sua coda di paglia tentò di inquinare l’affetto e la pace, nonostante tutto, di quel momento: se continuava a tirare la corda, prima o poi si sarebbe spezzata.
    Ma la ignorò, e si espose. Non che non lo facesse mai, anzi, lo faceva fin troppo, parlando così tanto da farsi letteralmente zittire da un pg qualsiasi di Alessia, ma, al contempo, non lo faceva davvero. Se non con Nathan e altri pochi sfortunati. Eppure, sentendosi così scoperto, lo guardò un po’ perso, quasi spaventato, sentendosi terribilmente idiota, ma anche più leggero. «Scusa, i giorni passano in fretta e tutti insieme, basta distrarsi un momento ed è passato già un mese.» Scosse appena il capo, spettinando ancora di più i ricci già disordinati, come a dire che non era un problema. E non lo era davvero, anche se innegabilmente lo faceva soffrire. Nathan aveva bisogno di non fermarsi mai, di avere sempre qualcosa da fare, così come lui sentiva la necessità di occupare ogni attimo di silenzio, nel corso delle giornate, per non rimanere mai dai solo con i propri pensieri. Che poi, nel caso di Nathan, questo si traducesse nel fare cose pratiche e realmente utili, come pulire il sangue dell’ultimo studente torturato, e in quello di Hugo nel dormire un numero spropositato di ore, era un altro discorso. «Sai che sono il primo a farlo. E che però non vuol dire che non ti penso e che non mi manchi.» Sapeva che Nathan sapeva, ma una volta ogni tanto gli faceva bene dirlo ad alta voce.
    Alti e bassi, bassi e alti. Uno apriva il cuore e l’altro le braccia. Coperto di sangue. Puzzolente. «No?? E perché mai? Credevo ti fossi mancato, non lo vuoi un mio abbraccio?» Imitando Kuzko e il suo che fai, tocchi? Non si tocca!!, Hugo indietreggiò, arricciando il naso. «Se vuoi che ti vomiti direttamente addosso fai pure!!», lo avvertì stizzito, con un brivido. «… Anche se, in effetti, manca forse giusto questo nella tua lista.» Era a dir poco imbarazzante pensare a tutte le volte in cui l’amico l’aveva visto in condizioni, e situazioni, oscene, tipo quella volta, in gita in Grecia, in cui aveva mangiato quella mousse al cioccolato. Bleah.
    Ma poi ridacchiò, alzando gli occhi al cielo e scuotendo la testa, sentendo Nathan dirgli di aver dimenticato di avergli rivelato i suoi romanticissimi piani per quella sera. «Vedi che non sono l’unico ad avere un criceto morto al posto del cervello??», lo canzonò con finto fare paternalista. E, inconsapevolmente più in cattedra, alla fine gli svelò come aveva fatto a entrare tra le mura del castello. Easy peasy. «Ha senso. In effetti, ci sono libri che nessuno cerca da secoli, serviva giusto un Hugo Cox che arrivasse a salvarli.» Fece una smorfia scocciata, che però non riuscì a celare del tutto il compiacimento – e l’imbarazzo. «Non è colpa loro, poveri, se in questa scuola ci sono solo delle capre…» «Oppure era tutta una scusa per venirmi a trovare?!» Stavolta nessuna smorfia e nessun sotterfugio: sorrise, colpevole, spostando il peso da un piede all’altro e incrociando le braccia perché non sapeva dove metterle, il perfetto ritratto dell’impacciato e infinito affetto che provava per il suo migliore amico.
    Adesso era pronto a lasciarsi tutto alle spalle, Hugo, dalle confessioni imbarazzanti a, soprattutto, quel tanfo di sangue che gli faceva contorcere ancora di più le budella del lasciare spazio ai propri sentimenti. Si era offerto di aiutare, sì, e ci credeva davvero, ma tirò comunque un sospiro di sollievo quando Nathan annunciò che aveva fatto. Soprattutto perché non sapeva quanto ancora sarebbe riuscito a resistere a tenere tutto giù. «Io non svengo, al massimo vomito…», si premurò di fargli notare, sentendosi però sempre più impaziente di uscire di lì. «Sei pronto allora? Andiamo?? Non che io voglia andare a Hogsmeade per locali, eh, però…» «Dominic non lavora più qui, in caso finire in infermeria fosse il tuo scopo sin dall'inizio......» «… EH???»
    Ora sì che era sul punto di vomitare. «… Ti prego, ricordami perché te l’ho raccontato. A parte il mio essere evidentemente molto, molto scemo.» Fulminò Nathan con lo sguardo, non sapendo se ridere o prenderlo a testate o entrambe. Ci pensò un attimo su, continuando a guardarlo con fare (fintamente) truce. «A meno che… tu non sia geloso
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    «Ma non hai niente da lavare via, tu»
    «Poteva farlo chiunque»
    «Sì… ma no. E lo sai.»
    Sì, lo sapeva, ma aveva comunque scelto di farlo. Perché anche quello era parte dell’essere un Nathan Shine: fare quello che chiunque altro avrebbe potuto fare e che poi, puntalmente, non facevano. Lui era serio, era attento, era attivo — e soprattutto, non riusciva a non notare le cose, o a camminare oltre ignorando un problema.
    Quello delle torture era un argomento che Nathan aveva cercato di affrontare, pur senza forzare troppo la mano, sin dalla sua prima settimana al castello come assistente di Quinn; non era mai servito a nulla, perché una cosa così radicata nella routine e nella vita ad Hogwarts era impossibile da ribaltare — ma ci aveva provato. E ci avrebbe provato ancora; finché avesse avuto abbastanza fiato e forza, avrebbe fatto tutto il possibile. E se non poteva vincere la battaglia, avrebbe almeno fatto quell’unica cosa che gli dava un minimo di pace e aiutava ad espiare quelle colpe che Hugo sosteneva non avesse, ma che Nathan sapeva di avere eccome.
    All’amico, ancora lì in piedi di fronte a lui, Nathan rivolse uno sguardo pieno di affetto. «Sì ok, però fa schifo essere sempre così… prevedibile» «Non sei... Prevedibile.» E poi, anche se fosse stato, cosa c’era di male? Perché lo diceva con quel tono dipregiativo? Non c’era assolutamente nulla di male nell’essere abbastanza coerente da avere persino qualcuno capace di anticipare le proprie mosse, o ciò che sarebbe uscito dalla sua parola. C’era addirittura qualcosa di tenero nell’essere un punto fermo, e una costante, al punto da essere conosciuti così bene. «Sei Hugo. Affectionate e mai, mai, derogatory.
    «Vedi che non sono l’unico ad avere un criceto morto al posto del cervello??» Ma in che senso; non era propriamente d’accordo, ma rise perché era una battuta scema e Nathan era abituato ad uscite del genere da parte dell’ex Corvonero. «Mah, credo che il mio, più che morto, sia in perenne movimento.» Inclinò la testa da un lato, osservando il Cox. «Forse anche troppo,» avrebbe certamente spiegato la necessità di stare sempre con le mani e la mente occupata, il bisogno di fare e fare e fare e, possibilmente, partire e girare. Non ci credeva ancora che, negli ultimi quasi tre anni, aveva finalmente messo radici; sembrava una cosa così lontana dal Nathan Shine che aveva conseguito il diploma una manciata di anni prima, ma di certo era cambiato in più aspetti che uno, il tassorosso.
    E, tutto sommato, quella vita non era poi male; tuttavia, non riusciva mai a mettere completamente a tacere il tarlo nella testa che gli suggeriva di mollare tutto, e partire. Non aveva nemmeno bisogno di una meta, solo di uno zaino con lo stretto indispensabile e la voglia di farlo.
    (Entrambe le cose, Nathan le aveva sempre pronte e alla mano.)
    Non lo avrebbe detto al Cox, però, perché l’ultima cosache voleva era che Hugo si preoccupasse che il suo migliore amico sparisse nuovamente per due anni in giro nel mondo senza dire una parola, e mandando di tanto in tanto qualche cartolina via gufo.
    Lo lasciò quindi spiegare il motivo della visita, mani sui fianchi (tanto ormai gli abiti erano rovinati) e sguardo curioso. Schioccò la lingua rumorosamente contro i denti, contrariato. «Qualche eccezione c’è, sai?» Sì, doveva pur difendere i suoi marmocchietti dalle brutte parole di Hugo! Non tutti, perché in molti casi si trovava d’accordo con l’amico, ma il mondo era pieno di eccezioni! Bastava guardare loro due...
    «TI dirò di più: ci sono un sacco di ragazzi che non lo sanno, ma sono alla disperata ricerca di qualcuno che li aiuti. Davvero. Pensaci, potresti essere il loro Yoda. Sicuro di non voler venire a fare l’assistente? Ci sono un sacco di posti per cui potresti fare domanda... Alla Queen manca da un po’, sai?» chissà come mai «Ma forse pozioni non sarebbe proprio il massimo per te...» sorrise, sperando Hugo cogliesse l’ironica vena nella sua voce. Gli voleva bene, gli voleva un sacco di bene, ma non così tanto da suggerirgli di fare l’assistente.
    A meno che non avesse voluto farlo?! E allora lì il discorso cambiava.
    «Sei pronto allora? Andiamo?? Non che io voglia andare a Hogsmeade per locali, eh, però…» «Eh? Pronto?» in che senso. Allargò le braccia, mettendo in mostra l’outfit macchiato di chiazze più o meno rosse, e l’aria di chi avrebbe preferito di gran lunga buttarsi sul letto e morire, piuttosto. «Per andare dove?» Dovevano uscire? Oddio, davvero? E Nathan aveva completamente rimosso la cosa??? «Sicuro di non aver sbagliato giorno, Hughie?» Gli sembrava strano fosse stato lui a fallire così magesticamente — ma non lo voleva dare proprio per impossibile, dopotutto in quel periodo aveva mille cose per la testa e stare dietro a tutto era difficile.
    E poi, per alimentare ancora di più la già dilagante confusione: «A meno che… tu non sia geloso.» «Di... Dominic?» perché avrebbe dovuto? «Hugo... Mi stai rimpiazzando?» Per carità, Dominic gli piaceva e lo trovava simpatico (anche se leggenda narra che per un periodo Dom l’avesse odiato credendolo il tipo con cui la sua fidanzata storica lo aveva tradito ai tempi della scuola, un misunderstanding per il quale Nathan era stato molto male .) e non sarebbe stato geloso della cosa ma... «è perché ho dimenticato l’appuntamento di oggi? Giuro che posso essere un amico, e una persona, migliore di così. Sicuro di non volermi abbracciare?!» Sempre sporco di sangue, sì.
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    Voleva piangere? Un po’ sì. Nulla di strano, certo, per Hugo Cox, ma per una volta le sue non sarebbero state lacrime di tristezza o di rabbia. Quelle che ora sentiva pizzicargli gli occhi, prepotenti come sempre nel loro desiderio di uscire, erano lacrime di tenerezza. E di nostalgia. Perché adesso Nathan era proprio lì, davanti a lui, fisicamente presente, vivo, ma presto non lo sarebbe stato più. Non perché sarebbe morto, eh (quel pensiero non doveva sfiorarlo neanche da chilometri di distanza, naturalmente; se l’avesse fatto allora sì che avrebbe pianto, e per sempre), ma perché, da lì a poco, ognuno sarebbe dovuto tornare alla propria routine e sarebbero di nuovo passate settimane, per non dire mesi, prima di trovarsi così, faccia a faccia. Per non parlare del fatto che realizzare che, nonostante tutto, Nathan fosse lì, per lui, sempre e comunque, lo faceva commuovere. L’idea di avere non solo un amico, ma quell’amico, gli faceva venire voglia di piangere.
    Perché era così?
    Se lo chiedeva da ventidue anni e non era ancora riuscito a trovare una risposta. Perché non riusciva a godersi neanche le cose belle? Perché la sua mente, anche in quei momenti, già scivolava al dopo, a quando sarebbe rimasto di nuovo solo con sé stesso, e con i suoi maledetti, e stupidissimi, pensieri?
    «Non sei... Prevedibile.» Ecco, appunto. «Certo che lo sono.» Sospirò, stringendosi nelle spalle. Sapeva benissimo come la pensava Nathan a riguardo, ma Nathan, a sua volta, sapeva come la pensava lui. Mentre per il tassorosso non c’era nulla di male nell’essere prevedibili e, anzi, era qualcosa di positivo, nel suo essere un punto fermo, per il corvonero era una delle (tante) cose terribili che lo contraddistinguevano. «Non riesco a rassegnarmi all’idea di essere…» «Sei Hugo. Affectionate.» «Già.» Sospirò di nuovo, tenendo lo sguardo basso. «Una bella fregatura.»
    Eppure, non era arrivato fin lì per farsi compatire. O almeno, non solo. Era consapevole di suscitare pietà anche involontariamente, e sempre, così come sapeva che, presto o tardi, avrebbe finito per lamentarsi di qualcosa. In entrambi i casi, poi, in compagnia dello Shine era inevitabile, perché con lui Hugo sapeva di poter essere fino in fondo sé stesso e, dunque, un concentrato di lamentosa pietà. Tuttavia, non voleva starsene lì a piagnucolare, ma, molto più semplicemente, passare del tempo con il suo migliore amico. Perché il suo cervello non riusciva a capirlo?
    E, a proposito di cervelli, annuì sentendo Nathan dire che il suo non era un criceto morto, ma, parafrasando, uno fin troppo iperattivo. «Non è mai troppo… Cioè, non lo è finché non ti fa stare troppo male… Anche se comunque ti rende Nathan», iniziò serio, per poi, però, scivolare nell’ironia, incapace di non sdrammatizzare. Ognuno a suo modo, entrambi avevano decisamente un po’ troppi problemi con i rispettivi cervelli, che, in modo simile ma diversissimo, sembravano davvero incapaci di stare un attimo zitti e buoni. Strinse le labbra, osservandolo, non potendo fare a meno di chiedersi – e di rispondersi – cosa passasse per la testa all’amico. In parte lo sapeva, o credeva di saperlo, ma non voleva davvero pensarci. Perché Hugo sapeva che, presto o tardi, Nathan non sarebbe più riuscito a starsene lì fermo. Poteva impegnarsi in tutte le attività scolastiche ed extrascolastiche del castello, crearne di nuove, aiutare studenti e professori, persino lavare ogni giorno il sangue nella sala torture… ma non sarebbe bastato. «L’hai appena detto tu: non c’è niente di male nell’essere prevedibili… e sé stessi.» Cercò i suoi occhi, stavolta senza la minima traccia di ironia nella voce, ma, al contrario, un pizzico di malinconia. Nella sua imprevedibilità, Nathan era prevedibile: Hugo sapeva che, presto o tardi, avrebbe spiccato il volo di nuovo. Nel suo egoismo avrebbe voluto dirgli di non farlo, di non andare. Ma non poteva farlo. Non voleva.
    Così come non poteva, e non voleva, ascoltarle quel discorso sul diventare assistente. Alzò gli occhi al cielo e si tappò le orecchie con fare teatrale, mimando con le labbra un: «LALALALA TANTO NON TI SENTO». Lui assistente? Neanche nei sogni più sfrenati di sua nonna (che, per la cronaca, gli ribadiva la cosa ogni volta che lo vedeva – quindi, come minimo, una volta alla settimana: Perché non vai a insegnare?). I suoi incubi, invece, erano pieni di quella possibilità. E, anche se non lo sapeva, avevano pure un nome: Sara. Sara che chiede alla palla cosa fare, e che ottiene la risposta che mai e poi mai Hugo avrebbe voluto avere… «Ma forse pozioni non sarebbe proprio il massimo per te...» «Senti, non ho ancora digerito del tutto quella E- ai MAGO, per cui non infierire…!», sbuffò con l’ennesima smorfia, dimostrando di aver sentito tutto quello che l’amico aveva appena detto. «E poi la Queen mi fa paura. E i cinni. E il preparare le lezioni. E il non sapere le cose. E i cinni. E il non essere all’altezza. E i cinni, l’ho già detto? E…» Si interruppe, per riprendere fiato, torcendosi le mani agitato. Non voleva farlo per una serie infinita di motivi. E allora.
    E allora niente, in classic stile Sara che non sa affrontare le discussioni, cambiò discorso. «Per andare dove?» Dai però, se gliela serviva così, su un piatto d’argento… «Non farmelo dire, su…» Ridacchiò e scosse il capo all’ennesima domanda confusa di Nathan, intenerito ma un po’ esasperato. «Anche se l’idea di torturarti psicologicamente è molto allettante, non lo farò…» Lo guardò a braccia incrociate, sorridendo per la sua espressione persa e preoccupata. «Non ti sei dimenticato di niente, tranquillo. Non avevamo alcun piano… non avevamo un appuntamento Gli fece l’occhiolino, poi continuò: «Non sei tu ad aver dimenticato pezzi per strada, ma io a… essere stato imprevedibile? Wow, unexpected in effetti». Tornò a ridere da solo, scuotendo appena il capo. «Te l’ho detto subito: volevo solo… vederti?», cercò nuovamente di spiegare, mentre, all’improvviso, una nuova consapevolezza gli cadde addosso, facendolo vacillare. «Ma forse tu… hai altri piani…»
    Mentre Hugo si buggava, Nathan continuava a fare lo stesso: se già a distanza il neurone che condividevano rimbalzava tra loro, quando erano a pochi metri l’uno dall’altro impazziva del tutto, confondendosi e confondendosi a vicenda. Così, da una parte, Hugo cominciava a farsi venire il panico all’idea che l’amico avesse altre cose più importanti e interessanti da fare che passare del tempo non previsto con lui; dall’altra, Nathan pensava davvero che qualcuno potesse prendere il suo posto nella vita del Cox.
    Perché erano così?
    «è perché ho dimenticato l’appuntamento di oggi? Giuro che posso essere un amico, e una persona, migliore di così. Sicuro di non volermi abbracciare?!» «Sei davvero.» Un passo avanti. «Davvero.» Un altro. «Davvero Un altro ancora e, nonostante le zaffate ferrose, nonostante lo stomaco che si contorceva, più per quello che stava per fare che per la puzza, in effetti, Hugo si slanciò verso Nathan. «Un deficiente.» Lo strinse forte, incurante dell’odore, dell’imbarazzo e, soprattutto, della sua incapacità nel compiere quel gesto.
    E con una grande, grandissima voglia di piangere.
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    Fece un respiro profondo, Nathan, e rivolse al suo amico la più vulnerabile delle espressioni, nel sentirlo affermare come certi aspetti del suo carattere – o nel caso specifico, della sua psiche – lo rendessero esattamente Nathan. Era la stessa cosa che gli aveva appena detto anche lui, infondo, no? E in realtà Nathan non avrebbe voluto essere nessuno se non quella versione di sé, tirata su con successi e fallimenti, tentativi ed errori, gioie e dolori amori e sofferenze; tutte le esperienze che lo avevano portato ad essere ciò che era, e che avevano contribuito a dare forma e consistenza ad una personalità che aveva solo bisogno di emergere.
    Contrariamente a molti altri attori, lui non cercava nella recitazione un modo per brillare e per gettare ombre su tutti gli altri; non gli era mai interessata la fama, la popolarità, o l’essere sulla bocca di tutti — lui recitava per imparare a conoscere se stesso attraverso gli occhi degli altri. Interpretare un personaggi, spesso tanti personaggi tutti diversi, poteva essere un’arma a doppio taglio: potevi perderti nei meandri di personalità con cui entravi in contatto per dare vita e voce a nomi diversi dal tuo, oppure potevi capirli e farli tuoi per il tempo che bastava, e usarli come metro di giudizio per segnare il confine profondo tra dove finisse la finzione e dove iniziasse la verità. Nathan aveva sempre saputo chi fosse, con tutti i pregi e i difetti del caso, ma gli piaceva credere che fosse cambiato, che avesse smussato qualche lato di sé, attraverso le impronte che i viaggi, le persone, le culture e, semplicemente, le avventure avevano lasciato non solo sulla sua pelle, ma sulla sua anima.
    Non gli dispiaceva, di per sé, essere Nathan, e infatti al «L’hai appena detto tu: non c’è niente di male nell’essere prevedibili… e sé stessi.» di Hugo rispose solo con una scrollata di spalle e un «lo so, dicevo solo che i criceti nelle nostre teste sono diverse.» Semplice, come se gli avesse appena ricordato che i calzini andassero ai piedi e i guanti alle mani. «E forse il tuo è davvero morto, se non hai capito nemmeno questa semplice cosuccia...» Non poteva farci nulla, prendere in giro il Cox rimaneva comunque uno dei suoi passatempi preferiti, anche dopo tutti quegli anni.
    E sì, tra le prese in giro rientrava anche l’assurda ipotesi che Hugo potesse arrivare a fare l’assisetente di un qualche prof all’interno del castello; lo sapevano tutti, presenti compresi, quanto (Sara) Hugo detestasse l’idea di insegnare — o fare le veci di un insegnate, in quel caso. Nathan non avrebbe mai pensato che, di lì a qualche mese, l’altro avrebbe iniziato a prendere davvero in considerazione la cosa. Anche perché, per citare direttamente l’ex corvonero: «E poi la Queen mi fa paura. E i cinni. E il preparare le lezioni. E il non sapere le cose. E i cinni. E il non essere all’altezza. E i cinni, l’ho già detto? E…»
    Se vedeva un bambinetto di primo anno andargli incontro, Hugo cambiava corridoio o si nascondeva dietro la prima tenda o colonna disponibile. Che fessacchiotto. «No, non credo di aver capito: il problema sono i libri, dici?» Si finse sordo, e portò una mano all’orecchio per invitarlo, con sarcasmo, a ripetere ciò che aveva appena detto, pur sapendo che fosse una conversazione che non avrebbe portato a nulla: Nathan, ad Hogwarts, per il momento ci stava bene; Hugo probabilmente non così tanto.
    Era bello vedere, comunque, che “la tortura psicologica” – per parafrasare le parole del moro – era una strada a doppio senso: anche il Cox si stava divertendo molto a prendersi gioco di Nathan, a quanto pareva!
    «Non ti sei dimenticato di niente, tranquillo. Non sei tu ad aver dimenticato pezzi per strada, ma io a… essere stato imprevedibile? Wow, unexpected in effetti».
    «In effetti davvero sorprendente, wow!» Con una mano portata a coprire la bocca, le labbra dischiuse in una smorfia di finto stupore, Nathan commentò quella buffa piega degli eventi con il tono meno sarcastico che riuscisse a trovare; era felice che Hugo si rendesse finalmente conto che “essere prevedibile” non escludeva automaticamente l’essere capace dell’esatto opposto. «Sono sconvolto.» Ma non lo era davvero, sapete? Conosceva la sua bestiola meglio di quanto il Cox si conoscesse da solo: Nathan gliel’aveva sempre detto di non sminuirsi, ma sapeva bene che quello era uno dei pochi concetti che proprio non ne volevano sapere di entrare in testa all’ex corvonero. Così intelligente, e poi…
    «Te l’ho detto subito: volevo solo… vederti?»
    Quello colpì lo Shine: non era stupito, quanto più era commosso dal gesto dell’amico, alla base di cui c’era forse la disperazione, o l’ansia di vederlo scivolare di nuovo tra le mani come qualche anno prima, subito dopo i M.A.G.O., e fu quello, più di tutto, a colpire dritto al cuore — la vonsapevolezza che, pur senza volerlo, faceva vivere Hugo con l’ansia perenne che sarebbe andato via da un momento all’altro (in aggiunta tutte le altre ansie perenni già in dotazione con il pacchetto “Hugo Cox”), e che un giorno non avrebbe più semplicemente potuto dire “vado a trovarlo per vedere come sta” perché avrebbe potuto non sapere dove fosse, e non riuscire a contattarlo.
    Non sarebbe stata la prima volta, infondo.
    «Hai fatto bene, ci pensavo da giorni anche io ma come vedi qui le cose–» allargò un braccio per indicare la sala torture, solo un pezzettino di quella che era la vita all’interno di Hogwarts: c’era sempre qualcosa da fare, pergamene da correggere, studenti da aiutare, faccende del Quinn da sbrigare, colleghi con cui prendere il caffé e altri con cui organizzare lezioni, club e gruppi scolastici da supervisionare, e tante altre cose che Nathan non aveva creduto rientrassero nelle competenze di un assistente professore. Gli piacevano tutte, certo, ma non poteva negare che facessero scorrere il tempo un tantino troppo in fretta, al punto da non sapere più che giorno fosse sul calendario o quanto fosse passato dall’ultima volta che aveva pensato “ora chiamo Hugo e organizzo per un caffé”. «Davvero, hai fatto benissimo, questa scelta di prendere l’iniziativa mi ha conquistato, giuro!» Ricambiò l’occhiolino, cos’era un po’ di sottotono omoerotico tra due amici di vecchia data, dopotutto — tutto fanservice per l’Oblivion. «E figurati, i miei piani al momento prevedono solo una doccia bollente per lavare via tutto questo sangue.» Ben conscio, purtroppo, che non avrebbe potuto sciacquare via la sensazione sulla pelle, non importava quanto a fondo avrebbe grattato con la spugna, fino ad arrossare la pelle; e non avrebbe lavato via nemmeno i sensi di colpa per qualcosa su cui, ancora una volta, non aveva minimamente potere.
    Visto che, come aveva appena suggerito, dubitava che l’altro volesse abbracciarlo – o rimanergli vicino – fintantoché avrebbe continuato a sembrare un cosplayer malriuscito di Carrie.
    E invece!
    «Sei davvero.» Al passo avanti di Hugo, Nathan rispose istintivamente con uno indietro: per proteggerlo, perché lo conosceva e sapeva che Hugo Cox + odore (e vista, figuriamoci tatto) di sangue = vomitino assicurato. E l’attore non aveva davvero voglia di togliere anche quello dal pavimento della sala torture.
    «Davvero.» Al secondo, alzò le mani mettendole tra lui e il Cox, un «Hughie, aspetta–» appena sussurrato, prima del terzo passo in avanti. «Davvero.» «Prima magari–» Un altro passo, e l’inaspettato abbaraccio, al quale inizialmente Nathan non rispose, braccia a premere contro il petto di entrambi, laddove Hugo le aveva intrappolate.
    Alla fine, si sciolse.
    «Un deficiente.»
    «Aww, ti voglio bene anche io.» E, se avesse potuto, avrebbe stretto la propria morsa intorno al busto dell’amico, ricambiando l’affetto con tutto quello di cui fosse a disposizione (tanto). «Ma ora sei sporco di sangue anche tu, perché l’hai fatto? Questa cosa che sei diventato imprevedibile mi sta turbando, Hughie, ne hai già parlato con qualcuno?» In realtà stava vivendo the time of his life, e il sorriso entusiasta nascosto nei riccioli corvini dell’amico ne era la prova schiacciante.
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    A differenza dei suoi fratelli, Hugo non si era mai ritenuto un tipo manesco. Anzi, in un qualche modo, con lo scorrere del tempo, mentre le manipolazioni di Zoe e Adam si erano tanto ampliate quanto affinate, le sue avevano finito per avvizzirsi del tutto. Se una volta, a quattro anni, aveva azzannato un altro bambino nella pancia (ma dopotutto non era colpa sua se il bambino in questione era stupido), e un’altra, durante il primo anno a Hogwarts, aveva letteralmente scarnificato un compagno con il solo uso delle unghie (ancora, non doveva essere lui a rendere conto della stupidità altrui), con il tempo il suo gioco di mani nei confronti degli altri era sparito del tutto. Ne faceva un vanto, naturalmente, l’ennesimo modo per distinguersi da quelle bestie di suo fratello e sua sorella. Eppure non erano poche le occasioni in cui si sentiva fremere dalla voglia di mettere le mani addosso a qualcuno.
    Tipo sentendo Nathan sostenere che non aveva capito nemmeno quella semplice cosuccia.
    Fece una smorfia per ostentare quanto si sentisse mortalmente offeso e stizzito, ben attento a non farsi sfuggire un sorriso. «Il mio criceto è depresso e medita il suicidio, mentre il tuo ha l’ADHD e presto o tardi si farà ammazzare con una delle sue idee», decretò con professionalità, improvvisandosi psichiatra dei poveri. Tuttavia, per quanto iperbolica, quella descrizione non si discostava poi così tanto dalla realtà. C’erano stati momenti in cui aveva davvero temuto il peggio, conoscendo il suo migliore amico. In giro per il mondo, chissà dove, sapeva che Nathan avrebbe fatto di tutto. Lo ammirava per questo, lo invidiava, persino, incapace com’era, all’opposto, di uscire dalla sua confort zone, ma non poteva fare a meno di sentirsi in ansia per lui. Non voleva vedersi recapitare via gufo la notizia che lo Shine era morto, specie, poi, facendo qualcosa di estremamente idiota.
    «O forse morirà per mano mia quando ti tirerò tutti i libri della biblioteca in testa.» Visto che Nathan gesticolava, fece lo stesso, simulando il tiro di un libro diretto verso l’orecchio che gli stava tendendo. Ovviamente non sarebbe mai successo, non tanto perché Hugo non avrebbe mai colpito l’ex tassorosso (cosa che, invece, aveva fatto, giusto per tornare al fatto che, in fondo, non era così pacifista come gli piaceva pensare), ma perché non avrebbe mai rischiato di rovinare un libro lanciandolo. E anche perché, pur volendolo con tutte le sue forze, la sua mira era così scarsa che, invece di piantare uno degli spigoli di copertina nella fronte dello Shine, avrebbe fatto finire il volume da tutt’altra parte.
    Avevano ragione entrambi, in fondo. I criceti nei loro cervelli erano sì diametralmente opposti, ma, ognuno a suo modo, erano tutti e due masochisti e sempre pronti ad ammazzarsi di lavoro. Mentre però quello di Nathan era sempre rivolto all’esterno, quello di Hugo preferiva rifugiarsi nelle più recondite profondità della sua scatola cranica, salvo poi pentirsi di tutto e piagnucolare perché solo abbandonato. Un cane, anzi, un criceto che si mordeva la coda.
    Forse a Hugo non andava davvero bene così, sebbene non facesse che ripeterselo, ma in quel preciso momento non aveva rimostranze, puzza di sangue a parte. Certo, interrogato a riguardo avrebbe comunque trovato una lista infinita di cose di cui lamentarsi, ma la realtà era che, quando era con Nathan, andava sul serio tutto bene. Solo negli ultimi anni (che ormai, in realtà, non erano ultimi, ma svariati), si era reso conto di quanto avesse dato per scontata quella sensazione, e, ancora di più, il suo miglior amico. Non poter più passare ore e ore, ogni giorno, in sua compagnia, da quando si erano diplomati, l’aveva fatto rendere conto di quanto, senza di lui, il mondo fosse ancora più insopportabile.
    «Sono sconvolto.»
    «No, sei insopportabile», lo corresse con il suo solito fare da maestrino, per quanto fosse assolutamente non vero. Tuttavia, ancora una volta, l’avrebbe volentieri strozzato con le sue stesse mani e, al contempo, invitato a continuare ancora e ancora. Farsi sfottere da Nathan e sfotterlo di rimando era da sempre uno dei piaceri più profondi e dolorosi della sua vita e, quel giorno, prima di approdare nella puzzolente sala torture di Hogwarts, gli era mancato particolarmente.
    O meglio, per essere ancora più precisi, gli era mancato Nathan.
    Esattamente come gli aveva confessato.
    Ad alta voce.
    Come una persona adulta.
    Forse lo Shine aveva ragione a essere sconvolto, anche se Hugo non l’avrebbe mai ammesso.
    «Hai fatto bene, ci pensavo da giorni anche io ma come vedi qui le cose–»
    Sospirò e scosse appena il capo, come a dirgli che non c’era problema. E non c’era davvero, perché non voleva accusarlo di niente. Sapeva che Nathan non avrebbe mai fatto nulla per ferire qualcuno, specie poi se quel qualcuno era lui, quello sfigato piagnucolone del suo migliore amico. Perché lo riteneva ancora tale, vero? Anche qui, Hugo non si sarebbe mai neanche sognato di accusare l’ex tassorosso di nulla, ma come gli capitava da solo metà della sua vita, spesso e volentieri finiva per chiedersi se, giustamente, lo Shine avesse trovato con chi rimpiazzarlo. Quando sarebbe successo, non avrebbe potuto che appoggiarlo: perché mai tenersi vicino un tipo come lui, capace solo di brontolare e diffondere cattivo umore? Fosse stato almeno bravo in qualcosa, tipo dispensare consigli!
    Eppure questi pensieri gli facevano male. E lo facevano sentire egoista. E in preda ai sensi di colpa.
    Tutto nella norma, insomma, se ci si chiamava Hugo Cox.
    Proprio per questo, però, in pubblico, e persino con Nathan (soprattutto con Nathan!), a un passo dal baratro eccolo pronto a tirare il freno a mano e schizzare a tutta velocità dalla parte opposta, tornando a punzecchiarlo come se nulla fosse. O meglio, le (terribili) battute del Cox, seconde solo a quelle altrettanto terribili dello Shine, erano sempre molto, molto borderline, in bilico sulla sottilissima fune a picco sul precipizio. A Hugo piaceva pensare di essere dotato di un finissimo humor nero, ma la realtà era che il suo sarcasmo era di una triste tonalità di grigio e, spesso, lasciava trapelare un velato grido d’aiuto.
    «Ti ho… conquistato?» Ghignò, pronto a cogliere la palla al balzo.
    «E figurati, i miei piani al momento prevedono solo una doccia bollente per lavare via tutto questo sangue.»
    Oh, caro, carissimo Nathan. Il ghigno sulle labbra di Hugo si allargò, fino a trasformarsi in una risata trattenuta a fatica. «Lo sai che con me non devi trattenerti…» Sfarfallò le ciglia con fare civettuolo, per poi riuscire a trasformare la grassa risata che gli pizzicava la gola in una risatina acuta e nascosta dietro le dita. «… Puoi dirmi in faccia chiaro e tondo quello che desideri Se Hugo avesse dovuto flirtare veramente non sarebbe riuscito a spiccicare parola. Qui, però, si trattava di mettere a disagio Nathan e, ancora di più, di prenderlo in giro, per cui non gli passò per la testa nemmeno per un secondo quanto la cosa, in un altro contesto, l’avrebbe messo in difficoltà. «Ma va bene, farò tutto da solo: certo che ti accompagnerò sotto la tua doccia bollente
    Nessuno avrebbe dato torto alla saggia Rob se, in quel momento, vedendoli, avrebbe commentato di aver visto certi film cominciare proprio così.
    Anche perché, incurante di tutto, a partire dalle zaffate nauseabonde di sangue che facevano ballare la samba al suo stomaco, e degli avvertimenti non esattamente velati di Nathan, Hugo riempì la distanza che li separava e strinse l’amico a sé.
    Lo strinse davvero, fregandosene della puzza, dell’imbarazzo e del suo solito realizzare di non saper abbracciare. Certo, il fatto che le braccia di Nathan fossero schiacciate tra di loro gli fece pensare, come sempre, di non essere capace di compiere quel gesto così normale e scontato e umano, ma non mollò la presa, deciso ad arrivare fino in fondo.
    Doveva dirgli quanto fosse deficiente, e dunque quanto gli volesse bene.
    «Aww, ti voglio bene anche io.»
    Hugo sentì qualcosa sciogliersi nel petto e dovette lottare con tutte le sue forze perché non strabordasse dagli occhi. Ma, naturalmente, fallì, come scoprì stringendo con decisione le palpebre. L’occhio sinistro, traditore come sempre, non riuscì a intrappolare una lacrima che, sfuggita allo scoglio delle ciglia, gli rotolò giù per la guancia.
    Una ragione in più per non lasciar andare Nathan, in tutti i sensi.
    Vomitino a parte.
    Con un mezzo scatto si scostò, il naso arricciato per trattenere il respiro, e fece un balzo indietro. Nonostante le lacrime che premevano per uscire, nonostante il calore al petto, nonostante l’enorme affetto che provava per lo Shine… il suo riflesso faringeo rischiò di avere la meglio. «Che problema c’è se mi sono sporcato?» Si strinse nelle spalle, ben attento, però, a non guardarsi il maglione. «Tanto c’è la doccia bollente che ci aspetta, no?» Tentò di respirare a pieni polmoni, salvo che, così facendo, sentì il puzzo ferroso del sangue entrargli ancora di più nelle narici. «E comunque figurati, mica ne sto parlando qui e ora con te… Mi hanno consigliato di parlarne con Stilinski. Dicono che sia bravissimo a far sparire tutti quelli che hanno a che fare con lui… per cui sarebbe a dir poco perfetto! Finalmente un modo per sbarazzarmi una volta per tutte di me
    Becoming older than 12 years old
    was the biggest mistake of my life.
     
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