morbus amoris

post prom '23 | 02.07.23 | with eri

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    Come Sara sul taxi in lacrime dopo essere stata borseggiata nella metro di Parigi, anche Ictus non sapeva come fossero arrivati in quel corridoio silenzioso, quando un attimo prima erano immersi nella calca di adolescenti sudaticci ammassati a suon di musica nei cortili del castello. Non era davvero così strano, conoscendolo, anzi, non lo era per niente, data la sua innata capacità di disconnettersi dal mondo involontariamente, un po’ per protezione, un po’ perché, nei momenti più disparati, il suo cervello finiva per focalizzarsi su qualcosa in modo tanto netto da dimenticarsi del resto dell’universo. E quando poi c’era di mezzo Erisha Byrne, era la fine.
    Purtroppo non era in grado di leggere e capire il greco, perché a Bodie era cresciuto a pane e latino (e cilicio? Kinky), dunque non aveva potuto leggere quell’ode in originale. Tuttavia, Catullo si era ispirato proprio a Saffo in uno dei suoi carmi e, proprio come la lettura dell’intero Liber l’aveva turbato (e soprattutto affascinato, ma ammetterlo lo faceva andare a fuoco dalla vergogna), quella composizione era diventata ben presto un modo efficace per descrivere come si sentiva ogni volta che si trovava in presenza di Eri.
    … lingua sed torpet, tenuis sub artus
    fiamma demanat, sonitu suopte
    tintinant aures, gemina teguntur
    lumina nocte.

    Per tutta la sera aveva pregato che lei non si accorgesse delle sue reazioni così strane, ma in fondo sapeva di essere un caso perso, come spesso gli aveva detto Mona. Quando la sua frequentazione con la Byrne aveva cominciato a farsi sempre più frequente, a partire dai sabato mattina che condividevano in biblioteca, aveva sperato che, ora dopo ora, si sarebbe finalmente abituato alla sua presenza, imparando a non coprirsi ogni volta di pericolo. Con l’andare dei mesi, però, non aveva fatto che peggiorare.
    … ma la lingua si paralizza, tenue sotto le membra
    scorre una fiamma, le orecchie ronzano
    di un suono interno, entrambi gli occhi
    si coprono di tenebre.

    Sebbene la musica sparata da Balt fosse ormai lontana, si sentiva comunque quasi assordato da un rombo. Proveniva da lui. Dal suo cuore. E i corridoi avrebbero potuto essere tanto pieni di gente quanto deserti: tutto ciò che riusciva e che voleva vedere era Erisha, a un passo da lui, che lui guidava passo dopo passo, voltandosi spesso a guardarlo con aria preoccupata.
    «V-va tutto bene… davvero…», tentò di rassicurarla, sebbene, in realtà, il suo cervello non fosse neanche riuscito ad afferrare le parole che dovevano essere uscite dalle labbra di lei. Quelle labbra rosee a forma di cuore, ora piegate appena all’ingiù, ennesimo segno del suo fallimento su tutta la linea.
    Non solo aveva impedito a Erisha di divertirsi con i loro amici, costringendola a passare del tempo con lui in uno dei fortini, quando si era sentito sopraffatto dal rumore, dalle luci, dagli odori e soprattutto dalle persone, ma, decidendo infine di avventurarsi fuori, sicuro di potercela fare, l’aveva condannata a perdersi l’intera serata. E non una serata qualsiasi. Quello era il prom. L’ultimo prom di Eri, che da lì a pochi giorni avrebbe sostenuto i MAGO e lasciato il castello per sempre… il castello e lui.
    A quella consapevolezza un’ondata di panico, che finalmente sembrava essersi un po’ calmato, lo tornò invece ad attraversare dalla punta dei piedi sin nella fronte, che sentì imperlarsi ancora di più di sudore gelido e bruciante. Senza rendersene conto aumentò la stretta intorno alla mano di lei, salvo poi realizzare di quanto le sue dita fossero sudaticce e fredde, al pari della sua fronte.
    Faceva schifo e aveva costretto Erisha ad abbandonare quella che, simbolicamente, rappresentava la fine della sua adolescenza, l’ultima occasione per potersi divertire senza pensieri. Erano in tanti a meritare quegli ultimi attimi di serenità, quasi assurdi, certo, dopo la guerra, ma egoisticamente non riusciva a non pensare che fosse proprio l’ex corvonero a meritarlo più di tutti. Aveva perso così tanto… eppure non si era arresa. L’aveva fatto per aiutare gli altri.
    Proprio come ora stava, ancora una volta, aiutando lui.
    Sebbene fosse un lettore appassionato e curioso, erano tante, troppe, infinite le cose che Ictus non sapeva. Non sapeva dare un nome a ciò che provava per Erisha. Non riusciva a capire cosa gli succedesse, certe volte, quando il mondo prendeva a vorticargli intorno, il petto oppresso da un macigno pesantissimo ma invisibile, lo stomaco stretto in una morsa acuta e dolorosa e la testa tanto insostenibile quanto confusamente vuota. O meglio, quello che sapeva era l’unica cosa di cui fosse sempre stato certo: c’era qualcosa di sbagliato in lui.
    «Dovremmo tornare… ti riaccompagno! Al massimo io poi… vado… così la smetto di…» In mezzo alla nebbia che gli aleggiava nella mente, scegliere le parole era terribilmente difficile. E il respiro gli si mozzò del tutto, quando, all’improvviso, il corridoio dai contorni sfocati fu sostituito da quello che sembrava in tutto e per tutto… «Il dormitorio corvonero…? Ma come…?»
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    Speriamo che anche Ictus ci metta così tanto.
    (Cosa? Cosa.)
     
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    Lo aveva capito che c’era qualcosa che non andava.
    Ictus aveva completamente cambiato espressione e comportamento da quando si erano incontrati fuori al dormitorio.
    Era lei che lo metteva a disagio? probabilmente aveva esagerato come faceva sempre, magari Benedictus non aveva mai avuto intenzione di andare al ballo scolastico con lei, magari invitandolo l’aveva costretto a fare qualcosa che non voleva, ed ora si sentiva oppresso; era uno dei suoi difetti, dopotutto, soffocare le persone a cui voleva bene di attenzioni, se si aggiungeva alla lista il fatto che quello per lo special non fosse un semplice ed innocente bene i conti tornavano.
    Nella sua vecchia relazione non aveva mai sentito il bisogno impellente di contatto fisico, lei e Romolo Linguini si erano scambiati qualche bacio e nulla più, ma complice il fatto che il rapporto si fosse allentato prima di spezzarsi completamente, erisha non aveva mai dato sfogo al suo lato fisico, erano state forse le sensazioni del combattimento che aveva vissuto a farle capire che il tempo era prezioso, era anche per questo che era alla continua ricerca di calore da parte del medium: si sentiva una pervertita, quasi un’Isabella Swan qualsiasi in astinenza pre matrimoniale, si vergognava di quel suo nuovo lato e si malediva per non riuscire a controllarsi, lei che era stata abituata a tenere tutto dentro, ad essere posata e al bere il tè con il mignolo all’insù che provava il bisogno di toccare un uomo?
    Erisha non era una sempliciotta, sapeva di cosa parlava il proprio linguaggio del corpo, ma non si capacitava del perché non sapesse più contenersi improvvisamente… e da quando faceva così caldo? «V-va tutto bene… davvero…», Erisha mollò immediatamente la presa sulla mano di benedictus sentendo le guance andare a fuoco, non andava nulla bene, per niente «Non devi sforzarti, se non stai bene devi dirmelo» avrebbe dovuto scappare a gambe levate, Benedictus, avrebbe dovuto scappare da una maniaca come lei, per merlino era persino minorenne! «quel posto era diventato soffocante» già, non solo per lui, ma anche per lei, restare lì in mezzo, davanti ai suoi amici, davanti a tutti, avrebbe significato doversi allontanare dal proprio accompagnatore
    otium, Catulle, tibi molestum est: si morse il labbro inferiore, girandosi verso di lui e fermandosi di colpo, non guardandosi intorno «Dovremmo tornare… ti riaccompagno! Al massimo io poi… vado… così la smetto di…» strinse i pugni, guance rosse e sopracciglia aggrottate «io lo capisco se non ti allieta la mia compagnia » lo sguardo non riuscì più a sostenere quello cristallino dell’altro, e si andò a posare sul nastrino che decorava il proprio petto, che ben presto venne raggiunto dalla mano destra, che iniziò a giocarci «ti ho trascinato qui senza che magari tu lo volessi, ho pensato solo ai miei interessi, quindi se vuoi tornare dai tuoi amici vai pure » le dita dei piedi le si contorcevano in quei pesanti e lunghi fino al ginocchio stivali da cowboy, poi questi si incrociavano fra loro mentre l’ex corvonero ciondolava sul posto otio exsultas nimiumque gestis: finalmente alzò lo sguardo rivedendo i colori della propria casata, si sentì a casa, per la prima volta di ritorno dalla guerra, sentì la bocca secca, le parole le morirono in gola otio otium et reges prius et beatas
    perdidit urbes.
    non ci stava capendo nulla; sentiva le orecchie in fiamme, il cuore che le batteva ad un ritmo incredibile, come se le volesse uscire fuori dal petto «come… siamo finiti qui?» una domanda lecita, a cui non sapeva darsi risposta

    L’ozio, Catullo, ti è dannoso;
    nell’ozio smanii e ti agiti troppo.
    L’ozio in precedenza sia re che città felici.
    ha distrutto.
    altair
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    «Non devi sforzarti, se non stai bene devi dirmelo»
    E invece quelle parole lo portarono a sforzarsi ancora di più. Di non piangere, in primo luogo, non solo per il suo essere un pg di Sara, ma soprattutto perché ne aveva davvero, davvero voglia. Proprio perché Erisha gli aveva posto quell’implicita domanda, una domanda che avrebbe dovuto essere normale, ma che per lui non lo era per niente.
    Stava bene?
    «Sì, sì, tranquilla, va tutto bene, davvero.» Sorrise, un po’ nervoso, ma la voce che gli uscì dalle labbra, così come il suo sguardo, era totalmente sincera. La cosa più assurda, di quella domanda, è che non era per nulla abituato a sentirla. O almeno, non davvero. A Bodie la cortesia era all’ordine del giorno, ma nessuno si scomodava a fare domande, specie poi se erano semplici convenevoli, allo strano ragazzino cresciuto grazie alla carità del sacerdote locale. A Hogwarts era un modo per parlare del più e del meno, tanto che, ormai, la gente non si sforzava neanche più di pronunciarla e, se lo faceva, era solo per educazione, vera o finta che fosse. Ma Erisha… Erisha era sincera nel porgliela. Era questo a sconvolgerlo. Questo e il fatto che lo chiedesse proprio a lui.
    Si inumidì le labbra, rendendosi all’improvviso conto di quanto fossero secche, al pari della sua gola, e cercò di mettere in ordine i pensieri. Odiava far preoccupare gli altri, a maggior ragione con altri si intendevano i suoi amici e, ancora di più, la geocineta. Anche perché… lui stava effettivamente bene. Anzi, a dirla tutta, non era mai stato meglio. Si sentiva accolto, capito, amato. Dai Ben10 e, anche se quasi non osava nemmeno pensarlo, persino da Erisha, almeno un po’. Eppure tutto questo lo faceva sentire anche in colpa, perché sapeva che avrebbe dovuto sentirsi amato da sempre. Qualcuno lo amava da lassù, proprio come amava tutto il resto dell’umanità e del creato. Lo sapeva, lo sapeva da sempre, e l’aveva anche sentito in più e più occasioni… ma non aveva mai provato quello che sentiva adesso.
    «È solo che...» «quel posto era diventato soffocante» Sgranò appena gli occhi, fissandola per un istante sorpreso, quindi annuì deciso. Soffocante era una definizione calzante per la folla rumorosa, quasi un mare, di studenti raccolti per il prom. Le voci, la musica, le luci, gli odori… Sentì la gola tornare a serrarsi quasi del tutto, mentre lo stomaco riprendeva a contrarsi con forza. Eppure, gli bastò guardare ancora Erisha perché quelle strette, per quanto dolorose e deliranti, assumessero una sfumatura piacevole. Mai avrebbe paragonato il modo in cui alle volte si sentiva in mezzo alla confusione, e soprattutto a tante, troppe persone, a ciò che provava costantemente quando passava del tempo con l’ex corvonero (e in effetti anche solo quando la pensava, cioè in quasi ogni istante della sua giornata, e spesso, se non sempre, persino durante la notte), ma, ora che rifletteva, avendo davanti agli occhi entrambe, non poté non vedere il parallelismo. Solo che da una parte il dolore era fine a sé stesso, mentre dall’altra faceva tutto il giro e diventava un calore che dal petto si irradiava per tutto il corpo, facendolo sudare e tremare al tempo stesso, impedendogli di respirare a dovere ma che gli faceva venire voglia di mettersi a urlare, o forse a cantare. «Tutte quelle persone… il rumore… sembrava essere finita l’aria, come se l’avessero respirata tutta e non ce ne fosse più per me e…»
    «io lo capisco se non ti allieta la mia compagnia»
    Rimase a labbra socchiuse, dimenticando quello che voleva dire, scordando il goffo tentativo che stava facendo di spiegarle come si era sentito nei cortili poco prima, perché convinto di aver sentito male. Cercò una conferma, o meglio, una smentita nello sguardo di lei, aggrottando inavvertitamente le sopracciglia. Gli occhi scuri di Erisha, però, sfuggirono ai suoi, lasciandolo a osservare le ciglia così folte e lunghe che adesso quasi le sfioravano le guance, tanto era concentrata a evitare il suo sguardo. «Perdonami, ma non credo di aver capito bene… Anzi, non ho capito proprio», cercò di esplicitare, sulla lingua un sapore amaro, il gusto della paura.
    Non voleva dire ad alta voce quello che credeva di aver sentito, perché era troppo orribile e, soprattutto, lo terrorizzava. La presenza che, da sempre, non allietava nessuno era la sua. Era impossibile che Erisha stesse rivolgendo a sé stessa quell’accusa. Forse, anzi, sicuramente era un modo gentile e delicato di fargli capire che era vero il contrario: era lei a non volere più passare del tempo con lui. O forse non l’aveva mai voluto, ma era troppo educata e generosa per scacciarlo. Persino adesso, quindi, non lo stava facendo davvero, con tutta probabilità per paura di ferirlo.
    Ma lì l’unica persona orribile era lui, perché invece di confortarla fu attirato dal movimento delle dita di lei, su cui si fissò. Non gli sembrava vero di averle strette fino a poco prima. Magari era stata proprio quella la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Erisha non poteva più sopportare il tocco viscido e gelido della sua pelle. Non con quelle dita piccole e affusolate, che ora giocherellevano con il nastrino appuntato sulla maglietta leggera, che copriva ma non nascondeva affatto la morbidezza al di sotto e…
    «ti ho trascinato qui senza che magari tu lo volessi, ho pensato solo ai miei interessi, quindi se vuoi tornare dai tuoi amici vai pure »
    «I miei…? Qui…?» Si sentiva, anzi, era, era così stupido! Perché non riusciva nemmeno a parlare? Non che fosse la sua dote migliore, anzi, ma da lettore accanito quale era doveva avere un vocabolario decente, se non altro. Però non era in grado di sfruttarlo. Così come non era in grado di confortare Erisha, né di dirle che era la cosa più bella che gli fosse mai capitata.
    E adesso era ancora più confuso, perché, intorno a loro, il blu e il bronzo facevano da padroni, delineando una stanza elegante e accogliente, curata nei minimi dettagli. Guardò Erisha in cerca di rassicurazioni, sebbene avrebbe dovuto essere lui a rassicurare lei, ma la vide e la sentì altrettanto confusa. «Non ne ho idea…? E come abbiamo fatto a entrare, visto che…» Si interruppe, arrossendo, a un passo dal baratro. Anche se con grande forza e ancora più coraggio Erisha aveva non solo accettato, ma abbracciato la sua nuova natura di geocineta, Ictus sapeva benissimo quanto il pensiero della vita che aveva sempre conosciuto, ma che ora le era stata strappata via.
    «Però c’è solo un letto», constatò, rendendosi conto di star fissando quella parte del mobilio. Quel posto sembrava in tutto e per tutto il dormitorio corvonero, ma, invece dei soliti cinque giacigli tipici di ogni stanza per studenti, qui c’era un unico baldacchino, sul cui copriletto blu finemente ricamato vi era poggiato un pupazzo a forma di pantera.
    Un pupazzo a forma di pantera identico a quello che aveva regalato a Erisha per il suo compleanno.
    Non era un letto solo e solo un letto. Era il letto di Erisha Byrne.
    Serrò gli occhi e cercò di prendere un bel respiro, sebbene l’aria faticasse ancora a passare, augurandosi che la pelle del suo viso non fosse così visibilmente rossa come il calore che vi bruciava sotto lasciava presagire.
    No.
    Anche se il suo corpo era un traditore che si stava agitando sempre di più (ma d’altronde cos’altro aspettarsi dalla carne?), Erisha doveva sapere. Non tutto, perché non aveva il coraggio, da fallibile uomo quale era. Ma doveva almeno provare a farla sentire serena.
    Espirò e riaprì gli occhi, cercando i suoi con la speranza che stavolta non gli sfuggissero. «Eri… non mi ha trascinato qui senza che io lo volessi. Mi hai… salvato. Là dentro stavo… stavo soffocando. Non so bene come spiegarlo, ma delle volte… quando ci sono tante persone… quando c’è tutta quella confusione… mi sento proprio male fisicamente, capisci?» Sapeva di stare mettendo per sempre un punto alla loro amicizia con quella confessione, ma se questo l’avrebbe fatta sentire meglio ne sarebbe valsa la pena. «Mentre quando ci sei tu… mi sento così bene da stare male.»
    altair
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    se avessero detto ad Erisha Byrne che si sarebbe ritrovata nel dormitorio corvonero di nuovo dopo la grande guerra, dopo aver perso la propria bacchetta, non ci avrebbe creduto.
    Se le avessero detto che ci sarebbe tornata, in un momento in cui stava avendo pensieri non proprio ortodossi, con Benedictus Diogratias, avrebbe risposto che quello era solamente uno di quei sogni strani che la geocineta faceva da quando era tornata dalla guerra e si era ritrovata con il medium, e che non poteva trattarsi della realtà.
    Ma la realtà dei fatti era che erano lì, entrambi e quello era il suo letto, quel peluche era però nella sua attuale camera a different lodge, quindi… com’era successo? si mordicchiò il labbro inferiore e poi, finalmente, si tirò su i capelli, beandosi dell’aria fresca che si posava sul collo «Non ne ho idea…? E come abbiamo fatto a entrare, visto che…» non avevano salito alcuna scala, non avevano pronunciato la risposta all’indovinello, era tecnicamente impossibile fossero lì per davvero, eppure più si guardava intorno più quell’ambiente era… familiare la foto sul comodino con le due lucrezie e la “x” gigante fatta con il pennarello rosso sul viso di romolo linguini, l’odore di cannella della sua candela preferita, lo specchio col manico che usava per intrecciare i capelli prima di dormire «non…capisco» fece qualche passo in avanti allontanandosi dal proprio accompagnatore guardandosi intorno, girando su se stessa «Però c’è solo un letto» già, era forse finita nella realtà psichedelica di due natali precedenti dove gideon era una sottospecie di bianconiglio? no quello era stato un sogno, attualmente era sveglia e ben vigile; l’indice andò a posarsi sul labbro inferiore secco e torturato dai propri incisivi, restò qualche secondo così prima di sgranare leggermente gli occhi, che fossero finiti nella… «…stanza delle necessità?» fu quello il momento di arrossire del tutto, fino alle orecchie, e voltarsi verso il letto per osservare la trapunta attentamente, erano finiti lì e c’era solo un letto era colpa sua!! e dei pensieri terribili che faceva di continuo su un minorenne, terribile, cancellata, avrebbe voluto farsi una doccia super fredda, un’ice bucket challenge per i pervertiti, oh insomma!
    si sventolò il viso un paio di volte con la mano ma senza successo, doveva accettarlo, quello era Benedictus, innocente e minorenne e lei lo desiderava, non solo come un amico «Eri… non mi ha trascinato qui senza che io lo volessi. Mi hai… salvato. Là dentro stavo… stavo soffocando. Non so bene come spiegarlo, ma delle volte… quando ci sono tante persone… quando c’è tutta quella confusione… mi sento proprio male fisicamente, capisci?» come avrebbe detto un saggio: jcjswkaisoaoao, insomma come faceva a dirle cose tanto carine se lei ora stava pensando a tutt’altro, e quel tutt’altro non era di natura innocente? avrebbe dovuto trattenersi ancora? chiuse gli occhi e prese un bel respiro cercando di ricordare quello che diceva la propria odiosa nonna contegno ed espressione neutra, la odiava ma magari in quel momento avrebbe potuto esserle utile «Mentre quando ci sei tu… mi sento così bene da stare male.» oh, al diavolo il contegno si girò ed ebbe uno scatto quasi felino si trovò faccia a faccia, anzi faccia al petto vista la sua statura, con il medium «vuoi sapere come mi sento io, invece quando sono con te?» avrebbe creato una crepa tra loro, magari Ictus non avrebbe voluto più vederla… figurarsi toccarla «ho voglia di toccarti, continuamente» e finalmente gli posò le mani sul petto, stringendone leggermente il tessuto «mi sento maledettamente in colpa perché so che tu non pensi a me in quel modo ma starti vicino è… ubriacante, ed io sono astemia» cercò il suo sguardo pronta a leggerci disgusto, delusione «scusami» disse prima di afferrare il colletto della sua camicia e portare le proprie labbra su quelle di Benedictus, sempre che lui non l’avesse respinta prima.
    Era una codarda, ma era una codarda innamorata.
    altair
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    Benedictus non si riteneva intelligente, non lo era, un po’ perché farlo avrebbe significato peccare di immodestia e sovrastimarsi, un po’ perché realmente convinto della propria incapacità. Tuttavia, non poteva negare che, almeno in certi campi, non fosse del tutto digiuno di cervello. Anche perché, come gli diceva sempre Ficus, con tutti i libri che leggeva non poteva essere poi davvero così stupido (cosa che invece sosteneva Mona, anche se, naturalmente, in modo del tutto affettuoso, lui lo sapeva)!
    Eppure nessun libro lo aveva preparato a quello che stava per succedere. Ironico, visto che, da Cime tempestose in poi, lui ed Erisha avevano mostrato una predilezione forse un tantino sospetta per romanzi che parlavano di sentimenti e, nello specifico, d’amore. Paris l’aveva sfottuto in più e più occasioni, beccandolo con il naso immerso in quelle pagine, ma superati i primi istanti di imbarazzo Ictus si era stretto nelle spalle e aveva continuato a leggere. Gli piaceva farlo e gli piacevano quei libri. E, sebbene non volesse portare alla luce del sole quella consapevolezza, affrontarli in compagnia di Erisha aveva tutto un altro sapore.
    Anche lui, come lei, non capiva. O meglio, con tutta probabilità non voleva capire. Perché quel commento che gli era sfuggito dalle labbra, quella constatazione sul fatto che sì, era uno dei dormitori femminili di corvonero, ma quel solo e unico letto non poteva che essere quello di Eri, sottintendeva, che gli piacesse o meno, un’altra consapevolezza, una che non era abbastanza stupido da non cogliere. Insieme alla Byrne aveva letto abbastanza romance, nei mesi precedenti, da non cogliere quel trope così diffuso e, per quanto scontato, capace ogni volta di imbarazzarlo piacevolmente.
    «… stanza delle necessità?» Annuì quasi all’istante, senza rifletterci su, perché non poteva essere altrimenti. Gli ci vollero quindi parecchi secondi perché, però, quel nuovo elemento si sedimentasse in lui, unendosi al resto dei pezzi. Compreso il forte imbarazzo di Erisha, così forte che lei fu costretta a voltarsi verso il letto, il suo letto, per non doverlo più guardare.
    Perché era colpa sua.
    Era lui che, trovandosi senza realizzarlo davvero (ma forse sapendolo, nel profondo della sua mente traditrice) davanti alla Stanza delle Necessità, aveva desiderato che questa prendesse la forma che ora aveva messo Eri tanto a disagio.
    Era lui il pervertito. Lui, il cui sangue ribolliva ogni volta che la pensava, figuriamoci quindi quando era così vicina anche fisicamente. Lui, che ogni volta che chiudeva gli occhi, ma in realtà anche quando li aveva ben aperti sul mondo, non poteva fare a meno di raffigurarsela, e non sempre limitandosi ai suoi occhi e al suo sorriso. Lui, che ormai da mesi aveva scoperto che il suo corpo non era brutto e deforme e sbagliato solo fuori, ma anche dentro, perché reagiva in modi a cui non voleva neanche pensare, figuriamoci vedere, e che erano così dolorosamente piacevoli da rendergli la vita quasi impossibile, perché sapeva che solo accanto a una persona, solo con Erisha, sarebbero al contempo peggiorati e migliorati vertiginosamente.
    Il senso di colpa, per Ictus, era sempre stato una seconda pelle, tanto una corazza quanto uno strumento di tortura che si imponeva per proteggersi e per punirsi. Ma questo, di senso di colpa, era del tutto anomalo. Non si limitava a stringergli la gola e a fargli attorcigliare lo stomaco, a scatenargli quel sudore freddo che si spandeva fin nella punta delle dita; era fuoco bruciante nelle vene, veleno capace di diffondersi in ogni singola parte del suo corpo, risvegliandola.
    Per quanto debole, per quanto sbagliato, tutto ciò che desiderava era vederla sorridere di nuovo. A differenza sua, Erisha si mostrava sempre forte e fiera, bastava anche solo vedere come aveva affrontato quella nuova natura che le era piovuta addosso, per non parlare del fatto che fosse letteralmente andata a combattere in guerra; tuttavia, non c’era nulla di male nel permettersi di essere fragili, di tanto in tanto. E poi, se ora lei era tanto agitata, e imbarazzata, era solo colpa sua, ancora una volta. Cercare di farle capire, seppure in modo confuso e quasi sicuramente sbagliato, era il minimo che potesse fare per lei. Anche se farlo avrebbe quasi sicuramente significato rovinare tutto, e per sempre. Ma non era forse questo, l’implicito ma più vero regalo che poteva farle? Liberarla dalla sua presenza, dalla sua amicizia, da quel tumulto di emozioni e sensazioni che gli si agitavano dentro, e fin troppo spesso persino fuori, ogni volta che Erisha era in paraggi anche solo della sua mente.
    Da vero codardo le parlò mentre lei era ancora mezza girata, anche se non gli sfuggirono il tremore delle sue spalle e il profondo respiro che tirò. Ecco, era arrivato il momento. Quello in cui Erisha Byrne avrebbe finalmente capito che nulla, nulla nella loro amicizia aveva senso, quello in cui si sarebbe finalmente resa conto che una come lei non aveva nulla da spartire con uno come lui.
    Tuttavia, per un istante, si sentì più leggero, sapendo di aver confessato almeno una minimissima parte di ciò che sentiva. Aveva solo scalfito la superficie, certo, ma l’aveva comunque fatto. Per lui era già tantissimo, abituato com’era a essere sì cristallino e sincero, ma a reprimere tutto ciò che riteneva sbagliato e, ancora di più, immorale. Ma il sollievo durò solo un momento, perché nel frattempo Erisha si era girata e, in un battito di ciglia, e del cuore, gli era balzata vicino, con uno scatto che ricordava in tutto e per tutto quello che era stato l’animale incarnazione della sua anima e del suo potere. Senza rendersene conto trattenne il fiato e, incredibilmente, invece di sfuggire al suo sguardo la fissò, dall’alto al basso, così vicina, troppo vicina.
    «vuoi sapere come mi sento io, invece quando sono con te?»
    Impietosita? Impaurita? Annoiata?
    Disgustata?
    Probabilmente tutte queste cose, e anche molte di più, e molto peggiori. Tentò invano di respirare, gli incollati a quelli di lei. No, non solo ai suoi occhi… alla morbidezza delle sue guance, al naso piccolo e perfetto, quasi fosse stato scolpito da uno scalpello divino. E quelle labbra…
    L’aria finalmente passò per la sua gola, ma dovette pagare un pegno per quel transito. Gli sfuggì un gemito strozzato, proprio mentre Erisha lo toccava, a parole e ancora di più a gesti. Doveva aver sentito male. Lei non poteva avere detto quello che lui credeva di aver sentito. Eri avrebbe dovuto provare disgusto, appunto, per non dire schifo, nei suoi confronti. L’esatto opposto, dunque, del desiderio di stargli così vicina, in tutti i sensi.
    «mi sento maledettamente in colpa perché so che tu non pensi a me in quel modo ma starti vicino è… ubriacante, ed io sono astemia»
    C’erano così tante cose che avrebbe voluto, e, ancora di più, dovuto dire, e fare. Per farle capire che si stava sbagliando, prima di tutto. Si sbagliava a provare quelle cose, per lui, lui!. Si sbagliava a volerlo così vicino, a volerlo… com’è che aveva detto? Toccare?
    Dio.
    Tremò forte, incapace di fare altro.
    Ma soprattutto, Erisha si sbagliava credendo che lui non pensasse a lei in quel modo.
    Un altro brivido, e stavolta dalla gola gli risalì la più strozzata, la più stupida, la più assurda delle risate. Una sola, ma che bastava a fargli desiderare di essere inghiottito in quell’istante dal pavimento, per essere poi rinchiuso per sempre nella Sala Torture, buttando via la chiave.
    Non rideva di lei, ma di sé stesso. Dell’assurdità di quella situazione. Del suo maledetto, schifoso corpo, che invece di parlare, invece di aiutarla ad aprire gli occhi e a salvarsi, tremava e si scaldava e diventava molle e duro nei posti dove non avrebbe dovuto.
    Era lui quello ubriaco.
    Così ubriaco che quella sbronza non gli sarebbe mai passata nel tutto. Se lo sentiva nelle ossa, nel sangue.
    Se lo sentiva nel cuore.
    Ma tutto l’amore di carta e inchiostro di cui aveva letto, di cui avevano letto, insieme, non poteva prepararlo a quell’istante.
    Dapprima gli si offuscò la vista, forse per l’agitazione, forse per i capelli scuri come la notte di lei all’improvviso così vicini, intenti a sprigionare quell’intenso profumo che gli faceva girare la testa, che lo faceva, appunto, sentire ubriaco. Percepiva le mani di Erisha sulla camicia, ma mentre questa gli risultava quasi come un corpo estraneo, le dita di lei sembravano essere esattamente nel posto giusto.
    Non era sicuro a chi appartenesse quel respiro caldo, se a sé stesso o a lei, o forse a entrambi, a loro. Era tutto così sbagliato, eppure così giusto.
    Le sue labbra.
    Le.
    Sue.
    Labbra.
    Erisha Byrne lo stava



    baciando.

    Forse era morto e quello era il Paradiso. O forse, e più probabilmente, l’Inferno. Perché mai, mai, mai qualcosa del genere avrebbe potuto essere giusto. Non poteva esserlo. Non c’era nulla di giusto, di casto, nel desiderio bruciante che lo spingeva verso di lei, in quella fiamma che raggiunse le stelle nel momento in cui le loro labbra si toccarono.
    Ma allora perché si sentiva così bene?
    Stava così male da sentirsi bene.
    Ed era nel panico, perché non sapeva cosa fare, né tantomeno come farlo.
    Come si baciava qualcuno?
    Come si baciava Erisha Byrne?
    Sarebbe stato ipocrita, ipocrita e bugiardo, dire che non l’aveva mai immaginato. Anzi, vi aveva fantasticato su così tante volte, e con reazioni sempre peggiori, che alla fine era stato costretto a rinchiudere quel tumulto di immagini e sensazioni e sentimenti in un angolo della mente, un angolo così rovente da bruciarlo ogni volta che, masochista, non poteva fare a meno di sfiorare.
    Ma Ictus non aveva mai baciato nessuno, e non aveva mai avuto neanche intenzione di farlo. quel genere di cose non erano state fatte per lui. O meglio, lui non era fatto per quel genere di cose.
    Eppure non c’era nulla che desiderasse di più di sentire ancora e ancora le labbra di Erisha sulle proprie.
    Il panico si mescolò al fuoco dentro al suo corpo, all’emozione, alla felicità, all’eccitazione. Sarebbe stato immobile, se non fosse stato per gli infiniti brividi che, come piccole scariche elettriche, lo attraversavano.
    Si sforzò con tutto sé stesso di fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non sapeva neanche da dove cominciare, preso com’era dall’agitazione e dallo sconvolgimento. Premette le labbra contro quelle di lei, al contempo non desiderando altro ma sentendo il bisogno di molto di più, infinitamente di più. Un po’ meccanicamente, ma al contempo in modo istintivo, le sue mani cercarono, e trovarono, i fianchi di lei, stringendoli con delicatezza, attirandola più vicino.
    Pessima mossa, visto quello che stava succedendo al suo corpo.
    Quando alla fine capì di essere sul punto di svenire, senza più aria nei polmoni per la paura e l’emozione e quella tempesta che gli imperversava dentro, rendendo ogni centimetro del suo corpo bollente, a cominciare dalle guance solitamente pallide e ora del tutto in fiamme, si costrinse a scostarsi a malincuore dalla sua bocca, scoprendosi ancora capace di respirare, seppure affannosamente. «Scusami», le fece eco con un filo di voce, mettendo lentamente a fuoco il suo viso. Se possibile, era ancora più bella adesso, il volto arrossato e labbra gonfie, i capelli elegantemente fuori posto e gli occhi così brillanti da competere con le stelle. «Scusami», tornò a ripetere, sentendo le lacrime pizzicargli lo sguardo.
    Non riusciva ad articolarlo, ma avrebbe voluto scusarsi…
    «… per tutto. Lo s-so che non lo… volevi. Q-questo. Io. E… non sono… non sono capace. Non l’ho… non l’avevo…! … Mai fatto…» Come faceva a dirle che era stato il momento più bello della sua vita, ma che avrebbe capito se lei avesse voluto cancellarlo seduta stante? «Non devi preoccuparti… lo capisco, lo so che… ma giustamente non ti senti bene e sei triste e sconvolta e… qui… ci sono solo…» Di nuovo quella risatina strozzata, di nuovo un’altra fiammata a rendere il suo viso ancora più caldo e rosso. «… io. Ma va tutto… va tutto bene.»
    Non andava bene niente.
    E le sue mani erano ancora sui fianchi di lei.
    Li strinse appena, inavvertitamente, quando si rese conto di non star più fissando il suo viso, ma le sue labbra. Quelle labbra di cui sentiva ancora il sapore, quelle labbra che erano completamente diverse da ciò che aveva immaginato ancora e ancora, ma infinitamente meglio, infinitamente… vere.
    Non aveva minimamente idea di quello che stava facendo, o forse, di idee, ne aveva fin troppe. Non sapeva nulla, se non che quello che sentiva l’avrebbe prima ridotto in cenere, e poi spedito direttamente all’Inferno.
    Ma si incurvò, sempre di più, finché i loro respiri non tornarono a mescolarsi.
    Ignaro di tutto, a partire da sé stesso, posò di nuovo le labbra su quelle di lei.
    altair
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