Imagine for a minute the way that I'd be living if only I could

stiles ft. hugo, ciao sara! adieu!

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    Non era il momento storico adatto per essere un ex alcolista. Come avrebbe detto un qualsiasi gen z, Stiles sperava di morire prima - con la postilla, però, di essere morto sul serio, e non aver risolto comunque un cazzo, perché era tornato e la situazione era solo che peggiorata. Mordicchiò il labbro inferiore fra i denti, roteando fra le dita il gettone del quarto anno di sobrietà ricevuto dal gruppo di alcolisti anonimi qualche giorno prima.
    <>Yikes.
    Avrebbe dovuto farlo sentire meglio di così, ma la necessità di dovercisi sempre aggrappare pur di non ricadere nei vecchi errori, non lo aiutava quanto avrebbe dovuto. Lo strinse nel palmo come una promessa, cercando di incastonarselo sulla pelle e crederci un po’ di più.
    Che valesse qualcosa.
    Che bere non fosse la soluzione.
    Come se ogni giorno, ogni maledetto giorno. Andrew Stilinski non avesse avuto qualcosa che avrebbe preferito dimenticare. Almeno per un po’, quanto bastava a cancellare dalle iridi caramello l’ormai costante patina di stanchezza che neanche una settimana di sonno avrebbe potuto placare.
    Una guerra in cui non aveva avuto voce in capitolo, non per davvero.
    Un mondo devastato che aveva cercato di non calpestare, Stiles, trattandolo comunque come aiuole di un parco pubblico, ma che qualcuno aveva schiacciato comunque. Era rimasto a guardare, omertoso; aveva stretto i denti ed abbassato lo sguardo, perché almeno la lingua morsa era la propria e non quella che Abbadon gli aveva infilato in bocca. Metaforicamente, s’intendeva; la loro conoscenza si limitava al rapporto Gesù Lazzaro, nulla di carnale sul fronte #stabby.
    Aveva sentito di Archibald e Arabells, dopo; di Erisha e Neffi, dopo.
    Di Sinclair Hansen.
    Di Hunter e Halley.
    Non aveva ceduto all’alcool. Aveva scelto di respirare, lentamente, e di spingere con cautela le proprie dita prima su una casella e poi sull’altra. Non era mai stato bravo in matematica, ma si era detto che calcolando i movimenti al millimetro, avrebbe potuto gestire tutto, sia le questioni principali che quelle strettamente connesse: Murphy; il resto dei Losers; Heather Morrison.
    “Andrew Stilinski” rientrava in entrambe le categorie, ma aveva volontariamente scelto di ignorarla - di ignorarsi - in favore di tutto il resto. Vedere se stesso all’interno dei contesti rischiava di diventare, come avrebbe detto la figlia quattordicenne della sua collega al San Mungo, un po’ too much, e quindi si era buttato a testa bassa su quello che non era in grado di gestire senza un crollo isterico. Tornare a lavorare ad Hogwarts, era stato terribile come sembrava.
    Ragazzini che erano rimasti.
    Ragazzini che erano tornati.
    Chi aveva perso tutto; chi non aveva perso nulla.
    Tutti a cercare qualcosa, nelle parole di Stiles, che lo psicomago forzava perché fossero in grado di trovare, e fosse quello di cui avevano bisogno. Il solo pensiero di cosa lo aspettasse il giorno dopo al castello, bastò a far indugiare lo sguardo sulle bottiglie ordinatamente riposte dietro il bancone, qualcosa di simile alla malinconia a torturare le labbra sottili dell’ex Tassorosso. Labbra che costrinse verso l’alto, ed occhi che scollò dall’invitante vetro dei super alcolici, per riportarlo sulla persona seduta dall’altra parte del tavolo. Non era un incontro ufficiale, quello, anzi, era tutt’al più la cosa meno professionale che potesse fare. Non c’era la privacy del San Mungo, e Stiles non indossava il cartellino che lo indicava come psicomago: sula carta, quello era un incontro fra amici. Anime gemelle, perfino, se si voleva credere al Fato.
    Nella pratica?
    Hugo Cox non aveva bisogno di un amico, aveva bisogno di terapia. Era Stiles a non potersi permettere un altro cliente, ed aver ripiegato su quell’assolutamente illegale compromesso da cui decise di sentirsi meglio offrendo un «da ragazzo lavoravo qui» perché se dava informazioni su se stesso, era già uscito dalla sfera puramente terapeutica di quell’incontro. «che esperienza. Un po’ mi manca» un sorriso più gentile quello ad aleggiare sulla bocca dello Stilinski, sopracciglia sollevate. esperienza era decisamente l’eufemismo migliore per descrivere il suo oskuro e losko passato da cameriere ai Tre Manici di Scopa; era felice fossero rimasti in pochi a ricordarlo.
    Anche Hugo non sarebbe rimasto ancora a lungo ad averne memoria, ma quello era un problema di Sara VJ: l’aveva voluto lei, e così fosse. Sara SR lo trovava un po' estremo come metodo per sfar smettere di piangere Hugo, un po' definitivo, ma aveva smesso di giudicare le scelte dei suoi compagni di giochi molto tempo prima.
    E poi almeno Hugo poteva tenere al caldo il posto anche per l'altra sua anima gemella, così era derogatory doppio per Dominic.
    Tiè.
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    Chiaramente, quello non era un appuntamento. Non solo, e non tanto, perché Hugo non ne aveva mai avuto uno, non davvero (e qualcosa gli diceva che avrebbe continuato a non averne), ma soprattutto perché Andrew Stilinski non lo meritava. No, non è che non meritasse un appuntamento (anche se rischiava di far sparire chiunque, o così gli avevano detto), anzi, solo amore per lui (cosa? Cosa), ma non meritava un appuntamento con Hugo.
    Nessuno meritava un appuntamento con Hugo.
    Nemmeno Dominic.
    Per cui, quello non era un appuntamento. Hugo ne era perfettamente consapevole, ma, come sempre, la sua mente continuava a giocargli brutti scherzi, che lui avrebbe imputato, al solito, alla depressione, pur sapendo che la realtà era ben diversa. Certo, tante cose nella sua vita avrebbero potuto essere diverse senza la malattia, ma il problema principale era e restava sempre uno solo: Hugo Cox. L’aveva persino dichiarato a gran voce, all’ultimo Oblinder: I’m the problem.
    E lo era davvero.
    Di conseguenza, anche se non era un appuntamento, si sentiva in colpa. Che fosse un’uscita tra amici (anche se, povero Stiles, nemmeno quello gli augurava, sebbene Nathan meritasse di non portare quella croce da solo) o una seduta di terapia gratuita, il succo rimaneva sempre lo stesso: l’ex tassorosso aveva scelto di passare del tempo con lui. C’era evidentemente del masochismo in quella mossa, era una decisione presa da qualcuno che non stava tanto bene. Lo stereotipo non vuole forse che gli strizzacervelli diventino tali perché sono i primi a non essere del tutto a posto? Ecco.
    «E quindi.»
    E quindi cosa? Hugo Cox che si concentrava egoisticamente solo e soltanto su sé stesso per non pensare a, be’, tutto il resto?
    Assolutamente sì.
    Non per niente era l’inetto per eccellenza. Tutta la sua famiglia, nessuno escluso, era scesa in guerra. D’accordo, Adam no, ma aveva le sue ragioni ed erano giusto un tantino più sensate dell’incapacità di schierarsi del fratello. Hugo era bravo a riempirsi la bocca di mille parole (o così gli piaceva pensare), a fare discorsi su discorsi su cosa fosse giusto e cosa sbagliato, a disquisire su libertà e democrazia; era, insomma, un perfetto prototipo di PD. Ma quando c’era da sporcarsi davvero le mani, da agire… si bloccava. Letteralmente. Il criceto già di per sé mezzo morto che aveva al posto del cervello stramazzava a terra e ci rimaneva per giorni e giorni.
    Come sempre, Hugo aveva guardato gli altri vivere.
    E morire.
    Il mondo adesso faceva ancora più schifo, ed era anche colpa sua. Non che le cose sarebbero cambiate, è ovvio, se per una volta avesse agito, invece di rimanere in disparte; tuttavia, avrebbe potuto dire di averci almeno provato. O avrebbe smesso di provarci e basta.
    Perché Hugo era un codardo, e non voleva davvero morire.
    Ma non sapeva vivere.
    «da ragazzo lavoravo qui»
    «Mi dispiace.»
    Era sincero, Hugo. Sapeva per esperienza diretta quanto fosse orribile lavorare a contatto con il pubblico (e in generale stare con la gente, suo malgrado). Ma poi in un pub? Sempre pieno di gente? Un incubo vero. «Spero che almeno la paga fosse buona.» Ma aveva forti, fortissimi dubbi a riguardo.
    «che esperienza. Un po’ mi manca» Hhhh.
    «Allora sei davvero un po’ masochista.» Cosa? Cosa. «Voglio dire.» Tossicchiò, sorridendo imbarazzato, e abbassò lo sguardo sulla tazza di tè, dove prese a muovere su e giù lo stantuffo per l’infusione. «Con il tempo si tende a… romanticizzare tutto. O almeno. Io lo faccio decisamente un po’ troppo spesso.» Con un piccolo sospiro, rialzò lo sguardo verso lo psicomago, tornando a rivolgergli un mezzo sorriso. «Subito dopo Hogwarts ho lavorato tre mesi in un negozio di vestiti per bambini. Io», si indicò, derogatory, «sì, lo so, fa già ridere così. È stato… orrendo?? Sotto tutti i punti di vista?? Eppure…».
    Eppure, eh.
    «Anche a me delle volte manca. Perché era… un tempo più semplice.»
    Era giovane.
    E non c’era appena stata una guerra.
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    «Mi dispiace.» Che sembrava del tutto onesto, e fece sfuggire un sorriso allo Stilinski. Sollevò gli occhi su Hugo, scrutandolo in cerca della sua personale origin villain story, e quando l’altro non la offrì di sua spontanea volontà, si limitò a fare spallucce. «Spero che almeno la paga fosse buona.» Quella di uno studente part time? Corrugò le sopracciglia, grattando una bassa risata incredula. «nei locali la paga non è mai buona. I dipendenti arrotondano con le mance» indicò con un cenno il boccale vicino alla cassa dove si potevano infilare monete che a fine servizio camerieri e baristi si sarebbero divisi. Un metodo idealmente simpatico, ma poco funzionale e che creava dinamiche affatto piacevoli. Ai tempi in cui Andrew Stilinski lavorava ai Tre Manici, per quanto il proprietario lo adorasse, non … andava per la maggiore, con i clienti (eufemismo). Troppo impacciato, sempre a rovesciare qualcosa, e spesso su qualcuno. Passava la maggior parte del suo tempo con una mano sul mocio, e l’altra chiusa a mostrare il dito medio, nascondendolo poi nel grembiule prima che qualcuno potesse realmente accorgersene. Questo per dire che non andasse forte con le mance: gli unici che gli volessero bene erano i clienti abituali, quelli che al mattino puzzavano già d’alcool, ma si sapeva che gli eletti avessero il braccino corto. Comunque, come aggiunse con un sospiro pesante, decisamente un’esperienza.
    «Allora sei davvero un po’ masochista.» Che… che. Vi dirò.
    Non era affatto lontano dalla realtà, ed il colpo basso bastò a fargli distogliere lo sguardo, il labbro superiore arricciato in un sorriso sofferente. Non si sarebbe proprio proprio definito un masochista, ma aveva una… peculiare tendenza a farsi piacere anche quanto poco fosse adatto a lui, ecco. Mettiamola così. Talvolta ci insisteva perfino, su quello che più lo faceva stare male, ma non credeva fosse il caso di ammetterlo ad un primo non appuntamento – era lì per fingere di avere una dignità, non per perderla completamente! Tamburellò nervoso le dita sulla gola, tornando lentamente a guardare Hugo, improvvisamente impegnato a pucciare la bustina di tè nella tazza ad un ritmo un po’ troppo sostenuto. «Voglio dire. Con il tempo si tende a… romanticizzare tutto. O almeno. Io lo faccio decisamente un po’ troppo spesso.» Erano insieme da dieci minuti, ed Andrew Stilinski era già depresso.
    Minchia. Si erano proprio trovati (derogatory per entrambi). Rimase in silenzio, passando in lenta rassegna tutti i vassoi posati sul bancone, colto d’improvviso da quella melanconia un po’ canaglia dei tempi più semplici citati poco dopo dal Cox. Grattò piano la superficie del tavolo, percorrendo le nervature del legno con l’unghia. Masticò lento l’interno della guancia, rimbalzando gli occhi caramello dalla tazza al moro, chiedendosi se fosse il caso di elaborare, investigare, o cambiare argomento. Alla fine optò per sospirare un’altra risata asciutta, le braccia alzate ed allungate dietro di sé per stiracchiare la schiena. «tempi più semplici, non so.» all’epoca, Stiles passava più tempo in Sala delle Torture che da qualsiasi altra parte, perfino più dell’infermeria. Non ricordava di aver mai avuto la pelle priva di lividi o cerotti per tutta la sua permanenza da studente, qualcosa con cui nella vita adulta, grazie a Dio, non doveva convivere. «di sicuro più speranzosi» ancora spallucce. Non era mai stato ottimista, ma era difficile, a sedici anni e con più ossa rotte che integre, pensare che potesse andare peggio: il futuro di quello Stilinski era ancora roseo e pieno di possibilità. Poi l’età adulta l’aveva preso a sprangate nei denti riportandolo con i piedi per terra.
    Una breve storia triste.
    Vestiti per bambini… gli volle abbastanza bene da non chiedere se a statistica avessero pianto più loro, o lui. «pensi che questi non lo siano? Tempi più semplici, intendo» mormorò piano, stringendo le mani attorno alla tazza di caffè scuro – alla fine era andato sul sicuro, senza prendere nulla di troppo fancy - poggiata di fronte a sé.
    Gli sfuggì un sorriso; non particolarmente divertito. «guerra di primavera a parte» perché di quella, avrebbe davvero preferito non parlare.
    Mai. Nella vita. Grazie tante.
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    Si era sempre ritenuto una persona introversa, uno non esattamente capace, se non addirittura per niente, di stare in mezzo alla gente. E questo era molto, troppo vero, ma Hugo non aveva tutte le caratteristiche degli introversi. Gli piaceva fare la tappezzeria nelle situazioni sociali e si sentiva costantemente a disagio, ovunque fosse, convinto com’era di fare e dire di continuo la cosa sbagliata, di essere sbagliato. Eppure, e con il tempo sempre di più, in quelle situazioni di imbarazzo, ovvero sempre, faceva quello che nessun vero introverso avrebbe fatto.
    Parlava.
    Parlava e parlava e parlava.
    Spesso a vanvera, come ormai fin troppi sfortunati sapevano bene, Stiles in primis.
    Parlava e si apriva, rivelando sé stesso e i propri pensieri come davanti al più caro degli amici.
    In parole povere, Hugo era un fallimento anche come introverso. Non che la cosa lo sorprendesse, naturalmente. Anzi, per certi versi lo faceva persino sorridere. Era ovvio che, persino in una così banale, riuscisse a sbagliare su tutta la linea. Di certo non era estroverso, neanche lontanamente, ma non era nemmeno introverso. Non era né l’uno né l’altro.
    Non era niente?
    No, una cosa lo era di certo. Terribilmente stupido. Aveva detto a Stiles che sperava che, quando anni prima aveva lavorato ai Tre manici di scopa, la paga fosse buona. Un adolescente che serve ai tavoli e al bancone di un pub: c’erano poche cose maggiormente classificabili come sfruttamento minorile di quella.
    «Non credo di aver mai lasciato una mancia in vita mia…», ammise con sincerità, a mezza voce. Eccellere era un verbo fuori dalla sua portata, ma bisognava riconoscergli che, nello scavarsi la fossa da solo, ci andava parecchio vicino. «Di sicuro non l’ho mai lasciata qui.» Appunto. «Non per te, eh!! È che… sono tirchio. Cioè, sì, lo sono, ma poi spendo in stronzate inutili?? E in cibo… ecco, il cibo è l’unica cosa in cui non mi pesa davvero spendere.» Ridacchiò appena, con un accenno di nervosismo. «E si vede.»
    L’introverso che non riusciva a stare zitto, e che, parlando ancora e ancora, riusciva a raggiungere sempre nuove profondità di disagio.
    «… Vabbè, insomma, scusa. Per tutte le volte in cui sicuramente non ti ho lasciato la mancia.»
    Dopotutto, senso di colpa era il suo secondo nome, molto più calzante di quel pomposissimo, e stupido, Victor.
    E infatti, a proposito di senso di colpa, gli sembrò di notare qualcosa nello sguardo dello Stilinski, quando lo definì masochista. Gli era uscita spontaneamente, senza chissà quanto rimuginare. O meglio, il fatto è che, per sfortuna di Stiles, qualcosa gli diceva che, tra loro, c’erano dei punti di contatto. Il masochismo, ad esempio. Quel continuo e solo alle volte inconscio ricercare la sottilissima linea che divideva il piacere dal dolore. Hugo, di certo, lo faceva in continuazione. Odiava sentirsi così, ma si crogiolava nel proprio malessere. Perché almeno, quel malessere, era famigliare. Era qualcosa che conosceva, che lo accompagnava da così tanto tempo da averlo ormai convinto che non esistesse un prima, ma solo quel malessere costante e onnipresente. Hugo non era un malessere, ma il malessere era Hugo.
    «tempi più semplici, non so.»
    «Mh.» Per una volta rimase zitto, rimuginando sulle parole di Stiles. O forse no. Non il rimuginare, il tacere. «Sicuramente allora non sembravano semplici», concordò, con un piccolo cenno di assenso del capo.
    «di sicuro più speranzosi»
    Stavolta il suo cenno di assenso fu più profondo, sebbene quella frase gli strappò anche un ghigno. «Mi fa ridere definirmi speranzoso, anche se a posteriori. Io speranzoso…» E in effetti rise, con una mezza smorfia sulle labbra. «Un paradosso.»
    Sperava che in questo, almeno, Stiles non gli somigliasse affatto. Certo, adesso, evidentemente, non si sentiva più pieno di grandi speranze, ma un tempo poteva esserlo stato. Un tempo, poi. Hugo si sentiva un vecchio e, dentro, lo era da sempre, ma razionalmente né lui né lo Stilinski lo erano davvero. Cos’era successo in quei pochi anni da fargli cambiare così tanto prospettiva?
    Lo osservò, la fronte appena aggrottata, vedendolo stringere la tazza piena di caffè tra le mani. Il caffè che aveva incoraggiato il barista a versargli ancora e ancora, fino quasi a raggiungere l’orlo. Poteva anche essere stato un cameriere pessimo, ai suoi tempi, ma non aveva rovesciato nemmeno una goccia, portandoselo alle labbra. Quasi come se non volesse sprecarlo.
    «pensi che questi non lo siano? Tempi più semplici, intendo»
    Schiuse le labbra, partendo dal prendere un respiro. Perché gli veniva tanto facile parlare con gli estranei? D’accordo, Stiles non lo era, non del tutto, almeno, e il pazzoide che si nascondeva dietro l’oblinder aveva decretato fossero anime gemelle, ma rimaneva comunque una persona che, di lui, sapeva ben poco, a parte conoscere il suo innato talento per il pianto e per la lamentela. Non che ci fosse molto altro, in effetti, visto il suo essere un tipo non solo ordinario, ma terribilmente noioso e mediocre e forse persino insopportabile. Tuttavia, il fatto rimaneva tale: da introverso sbagliato quale era, Hugo tentava di superare l’imbarazzo, e la paura, non indossando alcun tipo di corazza. Anzi, non aveva nessuna protezione. Se ne stava lì, metaforicamente nudo, perché non aveva nulla da nascondere.
    O almeno, con gli altri.
    Doveva, e voleva nascondersi solo e soltanto da sé stesso.
    Strinse le labbra, sentendo lo Stilinski nominare la guerra, e cercò di placare il brivido che, inarrestabile, gli risalì fin nella nuca. «Sì. Sì, non lo sono. Sento che è così, a pelle. Però… però, se ci rifletto, dovrei invece dire che non lo so. Perché forse il fatto è questo… non lo so. Non so niente. Non so…» Era così facile, eppure così difficile. «Non so cosa voglio, tanto per dirne una. Non so chi sono.» Lo sbuffo che gli sfuggì si mescolò a una risata, mentre le mani gesticolavano in cerca delle parole giuste, non impedendogli, però, di tenere la bocca chiusa, lasciando così fluire altre parole, che gli suonavano tutte sbagliate. «Anzi, mi sento come Balto: so solo quello che non sono.»
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    Hugo Cox era davvero… una persona particolare. Stiles non poteva fare a meno di pensare che qualcuno avesse pensato fosse la sua anima gemella, perché trovava avesse molto senso, e poi si ricordava che l’anno prima fosse stato decretato l’anima gemella del Cavendish, ed allora aveva molto senso il fatto che la relazione del biondo con Nice fosse finita. «Mi fa ridere definirmi speranzoso, anche se a posteriori. Io speranzoso…Un paradosso.» Corrugò le sopracciglia, lo sguardo cioccolato immerso nella tazza di caffè. «addirittura un paradosso?» Al ghigno dell’altro rispose tirando un angolo delle labbra nell’accenno di un sorriso, osservandolo di sottecchi. Hugo parlava un sacco, ma sembrava non dire… nulla, come se fosse stato abituato al fatto che nessuno lo ascoltasse, e di conseguenza non avesse bisogno di dare un contesto a quel che usciva dalla propria bocca. Stringhe di parole ingiustificate, se si voleva avere una conversazione onesta. «puoi aspettarti il peggio ed essere comunque un fiducioso ottimista» Non parlava per esperienza personale, il suo pessimismo derivava solo dalla scaramanzia - e se fingeva di aspettarsi il peggio, poteva incassare meglio qualunque nuova minchiata l’universo avesse per lui – ma non vedeva motivo per cui due ossimori non potessero convivere. Non si parlava di leggi della fisica, acqua ed olio impossibilitati a mescolarsi fra loro dalla loro conformazione chimica: la psiche degli esseri umani era complessa come la narrazione di una stagione di Gossip Girl. Le persone, come le cipolle e gli orchi, erano stratificate, ed era non solo possibile, ma probabile che due opposti convivessero pacificamente fra loro. «chi ti ha fatto del male per lasciarti questo pessimismo leopardiano?» Scherzava, un’occhiata divertita al suo interlocutore, ma non del tutto. C’era sempre un evento, o una serie di eventi, scatenante; magari trovarlo e parlarne ad alta voce, l’avrebbe aiutato. «se vuoi dirmelo. Non importa se non pensi che sia vero. fintanto che lo credi tu, lo è» Si strinse nelle spalle, sorseggiando la bevanda amara. Forse non era stata una buona idea, preferire il caffè alla cioccolata calda. Faceva molto professionale, certo, ed aveva bisogno di caffeina, ma… dov’era la sua dose di diabete giornaliera. La sua cioccolata bollente, con panna, e più bustine di zucchero di quante gliene portassero insieme all’ordinazione? Ah, dannazione. Avrebbe dovuto dare appuntamento all’altro dal Red Velvet.
    E poi, signori e signore: Hugo Cox, al suo meglio.
    «Sì. Sì, non lo sono. Sento che è così, a pelle. Però… però, se ci rifletto, dovrei invece dire che non lo so. Perché forse il fatto è questo… non lo so. Non so niente. Non so…Non so cosa voglio, tanto per dirne una. Non so chi sono.»
    Mh. Mh? Stiles sollevò adagio gli occhi su Hugo, labbra curvate verso il basso ed un’espressione smarrita a studiarne il volto. Lui – cosa. Cercò di ripetersi la frase fra sé e sé, perlomeno quel poco che era riuscito a capirne, ma si trovò ancora con nulla in mano. Lui ne sapeva di confusione, eh. Era sempre il primo a non capire, o non voler capire, un cazzo. Ma quello? Bro dude homie calm down. Battè le palpebre, l’indice a seguire disegni astratti sul legno del tavolo. Wow. Davvero molto da spacchettare. Prese tempo schiarendosi la voce, perché non aveva la più pallida idea di cosa dirgli, ed al contempo non voleva che Hugo usasse quel silenzio per perorare la propria causa di essere un fallito. «beh.» aspirò l’aria fra i denti, allargando le braccia al proprio fianco. «se sai cosa non sei, significa che sai chi vorresti essere? E chi non vorresti essere?» ma, soprattutto, sentiva di essersi perso un passaggio fondamentale di quella amicizia-conoscenza-seduta-animegemelle. Si sporse in avanti, offrendo il palmo al Cox. «andrew stilinski, ma mi chiamano tutti stiles. 26 anni, inglese. Ho due fremelli.» Una volta sono morto! Frugò nelle tasche cercando ancora il proprio penny di plastica, mostrandolo all’altro. Forse gliel’aveva già fatto vedere, ma era sempre un buon momento per ricordargli che nessuno fosse perfetto, e tutti sbagliassero. «ex alcolista, ora una brava ragazza» soffiò sulla moneta come avrebbe fatto un cowboy su una rivoltella fumante, prima di reinfilarla nel taschino. «psicomago al san mungo ed a hogwarts.» con un cenno della mano, lo invitò a presentarsi a sua volta.
    E se mai, se mai - ma perché avreste dovuto. – vi foste chiesti perché Stiles fosse single e non avesse alcun appuntamento, ecco perché.
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    In teoria aveva smesso di chiedersi da tempo perché la gente lo odiasse. Prima di tutto perché non era poi così vero, essendo più che altro frutto della sua immensa coda di paglia. Tuttavia, c’erano stati e c’erano eventi che, al contrario, sembravano confermarlo. Ad esempio ogni volta che incrociava un pg di Alessia, tanto per dirne una. Motivo per cui anche Sara, da coda di paglia suprema quale era, alle volte finiva per chiedersi se, dunque, valesse la proprietà transitiva. Confondendosi, infine, in mezzo a tutti questi teoremi (?) matematici. Comunque, in secondo luogo, Hugo aveva smesso di chiedersi perché la gente lo odiasse perché sapeva che, in realtà, a nessuno fregava di lui. Certo, alla sua famiglia e ai suoi (pochi – ciao Nathan) amici forse un filino sì, ma proprio in quanto famiglia&amici non valevano nel conto. Era a tutto il mondo a non fregare nulla, mentre odiare avrebbe significato dargli una qualche importanza, cosa che invece lui non aveva.
    Non solo si sentiva un niente, ma lo era anche.
    Però c’era anche la pratica. In pratica Hugo sapeva perché la gente lo odiava. D’accordo, forse, anzi, sicuramente parlare di odio era eccessivo, proprio per le ragioni appena elencate, ma non era difficile capire perché faticasse ad avere un grande gruppo di amici o, a voler essere del tutto onesti, che lo amasse in tutto e per tutto. Era faticoso avere a che fare con lui. Il che era assurdo, naturalmente, visto che era ben consapevole di essere la persona più mediocre sulla faccia della Terra (anche se poi, al contempo, si sentiva superiore – e inferiore – al resto del mondo). Ma aveva comunque senso, a suo modo.
    Perché il problema era lui.
    E infatti, non a caso, lo lesse nello sguardo confuso di Stiles. Una confusione troppo limpida e sensata per poter davvero riflettere quel magma indistinto che, invece, si sentiva nella testa. Così gli sorrise istintivamente, di rimando, stringendosi appena nelle spalle per la sua domanda. Sapeva di parlare a sproposito, spesso e volentieri, ma conosceva il significato delle parole e gli piaceva pensare di saperle usare magari non come meritavano, ma almeno non a caso. Non del tutto, almeno. «puoi aspettarti il peggio ed essere comunque un fiducioso ottimista» «Questo è un ossimoro, invece.» Rise di nuovo, piano, sentendosi contemporaneamente soddisfatto e scemo per quel finto sfoggio di ancora più finta ars retorica. «E comunque aspettarsi il peggio è semplicemente essere realisti», aggiunse, incassando inconsciamente la testa tra le spalle nella più tipica delle sue pose, quella da gobbo – o da vecchio, punti di vista.
    Non aggiunse che gli ottimisti erano tutti stupidi, e che lui li invidiava. Sia in quanto ottimisti che in quanto stupidi. Si riteneva il più stupido di tutti, naturalmente, eppure non lo era abbastanza per essere ottimista e, ancora di più, per vivere bene. Si sarebbe accontentato persino di poter staccare il cervello, almeno per un po’, e fluttuare nell’oblio più totale.
    «chi ti ha fatto del male per lasciarti questo pessimismo leopardiano?»
    Ma il senso di colpa era sempre lì, prontissimo a tenerlo con i pensieri, e soprattutto l’umore, ben piantati a terra.
    «se vuoi dirmelo. Non importa se non pensi che sia vero. fintanto che lo credi tu, lo è»
    «Scusa.»
    Di cosa?
    «Per tutto.» Un modo per mettere le mani avanti, certo, ma anche la verità. Perché Hugo non sapeva quello che stavano facendo lui e Stiles (un appuntamento? Un’uscita tra quasi amici? Una rimpatriata voluta per pietà – dello Stilinksi, naturalmente, non sua?), ma all’improvviso gli fu drammaticamente chiaro. «Non voglio… sfruttarti. Specie in questo posto, dove ti hanno già sfruttato abbastanza», cercò di spiegare, di giustificarsi, mangiandosi nervoso le parole.
    Perché Stiles, con tatto e un pizzico di ironia, si stava comportando da professionista quale era. Lo aveva inquadrato in quelle pochissime ore passate insieme, tra l’oblinder e ora. Aveva capito che c’era del marcio non in Danimarca, ma nella sua testa.
    E voleva aiutarlo, facendo il suo lavoro.
    «Cioè, ok, lo sto facendo, quindi poi ti pago!! Per cui ecco. Insomma. Grazie. Però scusami comunque.»
    Se Stiles era un bravo psicologo, Hugo era un paziente terribile. Ci mancava solo che prendesse il portafoglio e gli tirasse addosso qualche galeone, manco fossero stati nel bordello indiano di Lapo. Specie perché quella domanda semplice e persino scherzosa continuava a ronzargli in testa, mettendolo in crisi. «Non è che non voglia risponderti», si premurò infine di fargli sapere, perché era un paziente terribile, certo, ma era pur sempre educato. «Il fatto è che… non lo so? Non so chi mi ha fatto del male. O meglio, so che nessuno me ne hai mai fatto. Sono sempre stato un privilegiato. Famiglia amorevole, mezzi e consensi per fare tutto quello che volevo. Eppure…» Era un po’ tardi per mordersi la lingua. «Eh.»
    Per fortuna che aveva appena detto di non volerlo sfruttare. E che si era appena scusato.
    Dopo quel primo, inutile, insensato rant, dove il non detto era naturalmente che, ad averlo ferito, era stata la vita (e più probabilmente sé stesso), Hugo si buttò a capofitto nel successivo, quasi senza nemmeno riprendere fiato. Per Stiles sarebbe stato meglio se non l’avesse proprio fatto, in effetti, se avesse esaurito tutta l’aria che aveva nei polmoni, così da smettere una volta per tutta di parlare, e di vivere.
    Invece dovette sorbirsi Hugo ancora e ancora, assumendo un’espressione sempre più confusa. Come dargli torto? Razionalmente il Cox sapeva di esagerare quasi sempre, ma il silenzio dell’ex tassorosso parlava chiaro. Non solo l’aveva sfinito, ma confermava quello che pensava di sé stesso da sempre. Qualcosa gli diceva che lo Skilinski avrebbe trovato un modo delicato per farglielo sapere, ma che, alla fine della giostra, l’avrebbe comunque fatto. Perché, appunto, Stiles era un bravo psicomago. Mentre lui era una causa persa.
    «se sai cosa non sei, significa che sai chi vorresti essere? E chi non vorresti essere?»
    «Eh?»
    Altre… domande? Anzi, quelle domande?
    Non era tanto confusione quella sul volto dell’ex corvonero, quanto più… paura. «Mi stai… chiedendo un po’ troppo», si schernì, la bocca un po’ impastata dall’ansia, specie perché in gola sentiva già stringersi quel groppo fin troppo famigliare. Il fatto che non sapesse chi fosse non significava che sapesse chi non fosse e, ancora di più, chi volesse essere. Certo, non era una persona simpatica, intelligente, bella, di successo, amata, ma questo era scontato. Non era il figlio che i suoi genitori meritavano, né l’amico di cui Nathan aveva bisogno. Non era…
    Fissò la mano di Stiles per parecchi secondi, accigliandosi senza rendersene conto, e solo con molta lentezza mise a fuoco il volto del ragazzo, senza però rilassare la fronte. Si stava… presentando?
    Hugo era molto confuso.
    Così confuso da colpirsi da solo, almeno mentalmente.
    Tuttavia, la tecnica dell’ex tassorosso funzionò, perché per tutto il tempo rimase zitto, ascoltandolo con attenzione. C’erano cose che sapeva, in quel discorso, quasi tutte, in effetti (non era uno stalker, naturalmente; era solo diventato molto bravo a usare il computer, visto che aveva passato buona parte della vita a fare amicizia attraverso uno schermo, invece che faccia a faccia), ma ce n’erano anche di nuove, che lo portarono a sollevare le sopracciglia, fissando l’altro con stupore e dispiacere e ammirazione.
    E a ridere.
    Una risata genuina. Sollevata.
    «Scusa.» E un’altra richiesta di scusa. Perché non stava ridendo di lui, ma, sperava, con lui. O magari semplicemente perché l’avrebbe fatto ridere a sua volta, in questo caso davvero di lui.
    Il gomito già sul tavolo, lo fece scivolare nella direzione di Stiles, per poi afferrargli la mano senza stare troppo a pensare a se e quanto la sua fosse sudaticcia e dalla stretta molle e incerta. «Hugo Cox, e non ho un soprannome perché. Eh. Ho un nome troppo corto per essere storpiato. Perché mia madre odia essere chiamata Alex o simili, invece di Alexandra, quindi ha dato a me e ai miei fratelli nomi corti, che non si potessero abbreviare. Ho, umh, ventitré anni.» Era già partito malissimo, ma era pur sempre Hugo. «Inglese.» Annuì in direzione di Stiles. «Due fratelli.» Annuì di nuovo, appuntandosi mentalmente di chiedere delucidazioni sul termine che aveva usato. «Ex universitario, ho fatto giusto in tempo a laurearmi prima di… be’, questo Mosse la mano libera intorno a loro, con una risatina nervosa, guardandolo con fare eloquente. «Sinceramente avrei volute continuare a usare lo studio come modo per sfuggire alle responsabilità e al mondo degli adulti, ma ora come ora frequentare un’università babbana sarebbe come attaccarsi sulla schiena un tiro al bersaglio, quindi…» Un’altra risatina, stavolta molto più isterica. «… quindi sono disoccupato. E terrorizzato. E inutile. E… stanco.» Lasciò ricadere la mano libera sul tavolo, come se fosse senza vita. «Il che non ha senso, dato che passo le mie giornate senza combinare nulla. Però non credo di essermi mai sentito così stanco.»
    Stava ancora tenendo stretta la mano di Stiles.
    «Scusa.»
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    Mi dispiace, davvero.

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    Hugo lo rendeva triste. Non la tristezza tipica della compassione, quella che stringeva il cuore e spremeva abbracci, e neanche quella che si insinuava fra le ossa ed i muscoli creando cuscinetti fra sé ed il mondo. No: era una tristezza esistenziale, agrodolce, dal fatalista sapore di è questo che ti hanno fatto diventare?. Puzzava di quello specifico tipo di nostalgia di esserci già passati. Guardare il Cox, era come osservare se stesso dall’altra parte di un ponte sapendo di non potere fare nulla per permettergli di arrivare a destinazione, se non trovare i mezzi e gli strumenti perché lui stesso potesse attraversarlo. Non era lavoro, quello, per Stiles. Era personale, forse ancor di più perché qualcuno nel mondo aveva deciso fossero anime gemelle; catartico, potendo passare il termine senza disumanizzare il ragazzo. Il «E comunque aspettarsi il peggio è semplicemente essere realisti» riso senza divertimento, riassumeva efficacemente l’identità dello sgorbietto rannicchiato nella sedia di fronte alla sua, e Stiles non ebbe nulla da aggiungere. Preferì immergere la bocca nella tazza di caffè, piuttosto che sminuire la questione con una delle frasi fatte da biscotto della fortuna. «Scusa. Per tutto.» E quel suo continuo chiedere perdono come se esistere ed avere un’opinione fosse una colpa, era così tipico della loro generazione, che lo Stilinski sollevò le labbra in un sorriso, ed il bicchiere in un brindisi. «grazie» perché dirgli di non scusarsi, l’avrebbe solo fatto sentire peggio, malgrado pensasse non avesse nulla di cui dispiacersi con lui. Con altri, non aveva modo di saperlo. «Non voglio… sfruttarti. Specie in questo posto, dove ti hanno già sfruttato abbastanza» Si guardò attorno, seguendo il gesto dell’altro con un’espressione divertita. Sfruttarlo? Il mestiere dello psicomago, era delicato, in quanto impossibile separare lavoro e persona. Rimaneva incastrato in ogni sguardo, inciampando suo malgrado nelle risposte ricevute per trovare una strada da percorrere insieme. Deformazione professionale. Era necessario mettere dei limiti per sopravviversi, vero, ma Stiles non credeva quello fosse uno di quei momenti. Aveva scelto quella professione per aiutare gli altri, paladino delle cause perse, e non si rimaneva in ferie dai propri principi. «Cioè, ok, lo sto facendo, quindi poi ti pago!! Per cui ecco. Insomma. Grazie. Però scusami comunque.» Quasi sputò (sara core) il caffè ancora in bocca, e dovette coprirsi la mano con il palmo per non inondare tavolo e interlocutore. Non gli capitava spesso di sentirsi una escort di lusso, ma quando colse le occhiate incuriositi degli avventori vicini, non potè fare a meno di sentirsi un po’ Julia Roberts. Assottigliò le palpebre, portando le dita alla gola per schiarirsi la voce. «non sto lavorando?» specificò allora, ad un tono leggermente superiore alla media, guardando clienti e Hugo. «ti ascolto, cerco di capirti, e di darti consigli» aprì il palmo verso di lui, arcuando le sopracciglia in silente attesa che facesse il collegamento. Nel dubbio, lo offrì egli stesso, scandendo lentamente ogni lettera. «come fanno gli amici??» Un po’ violato all’idea di essere pagato per quel tipo di relazione, ma non devastato al pensiero di avere una specie di sugar daddy platonico. Forse poteva renderlo un qualcosa. Invece di mandargli foto di piedi, gli mandava foto di frasi motivazionali…? Thinking. «Il fatto è che… non lo so? Non so chi mi ha fatto del male. O meglio, so che nessuno me ne hai mai fatto. Sono sempre stato un privilegiato. Famiglia amorevole, mezzi e consensi per fare tutto quello che volevo. Eppure…Eh.» Eh. Lo studiò un paio di secondi, annuendo piano per non farlo sentire sotto esame o, peggio ancora, giudicato. Distolse lo sguardo per posarlo sulle proprie dita, conscio di avere quel tipo di faccia che, tendenzialmente, faceva piangere le persone – triste, vero, che bastasse essere interessati agli altri per suscitare commozione? Ah, la vita, che meravigliosa merda. «avere dei privilegi non vuol dire che non ti sia permesso soffrire» piano, delicato. Poteva soffrire dell’avere troppo, come del non avere nulla. Sentirsi soffocato dall’aspettativa di qualcuno che si amava, faceva male quanto la negligenza. Entrare a far parte di una società sapendo di essere trattati in maniera differente, rendeva diverso ogni rapporto con gli altri, perché creava una gerarchia specifica. «cosa ti ha fatto male?» corresse allora, sinceramente curioso.
    La prima parte della presentazione, ebbe senso. Poi, dalle labbra del ragazzo scivolò tutto il resto, e Stiles rimase intrappolato come una mosca nella ragnatela delle ansie dell’ex Tassorosso. Mano compresa, ancora stretta in quella di Hugo. «Sinceramente avrei volute continuare a usare lo studio come modo per sfuggire alle responsabilità e al mondo degli adulti, ma ora come ora frequentare un’università babbana sarebbe come attaccarsi sulla schiena un tiro al bersaglio, quindi… quindi sono disoccupato. E terrorizzato. E inutile. E… stanco. Il che non ha senso, dato che passo le mie giornate senza combinare nulla. Però non credo di essermi mai sentito così stanco.» Una pausa. Lo Stilinski abbassò lo sguardo fra le loro dita, sollevandolo poi sul viso dell’altro. «scusa» Lasciò la presa con un sorriso divertito, abbandonandosi poi nuovamente contro lo schienale della sedia.
    «te ne intendi di videogiochi?» domandò, perché era importante sia nella discussione, che per avere qualsivoglia relazione con lui. Le basi, cazzo. «in pratica, solitamente, sono strutturati in modo che tu possa passare al livello successivo solo quando hai acquisito abilità o conoscenze in quello precedente. C’è chi prova ad affrontare il boss finale anche senza preparazione, chi raccoglie il materiale per superarlo senza doversi allenare prima, e chi, come te, pensa sempre di non essere pronto, ed allora continua ad addestrarsi.» si strinse nelle spalle, puntellando poi l’indice sul tavolo. «sei bloccato di fronte alla lega pokèmon» Un saggio. Un profeta. Anche lui sulla via per i dieci comandamenti: cazzo in culo non fa figli, eccetera eccetera. «hai solo bisogno di… una spinta.» Lo osservò di sottecchi, inspirando ed ergendosi in tutta la sua moderata statura – aka, fingendo di avere una postura eretta, come un essere umano funzionale. «sei stanco perché non hai un obiettivo reale. Ti lasci trascinare dal flusso come un materassino, aspettando che le cose succedano e basta, ma nessuno vince la lega per te. Quindi. Se vuoi continuare a studiare, ci sono diverse accademie magiche pronte ad accoglierti, a seconda del campo di interesse. Funziona solo se non lo usi come metodo per procrastinare, però: ti serve un indirizzo che ti dia, mh, pozioni in più per affrontare pokemon di livello molto più alto del tuo. altrimenti, ha giusto riaperto da poco un centro per l’impiego. Possono aiutarti a trovare un lavoro che sia adatto alle tue necessità. Cosa ti piacerebbe fare?» Una pausa.
    Un’occhiata molto, molto paterna, e non in a daddy way. «morire non vale. Non è divertente come sembra, in ogni caso» finger guns!
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    Da Sara e Sara, da Hugo a Stiles, tutti i presenti sapevano che nulla, lì, sarebbe stato breve e indolore. A partire da questo post, che ho come l’impressione che arriverà a misurare millemila caratteri. Tutti sconclusionati, naturalmente.
    Ma Hugo si era scusato, per l’ennesima volta, e Stiles non gli aveva detto di non scusarsi.
    L’aveva ringraziato.
    Si sentì stranito, ma poi si rese conto che, prima ancora di essere stupefatto, era sollevato. Per quanto sapesse di non avere nulla di cui scusarsi, razionalmente parlando almeno, sul piano irrazionale le motivazioni erano invece infinite. Eppure odiava quando gli veniva fatto notare che non avrebbe dovuto farlo, che non avrebbe dovuto scusarsi. Anche perché, chi gli diceva così, era la stessa persona che, nelle più uniche che rare occasioni in cui lui non lo faceva, sforzandosi con molte più forze, ed energie, di quelle che effettivamente aveva, poi gli rinfacciava di essere egoista e concentrato solo su sé stesso e incapace di guardare al di là del proprio naso, negli affari e soprattutto nei sentimenti altrui. Il che naturalmente era vero, ma era anche falsissimo. Hugo era concentrato su sé stesso proprio come chiunque altro. Ma, a differenza di molti, o così gli piaceva pensare, quello che gli altri sentivano e pensavano occupava i suoi pensieri fin troppo spesso.
    E dunque era felice che Stiles non gli avesse detto che non c’era bisogno di scusarsi. Anche perché, lo sapeva bene, c’era sempre bisogno di scusarsi. Una ragione, un motivo, li si potevano trovare sempre.
    Ma non un amico.
    Perché, tra le righe, lo Stilinski gli aveva detto pure questo. Non stava lavorando, spronandolo a capire dove fosse il problema, quale fosse il problema. Lo fissò, vedendolo in modo appena appannato, sebbene a dividerli ci fossero solo uno striminzito tavolino di legno traballante e lui avesse negli occhi le lenti a contatto, e si sforzò di ricacciare giù per la gola, in fondo in fondo, il magone. Batté le palpebre, sperando di riuscire a scacciare le lacrime, e in qualche modo stranamente ci riuscì, perché quando seguì il movimento della mano dell’ex tassorosso la vide a fuoco. Per una volta era convinto di avercela fatta, se non fosse stato per le ciglia imperlate, e per le parole successive dello psicomago.
    «Come fanno gli amici», ripeté piano, la voce un po’ strozzata dal groppo alla gola che, in un attimo, era riuscito a risalire. Schiuse le labbra cercando di prendere fiato, e di mandare nuovamente giù, tristemente consapevole del maledetto potere che le lacrime avevano su di lui. Si risistemò sulla sedia, un piede che teneva nervosamente il tempo delle soffuse note che si spandevano nell’aria da casse nascoste chissà dove, dentro il locale, senza rendersene nemmeno conto. Poi buttò fuori l’aria, e sorrise. «Non volevo darti di quello che la fa a pagamento.» Fece una smorfia. «La terapia, dico. Cioè, ovvio che sì, è il tuo lavoro e fai solo bene, ma…» Sbuffò, passandosi le dita tra i ricci già spettinati. «Quello che intendo è che… sono sorpreso che tu voglia essere mio amico», ammise finalmente, fissandogli le mani, troppo imbarazzato per guardarlo in faccia. «In modo positivo. Non credo di essere una persona antipatica, spero di non esserlo, ma sono… noioso?? E per nulla interessante. E parlo troppo. O non parlo per niente, tipo quando non rispondo ai messaggi per giorni, d’accordo, settimane, anche, perché mi sento esausto.» Si avvicinò la tazza di tè che ormai da un bel po’ non fumava più e bevve un sorso con una mezza smorfia, sentendo il liquido a malapena tiepido. «Amo l’earl grey, ma quando si raffredda sembra profumo per auto. Ew.»
    Non disse a Stiles che tutto quel suo parlargli così, a ruota libera, senza paletti e senza vergogna, era un privilegio. In parte perché non era così convinto, dato che era terribilmente consapevole, appunto, del suo essere pesante e verboso (sebbene, al contempo, non potesse fare a meno di sentirsi una spanna sopra agli altri, pur essendo sempre e comunque l’ultima delle merde); in parte perché si vergogna di crederci davvero. Tuttavia, questo gliel’aveva detto, invece: parlava troppo, o non parlava per niente. Tra i due fare opposti c’era una linea sottile, una linea che non sapeva tracciare né a parole né a gesti. Spesso e volentieri parlava troppo per colmare il silenzio, nella speranza che l’altra persona non si sentisse troppo a disagio nel dover passare del tempo con lui. Parlava perché dall’altra parte tutto risultasse più facile, più leggero, più sopportabile. Era sincero, quasi sempre almeno, ma era anche il re delle mezze verità. Non si faceva problemi a schernirsi e a ironizzare costantemente su sé stesso, lasciando scoperte parecchie delle sue vulnerabilità. Eppure, era bravissimo a nascondere il vuoto che sentiva dentro dietro una battuta di troppo.
    Lo stava facendo anche adesso, ma ora c’era qualcosa di diverso.
    Stava davvero parlando con Stiles.
    «cosa ti ha fatto male?»
    Lo fissò, ancora, le mani strette intorno alla tazza irrimediabilmente fredda. Sarebbe bastato un semplice incantesimo per farla tornare bollente, ma Hugo sapeva bene che il tè riscaldato era un’enorme truffa. Cambiava sapore, si mostrava per quello che era: acqua sporca, dove vi era stata fatta galleggiare dentro dell’erba secca. Una porcheria, in poche parole. «Non lo so.» Lo buttò fuori così, come se nulla fosse, come se fosse la cosa più normale, e scontata, del mondo. «Tutto… e niente. Io stesso, probabilmente. Anzi, quasi di sicuro. Credo di essermi sempre imposto da solo fin troppe cose… eppure, al contempo, non abbastanza. Ho sempre desiderato sapere – del mondo, degli altri, di me, più di tutto. Ma qualcosa… è andato storto.»
    Era dannatamente difficile. Perché era vero, non sapeva nulla. Eppure sapeva, sentiva che c’era qualcosa. Qualcosa che non riusciva a esprimere, che non riusciva a formulare nemmeno dentro la sua testa, dove non avrebbe dovuto esserci bisogno di parole.
    E si sentiva in colpa. Era liberatorio, per certi versi, cercare di dire ad alta voce quello che si imponeva di non sentire dentro. Però non era giusto vomitare ogni cosa addosso a Stiles. Se davvero stava prendendo in considerazione di ritenerlo suo amico, quello che stava succedendo gli avrebbe di certo fatto cambiare idea. Certo, era il suo lavoro dover supportare, e sopportare, chi andava da lui per cercare risposte su sé stesso e sul mondo. Ma Hugo non aveva alcun diritto di farlo. Intanto perché non era un suo paziente, e poi perché i suoi problemi non erano tali. Tutti avevano bisogno di fare terapia, anche la persona apparentemente più felice del mondo, ma lui… lui che aveva da lamentarsi?
    La breccia, però, era stata aperta. Assecondò la strana scenetta della presentazione e ancora, sempre, riversò addosso allo Stilinski cose di cui non importava – giustamente – a nessuno. Si sentì appena meglio, ma anche infinitamente peggio.
    Un classico, insomma.
    «te ne intendi di videogiochi?» Aggrottò le sopracciglia confuso, cercando di ripercorrere con la mente quello che si erano detti negli ultimi minuti. Cosa c’entravano i videogiochi? «Mmh… vorrei dire di sì, ma oggettivamente no, non davvero. Mi piace giocare, ma ho giocato davvero a poche cose. Giochi, emh, veri. Perché l’unico a cui ho davvero, davvero giocato è The Sims. Credo di essere drogato. Quando ci ricasco è la fine, ci gioco mille ore di fila.» D’altronde, come potrebbe essere altrimenti? Vedere altri che vivono esistente soddisfacenti, piene di amici, avvenimenti, amore… Guardò Stiles colpevole, sapendo perfettamente quello che doveva stare pensando: The Sims non era un vero gioco. Era adatto solo a chi non sapeva giocare veramente, a chi cercava di scappare dalla realtà.
    Tanto per cambiare.
    Eppure, Hugo capì il suo ragionamento. Non pensò subito ai Pokémon, non davvero, almeno, ma la sua mente riportò a galla Paperino operazione papero e quel maledetto livello finale. Aveva tutto perfettamente senso. Non si sentiva pronto. Non si era mai sentito pronto. «Perché ho paura», completò a bassa voce, per poi sentire Stiles ribadire quanto fosse bloccato, quanto avesse bisogno di una spinta.
    Era tutto così semplice, così vero… eppure così assurdo. Perché Hugo sapeva quelle cose. Sapeva di essere bloccato, di non avere un obiettivo. Sapeva che avrebbe dovuto darsi una mossa, spingersi, o farsi spingere, certo, tuttavia… «Non so se ce la faccio. È… difficile.» Anche questo era scontato. Era difficile per tutti, non solo per lui, ma gli altri non facevano tutte quelle storie. Lo sapeva benissimo.
    Però gli altri non avevano la sfortuna di essere lui.
    E lo Stilinski gli stava offrendo delle opzioni concrete e fattibili.
    «Cosa ti piacerebbe fare?»
    Gemette.
    O forse no.
    «morire non vale. Non è divertente come sembra, in ogni caso»
    Gemette di nuovo. «Divertente?» Non l’aveva mai vista così. «Comodo, se mai. E non facile, no. Per niente facile. Ma forse, anzi, di sicuro è perché, anche qui, sono un incapace.» Ridacchiò nervoso, stringendosi nelle spalle. «E comunque i miei ci starebbero troppo male. Non se lo meritano.»
    Stava evitando quella domanda?
    Assolutamente sì.
    «Non ne ho idea… ed è anche questo, il problema.»
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