Votes taken by kafkaesque

  1. .
    ritter ‘ken’ scully
    sidewalks
    the weeknd
    I ran out of tears when I was eighteen
    So nobody made me but the main streets
    'Cause too many people think they made me
    Well, if they really made me, then replace me
    ah cristo santo gesù here we go

    C’erano passioni che il fu Park Mudeom teneva stretto al petto con la gelosia di chi deve proteggere dei lingotti d’oro. Stranamente, non era una sostanza supefacente; quelle erano divertenti una vita fa, quando la debolezza di un attimo ancora non era sinonimo del suo cranio spaccato come un cocomero.
    L’opinione altrui sui suoi interessi più, come dire, di nicchia non era il motivo per cui certe cose rimanevano giusto fra lui e il Signore; aveva conosciuto poche volte il sapore della vergogna, Ritter, e di certo non in contesti simili.
    Era più un essere geloso delle cose alla quale teneva particolarmente. Così particolarmente, che i volumi sulla serie li teneva racchiusi nel cellophane, poi in scatole di plexiglass come un qualunque fan kpop col suo santino preferito dell’idol prescelto a subirsi le sue ossessioni peculiari.
    La sua non era il genere di vita che concedeva il lusso di uno scaffale d’esposizione, figuriamoci una cassaforte; quando la Corea aveva smesso di essere luogo sicuro, non aveva potuto far altro che lasciare la sua collezione alle spalle. A malincuore, ma lo aveva fatto. Cose più urgenti venivano prima.
    E per anni, da quel giorno fatidico, aveva sepolto l’amore che nutriva per quel mondo insieme al suo nome. A quel dolce richiamo, però, non era riuscito a resistere. Ci aveva provato — davvero. Razionale come poche volte era stato. Non era il caso di presentarsi.
    Poteva essere una trappola.
    Poteva succedere una qualsiasi cosa a un evento così grande.
    E poi, era accaduto l’impensabile: tra le luci fioche delle vie secondarie dI Hogsmeade, il sangue ancora umido sulle vesti, lo aveva visto. Buttato in un cassonetto, nascosto da occhi meno percettivi dei suoi; e come un Willem Dafoe di fronte alla maschera di Green Goblin, aveva stretto i palmi attorno alla costruzione in metallo e aveva sobillato cosa vuoi da me. Poteva giurare di aver sentito la parrucca di Lady Oscar ridere — malvagia, distruttiva.
    Seduttrice.


    Nickelback.
    «facciamo che vado a sistemare i wireframe.» cosa? «volevo dire: cavallo.»
    bulwarkstaff
    i go to evil starbucks. i order a Violent Drink.
    and a cake pop.

    gifs: dcmultiverse.tumblr.com
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
  2. .
    whoritter scully
    rolelooming ominously
    outfitleather jacket & straight up vibes
    info25 y.o. + shadow kinnie
    infoanywhere else, he'd be a 10
    ci aveva pensato. e ripensato, e ripensato.
    con le labbra strette in una linea sottile, e le dita a tamburellare sul bracciolo del divano (di jd, inutile specificare: il giorno in cui park mudeom si adeguava alla vita come un cristiano normale qualunque e smetteva di dormire abusivamente in case non sue o sulle sedie del quartier generale non era, ahimè, ancora arrivato).
    aveva persino, persino!, fatto sostare i polpastrelli lungo le cuciture della camicia di una delle sue commissioni. labbro preventivamente arricciato, già conscio del fatto che se proprio doveva presentarsi non lo avrebbe di certo fatto… così. una parodia dell’uomo che i suoi genitori avrebbero voluto vedere riflesso nello specchio: elegante, composto, aggiustato. poi si era sorpreso da solo, perché c’era della seria considerazione in quel ragionamento. e ken non era una persona da matrimoni – da cerimonie, nel senso più generale. non lo era stato da bambino, men che meno da adolescente disastrato. di certo non lo era diventato magicamente in età adulta.
    un’ennesima ribellione inutile e strettamente personale, che aveva a che fare con i vermi nel suo cervello. il concetto ristretto e mal curato di anarchia sulla quale aveva basato la sua intera personalità in età formativa, e che anche a venticinque anni suonati spingeva contro la sua coscienza in filamenti quasi trascurabili, ma pur sempre presenti. mudeom non si sbatteva il cazzo in una chiesa vestito come un pinguino per qualcosa di così fittizio ed effimero. non fingeva di credere nella sacralità del gesto, nella condivisione della gioia. e non aveva mai avuto modo di convincersi del contrario.
    i suoi genitori, per quanto ne sapeva, erano ancora costretti in un matrimonio glaciale, fatto di sopportazione reciproca e facce pulite da mostrare al mondo, così da dare l’apparenza di funzionalità. suo fratello – non ne aveva francamente idea. era fatto della stessa pasta della sua eomma; difficile immaginare un futuro così diverso dal suo.
    un anello, dei vestiti pomposi e qualche fotografia sorridente non poteva cambiare quel semplice dato di fatto.
    la sensazione che aveva provato nel seppellire un morto non aveva appiattito il dolore più di quanto lo avesse fatto lasciare il cadavere sul pavimento in una pozza di sangue, voltargli le spalle, andarsene. le sue mani erano tremate in entrambi i casi. aveva pianto di più, quella prima volta, di quanto lo avesse fatto nel sapere sehyung – il suo migliore amico dai tempi dell’infanzia, sehyung – racchiuso in una tomba. ma era anche stato più grande, mudeom. aveva già visto la vita scivolare dallo sguardo di una persona. aveva già provato tutte quelle emozioni di merda; la furia e la vergogna e una tristezza che scavava fino all’osso.
    eppure lo stava intrattenendo davvero, quel pensiero. una scelta più difficile di quanto potesse sembrare: un po’ come arrendersi all’idea di essere normo come tutti gli altri, che vedeva come un fallimento sotto troppi fronti. non abbastanza sentimentale da poter considerare l’opzione è-perché-c’è-stata-una-guerra. le guerre, per quelli come william barrow, non finivano mai: ne stava combattendo una anche in quel momento, con la mano di sua moglie tra la sua, un vaffanculo implicito nelle spalle dritte. forse quello lo aveva toccato, segretamente; la scelta conscia di amare, piuttosto che nascondersi nella paura di ciò che potrebbe succedere. qualcosa che richiedeva un misto di coraggio e ingenuità che solo un uomo che guardava akelei beaumont in quella maniera poteva avere.
    la vena romantica di ken, in ogni caso, era stata troncata alla nascita; certe realizzazioni le scacciava come mosche e fingeva di non averle mai avute. ma poteva ammettere a se stesso altro.
    ammetterlo anche a will; con le mani nelle tasche della giacca di pelle (nuova, manco una macchia di sangue raffermo a creare ombre strane sul tessuto: il suo smoking), e uno sguardo determinato a cercare il suo.
    un discorso non se l’era preparato, perché c’erano limiti invalicabili da osservare. ma avrebbe dovuto; se ne rese conto in quel momento, tastando un palato secco in cerca di parole che gli sfuggivano.
    piccoli passi. «will.» piegò appena il mento verso il basso, e si dondolò sui talloni come un bambino. ancora così poco familiari, quei suoni; ostinato, mudeom, nel mantenere viva la sua lingua madre in un accento che impastava i discorsi e un vocabolario che dopo sei anni aveva ancora i suoi tanti, troppi limiti. anche quella, una battaglia che era solo fra lui e lui; dettata dalle paure di cui non parlava, perché ammettere ad alta voce di star dimenticando chi ci fosse stato prima di ritter scully, guerrigliere, era impensabile.
    «quando pensavo di aver perso tutto» arricciò la bocca, e non aggiunse: e forse un po’ lo avevo perso davvero. «ho trovato voi.»
    lasciò implicito anche il senso di quel voi. la ribellione, sicuro – non poteva dirlo ad alta voce. ma il voi su cui sperava che il barrow si focalizzasse era un altro. formato da un mucchietto di persone che in francia, a cento anni di distanza, avevano costituito una breve routine per lui. gli hemera, i ponpon per space jam, tutte quelle cazzate; e la certezza di non essere solo. anche quando il suo sguardo si appannava e il cervello entrava in modalità screensaver. l’inglese era difficile.
    l’inglese con un cazzo di accento brit era il male più atroce.
    eppure si erano capiti lo stesso; due pesci fuor d’acqua. quando aveva cominciato a capire che minchia dicesse era persino diventato intelligente, william barrow. un ottimo leader. una persona di cui potesse fidarsi.
    pensò, allora, a quei momenti sospeso nel vuoto con ellis – in un fottuto universo alternativo, stanchi e spaventati. le aveva parlato di famiglia senza sapere chi fosse; indicando i volti dei suoi amici, uno ad uno, come per farglieli memorizzare. era stato un gesto inconscio, ma il significato dietro non gli era comunque sfuggito. se crepo in questo posto, ricordami come una casa. un contenitore di affetto e protezione, con i muri distrutti e le fondamenta solide.
    «non lo sapevo. lo so ora.»
    e sapeva, anche in quel momento, cosa volesse dire davvero. limiti tecnici ed emotivi a fargli alzare un palmo, stringerlo attorno alla sua spalla: ricordami come un ospite, una falena attirata dalla luce. in cerca di una casa quando la mia è crollata.
    tirò su col naso, e annuì tra sé e sé.
    «grazie. e sono felice per te.»
    affermazione sincera; a mentire faceva un po’ schifo, mudeom.
    un passo indietro – poi un altro.
    pugno in aria come john bender in the breakfast club.
    «cavallo,» bitch.



    dal canto suo, a javi non sembrava di averci pensato abbastanza.
    com’era evidente dal patchouli 24 ormai del tutto annegato nel tabacco; era già alla sua terza sigaretta della serata. no, non voleva parlarne.
    non se n’era dato il tempo materiale, preferendo spingersi a forza attraverso un check in e indossare giacca e cravatta. un completo nuovo: gli altri, negli anni, avevano già fatto il loro passaggio di rito nei cimiteri della gran bretagna. non il migliore dei presagi.
    fuoriluogo, conscio di esserlo, e terribilmente impacciato in una situazione che sarebbe dovuta andare giù con la stessa facilità dell’alcol.
    è che non era manco troppo certo di poterci stare, in quel posto. in mezzo a quelle facce familiari solo in parte – alcune più di altre. allo stesso tempo, mandare un messaggio (piccione viaggiatore, gufo, quello) gli era sembrato decisamente troppo impersonale, e javi era scozzese: chiedergli l’iban come un parente del nord non era nel suo codice genetico.
    spinse la lingua tra i denti, e nascose di nuovo il volto dietro al flûte di prosecco. le sue congratulazioni le aveva fatte; i saluti di circostanza all’incirca. non era sostato nello stesso posto abbastanza da poter effettivamente iniziare e finire una conversazione con qualcuno. meno per il desiderio di evadere, più perché non era certo di avere davvero cose da dire oltre a bel tempo e la resistenza riparta dalle ombre. meglio far sentire la sua presenza poco necessaria a distanza di sicurezza e tornarsene in santa pace nella sua camera d’hotel.
    col senno (svariate conversazioni cursed in chat dopo) (particolarmente poetico che io abbia scritto tutto ciò prima ancora di confermare di star scrivendo questo post) di poi, una grande scelta.
    anche perché ogni volta che pensava ai matrimoni a cui era stato in passato – il suo, con la lista degli invitati che potevano essere contati sulle dita, escluso per ovvie ragioni – e lo comparava a qualunque cosa stesse accadendo in quel di avignon, era facile riconsiderare l’opinione che si era tenuto stretto per tutti quegli anni. convinto che il penchant per i drammi ad eventi simili era dato più dalle stranezze della sua famiglia, e che all’infuori del loro piccolo nucleo erano affari meno intensi. a guardare i dieci stadi del lutto che stavano passando sulle espressioni di un po’ tutti i presenti per ragioni svariate, forse il suo era stato un buco nell’acqua. evidentemente crescere con una bacchetta in mano e imparare formule in latino come la bambina dell’esorcista faceva questo all’essere umano.
    ragionamento troncato da voci in avvicinamento: buttò giù il resto del bicchiere, incapace di attaccare un volto ai mormorii e decisamente poco avvezzo all’idea di fare il terzo incomodo in una delle complicate tresche locali, e si fece spazio nella… folla? nel vuoto totale? unclear.
    la priorità era farsi i cazzi propri.
    figurativamente.
    Here and there and gone again
    Firefly juice on your skin
    You're glowing like an atom bomb
    This natural thing that you've undone
    when3 september 2023
    avignon, provencewhere
    board'till death do us part
    cartwheel
    lucy dacus
    whojavier iglesias-mendoza
    roleguest
    outfitboring tailored suit
    info37 y.o. + telepath
    infopersona non grata dot exe


    patchouli 24 è una fragranza di le labo. so che morivate tutti dalla voglia di sapere di cosa profumi javi

    ken: parla con will! e poi sparisce. come il meme di sailor moon
    javi: si fa i fatti suoi e basta, è davvero solo qui perché non voglio sistemarmi anche il codice per il singolo pg. lo ammetto. va così AUGURI WILL (e ake ma non ti conosce.)
  3. .
    «ha senso»
    Ce lo aveva? Batté le palpebre, e ci rifletté. Era stato… particolarmente incauto, nell’ultimo anno, vero. La mano sempre tesa ad accettare qualunque cosa passasse sotto il suo sguardo impassibile, perché non aveva avuto scelta. La sua situazione non aveva mai smesso di essere precaria, ma quello era un livello che non sperimentava da fin troppo tempo. Da quando Yami aveva strappato ogni certezza dalle sue mani, riducendolo a un fuggitivo senza nome.
    Poi aveva ritrovato Sehyung.
    Aveva ritrovato Joonho.
    Hyunjin. Jaeyong. Minkyung.
    Aveva raccolto i cocci delle loro memorie condivise, e ne aveva creato una casa. Vuota, se non per le ragnatele – rovinosa, pronta a crollare sulle loro teste, ma una casa. E si era fatto inconsciamente pigro, Mudeom. Si era abituato al suo ruolo di gatto mal addomesticato, e aveva finto di non vederne il pericolo. E anche quando era di nuovo andato tutto a puttane inevitabilmente, si era rifiutato di dare le spalle a ciò che conosceva per tornare a essere uno spettro. A nome di cosa? Non era un codardo. I nemici di Joonho erano nemici suoi.
    Non aveva pensato, certo, a tutto il resto. C’era un motivo se prima di Londra – prima di finire in una cazzo di dimensione alternativa, e a cento anni di distanza da tutto e tutti – non aveva mai sostato per più di una manciata di settimane nello stesso posto.
    Imprecò sottovoce, lo sguardo a saettare ovunque tranne che sul suo obiettivo ormai dimenticato.
    «non te lo renderò un lavoro semplice»
    Solo a quel punto le iridi pece si fissarono nuovamente su di lui – stavolta, con un nuovo panico a raggelare il sangue e manifestarsi sul suo volto.
    «chi ti ha assunto?»
    Neanche si rese conto del coreano a scivolargli dalla bocca. Imprecò di nuovo, e s’impose di rimanere fermo; indietreggiare lo avrebbe reso un debole agli occhi di Grey. Non la migliore delle cose, quando l’effetto desiderato era l’esatto opposto. Strinse la mandibola, radunando le poche energie che gli rimanevano per riempire i pugni di materiale oscuro; abbastanza da coprire i polpastrelli, renderli affilati come artigli.
    «chi sei?»
    Chi cazzo era, Hwang Grey. Cosa ci facevano lì?
    Non aveva riconosciuto quella calligrafia. Avrebbe dovuto? E quanto sapeva, esattamente, l’uomo di fronte a lui? Cosa stava ignorando, Mudeom?
    «non ho intenzione di ucciderti.» non più: c’era altro in ballo. Qualcosa che, forse, toccava entrambi. Appena più importante di una manciata di soldi da intascare. Non c’erano benefici che potesse sfruttare un uomo morto, d’altronde. «non prima di sapere perché sono finito in mezzo a questa storia.»
    Fece un passo avanti, allora. Pronto a conficcare le unghie ombrose nella sua carne se avesse tentato di approfittarsene, ma alzò appena i palmi in aria con fare innocente; misura di sicurezza, niente più.
    «abbiamo un interesse comune.» temporaneamente, quantomeno. Chiunque avesse fatto incazzare Grey, sembrava proprio volere anche la testa di Mudeom su di un piatto d’argento. Fece un cenno nella direzione generale del foglio: «non accetto soldi da chi mi tradisce.»
    Un codice d’onore, d’altronde, ce l’aveva anche lui.
    Quando gli pareva.
    ritter scully
    aka: ken

    Here I am, not sure you should take a chance
    I like playing dumb, letting you figure me out
    But I was faded, in my own defense
    So, drop a bomb on all the things we dreamed about
    1998, busan
    umbrakinetic
    hitman & rebel
  4. .
    Attese che anche l’ultimo filamento oscuro si attorcigliasse serpentino lungo le dita e su per il braccio, fino a sparire dietro alla pelle martoriata della giacca; poi, con un balzo, scese dalla ringhiera.
    Non c’era fretta nei movimenti di Ritter. La sua preda si era gentilmente assicurata di lasciare briciole lungo il cammino, d’altronde, e la disattenzione lo aveva reso un facile bersaglio. Poteva correre quanto voleva, Grey.
    L’incarico era giunto tra le sue mani poche settimane prima – un cliente misterioso con qualche debito da saldare. Poche parole, lavoro semplice e pulito, una paga sostanziale. Ci aveva ragionato sopra il tempo di qualche secondo prima di accettare: aveva bisogno di quei soldi, perché senza un Joonho a mettere le pezze dove necessario era andato incontro a una serie di difficoltà inaspettate, e si era tenuto per sé i suoi sospetti. Davanti al suo contatto, quantomeno. Non era un uomo schizzinoso, Ken, ma non era neanche uno stupido alle prime armi. La fregatura la fiutava a distanza di chilometri.
    Non aveva tardato a palesarsi. Il ragazzino sveglio cui aveva dovuto dare la caccia si era rivelato un abile mercenario; il debito da saldare, giri che non lo concernevano in qualità di sicario ma che complicavano le cose. Di semplice e di pulito, inutile dire, non c’era stato nulla. Gli avevano dato un luogo, un’ora, un contesto: Grey lo avrebbe raggiunto tra i vicoli di Hogsmeade. Lì, secondo il suo contatto, si sarebbe aspettato il middleman per un semplice contrabbando: nessun testimone, nessuna parte da recitare. Fallo fuori e basta. Aveva tenuto un occhio vigile su di lui il tempo necessario per assicurarsi che non si fosse davvero portato dietro la cavalleria, prima di piazzargli un artiglio nel fianco. E fosse stato chiunque altro, probabilmente, tanto sarebbe bastato.
    Ma il suo obiettivo era sveglio, rapido; Ken aveva avuto culo sfacciato un numero indicibile di volte. Posizionandosi in maniere strategiche, evitando il peggio dei colpi, contando sui brevi momenti d’esitazione che sembravano prendere di sorpresa lui tanto quanto Grey. La scelta di lasciarlo scappare era stata meno una concessione dalla sua parte, più una tregua temporanea: era stato ferito a sua volta, e le ombre che aveva attorcigliato sulla spalla per tenersi il sangue dentro – evitare, insomma, la stessa fine del mercenario: a differenza sua, aveva ancora una missione da portare a termine – gli stavano drenando l’energia, lente ma inesorabili.
    Sbuffò, e girò l’angolo.
    Era proprio il caso di dire porca puttana.
    Perché le regole degli altri erano sempre secondarie alle sue. Faceva parte del patto: offriva i suoi servigi, Ritter, solo in cambio della piena onestà. Non gli piaceva rimanere all’oscuro delle cose – specie quando rimanere all’oscuro significava rischiare il fallimento.
    Quello permanente. Il fallimento a rimanere vivo, proprio.
    E li voleva davvero, quei cazzo di soldi.
    Troppo tardi.
    «ti hanno fregato.»
    Accorciò la distanza tra loro due; il corpo teso in una posizione difensiva, perché se c’era una cosa che ogni criminale degno di essere definito tale sapeva essere, era adattivo. C’erano ancora delle possibili uscite da sfruttare. Ancora colpi che poteva assestargli, accasciato a terra com’era.
    Tirò su col naso, e piegò lateralmente il volto. «e hanno fregato anche me.»
    Molto evidentemente. Mantenne lo sguardo su di lui, attento a ogni movimento, e pescò dalla tasca dei pantaloni la pergamena sgualcita. Non era ancora il caso di avvicinarsi oltre il metro di distanza, quindi glie la tirò contro. Non c’erano nomi scritti; di nuovo, cliente anonimo. Solo un indirizzo – quello che, a conti fatti, avrebbe dovuto visitare a fine giornata. Le prove di un lavoro ben fatto in un palmo, l’altro aperto per riscattare il suo bottino.
    E vabbè.
    ritter scully
    aka: ken

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    But I was faded, in my own defense
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    umbrakinetic
    hitman & rebel
  5. .
    We had a lot to measure
    We had more past than pleasure
    And time grows deep like weeds
    when & where
    sept, london
    what
    hitman & rebel
    who
    ken the banished
    Premette le unghie contro l’etichetta della birra, le sopracciglia arcuate nascoste dietro alla frangia – non che l’espressione che stava rivolgendo alla bottiglia fosse così difficile da interpretare, in ogni caso.
    Non capiva il problema, semplicemente. Il suo cervello era solito andare in uno shutdown volontario ogni qualvolta gli veniva menzionato il ruolo di rebel scout, che a suo parere era l’equivalente di un premio di consolazione per chi non sapeva rendersi abbastanza utile in altre cariche. Vere, con un peso che era chiaro a chiunque aderisse alla ribellione. Conscio del fatto che suonasse alle sue stesse orecchie come uno di quei vecchi con l’alito che puzzava di soju e che biascicava commenti sulla gioventù bruciata ogni volta che appariva la testa decolorata di Mudeom, aveva sempre preferito rimanere in silenzio e non dire nulla sulla questione. Ma era una cosa così… occidentale. Così americana, nonostante l’accento pesante di William Barrow suggerisse ben altro. Sorprendente – anche se, forse, neanche così tanto – quanto facilmente ci cascasse anche Joonho. Per quel che gli riguardava, era semmai l’esatto contrario. Joonho era esattamente il genere di storia che avrebbero dovuto raccontare alle reclute. Perché mentire? Perché convincersi che fosse l’eccezione? Era quella, la vita che li attendeva.
    Considerò le sue parole per qualche secondo di silenzio teso. Quindi si stiracchiò con la grazia di un felino, e spinse la schiena contro i cuscini del divano. Le sue attenzioni tornarono su JD; c’era una piega quasi cattiva, nel sorriso che gli rivolse.
    «qualunque cosa tu speri che io dica non è di certo ciò a cui sto pensando.»
    E scrollò le spalle in un movimento pigro, senza distogliere lo sguardo. Lo sai già, era quello che voleva comunicargli fra le righe.
    Prese un altro sorso di birra, quindi pulì grossolanamente la bocca con il dorso della mano. «com’era il detto – chi mi ama, mi segua?»
    Accennò una risata, i pozzi scuri dei suoi occhi freddi quanto i suoi polpastrelli. Il suo stomaco si era riempito di bile acida; deglutì, spingendola via.
    «non sono io a doverti dire come vivere la tua vita, jd. fai le tue scelte; io le mie le ho fatte, e ho pagato il mio pegno.»
    Ancora lo stava pagando, a dirla tutta. Non se ne sarebbe mai liberato totalmente. Non era importante, in ogni caso: erano lì per discutere di Joonho. Avrebbero discusso di Joonho.
    «ma se proprio vuoi un consiglio, fai le tue stronzate con cognizione di causa. convincersi di qualcosa che non esiste davvero non aiuta nessuno.»
    Forse era un po’ troppo astratto come concetto. Spinse l’aria dalle narici, e inclinò appena il volto verso il basso. «lo hai già fatto. obbligarli – hai già scelto per loro tempo fa, quando li hai trascinati nelle tue puttanate senza avvertirli dei pericoli.»
    La sua intenzione non era necessariamente farlo sentire in colpa, ma se era quello che serviva per fargli tornare la testa sulle spalle… beh. A win is a win.
    «e non sai come comportarti perché sono loro, adesso, a metterti davanti a una semplice verità: che le parole sono parole, e che è bello illudersi finché dura. poi però tocca realizzare che è tutto un po’ più complicato di quanto vorresti.»
    Tirò su col naso, e abbandonò una volta per tutte la bottiglia ai piedi del divano. Si alzò, scrollando via i peli dalle pieghe dei pantaloni. Grattò un’ultima volta dietro alle orecchie di Sith, e cominciò il suo cammino verso la porta.
    «vedi di non fare tardi, domani. abbiamo cose di cui discutere.»
    Strinse il pugno attorno alla maniglia, ma non la girò – non ancora.
    Prese un lungo respiro e roteò il busto abbastanza da poterlo guardare.
    «quando ya–moon ebbe bisogno di me non esitai un secondo prima di seguirlo. farei lo stesso per voi,» anche se quel voi non era certo esistesse più, ormai. «farei lo stesso per te.»
    Lo stava facendo in quello stesso momento; che poi Joonho non se ne fosse reso conto era un problema suo.
    Spalancò la porta, e lasciò che le ombre prendessero finalmente il sopravvento.
    ritter
    scully
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
  6. .
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    Le pieghe del volto si rilassarono contro il suo volere, quando sentì l’ormai familiare zampettio di Sith raggiungerlo. L’attese con braccia spalancate, non esitando un attimo prima di affondare il volto nel pelo morbido: inutile dire che il sentimento era reciproco.
    Si era opposto categoricamente quando JD l’aveva portata a casa la prima volta. La loro non era una vita stabile che permetteva l’adozione di un animale domestico; glie lo aveva detto non appena aveva fatto capolinea nella camera di Joonho, i jeans neri ormai beige per il quantitativo allarmante di peli che gli si erano depositati addosso. La questione fondi non gli era manco passata per il cervello: Mudeom non era mai stata una persona pragmatica e razionale. La capacità di mettere paletti dove necessario era arrivata con la resistenza inglese – le responsabilità che si erano calate su di lui nel momento in cui ci aveva messo piede e aveva trovato un organigramma funzionale, piuttosto che un paio di ragazzini con idee al limite dell’utopico. Per il resto, era rimasto lo stesso. Il budget non era un problema di cui dovevi occuparti, quando abitavi abusivo e avevi passato anni interi di vita ad affinare l’arte del furto per la sopravvivenza.
    Credeva ancora fosse un enorme sbaglio, per la cronaca. Purtroppo però Sith era anche la miglior cosa capitata ad entrambi, quindi era riuscito a rifiutare i suoi occhietti di tapioca per una settimana (tempo che sarebbe stato indubbiamente tagliato a metà, se in quel periodo Mudeom non fosse passato per casa all’incirca cinque ore in totale: un po’ perché anni senza una dimora fissa lo avevano reso erratico, un po’ perché quando gli venivano commissionati pezzi grossi era solito tenersi lontano da tutto e tutti – un’abitudine, la sua, che Joonho comprendeva ed adottava a sua volta) prima di cadere alla tentazione di schiacciarle il muso tra le mani e annunciare, a se stesso e a Joonho, che qualunque cosa fosse successa a Sith lo avrebbe portato a uccidere tutti e poi se stesso.
    Alzò lo sguardo solo quando il deficiente in questione gli allungò una birra fresca. Chi era lui per rifiutare alcol gratis, d’altronde.
    Prese un lungo sorso, incurante della condensazione che fece scivolare rivoli d’acqua lungo il polso, e ignorò bellamente la sua domanda. Lui e queste tendenze del cazzo da mamma chioccia. Avrebbe dovuto saperlo, Joonho, che quand’era così si nutriva all’occorrenza. Ramen istantaneo se proprio si sentiva in vena di gourmet; qualunque cosa secca trovasse nel frigorifero delle case che scassinava il resto del tempo.
    Hyunjin gli avrebbe probabilmente offerto un pasto caldo senza chiedere nulla in cambio, ma non era intenzionato ad elemosinare cibo. Specie con loro. Non sapeva spiegare, esattamente, da dove venisse tutta quell’irritazione che lo attanagliava ogni volta che pensava ai suoi amici: li risentiva perché, diversamente da lui, erano riusciti a trovare un equilibrio che gli permettesse di vivere normalmente nonostante il loro passato? Voleva che soffrissero tanto quanto soffrivano lui e Joonho? Non si era mai distinto per altruismo, Mudeom: probabilmente entrambe le cose.
    «non sto fottendo nessuno. La mia vita sentimentale non ha avuto un gran successo nell'ultimo anno, non so se ne hai sentito parlare»
    Arricciò il labbro superiore, e prese un altro sorso di birra. «contro il mio volere.» Mannagg tutt cos.
    «non sto facendo niente di male»
    Salvini con le mani alzate: «ah no?»
    Inspirò e aspirò dalle narici, pregando alle ombre di tenersi a bada: avvolte attorno alle sue braccia come tentacoli, le avvertì vibrare — l’equivalente delle fusa di un gatto —, prima che si nascondessero nuovamente sotto la sua pelle. Non aveva mai imparato veramente a gestirle, Mudeom: più che essere parte di lui, avevano ormai vita propria. Ascoltavano i suoi comandi e sedevano, docili, sul suo petto; l’ira le faceva scattare come squali col sangue, però. Protettive, forse, o semplicemente attendevano che lui perdesse controllo su se stesso per liberarsi dalle catene che imponevano loro di mantenersi innocue.
    «un appestato.»
    Pensava che non lo sentisse? Forse qualche trauma cranico di troppo gli aveva creato problemi, ma miracolosamente il suo udito era rimasto intatto, Joonho.
    Sospirò, premette il palmo contro il setto nasale – poi lo fece scivolare su, fino alla tempia. «non sa un cazzo, jd.»
    Ma doveva dirglielo lui? Non ci era arrivato da solo? O forse non voleva solo ammetterlo a se stesso?
    «il tuo amichetto non ci vede niente di male in tutto ciò perché è un coglione.» punto. Ma anche: «e perché non ha capito cosa significa, tutto ciò. Perché vive nel suo bellissimo mondo fantastico e non sa cosa vuol dire, vivere come viviamo noi.»
    Strinse le mani attorno alla bottiglia e la spinse contro il petto – così, giusto per reprimere l’istinto di alzarsi per prenderlo a pizze /e/ lanciargli il vetro addosso.
    «dai, cazzo, (gianluca) jd.»
    Arcuò le sopracciglia suggestivo, sguardo da ma-sei-deficiente in faccia ad accompagnare il movimento.
    «non ti sei chiesto perché questo tipo apparentemente ultra supportivo non ha pensato di rivolgersi a noi? noi? sarebbe stata la scelta più ovvia e semplice. Lo sai, che potremmo assicurargli più protezione di quanto potresti fare mai tu da solo. A lui e al suo cazzo… di nano da giardino, l’altro t/n: finn. Chissà se era ancora vivo: era un po’ che Mudeom non girava dalle sue parti per assicurarsi che fosse ancora misticamente ancora tutto d’un pezzo.
    «e quantomeno sarebbero utili, piuttosto che palle al piede.»
    ritter
    scully
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
  7. .
    ogni volta che vedo dara penso a questa canzone



    (che avevo anche usato per il figlio di ken. coincidenze?) te la lascio come regalo così non pensi a quanto ti abbiamo ignorato malamente ciao dara
  8. .
    CITAZIONE (GyuTori @ 27/9/2022, 16:19) 
    Prenoto Ben Whishaw **

    cami la prossima volta usa il modulino ♥ non è un errore grave, tranquilla, è solo perché rende più semplice a noi poi aggiornare le liste!
    stavolta lo metto io perché così posso direttamente copiare e incollare dagli ultimi messaggi:
    HTML
    <span class="pv-n">ben whishaw prenotato da gyutori</span>


    aggiorno 2
  9. .
    We had a lot to measure
    We had more past than pleasure
    And time grows deep like weeds
    when & where
    sept, london
    what
    hitman & rebel
    who
    ken the banished
    Per una volta nella sua vita – rara, rarissima occorrenza che mai si sarebbe ripetuta, Joonho –, Ritter aveva scelto la via della saggezza.
    Guru di noialtri, aveva stretto pollice ed indice contro la radice del naso, aveva preso un lunghissimo respiro, e non aveva rotto il collo delle sue piccole (disse, e poi raggiungeva a fatica la spalla di JD: dettagli, perché lui era un nano di classe barbara e la sua ira funesta era in grado di farlo arrampicare ai muri come i ragni, e quando sfidi le leggi della fisica l’altezza diventa solo un numero) piaghe viventi nonostante ogni fibra del suo corpo gli pregasse di mettere fine a quel dolore una volta per tutte.
    Dunque, in ordine. Mudeom, nel giro di un annetto, aveva:
    – perso l’appartamento abusivo che condivideva con il suo coinquilino;
    perso il coinquilino fullstop;
    – quasi mandato a puttane, per l’ennesima volta, anni di anonimato a causa del coinquilino in questione;
    – rischiato di creare problemi di dimensioni cosmiche alla resistenza in toto per proteggere sempre il suo dannatissimo coinquilino che, per sfiga pura, era incidentalmente una delle persone a cui più teneva al mondo, e quindi vaffanculo, aveva dovuto pure aiutarlo.
    Ma il suo problema non era stato solo Joonho. C’erano altri tre deficienti a giocare da pedine in quella partita: uno che, quantomeno, aveva scelto di farsi i cazzi suoi e schierarsi dalla parte del Ministero senza rivelare informazioni che avrebbero potuto rovinarli per sempre – o, quantomeno, non ancora, che era più di quanto potesse sperare. Forse aveva JD da ringraziare, ma non era intenzionato minimamente ad esternare questo pensiero: JD meritava tutte le bastonate che stava per dargli, fine.
    Poi, cristo, c’erano gli altri due! Non era ancora del tutto certo di aver capito come esattamente lui e Finn Lloyd si fossero trovati. Glie lo aveva detto, ma ogni cosa era stata eclissata in modo malo dalla purga infinita che erano Blaise Han e quell’emerita, infinita testa di minchia di Ethan Lynx. Di certo Mudeom non poteva giudicare le scelte discutibili di Joonho perché lui stesso, in passato, era caduto nella tentazione di adottare cuccioli per strada (Beltè, ciao, figlio ingrato) e ignorare ogni red flag (Yami, Yami, Yami – poteva fingere il contrario, Mudeom, ma a volte girava la testa perché non voleva ascoltare i drammi inutili di Joonho e ricordare lui; dopo tutti quegli anni, appariva ancora nei suoi incubi peggiori, e nei suoi sogni più dolci). Se lo faceva lo stesso? Sì, perché il suo cucciolo abbandonato li aveva un po’ messi nella merda, e la red flag vivente che era Ethan non si voleva arrendere.
    Cazzo. Aveva sperato, inutilmente, di essere stato chiaro quella volta in cui si era fatto trovare nel loro appartamento e aveva minacciato di usare le loro budella come coriandoli se non avessero smesso di cercare JD. Ma no. Ethan non era come le altre ragazze – Ethan era cool ed eroico e un pezzo di merda pallone gonfiato che insisteva nel voler mettere a rischio la propria vita e quella di JD per mantenersi in contatto.
    Senza considerare l’idea di entrare nella resistenza e agire in modi che fossero sensati e sotto il controllo di gente che ne sapeva un po’ più di lui? Ovviamente.
    Aveva pensato più volte, Mudeom, di farlo sparire in una nuvola di fumo e rendere la cosa accidentale. Il problema era Joonho. Joonho, che inevitabilmente avrebbe scoperto la verità e che si sarebbe fatto mangiare dai sensi di colpa. Purtroppo, purtroppo!, il suo affetto nei confronti del maggiore lo aveva reso un pappamolle. Non poteva – non aveva il coraggio, a essere del tutto sinceri, di infliggergli un simile cuore infranto.
    E quindi. Era lì.
    «spiegami che ti passa per il cervello.»
    Non gli diede il tempo di realizzare che stesse occupando il suo divano; aveva lasciato abbastanza indizi del suo passaggio da sapere che JD se lo aspettasse dentro casa, una volta varcata la soglia. E se non aveva colto, beh, cazzi suoi. Amen.
    «joonho,» parole rapide e biascicate, le sue, in un coreano pregno di satoori. Inspirò dalle narici, e premette le dita contro le tempie. «dimmi che non sei così stupido da fidarti.»
    Neanche si rese conto di quanto fossero sconclusionate tutte quelle parole. Il suo cervello stava un po’ vomitando informazioni – era più di quanto gli dicesse da mesi. Inutile dire che non aveva preso bene la situazione, Mudeom: si era limitato a fare il cane fedele in silenzio, dietro alle quinte, e a rivolgersi a Joonho quel minimo indispensabile che richiedeva la sua posizione.
    «dimmi che non stai fottendo tutti per scambiarti messaggi con un figlio di puttana qualunque.»
    E dove cazzo erano, il resto dei loro amici, quando servivano?
    ritter
    scully
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©


    ciao ethan scusa tvb
    ken un po' meno < 3


    * satoori: dialetto
  10. .


    im so bossy im so bandit iiii told myseeeelf
  11. .
    .
    non mi fa inviare solo il punto ma
    .
  12. .
    ↳ prima utenza: homini lupus
    ↳ nuova utenza: nocturnal
    ↳ presentazione: avoja
    ↳ role attive:
    aidan: maple [16.04] + arci [24.04]
    ritter: bonus [11.04] + swing [03.05]

    ↳ ultima scheda creata: ritter scully [04.04]


    e ci abilito

    tumblr_ps8dk6soUw1ta0vvmo9_400tumblr_ps8dk6soUw1ta0vvmo2_400
    tumblr_ps8dk6soUw1ta0vvmo7_400tumblr_ps8dk6soUw1ta0vvmo6_400

  13. .
    sheet
    pensieve
    playlist
    aes
    ritter


    scully

    Girò le chiavi nella fessura, lo sguardo fisso sul manubrio della macchina; attese che il grugnito del motore cessasse prima di voltarsi in direzione del sedile alla sua sinistra, quindi afferrò il pezzo di carta stropicciata su cui, in inchiostro blu, erano stati appuntati i dettagli. E fu allora, rileggendo linee pregne di calligrafia illeggibile e inutili tabelle di marcia, che si concesse finalmente d’imprecare.
    Aveva fatto tante cazzate, Ritter Scully – e se farsi trascinare in un universo alternativo e poi nel futuro poteva essere solo considerato come il suo magnum opus, sicuro accettare simili incarichi non rientrava necessariamente nella teca delle scelte intelligenti. Avrebbe voluto cercare rassicurazione nel fatto che, in tempi migliori, certe cose non se le sarebbe filate, ma spezzare colli a diciotto anni tendeva a renderti un minimo cretino e (di conseguenza) facilmente raggirabile. Sospirò, sistemando la maschera in tessuto su bocca e naso – eh beh, il Coronavirus: safety first –, dunque ripiegò il foglio con mani guantate per poterlo infilare nella giacca. Quest’ultima meno catastrofica di quant’era solitamente, almeno: piccole toppe erano state sistemate nella foderatura interna durante il suo soggiorno in Francia, e la pelle logorata era stata lavata dal sangue residuo che ora segnava chiazze appena visibili ai bordi e sui fianchi, nei punti in cui la giacca era del tutto strappata (s’era rifiutato categoricamente di accettare qualsivoglia ricucitura: era importante, che rimanessero visibili). Il genere di cosa che non si era potuto permettere nel periodo di vagabondaggio che aveva seguito la sua dipartita dalla Corea: non facile, scassinare case per dormire in posti decenti durante le notti invernali e prendersi cura di sé al contempo.
    Aveva un target, in ogni caso, e neanche un minuto da perdere. Sorprendentemente difficile da rintracciare, Abel Stevenson: natobabbano, famiglia di classe media. Mantenuto dai genitori in un edificio appena fuori Londra fino alla loro morte – abusivo nel medesimo edificio da allora. Tra i venti e i venticinque anni. Nessun affetto, o almeno nulla che contasse veramente: l’unica persona che era riuscito a ricollegare a lui era la stessa che l’aveva ingaggiato per farlo fuori. Nessun profilo di social media, il che era strano: criminaletti da quattro soldi di quel genere tendevano a mostrare i frutti del lavoro come medaglie. Un lupo solitario appena scioltosi dal branco, e si vedeva: consigliato bene, probabilmente, perché girava con dispositivi usa e getta. Un peccato (per Stevenson, sottinteso; per quanto riguardava Ritter: prima finiva, meglio era) che fosse prevedibile – il genere di colpo che, se solo quella città non gli fosse risultata ancora così oscura, avrebbe portato a segno nel giro di 24 ore. Dove vuoi che sbrighi gli affari un ragazzino senza territorio o allineamento, dopotutto?
    Non sembravano esserci potenziali testimoni nei paraggi, ma l’abitudine voleva che il passo rimanesse leggero, la postura rilassata. Un dettame del suo mestiere, quello di rimanere sempre nell’ombra – figurativamente o, nel caso dello Scully, letteralmente. Si affiancò alla parete fredda del vicoletto, iridi scure a vagare ovunque senza mai soffermarsi su qualcosa in particolare; prese in mano il telefono e passò il pollice sullo schermo spaccato, dunque, digitando messaggi che mai avrebbe inviato per fare qualcosa. Un bene, probabilmente, che il bisogno di rimanere introvabile lo obbligasse a comprare modelli di cellulare del 2005, vista la frequenza con cui li frantumava. Era questione di tempo, comunque: una paga inaccettabile, quella che si stava per prendere, ma quantomeno il suo stesso obiettivo gli stava rendendo il lavoro più semplice obbligandolo a presentarsi in uno dei punti meno frequentati di Hogsmeade – non poteva veramente lamentarsi.
    Passò la lingua sull’arcata superiore, combattendo l’istinto d’alzare la testa nel sentire passi riecheggiare per il vicolo, finché: «conosci chi possa aiutarmi a rintracciare questo gruppo di persone?» e aggrottò la fronte, Ritter, perché che cazzo stava succedendo. «Soprattutto se queste persone non vogliono essere trovate?» distante, eppure cristallino; piegò la schiena in avanti, girando il collo in direzione della voce. Così familiare – ma non poteva essere.
    In un luogo simile? Doveva essere una qualche tipo d’abilità, un incantesimo di diversione. Serrò la mandibola, spostando nuovamente gli occhi sul punto buio di fronte a sé – non poteva. Non c’era motivo– «Sono uno studente, non ho soldi qui con me» premette il palmo contro la parete e si sollevò da essa, il busto a roteare con una rapidità tale da rischiare di svitarsi dal resto del corpo.
    Non aveva assolutamente senso. Arricciò le labbra, passi silenziosi a guidarlo fino alla fonte del rumore; lasciò che i primi filamenti di materia oscura si arrampicassero sulle dita, risalendo per il braccio come venuzze. Non che avesse un piano in mente, sia mai: istintivo come una bestia, Ritter, nonché forte sostenitore dell’affrontare i problemi di petto –e, anche qui, nella maniera più letterale possibile: il tempo di svoltare l’angolo, iridi a saettare da un lato all’altro della strada, che «Forse il mio amico dietro di te vuole comprare.»
    E menomale che aveva imparato a celare il panico, perché quella era il genere di situazione di merda da cui non se ne usciva bene. Sollevò il palmo senza permettersi di ragionare, le attenzioni ora puntate esclusivamente sullo sconosciuto, e i rami pece a solidificarsi in piccoli pugnali – muscle memory, e per quanto l’idea di mostrare un simile spettacolo non lo aggradasse era senza dubbio migliore di qualunque cosa avesse in serbo l’altro per Sehyung. Non attese nemmeno di udire il tonfo del corpo sgozzato, veloce veloce veloce nel prendere l’infelice testimone per le spalle, poi chiudere i palmi attorno al polso e strattonarlo via dalla scena, incurante del frastuono provocato e deciso ad allontanarsi il più possibile dalle strade principali prima di lasciarlo andare. Quindi «cosa cazzo pensavi di fare.» un basso ringhio, sguardo infuriato a incontrare quello di Park Sehyung per la prima volta in mesi. E fu allora, che si ricordò – braccio destro a premere contro il collo del minore, e lo spinse fino a fargli colpire la schiena contro il muro. «provami che sei tu.» sottinteso: o ti faccio fuori.
    If spring can take the snow away
    Can it melt away all of our mistakes?
    coldest winter
    kanye west
    808s & heartbreak
  14. .
  15. .
    no vabbè. arte GRAZIE E' BELLISSIMO LO METTO SUBITO FJNFJRNEFERJFKRJENF

    (tra l'altro farei notare come il profilo di ken sia vero sara trigger)
31 replies since 14/10/2015
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