love story (akerrow's version)

[the wedding of the century | Avignon, FR]

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    barry era: perplesso.
    confuso avrebbe implicato una difficoltà ad elaborare determinate informazioni, ma anche uno sforzo di arrivare all'obiettivo che il biondo non aveva alcuna intenzione di fare. accettava passivamente la stranezza della situazione, l'aura di surreale a sfiorargli la poca pelle esposta — in un gesto meccanico, istintivo, portò la mancina al nodo della cravatta. non per allentarlo (o stringerlo: tentazione spericolata), quanto più per impedirsi di tuffare le dita nella tasca interna della giacca e raggiungere con i polpastrelli la bustina di plastica che aveva affrontato con lui quel viaggetto verso la Francia.
    era troppo presto.
    si dava ancora un'oretta, barrow.
    batté lentamente le palpebre, incapace suo malgrado di distogliere lo sguardo da dove l'aveva posato in modo del tutto casuale già dieci minuti prima; circondato da un viavai praticamente inarrestabile, lo skylinski si era ritrovato immobile, la testa leggermente reclinata verso la spalla, una ruga appena accennata in mezzo agli occhi chiari. in confronto a quello, l'idea di trovarsi al matrimonio dei suoi genitori (insieme alla versione toddler di se stesso ad una decina di metri — brividi veri), con indosso il completo scelto da Akelei e la tentazione di sniffarsi anche la lavanda, aveva quasi un sapore di normalità.
    «ehi ehi ehi, barruly. i miei occhi sono quassù» le iridi grigio azzurre del (quasi) ventitreenne seguirono il cenno delle dita svolazzanti davanti al volto, incrociando lo sguardo divertito del professore ad un'altezza molto diversa dal solito. perché non superava più il metro e ottanta, Eugene Jackson, e certo quelle tette che Barry stava fissando - interesse puramente scientifico - con tanta intensità non le aveva mai avute.
    «cercavo di riconoscere lo stile dell'abito, prof. mica per altro» mani avanti (metaforicamente), l'assistente si chiuse in una leggera alzata di spalle — i have done nothing wrong, ever, in my life; le labbra morbide del professore, in tinta nude per non fare a botte con la stoffa lilla del vestito, si tesero in una smorfia compiaciuta che era tutta eugene jackson™. questo è il momento in cui il mio cervello mi obbliga a sottolineare che a truccare euge può essere stata solo run: immaginatevi la scena come quella del meme, ma con Jade in the background che bestemmia perché non sa se mettere i boxer o gli slippini «e ci sei riuscito? no perché io non ho assolutamente idea di cosa stia indossando» premette entrambe le mani sul seno, aggiustando la scollatura dell'abito con ritrovata serietà «però mi sta da dio» e chi siamo noi per contraddirl* (asterisco obbligatorio). Barry, dal canto suo, non ci provò neppure; così come aveva pensato bene di scacciare la domanda sorta spontanea già al rientro tra le mura di hogwarts dopo la guerra: come.
    il perchè già si sapeva.
    Sul metodo, qualche dubbio gli era venuto.
    Ma barrow skylinski, in un'altra vita Lynch Beaumont-Barrow, aveva militato tra le fila dei corvonero, e in quanto tale possedeva (lo so, non ridete) una fine intelligenza utile non solo a guadagnare soldi di cui assolutamente non aveva bisogno con lo spaccio di pasticche, ma anche a farsi i benemeriti cazzi propri. Aveva valutato i pro e i contro del porre una domanda tanto scomoda al jackson, e alla fine aveva optato per un più sano silenzio/assenso: qualunque cosa facesse dormire di notte il professore, a barry andava più che bene «il colore magari la sbatte un attimo..» euge adorava i freaks. Li considerava quasi come (figli??????) nipotini problematici da portare al parchetto di tanto in tanto, e spesso (unprompted e unprovoked) ricordava loro quanto gli mancassero tra i banchi di scuola, ma l'occhiata che riservò al biondo trascendeva affetto e senso di appartenenza ad una famiglia. Come quando il tuo migliore amico, o il sangue del tuo sangue, decide di rovinare il vostro rapporto buttando sul tavolo un +4 a coprire un'altra carta +4: esistono dei limiti all'infamia, momenti fissati nel tempo arrivati ai quali una persona adulta e perbene deve dire basta «sei su un ghiaccio molto sottile, barruly. Te lo dico.» quei maledetti ragazzini «riparleremo dell'eresia che hai appena pronunciato quando potrò togliermi queste scarpe e salterà fuori l'alcol» il cambio momentaneo di sesso non aveva influenzato le priorità del jackson — alcune abitudini erano semplicemente impossibili da sradicare «potrei sbagliarmi, prof, ma nel suo stato attuale dubito possa bere alcolici» il volto dai lineamenti aggraziati di eugene si rabbuiò: sentivo anche molto freddo e il cielo si scurì; le iridi di ghiaccio fissarono prima la figura immobile dello skylinski, poi si spostarono sul vuoto alle sue spalle.
    Che vuoto, poi, lo era solo nella mente del professore.
    Attorno a loro era già tutto in fermento, gli invitati pronti a prendere i loro posti in attesa degli sposi.
    Ma euge non li vedeva. non vedeva niente. non sentiva niente.
    «sparisci barry, devo rimanere un attimo da sola con me stessa e le mie emozioni» a piangere, perchè gli ormoni della gravidanza iniziavano a giocare un bruttissimo scherzo — dove mannaggia era jade quando serviva????
    domande importanti ed esistenziali alle quali solo arianna può rispondere. Nellattesa cercherò di dirvi le cose davvero importanti nello spoiler, così magari evitate di sorbirvi questa cazzata di post <3 AUGURI AKERROW E BASTA FIGLI IN GENERALE MASCHI!

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    ero quasi tentata di non aggiungere altro e lasciare tutto alla vostra immaginazione, ma mi è stato affidato un compito e le patate vogliono ancora dieci minuti di cottura, so:

    BENVENUTI AL MATRIMONIO AKERROW!
    Cristosantissimo.
    l'evento clou dell'oblivion, quella cosa che aspetti per anni senza nemmeno sapere di stare aspettando proprio lei, e alla fine quando arriva ti coglie totalmente impreparato. Qui ci sono un sacco di emozioni in ballo per molti dei miei pg (e per una volta non implicano la morte di qualquno, spicy), ma non siamo qui per parlare di questo.
    Magari vi sarete chiesti “ma dove siamo?” e la risposta è semplice (sta scritta nello schema role): ci troviamo ad Avignon, nella meravigliosa provenza. Sì, la francia, lo so, non possiamo farci nulla, accettate la cosa così com'è o akelei vi uccide. E' il 3 settembre, pomeriggio inoltrato, diciamo intorno alle 17 — manca circa una mezz'ora all'inizio della cerimonia, quindi se postate prima dell'arrivo degli sposi potete tenere conto di quel tempo per arrivare (i soliti ritardatari che non mancano mai), prendere posto, fare le ciatelle, raccogliere la lavanda.
    Quella di sicuro non manca: un campo quasi sterminato si estende alle spalle del palco che funge da altare per la cerimonia ufficiale, i colori caldi del sole si riflettono sull'erba verde del prato sotto i vostri piedi; ogni oggetto, ogni decorazione che vi appare dal momento in cui arrivate richiama inevitabilmente le sfumature del fiore sopracitato, e il profumo vi avvolge con una delicatezza inaspettata.
    Davanti al palco di olmo chiaro sono state disposte tot (non so quanti siete.) file di sedie, drappeggiate con tulle di diverse sfumature del rosa e del viola; al centro, a dividere gli invitati della sposa da quelli dello sposo come tradizione vuole, un lungo tappeto contornato sui lati da cestini in vimini colmi di fiori. Ora, sto andando a braccio quindi se poi c'è qualcosa da sistemare di diverso ci penserà elisa sposa dell'anno <3
    non potete ancora fiondarvi sull'alcol, i tavoli per la cena e il ricevimento vero e proprio (con l'obbligatoria pista da ballo, get yourself fucking ready) si trova in una diversa zona: siete qui per sniffare la lavanda (come barry), riposare le vostre stanche membra (come euge), piangere un po per l'emozione (sempre euge), scambiarvi gli ultimi gossip (ad un matrimonio: vecchio classico intramontabile), o chiedere al buon skylinski una pasticca (warflashback letterali).
    Ho sicuramente dimenticato qualcosa, nel caso chiedete (non a me <3)
    ah si, ecco:
    TEMPO PER POSTARE L'/INGRESSO/ FINO ALLA MEZZANOTTE DI DOMENICA 1 OTTOBRE, poi inizierà la cerimonia e la festa vera e propria (potrete ovviamente partecipare anche senza aver postato prima di domenica). troverete il bellissimo stupendo meraviglioso fantastico schema role nella sezione apposita, posso percepire elisa vibrare anche da qui 🙏


    Edited by ambitchous - 28/9/2023, 18:50
     
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    Poggiata contro la parete color crema, Nelia portò una mano alla bocca dello stomaco e prese un respiro profondo. Il fatidico giorno era arrivato.
    Erano stati mesi difficili, quelli che avevano preceduto il tanto atteso matrimonio Akerrow, e il mondo in cui stavano vivendo non era più quello che conoscevano, spazzato via in primavera da un conflitto mondiale che aveva ribaltato per sempre l’ordine delle cose.
    I più superstiziosi avrebbero preso molto seriamente quegli eventi, reputandoli di cattivo auspicio per la coppia di futuri sposi, ma non William e Akelei: avevano deciso di andare fino infondo, poiché non sarebbe stato di certo quello a fermarli — e Nelia lo sapeva bene. E forse, infondo, un giorno felice da passare insieme ai propri cari e amici era esattamente quello che ci voleva per risollevare almeno un po’ gli animi e fingere che nulla fosse cambiato. Quella festa, per come era stata pensata e organizzata, era senza dubbio l’evento perfetto per arrivare a tanto: la professoressa aveva come l’impressione che se ne sarebbe parlato a lungo, considerando come Akelei fosse una figura di tutto rispetto nell’organico del Ministero, e William Barrow fosse stato, almeno fino a poche settimane prima, uno dei professori della scuola magica più rinomata in Europa.
    Nelia, dal canto suo, stava cercando in tutti i modi di tenere a bada i brutti pensieri e le ansie nate proprio dalla natura di quell’unione: il Capo dei Cacciatori e il Capo dei Ribelli che giuravano amore eterno davanti a centinaia e centinaia di invitati. Andava da sé che non tutti l’avessero presa bene, eufemismo del secolo, e la Hatford aveva passato lunghe ore seduta di fronte al futuro sposo, che fosse in uno dei loro uffici o al Quartier Generale della Resistenza, osservando lo sguardo scuro dell’uomo mentre rifletteva sulle stesse identiche cose. Era pericoloso, e alcuni erano stati fin troppo onesti con le loro opinioni, e Nelia non era così ingenua da credere che non avrebbero provato a rovinare quelle nozze. Sperava di sbagliarsi, ma aveva comunque chiesto ai ribelli presenti (e, per tanto, fidati) di rimanere all’erta e tenere un’occhio vigile e attento, pronti a segnalare anche il minimo accenno di guai <o>o insurrezione. Non aveva messo al corrente Will della cosa, per non aggiungere altri pensieri a quelli a cui doveva già rendere conto, ma sapeva anche non ce ne fosse bisogno: quasi certamente, i ribelli avevano ricevuto quello stesso ordine anche dal loro leader.
    Ma non era solo quello a stringere una morsa al centro del petto della ex tassorosso.
    Quello di Akelei e William era il primo matrimonio a cui Nelia partecipava da quando aveva perso Justin, più di due anni prima. Inutile dire che non fosse stato affatto facile affrontare la guerra e i preparativi, perciò era stata più che felice di affidarli quasi totalmente al Jackson, e tenere solo i suoi compiti da damigella d’onore — l’idea di ripetere tutto quanto da capo – la scelta del vestito e dei fiori, il colore delle tovaglie e il tipo di torta, il numero di portate della cena e la scelta della musica – l’aveva messa a dura prova sin da subito, e seppur rimanendo vicina ad Ake (e ad Eugene, per assicurarsi che non ne combinasse una delle sue), Nelia aveva preferito fare un passo indietro ed evitarsi altro dolore. Ma nemmeno tutta la preparazione mentale esercitata nelle settimane precedenti era servita a nulla: nel momento stesso in cui aveva messo piede nella location scelta dalla cacciatrice, Nelia aveva smesso di respirare. Tutto le ricordava il giorno delle sue nozze, molto meno sfarzose e in grande stile, decisamente più in linea con Nelia — aveva provato a cacciare via quei pensieri, ma i ricordi erano subdoli e infami e riaffioravano nei momenti meno opportuni, e senza che lei potesse farci nulla.
    Quanto meno, era riuscita a evitare le lacrime, stringendo forte le palpebre e i pugni, fino a sentire le unghie pizzicare contro i palmi serrati.
    Fuori dalla stanza dove Ake stava calpestando il tappeto avanti e indietro in attesa dell’inizio della cerimonia, quindi, cercava di mantenere un controllo ferreo sulle proprie emozioni, la mano ancora poggiata contro la stoffa lilla del vestito e la testa reclinata all’indietro contro il muro.
    Solo una volta certa che la voce tremula non l’avrebbe tradita, bussò alla porta dov’era rimasta di guardia fino a quel momento, e informò la sposa che era quasi ora.
    Poteva(no) farcela.

    Nel frattempo, sul prato dove di lì a poco si sarebbe tenuta la cerimonia, gli ospiti iniziavano ad arrivare, in coppia, in gruppi o in solitaria. Morley Peetzah era tra questi ultimi, estasiato di non avere Bangkok al seguito come succedeva spesso, ultimamente, e allo stesso tempo fin troppo conscio della grande mancanza che sentiva al suo fianco. Non c’era nemmeno bisogno di dirlo ad alta voce, o di pronunciare il suo nome: chiunque, vedendolo, sapeva quanto a Morley Peetzah mancasse avere accanto – in quegli eventi ma soprattutto nella vita quotidiana – Penn Hilton. Il vuoto che la strega aveva lasciato nella vita (e nel cuore) del coach, non era facile da colmare; Piz non ci sarebbe riuscito nemmeno nell’arco di due o tre vite.
    Aveva provato a dimenticare Penn, sapendo (o sperando, comunque) che avrebbe voluto che Morley fosse felice anche senza di lei, ma non ci era riuscito: non aveva trovato nessuno che potesse competere con la Hilton, o che suscitasse in lui tutto l’amore che Penn gli aveva fatto provare negli anni della loro complicata relazione fatta di continui tira e molla.
    Quando William gli aveva fatto recapitare la busta via gufo, in tutta onestà, Morley aveva quasi pensato di inventare una scusa e declinare l’invito; ma non aveva potuto, perché Will era suo amico e perché lui era Morley Peetzah, e avrebbe gelato l’inferno prima che decidesse volontariamente di non prendere parte ad un evento come quello, vittima del suo stato di (uomo solo) single. Quindi si era comunque presentato, capelli biondi tagliati in maniera ordinata e molto corta, completo nero firmato e perfetto, cravatta dorata perché rimaneva pur sempre un golden boy (e fedele ai suoi colori da grifondoro, in un certo senso).
    Era felice per William, ed era felice per Akelei. Si era congratulato con entrambi in svariate occasioni, e non vedeva l’ora di mettere in imbarazzo il Barrow durante la cena — anche se faceva già un perfetto lavoro da solo.
    (Ma forse non l’avrebbe fatto, perché aveva paura della reazione di Akelei.)
    Dopo aver mostrato l’invito al personale all’entrata, Morley si incamminò verso il centro della scena, salutando chiunque gli capitasse di riconoscere sul suo cammino, stringendo mani e baciando guance di maghi e streghe che lo fermavano per una chiacchiera veloce del più e del meno. Non aveva una meta precisa, sapeva ci fosse ancora tempo per prendere posto e attendere l’arrivo degli sposi, perciò ne approfittò per sfruttare la sua rete di conoscenze e attaccare bottone con quello o quell’altro invitato: socializzare, per Morley Peetzah, non era mai stato un problema. Era espansivo e sicuro di sé quanto bastava per permettergli di passare da una conversazione all’altra con facilità e senza battere ciglio, dando l’impressione di esser sempre stato nella discussione anche quando era letteralmente appena apparso dal nulla. Con nessuno, però, si trattenne più di qualche minuto, preferendo variare e passare da un gruppo all’altro e portare il suo sorriso smagliante ovunque capitasse, fino a trovare la conversazione più interessante con la quale intrattenersi fino all’inizio della cerimonia (che, sperava, sarebbe stata a breve).
    «sparisci barry, devo rimanere un attimo da sola con me stessa e le mie emozioni»
    Ed eccolo lì, il la che stava aspettando.
    Puntò le iridi chiare sulla figura fasciata nell’abito viola, e solo distrattamente fece caso al ragazzo che si allontanava dal professore di Arti Oscure. O dalla professoressa? La cosa lo confondeva ancora.
    «la gravidanza ti dona, eugene» non ricordava a che mese fosse, o forse non l’aveva mai neppure saputo: era già tanto che avesse riconosciuto il Jackson in quelle nuove vesti. «e anche il vestito.» che era un modo velato per dirgli che fosse uno schianto con le curve acquisite col cambio di genere, ma lo tenne nascosto dietro l’accenno di un sorriso. Come fosse possibile che Eugene Jackson fosse incinta erano dettagli che Piz non voleva sapere – e che comunque non avrebbe capito, anche se avessero deciso di prendere carta e penna per spiegarglielo con dei disegnini. L’importante era che fosse contento lui, ecco. «come procede?» indicò all’altezza della pancia della donna che aveva di fronte, pensieroso: non era sicuro che al posto di Euge avrebbe preso la stessa decisione, portare avanti una gravidanza sembrava estremamente doloroso e pieno zeppo di difficoltà che Piz non era certo di voler sperimentare sulla propria pella. Ma quel genere di amore che aveva spinto il Jackson ad un tale gesto, si rendeva conto l’allenatore, lui probabilmente non l’aveva mai conosciuto: era stato convinto di sì, con Penn al suo fianco, ma più passava il tempo e più si rendeva tristemente conto di essersi gaslightato da solo, mettendo più anima e cuore in quella relazione di quanto fosse necessario. E forse era stato proprio lui a spingere via Penn, con il suo troppo amore — non l’avrebbe mai saputo.
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    nelia: è fuori dalla stanza dove ake sta finendo di prepararsi, non interagisce con nessuno
    piz: è nel punto dove si tiene la cerimonia, parla con svariate persone (vuoi essere tu?) prima di avvicinarsi a eugene


    Edited by antarctica - 29/9/2023, 14:04
     
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    «siamo in anticipo.»
    C’era giusto un pizzico di frustrazione nella voce della ex serpeverde, mentre consegnava l’invito all’entrata, una mano a reggere la pergamena color avorio e l’altra stretta intorno al braccio del suo accompagnatore. «non arrivo mai in anticipo Lo sguardo, e le labbra arricciate, che rivolse a Renée la dicevano lunga: avrebbe potuto utilizzare quei preziosi minuti per concludere i preparativi e sistemare un po’ il trucco o i capelli, controllare che il vestito fosse in ordine e la collana perfettamente dritta e centrata. Ed invece era stata trascinata alla cerimonia in orario, il ché significava che non ci fosse ancora il numero di invitati presenti sufficienti a godere della sua entrata scenica.
    «guarda,» approfittò della mano ora libera dell’invito per indicare il centro della sala, le sedie ancora vuote e i gruppetti di persone che si andavano a formare pian piano, «non c’è nessuno.» Le iridi ghiaccio scivolavano sulle figure presenti come se non esistessero — nessuno di importante, nessuno per cui mettere in mostra la sua creazione di velluto e decorazioni in oro, solo qualche parente maniaco della puntualità e qualche sfigato che non sapeva che arrivare con qualche minuto di ritardo era buon costume. La puntualità era solo un’invenzione delle lobby.
    Ma capiva da dove arrivasse la fretta di Renaissance, e la accettava: anche lei avrebbe mosso mari e monti per non perdersi nemmeno un istante del matrimonio dei suoi genitori, e anche se il Capo dell’esercito non glielo aveva espressamente detto, Nice sapeva fosse anche per quello che l’aveva trascinata al ricevimento allo spaccare delle diciassette.
    Quello, e il fatto che fosse uno dei sopracitati maniaci della puntualità, ugh.
    «questo ti obbliga a fare il giro del giardino con me almeno tre volte, lo sai vero?» non si era fatta bellissima solo per fari vedere da quattro gatti e poi rimanere seduta tutto il tempo. «e non preoccuparti,» lo zittì prima di qualsiasi protesta, «le mie scarpe sono molto comoda, potrei camminarci su tutta la notte.» Una sfida nello sguardo gelido, come a dirgli di permettersi di opporsi alla sua volontà: erano lì insieme, e Nice non aveva voglia di vagare per il giardino da sola, come un’anima in pena, con il rischio di rimanere incastrata in conversazioni spiacevoli.
    Non che avesse paura di incontrare qualcuno con cui non voleva intrattenersi, ma anche; erano passati mesi, e ancora non aveva affrontato suo cugino, o un certo biondo infermiere, o chiunque altro. Renée era l’unica persona a cui Nice avesse concesso il privilegio e l’onore di rivolgere parola, anche dopo il conflitto, ed era bene che se ne ricordasse: non ci avrebbe messo molto a chiudere fuori anche lui, e solo il Barrow sapeva quanto bisogno avesse lui di lei, e delle loro chiacchiere in libertà riguardo il futuro da cui entrambi provenivano. Però sì: se avesse potuto evitare di scambiare inutili convenevoli in mezzo a centinaia e centinaia di invitati, affrontando persone che evitava apertamente e con classe da mesi, sarebbe stata molto più che felice. Renée era la sua barricata tanto quanto Nice era il supporto morale del “Calloway”.
    Ma non era neppure una stronza totale, la Hillcox: ogni tanto si ricordava di essere una persona e di avere un cuore, nascosto dietro una spessa coltre di gelo nuovo di zecca. Si fermò a qualche passo dall’inizio delle sedie disposte per gli invitati, e trattenne Renée con sé, applicando una leggera pressione sul braccio del comandante, fino a farlo voltare verso di lei. «non farmi fare brutte figure.» Che era un modo come un altro per dirgli di stare tranquillo, era solo un matrimonio, e tempo un’oretta avrebbero aperto l’open bar. Gli sistemò il papillon al collo, anch’esso verde e ricamato con filamenti d’oro, gli stessi con cui Nice aveva decorato il proprio vestito, e poi sistemò invisibili pieghe sulle spalle del completo indossato dal ragazzo. «non vedo l’ora di vedere Akelei sfilare sotto gli occhi di tutti.» fasciata nel vestito da lei confezionato: quello era il momento più importante della sua carriera.
    E sì, immaginava anche fosse un gran bel giorno special per William e Akelei, yay.

    Intanto, non troppo lontano da lì, qualcun altro era stato costretto ad arrivare in anticipo per ben altri motivi.
    Hold May Beer era totalmente, e irrimediabilmente, rapita e stregata dalla special che aveva di fronte. Al punto da inciampare nelle proprie parole quando, nell’incredibile imbarazzo che la visione di una Kieran vestita di tutto punto per assolvere il suo compito di damigella l’aveva gettata, tentò di fare un complimento alla mimetica. «stai bellissima», che non era né un stai benissimo né un sei bellissima e allo stesso tempo era entrambi, raddoppiato nella forza e nell’essere sentito, proveniente direttamente dal profondo del cuore della Beer.
    Aveva fatto il possibile, quel giorno, per essere all’altezza del suo ruolo di accompagnatrice, dall’avere i capelli puliti e accuratamente acconciati alla base della nuca, fino all’indossare un completo giacca e pantalone con tanto di bustino lilla abbinato al vestito da damigella di Kier: tutto, pur di rendere felice la mimetica e non farla sfigurare.
    Hold May Beer era finita letteralmente sotto un treno e aveva lasciato che la trascinasse verso l’oblio e l’infinito, persa per quegli occhioni da cucciolo di labrador che la osservavano ogni volta come se fosse la creatura più singolare e curiosa e degna di amore dell’intero universo. Hold non credeva di meritarselo così tanto, ma non era così sciocca da privarsene dando voce ai suoi dubbi e alle sue paure: da quando avevano chiarito il fatto che il bacio al sapore di viscere di clicker non fosse stato un caso, ma qualcosa che entrambe avevano desiderato da molto più a lungo, la relazione tra loro era cambiata. In meglio, osava dire l’acidocineta, perché Kieran Sargent aveva il vizio e la capacità di rendere tutto migliore, anche un caso disperato come la stessa Hold. La Sargent faceva davvero miracoli, altrimenti come si spiegava la presenza della maggiore ad un matrimonio, e per giunta con tutta l’intenzione di comportarsi bene e da persona civile quale non era assolutamente?!
    Persa, persissima: ecco cos’era, Hold May Beer.
    Strinse la mano della mimetica nella sua, senza paura di farsi vedere da qualcuno, ma quando si avvicinò a Kier fu solo per sussurrarle all’orecchio «queste scarpe sono scomodissime, posso toglierle sotto al tavolo?» (oh, civile sì ma fino ad un certo punto) e lasciarle un bacio così veloce sulla guancia che se pure qualcuno avesse guardato nella loro direzione, con un battito di ciglia avrebbe potuto perderselo.
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    Quando Sersha Kavinsky si presenta a casa tua con una busta avorio e ti dice “tu vieni al matrimonio dei miei genitori”, non è che hai tante opzioni tra cui scegliere se non accettare l’invito e annuire (spaventato e) confuso. Una parvenza di protesta, Turo, aveva provato ad accennarla comunque, ma era durata giusto il tempo di un timido «cosa centro io?» – una domanda che Turo si ripeteva quasi quotidianamente, in più sfumature diverse – e si era infine spenta del tutto quando la bionda aveva ribattuto che era un freak (onorario, aveva aggiunto subito lui; ancora faticava a pensarsi come un freak e basta, e immaginava Sersha fosse l’unica del gruppo a considerarlo uno di loro, gli altri lo avevano accettato e basta per far contenta la Kavinsky – e di quello Turo era molto convinto) e, in quanto tale, non poteva sottrarsi all’ingrato compito. E poi di che si lamentava, aveva aggiunto con la sua solita grazia la cacciatrice, ci sarebbero stati cibo e alcol gratuiti: aveva forse di meglio da fare per quella domenica? Detto con un velo di scherno che Turo aveva deciso di ignorare (nonostante Sersha avesse avuto perfettamente ragione ad avere dubbi, e a supporre che non avesse nulla di programmato per quel giorno).
    Ed ecco, in breve, come Turo era finito al matrimonio di Akelei Beaumont e William Barrow, seduto dalla parte della sposa per compensare il posto vuoto di Sersha, che invece presenziava come damigella: tutto nella norma.
    Avrebbe voluto Costas fosse lì.
    (Magari ci sarà, chissà, ciao Vio mi manchi.)
    Non c’era ancora nessuno con cui si sentisse abbastanza a suo agio da poterci gravitare intorno in silenzio, i freaks tutti in giro per il giardino a fare le loro cose, e lui non abbastanza in confidenza da decidere di aggregarsi a qualcuno di loro di sua spontanea volontà, rimanendo sempre un passo indietro, a distanza. Immaginava che, prima o poi, sarebbe arrivato qualcuno con cui fingere di avere una mezza conversazione senza impegno, ma in realtà sperava più in qualcuno che lo prendesse sotto la propria ala e lo trascinasse con sé da qualche parte (mom come pick me up im scared); per il momento, se ne stava sul limitare del giardino, assolutamente non nascosto dietro un enorme vaso pieno zeppo di fiori, ad osservare scambi di saluti e baci sulle guance di chi arrivava alla cerimonia. Assolutamente.
    Dov’era l’alcol che gli avevano promesso?

    Qualcuno avrebbe dovuto dire a Turo che il cespuglio, come nascondiglio, non era un granché: ma quel qualcuno non sarebbe stato di certo Dylan, impegnata a non sudare e rovinare così il trucco, e a non prendere una storta ancora prima dell’inizio della festa.
    La tassorossoro – ugh… ex tassorosso, faceva ancora fatica a pensare a se stessa come un’adulta e non più una studentessa, era passato così poco tempo dal diploma, sembrava solo ieri che indossava ancora la divisa giallo-nera per i corridoi del castello! – strinse la propria mano intorno a quella di Gaylord che, al suo fianco, faceva da supporto e le dava il coraggio necessario per rimanere lì e non correre via (almeno a cambiare le scarpe.); la sola presenza del Beckham lì accanto a lei, la ancorava al presente e la calmava. Ma la agitava anche un bel po’, in quanto la Furia si rendeva conto che quello fosse il primo evento ufficiale dove si presentavano come coppia. Stavano ormai insieme in maniera più o meno stabile da (gasp!) quasi un anno, e Dylan faceva fatica a credere che uno come Gaylord volesse volontariamente stare con una come lei. Sapeva perfettamente che fosse così, che Gaylord la trovasse divertente e adorabile e imprevedibile e *blushing* bellissima ma saperlo e saperlo saperlo erano due cose molto diverse.
    Alzò inconsciamente lo sguardo verso il ragazzo, i lunghi capelli rossi acconciati in trecce complicate che ricadevano sulle spalle nude e le solleticavano la pelle, la coroncina di fiori abbinata al vestito a completare quel look un po’ da fatina che aveva deciso di vestire per il matrimonio del suo capo. Si rendeva conto, ora, di non aver fatto proprio la scelta più giusta: persino Gay, nel suo abito alla moda, era super elegante e lei si sentiva fuori luogo e infantile, nonostante avesse provato molto forte a rendersi bella per quel giorno, con tanto di trucco applicato da mani esperte che sua mamma – decisamente su di giri per il fatto che sua figlia, quella ragazzina combinaguai e immatura, fosse stata invitata al matrimonio dell’anno – aveva fatto arrivare a villa Adryanna affinché rendessero Dylan una vera signorina.
    Negli occhioni chiari che piantò in quelli di Gaylord, c’era una silente richiesta di starle vicino almeno fino a che non avesse iniziato a sentirsi un po’ meno a disagio, e un po’ più se stessa.
    Quel primo mese come giovane donna adulta e indipendente non stava andando affatto come Dylan l’aveva immaginato.
    «vogliamo cercare qualcuno? magari Thor è già arrivata…» Non aveva sentito ancora notizie di Joni (non dalla sera prima, comunque, quando avevano dato la buonanotte nella chat di gruppo delle Furie), ma era certa che sarebbe arrivata prima o poi. Anche perché: «guarda c’è» tuo padre ah ah «Piz, chissà se Joni è già qui…» allungò il collo per osservare meglio i gruppetti che si andavano formando, il tutto senza muoversi un centimetro da dove si trovava, stretta al corpo caldo e familiare di Gaylord, accanto al quale si sentiva protetta e al sicuro.
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    turo: arriva (da solo? con i freaks? chissà) e rimane in disparte, sentitevi liberi di importunarlo o salvarlo
    dylan: arriva con gaylord, parla solo con lui e intanto cerca le furie
     
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    Non è che a Mona non piacesse Lawrence Matheson; è che l’unica cosa per cui lo sopportava era il suo essere assolutamente e irrimediabilmente gay e, per tanto, non costituisse una possibile minaccia al genere femminile. Fine. Per tutto il resto, lo trovava irrilevante e, francamente, anche un po’ inadeguato e certamente non degno delle attenzioni di sua sorella. Ma ultimamente Mona aveva iniziato a pensare che Cherry non avesse le priorità giuste come la corvonero aveva sempre sostenuto: l’ammirava ancora, era – e sempre sarebbe rimasta – il suo modello di vita ma.
    Eh, un sacco di “ma” aleggiavano intorno alla neo capo cheerleader, in quel periodo.
    Posò con calcolata lentezza le iridi zaffiro sul profilo della maggiore, due schegge appena visibili attraverso le palpebre strette, come a voler studiare quella persona che credeva di aver conosciuto per tutta la vita e che, invece, ultimamente sfuggiva alla sua comprensione come granelli di sabbia che scivolavano attraverso dita dischiuse. Cherry era impegnata in una conversazione con quella specie di migliore amico che aveva scelto di accollarsi anni prima, alla cerimonia dello smistamento; ugh, che dire, non tutti potevano avere lo stesso buon gusto di Mona, né l’intelligenza di prendere al proprio fianco una persona degna e all’altezza, come invece aveva fatto lei. Il Matheson era per lo più trascurabile, a sua detta.
    Ciò che si stavano dicendo, non le interessava: era lì con loro solo perché non poteva essere con nessun altro, e non sarebbe di certo arrivata al matrimonio accompagnata dai suoi genitori, nonostante fosse lì proprio per merito loro, che avevano, di fatto, ricevuto l’invito a quelle nozze.
    Sentì comunque, suo malgrado, Lawrence sussurrare in un tono volutamente udibile quel «Mona mi sta fissando» al quale rispose con una pigra e distaccata occhiata, un sopracciglio leggermente inarcato che voleva rispondere: non montarti la testa, non è nulla di lusinghiero. «tua sorella, non il cane.» Una specifica che l’ex serpeverde si sentì in dovere di fare, visti i precedenti di confusione: che cosa assolutamente da Cherry dare lo stesso nome della sua sorellina alla sua bestiola infernale — ma infondo, Lance un po’ capiva il perché l’avesse fatto.
    Con un gesto naturale, dovuto ad anni e anni di pratica, offrì il braccio alla migliore amica e diede le spalle alla studentessa. «non sono venuto qui per fare da babysitter.» Perché si fossero accollati anche la stronzetta bionda, non era dato saperlo: dopo mesi di silenzio, Lance camminava su un ghiaccio troppo sottile per negare a Cherry di portarsi dietro la bambina, e lui, nonostante tutto, stava cercando di recuperare quella situazione degenerata all’indomani della guerra, quando aveva letto quella dannata lettera e il suo mondo era stato completamente rovesciato.
    Sì, ok, il mondo di tutti era cambiato e bla bla bla — a lui fregava meno di zero di quello che succedeva agli altri, sapete? Era fin troppo occupato a pensare al fatto che la sua migliore amica potesse essere anche sua madre, qualcosa che continuava a pensare come uno scherzo di pessimo gusto perché era troppo assurdo per essere vero.
    Quindi, per amore di Charlyse Benshaw, Lance stava sacrificando la propria piazza; un saggio (ugh, ew, meh, non faremo nomi.) gli aveva consigliato di sistemare le cose prima che fosse troppo tardi, e sia ben chiaro e reso noto che Lance non lo stava facendo perché glielo avevano suggerito, ma perché qualsiasi cosa fosse, sua mamma o sua nonna o una perfetta estranea al proprio albero genealogico, Cherry rimaneva la sua fottutissima migliore amica, nonché la sua coscienza, e in tre mesi lontano da lei Lawrence era stato in grado di far deragliare completamente la sua vita, in un modo o nell’altro. Certo, aveva fatto anche grandi cose, tipo aprire la propria agenzia di moda (un giorno arriverà davvero, lo giuro) ma aveva preso anche scelte molto discutibili, come tornare a bussare alla porta di un uomo, con la coda tra le gambe, solo per vedersela sbattere in piena faccia. Quindi insomma.
    «troviamo qualcuno a cui smollarla, ho sentito che c’è l’angolo baby park dove si possono lasciare i mocciosi (incustoditi).» Come avrebbe fatto a far colpo su qualcuno, con la cozza attaccata a loro? Quella lì aveva il vizio di far scappare la fauna maschile, o di pietrificarla sul posto come una Medusa del discount. «non ho intenzione di lasciare questo matrimonio da solo» e non aveva bisogno di aggiungere altro: Lance era entrato in modalità caccia nel momento stesso in cui aveva indossato la giacca di velluto bordeaux e si era stampato il suo miglior sorriso angelico con tanto di dolci fossette a completare il quadro.
    Mona, nel frattempo: «mi mancano i ben e ho detto tutto
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    SPOILER (click to view)
    mona & law: arrivano con cherry, parlano solo tra loro, importunateli pure

    e con questo ho finito pandi out sono *stelline* morta *stelline*
     
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    «Spero tu non stia flirtando, Peetzah»
    La mano di Jaden scivolò sulla spalla dell'uomo seduto, giocosamente possessiva mentre lanciava un'occhiata ammonitrice all'allenatore di quidditch che ci provava con il suo compagno. «perchè sarebbe una pick up line terribile» arricciò il naso divertita scuotendo la testa. «la gravidanza ti dona, e anche quel vestito? Puoi fare di meglio, riprova»
    Mosse leggermente il pollice sul collo di Eugene, accarezzandolo senza pensarci, un mezzo massaggio mentre resisteva alla tentazione di far cadere anche lei (lui?) l'occhio sul corpo del Jackson (per quello ci sarebbe stato tempo in un altro momento; e c'era già stato, se non si fosse capito).
    Rompendo un attimo il gioco e lo sfottò, si chinò per porgere al mago un cuscino che aveva recuperato dall'interno, lansciandogli uno sguardo inquisitore, un muto "vuoi che ti porti qualcos'altro?".
    Aveva sopportato una gravidanza una volta, e, sebbene euge fosse diverso da lei, poteva solo immaginare che rottura di palle dovesse essere per lui quella situazione, tanto più al matrimonio di due suoi amici. Jaden preferiva non pensare che Eugene volesse tanto un suo figlio da sopportare quello strazio, o rischiava di fare pensieri di cui si sarebbe pentita.
    «papà!» spostò lo sguardo sul bambino che correva in loro direzione, e prima che Uran potesse saltare in braccia a Eugene, lo intercettò con un braccio, afferrandolo al volo e portandoselo al collo. Essere nel corpo di un uomo era strano, ma a volte anche terribilmente comodo - soprattutto ora che il piccolo Beech-Jackson era cresciuto (sei anni, unread).
    «uran, lo sai che devi fare attenzione-»
    «c'era una signora col vestito tipo troppo uguale al tuo-» oh no. «quindi le ho versato addosso il succo!» Ecco.
    «uran!»
    Il bambino, che si era abbarbicato su Jaden come una scimmietta, passò lo sguardo fiero dal padre, alla madre, a Piz, facendosi dubbioso. Aggiunse. «casalemente. Però si è dovuta cambiare ora non è più vestita come papà» aaahhh che piccolo delinquente. Chissà da chi aveva preso, mh?
    «casualmente» corresse a bassa voce jade, e gli diede un piccolo buffetto sul naso.
    Fece segno a Euge e Piz di tornare a parlare senza aspettarla, e si allontanò di un paio di passi mettendo a terra Uran e abbassandosi davanti a lui. davvero l'hai fatto solo per il vestito?»
    «sì! papà deve essere la più bella, dopo zia Ake e zio William. c'è un piccolo bambino dentro di lui, quindi si deve fare tutto quello che dice...»
    «Altro?» posò una mano sulla guancia del bambino, cercando di tenere il suo sguardo. «Lo sai che puoi dirmi tutto» Uran si morse il labbro, portò gli occhi al pavimento, ci pensò un po'. «Uran?»
    «la signora ha detto... che siete strani.» borbottò. Si fece pi convinto man mano che tirava fuori le parole «lChe siamo strani. Che non dovrei andare a scuola con gli altri bambini»
    «tesoro, noi siamo strani» mosse la mano per mostrare una pallina di luce creata dal nulla, che fece girare fra le dita e che usò per fargli il solletico e strappargli una risata. «Tu ci vuoi bene così?»
    Uran annuì «Allora tutto a posto... comunque, non dire a papà che l'ho detto, ma hai fatto bene a rovesciare casualmente quel succo»
    Jaden si sporse in avanti, gli posò un bacio leggero fra i capelli mentre il bambino sorrideva e l'abbracciava.
    Dopo un attimo, Jade si riavvicinò a Euge e Piz, di nuovo una mano sulla sua spalla, l'altra a tenere Uran finchè non sarebbe scappato di nuovo.
    «È quasi ora, giusto?» anche perchè non ricordo se avevo visto a sta notte o domani
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    thief.
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    post super inutile ??? ma così dico che jade c'è ed è con uran vicino a euge e piz

    penso baby anakin sia più grande di uran ma not my problem. fra l'altro cercando le gif mi era uscito euge julie
     
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    William Barrow era il paladino delle cause perse. Amava definirsi un sognatore pragmatico, di quelli che nelle storie impossibili ci mettevano testa e mano fino a renderle reali. Prendevano i disegni di un mondo ideale ed utopico, e lo modellavano con la creta fino a dargli forma e profondità. L’aveva fatto con la Resistenza, dando ordine al caos di una Gran Bretagna in subbuglio, quand’era poco più di un ragazzino, ed aveva continuato a farlo anche quando nessun altro ci aveva creduto. Quando al mondo non rimaneva un cazzo d’altro per cui combattere, William c’era, a grattare il pavimento soffiando la polvere in faccia a tutti i figli di puttana che avevano cercato di seppellircelo sotto. Tornava sempre, aggrappato a rocce di fortuna, perché ci credeva. Perfino in un mondo nel quale la sua mera esistenza offendeva nemici e potenziali amici, William Yolo Barrow ci credeva, abbastanza da essersi reso il punto fisso di un universo in continua evoluzione.
    Come ribelle.
    Come padre.
    Come l’uomo che all’altare scambiava convenevoli con gli invitati al suo matrimonio.
    Akelei Beaumont era stato il sogno più impossibile di tutti.
    Rincorso per anni senza interesse concreto, perché il bello dei sogni era che rimanessero tali. Il William adolescente che batteva languido pigre ciglia bionde prendendo le dita sottili di Akelei per posarle sul proprio collo, e ivi premere le impronte delle unghie laccate di rosso, la voleva solo astrattamente. Un desiderio carnale, placato in sospiri caldi e labbra e denti. Proibito. Una sfida ed una questione di principio, perché chi mai avrebbe detto che un qualunque William potesse sedurre una Beaumont? Avrebbe mentito, Will; negli anni, avrebbe detto che fosse stato amore a prima vista, ed avrebbe ricordato, sincero, di quando a quattordici anni aveva giurato che l’avrebbe sposata, ma non era stato amore a prima vista. La storia di Akelei Beaumont e William Barrow, per quanto Will ai posteri l’avrebbe dipinta come tale, non era una favola. Era una storia nuda, cruda, e violenta, fatta di bugie e letti sfatti e parole incastrate fra i denti, di anni senza vedersi e profumo sulle lenzuola; di non ricordarsi a vicenda, solo per tornarsi alla mente tutto insieme. Di due carriere diametralmente opposte, ma entrambe soffocate nel sangue. Di morti; di colpe.
    La verità era che non erano stati niente per tutta una vita, Will e Ake.
    Conoscenti di famiglie ricche e capricciose. Amanti rivoltosi ed annoiati. Adulti schiavi del desiderio. Poi era successo e basta: che Will allungasse una mano chiedendo ad Ake di rimanere; che la Beaumont indugiasse dove sapeva avrebbe transitato il Barrow per incontri fortuiti che al Fato avevano sempre lasciato poco. Ricordava una notte in cui il temporale all’esterno del suo appartamento aveva fatto vibrare i vetri della finestra illuminando la stanza a giorno, ed Akelei aveva stretto occhi e pugni; ricordava di averle preso la mano nella propria, forzandola ad aprirla, per intrecciare le dita alle sue, e ricordava di averla stretta contro il proprio petto, soffiando caldo un bacio sulla guancia, nascondendo entrambi sotto il lenzuolo. Non c’era stato nulla di sessuale, per una volta, ed in quel gesto, Will aveva inevitabilmente lasciato l’impronta del suo divenire inamovibile e concreto; aveva preso i fili d’oro della chioma di Akelei portandoli in un mondo tragicamente e drasticamente umano, quando li aveva respirati a pieni polmoni.
    Era successo e basta, che diventasse reale. Sempre impossibile, ma reale.
    Ed aveva continuato a succedere, perché una volta persa la presa sul terreno, non aveva più avuto alcun senso resistere. Aveva continuato a cadere, perché cadere per Akelei Beaumont era la cosa più naturale e spontanea del mondo – l’unica che sentiva gli appartenesse completamente, di cui fosse stato l’unico artefice perfino nel suo peggio. Non era stata una scelta quella d’inciampare, ma lo era stata rimanere per tutta la caduta. Anche quando faceva male. Di più, perfino. Non aveva potuto impacchettarle il suo essere William, perché quello era destinato alla Ribellione, ma aveva potuto infiocchettare il cuore annerito ed ammaccato che non aveva lasciato a nessun altro, perché se non a lei, a chi. Non poteva promettere tutto il suo futuro, William - anche se avrebbe voluto - e non poteva assicurarle che non l’avrebbe mai fatta soffrire - Dio, se avrebbe voluto - ma quello? Quello dipendeva solo da lui. Quell’amore selvatico, tenuto all’ombra per un’intera esistenza in favore di tutto il resto, perché nel Barrow c’erano prima la testa e poi l’anima. Poco avvezzo agli altri, e sicuramente mai stretto da altre mani, ma leale; feroce e crudele e solo suo.
    Non sapeva quando fosse successo, ma era successo. Giorni, mesi, anni, era successo. Erano cresciuti, cambiati; si erano persi e ritrovati.
    Non l’aveva mai amata per errore.
    Se n’era innamorato accorgendosene ogni giorno. Ogni fottuto giorno, William Barrow aveva saputo di amarla un po’ di più, e non aveva smesso anche sapendo a cosa sarebbe andato incontro. Non l’amava con l’abbandono ed il trasporto giovanile. Non l’amava con la devozione di una religione, cieco alle sue imperfezioni. La amava perché non avrebbe avuto senso non farlo. La amava perché lo rendeva felice, e completo, e reale, strappandolo al piano ideale in cui era un ribelle, ed un Barrow, ma così di rado una persona da rischiare di dimenticarlo. La amava perché , cazzo. Perchè . Perchè se tutti quelli che avevano usato quell’amore per condannarlo avessero davvero conosciuto la sua Akelei Beaumont, nessuno avrebbe potuto fare altro se non amarla. Amarla e basta, senza tormentarsi su cosa facesse per lavoro, da che parte stesse della sempre verde guerra che sconquassava le nazioni. In un mondo ideale, non avrebbe dovuto rendere conto a nessuno di come amasse Akelei.
    Quello non era un mondo ideale.
    Quando William aveva annunciato ai membri della Resistenza che si sarebbe sposato, li aveva anche informati che se la questione fosse stata un problema, il mondo era grande e loro erano liberi di scegliersene un altro lato. Non c’era stato margine di discussione pacifica, perché non erano cazzi loro con chi volesse passare il resto della sua fottuta vita. Sì, si scopava il nemico; sì, ci aveva anche messo al mondo dei figli; sì, intendeva farne altri; sì, voleva tenersela per tutto il tempo che gli fosse stato concesso – che immaginava essere breve: nessun William Barrow poteva arrivare ad invecchiare, neanche uno con una famiglia. - e , cazzo, la amava, e non doveva giustificarsene con nessuno. Non interferiva direttamente con loro. Era un rischio di Will: se fosse stato compromesso, avrebbe agito di conseguenza. Se avesse dovuto scegliere fra i Ribelli ed Akelei, sapeva cosa avrebbe scelto.
    Ma chi mai avrebbe potuto domandargli di farlo. Perchè avrebbe dovuto.
    Chi, guardando l’espressione gioiosa e onesta di William all’altare, avrebbe potuto pensare di obbligarlo a scegliere. Era felice. Per anni aveva pensato di non poterselo permettere, ed invece era felice, cazzo. Più di quanto avrebbe dovuto permettersi, tutto considerando. Incapace di togliersi dalle labbra il sorriso, e dagli occhi un amore di cui non si era mai vergognato, perché non pensava esistesse al mondo qualcosa di meno sbagliato dell’amare Akelei Elair Delacroix-Beaumont.
    Puoi fare affidamento su di me, spero che tu lo sappia.
    Per quanto? E se fosse fino a che morte non ci separi?
    Sì. Certo che sì.

    Quando tutto andava male, ed accadeva spesso, quel preciso momento gli impediva di perdersi. Pochi minuti rubati ad una festa per bambini, con indosso il costume di Elsa di Frozen, in sottofondo le risate degli infanti ed una musica che per mesi avrebbe popolato i suoi incubi.
    Lo sguardo sincero e morbido di lei.
    Le mani strette fra loro.
    L’orma (per intero no, quello l’aveva già donato da un pezzo.) del cuore sulla lingua.
    Il filo del vestito sull’anulare di Akelei. Una domanda che sapeva di promessa.
    Di voto.
    Quel mondo, William Yolo Barrow, l’avrebbe cambiato anche per lei. Non gliene fotteva un cazzo che Akelei combattesse dall’altra parte, e rappresentasse tutto ciò che in quella società non andava. Non funzionava così: non si amava solo chi lo meritava, e non si combatteva solo per chi sapeva apprezzarlo. Aveva odiato desiderarla quand’era stato più giovane, e stupido, ma mai, mai aveva rimpianto essersi innamorato di lei. Gli aveva fatto apprezzare vivere, lui che per venticinque anni si era limitato a sopravvivere (e neanche sempre); gli aveva donato tutti i colori di cui si era privato.
    Una famiglia. Avevano una cazzo di famiglia.
    Scomposta, disfunzionale. Era successa e basta, con quel guazzabuglio di bambini e non più adolescenti a cozzare fra loro e trovarsi sempre, completando un quadro altrimenti difettoso.
    Li guardò.
    Erano tutti lì, ciascuno a portare qualcosa di suo ed Akelei – l’espressione, la forma delle labbra, il colore degli occhi. Erano lì, a testimoniare che quel che erano lo erano già stati, perché Will ed Akelei si erano già persi e trovati una volta. Scelti ed amati.
    Non era una favola, ma la sembrava. William Yolo Barrow era del tutto intenzionato a prendersi il suo lieto fine con le unghie e con i denti, se necessario.
    Spostò lo sguardo sul resto della famiglia. Niamh, che perfino in quel momento, se il labiale non lo stava tradendo, gli chiedeva quale droga avesse somministrato ad Akelei per convincerla a sposarlo; Eugene, gli occhi gonfi di lacrime che sapeva lo sarebbero stati anche senza gli ormoni della gravidanza a pesare sulla sua emotività; Mitchell, che c’era stato sin dall’inizio, e Nelia, che di dubbi su di loro non ne aveva mai avuti. Scambiò un cenno con ciascuno di loro, rimbalzando inevitabilmente il sorriso sul volto dei suoi bambini un po’ cresciuti.
    Sarebbe sempre atterrato su di loro, lo sguardo ceruleo del Barrow.
    Li amava, sapete. Perfino gli acquisiti recenti. E quel tipo d’amore, al contrario di quello che provava per la madre, non era razionale - lo sapeva. Non riusciva a sentirsene in colpa, pur essendo una creatura generalmente logica. Non aveva senso che li amasse, ma non aveva bisogno che lo avesse. Le prime note di organo gli fecero saltare il battito in gola.
    Non era nervoso. Perchè avrebbe dovuto? Non c’era nulla di cui fosse più certo al mondo che di volere quella vita, con la donna che sapeva avrebbe percorso la navata di lì a poco. Era emozionato, ed abbastanza certo che entro fine cerimonia avrebbe dovuto chiedere al* Jackson dei fazzoletti per le proprie lacrime, ma non agitato.
    Vide Akelei, e si sentì ancorato. Un punto fermo. Il giorno dopo il mondo avrebbe potuto finire, ma lui avrebbe avuto quel momento: l’istante in cui aveva visto Akelei Elair Delacroix-Beaumont fare il primo passo verso il loro per sempre.
    Reale. Era tutto fottutamente reale.
    Un passo, ed il pensiero tornò al Barrow che la osservava fra i corridoi di Hogwarts.
    Due passi, ed erano alle infinite cene di famiglia dell’elite inglese.
    Tre passi, ed era Will a domandarle perchè lo stessero facendo.
    Quattro, ed erano in Francia al loro primo vero appuntamento.
    Cinque, e Akelei bisbigliava di amarlo come un segreto ed una confessione.
    Sei, e Barrow si presentava come Lynch Beaumont-Barrow.
    Sette, le foto con Lynch e Ronan e Meara e Eli Jr ed Elizabeth e Renèe.
    Otto, ed un infermiere aveva fasciato la mano del neo papà, graffiata a sangue dalla neo mamma, perché potesse prendere in braccio i due neonati.
    Nove, ed era ogni mattina con la testa di Akelei sul proprio petto.
    Dieci, e la Beaumont lo guardava dal tavolo della cucina mentre falliva nel preparare pancake.
    Undici, per quanto?
    Dodici, un giorno? Un mese?
    Tredici, e se fosse per sempre?
    Quattordici, ed era lì. Alla base dei gradini.
    William aveva occhi solo per lei. Il viso dai tratti delicati, le labbra decise, i curiosi occhi acquamarina a minacciarlo silenti di non fare stronzate, William. e ma quindi è vero che ti amo, e sì, sì cazzo, era proprio vero, e le sorrise perché non avrebbe fatto stronzate, e stava succedendo davvero. Akelei aveva sempre avuto una bellezza disarmante, ma non si era mai sentito interamente devastato quanto in quel momento. Non era l’abito a fare la differenza, perché per guardarlo avrebbe dovuto distogliere lo sguardo dal volto di Akelei e non voleva; di certo non il trucco, anche se la rendeva eterea ed inaccessibile. Era la gioia. Akelei era felice, e William continuava a pensare sono stato io; è di noi che è felice, e non poteva che meravigliarsene. La guardava come fosse la cosa più bella che avesse mai visto, perché la era.
    «beaumont» soffocò a mezza voce, incapace di farcire quel saluto dell’usuale ironia. Si obbligò a deglutire. A respirare. Offrì la mano perché potessero stringerla fra loro, aggrappandosi a lei come un naufrago in mare aperto. Si sentì abbastanza se stesso da mormorare «hai fatto perdere un sacco di soldi ad un sacco di persone» perché avevano scommesso che non si sarebbe presentata, ed invece potevano tutti succhiargli l’uccello (platonicamente, s’intendeva: non poteva più permettersi certe libertà, l’adulterio era un peccato!), e si tacque subito dopo, persistendo nel sorridere.
    Devastato. Distrutto.
    William Barrow sarebbe morto da uomo felice, perché anche se non avesse avuto nient’altro, aveva avuto quello.
    Il momento delle promesse. Le dita di Will tremarono, nel cercare quelle di Akelei. Strinse i polpastrelli sulla solidità dorata dell’anello, sospirando di sollievo quando scivolò sull’anulare della donna. Non si tornava indietro da quello. Con la mano libera, frugò nella tasca della propria giacca.
    Avevano già avuto quel momento.
    Il giorno prima, con pochi intimi a testimoniare la vulnerabilità di quel sentimento.

    Una prova, avevano detto ai figli trascinati fuori dal letto di ritorno da addii al nubilato e celibato più o meno distruttivi. William l’aveva guardata, accarezzando l’anulare dove sarebbe andata a posarsi la fede, e non aveva mai distolto lo sguardo dai suoi occhi, mentre le diceva
    “Non ti ho amata dal primo istante. E neanche dal secondo.
    Eri un capriccio. Un vizio. Eravamo bambini, e non era il nostro momento. Dovevamo crescere per capirci, e trovarci. E tenerci, prima come un segreto e poi con il timore di perderci di nuovo.
    E magari ci perderemo, un giorno. Ma voglio poter dire che ci abbiamo provato, Ake. Non riesco ad immaginare un solo maledetto istante della mia vita in cui tu non ci sia, e non voglio farlo.
    Sei stata il mio passato, sei il mio presente, e mi renderesti l’uomo più felice del mondo se rimanessi il mio futuro. Lo voglio con te. Questa famiglia, la voglio con te. Questa vita, Akelei Beaumont, la voglio con te. Voglio svegliarmi avendoti al mio fianco, ed addormentarmi con il tuo respiro a scandire la notte. Voglio continuare a sceglierti. Voglio indicarti il primo capello bianco e premere il pollice sulle rughe vicino alle labbra, sapendo che quei sorrisi sono stati anche miei.
    Voglio continuare a crescere con te. Invecchiare con te.
    Non ho mai amato nessuno quanto amo te.
    Non abbiamo avuto quel primo istante.
    Con questo anello, mi impegno ad essere l’ultimo”


    Prese il foglio dalla tasca.
    Un post it. Stropicciato, per giunta. Battè le palpebre per scacciare le lacrime, e riuscire a leggere l’inchiostro sbavato sulla carta. Il sorriso a curvare le labbra, era solo per Akelei.
    Lei sapeva. Del resto del mondo, non gliene poteva fottere un cazzo di meno.
    Lo girò perché potesse leggerlo, prima lei e poi gli invitati delle prime file, senza mai distogliere lo sguardo dalla donna.
    Un respiro. Due.
    Il cuore in ogni dove.
    «”ti amo”», lesse comunque.
    Prima di baciare sua moglie.
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    Going straight to my head like you used to
    Wouldn't change anything
    that we've been through
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    straight
    to my head
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    sconclusionato ma entusiasta come me. did i cry? a little. nobody's business.
    se speravate di avere indicazioni da me su come si procederà da qui in poi, avete sbagliato persona.
     
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    Ad Akelei Beaumont non era mai piaciuto William Barrow. Era un dato di fatto, innegabile e palese in ogni smorfia delle labbra e occhiata bieca mal celata. Non che facesse nulla per nasconderlo, non doveva niente al Barrow, tantomeno la propria discrezione. A dire la verità, erano ben poche le persone che andavano a genio ad Akelei, sarebbero bastate le dita di una mano per misurarle quindi, davvero, non era niente di personale. Incorniciarlo come qualcosa di personale avrebbe richiesto un livello di interesse ed attenzione nei confronti di William che non possedeva. Quindi, cos’era cambiato? Niente, e al contempo tutto. Non c’era stato alcun grande, irrimediabile evento scatenante dal quale era stato inutile sottrarsi. Era stata una scelta, all’inizio inconscia, niente di più che un indugiare di un palmo sulla pelle per qualche momento di troppo, una parola incastrata in gola che mai avrebbe dovuto trovarsi lì. William Barrow non rappresentava altro che un passatempo, uno sfizio che si era concesso in un momento di lucidità dubbia, un segreto che preferiva lasciare tra le lenzuola e le prime luci dell’alba. Ce n’erano stati tanti prima di lui, ed era certa che ve ne sarebbero stati altrettanti dopo. E così era stato, uno dei tanti corpi che avevano fatto il suo gioco e di cui si era disfatta senza un secondo pensiero. E allora perché aveva scelto di tornare sui suoi passi, lasciare che William la corrompesse con ogni bacio e sospiro rubato fino a che non ne aveva potuto fare a meno? Una scelta conscia, seppur senza alcuna spiegazione razionale. Se quindici anni prima qualcuno le avesse detto che avrebbe avuto dei figli con William, il solo pensiero sarebbe stato abbastanza da farle alzare la bacchetta. Lo stesso poteva dirsi cambiando di poco quel numero, dieci anni o cinque che fosse. Perché le possibilità che succedessero rasentavano il suolo, un concetto astratto che mai avrebbe preso forma se non in un ludico scenario. Perché quell’impacciato corvonero a cui non aveva mai rivolto più di uno sguardo accidentale, il ragazzino tutto arti lunghi e scoordinati e una sigaretta a pendere dalle labbra, non sarebbe dovuto essere che un dettaglio sfocato sullo sfondo di una tela già dipinta. Ma le possibilità non erano mai zero, e Akelei non era così imperturbabile come le piaceva credere. Ne aveva avuto la prova quando aveva lasciato che William avvolgesse quel fru fru attorno al suo anulare, o quando aveva stretto per la prima volta tra le braccia i suoi figli, quando aveva lasciato che lo sguardo chiaro e fin troppo limpido incontrasse quello di William e aveva capito di essere fottuta per sempre. Non importava in che linea temporale fosse, perché in ognuna di esse William e Akelei avevano promesso di amarsi a loro modo, ogni difetto e ogni pregio, fino all’ultimo respiro. Che fosse sul letto d’ospedale di una città ormai in rovina, sullo sfondo di un campo di battaglia, o qualsiasi cosa avesse in serbo per loro il Fato. Una mano invisibile che muoveva le pedine della scacchiera a suo piacimento, una danza bendata a cui non avevano mai chiesto di fare parte. Irrazionale, senza una spiegazione, come avrebbe dovuto esserlo l’apparizione di Barrow e Sersha, di Madelaine, di Elizabeth e infine di Ronan e Renaissance. Renaissance, il Generale dell’Esercito, un ragazzo di una compostezza e sangue freddo che era difficile da incontrare alla sua età, che appena le aveva mostrato le foto a lungo custodite aveva lasciato trapelare tutta la fragilità di un ragazzo di ventisei anni. Che la guardava come se fosse un fantasma, e le parlava come se la conoscesse da tutta la vita. In un certo senso, supponeva fosse così. Qualche giorno prima della cerimonia vera e propria, riunita con pochi intimi in una piccola cappella, si era guardata intorno: la vita che aveva costruito, il passato e il futuro che erano stati e la aspettavano, la sua famiglia. Ed era stato allora che aveva aveva indugiato su quella composizione insolita e spaiata, suoi figli che aveva ritrovato nonostante tutto, e aveva confessato che era felice che fossero tornati a casa. La sua famiglia. La loro famiglia.
    Ma, in quel momento, Akelei non si trovava più in quella cappella.
    Si trovava nella sala da pranzo della villa, intenta a rubare un bacio a William dopo la colazione, con la promessa che no, non sarebbe fuggita via. Aveva già avuto la sua occasione anni prima, ed era stata felice di ignorarla.
    Si trovava nella camera di cui aveva fatto il proprio campo da guerra. Tra una passata e l’altra di fondotinta esaminava la situazione, provvedeva a indirizzare Eugene da una parte all’altra dell’edificio per sistemare gli ultimi dettagli. Era dove finalmente era riuscita ad avere Ivette, Lydia ed Archibald sotto uno stesso tetto, un’occasione più unica che rara. La famiglia che le era rimasta, alla quale aveva scelto di non voltare le spalle.
    Si trovava dietro alle porte che l’avrebbero condotta all’esterno, la presenza di Nelia l’unica cosa a tenerla ancorata a quel momento. Le aveva preso una mano e l’aveva stretta, un ringraziamento che nascondeva più di quello che l’occhio vedeva. Grazie per esserle rimasta accanto nonostante tutto, anche quando era diventato tutto un po’ troppo, che era felice ci fosse lei al suo fianco quel giorno.
    Si trovava davanti a William. La sua eccezione, il suo per sempre. Ricambiò il saluto, voce più tirata di quanto avrebbe voluto, l’emozione a strabordare da quella manciata di sillabe «barrow» un cenno del capo, le dita che si intrecciavano e che stringevano un po’ più forte. In quel momento, Akelei si dimenticò delle centinaia di invitati appena a qualche metro da loro, perché non vi era altro che William ai suoi occhi. «hai fatto perdere un sacco di soldi ad un sacco di persone» nonostante la tensione e i nervi del momento, quello riuscì a strapparle una risata. Una risata viscosa e strozzata, dal sapore appena salato sulle labbra «dio, quanta poca fiducia» scosse appena il capo, i rimasugli della risata a curvare ancora le labbra dipinte.
    Finse di non notare il leggero tremore nelle mani di William, perché farlo avrebbe implicato riconoscere il proprio di tremore. La fede scivolò al dito del Barrow senza problemi, suggellando una promessa che si erano fatti da tempo, e che avrebbero continuato a farsi con il passare degli anni.

    ”Lo sai, non credo nel destino. Non credo che ci sia un percorso predeterminato a cui aderire, ma solo quello che ci forgiamo da soli ogni giorno.
    Ci siamo persi e ritrovati negli anni, lasciati e ripresi, e la nostra storia sarebbe potuta finire così. Niente di più che un qualcosa che sarebbe potuto essere, una connessione mancata.
    Quella di amarti è stata una scelta, non un qualcosa accaduto per caso o per volere del Fato, ed è stata la scelta migliore che abbia mai fatto. E la rifarei altre mille volte, in qualsiasi vita.
    Non sono una persona ottimista, so che ci sono delle sfide davanti a noi, momenti difficili che ci metteranno alla prova. Ma so anche che non importa quello che dovremmo affrontare, troveremo sempre la strada di casa.
    Sei la mia famiglia, il mio per sempre, e prometto di amare ogni tuo pregio e ogni tuo difetto fino all’ultimo respiro. ”


    Osservò il post-it stropicciato, l’attimo di confusione presto sostituito a qualcosa di indescrivibile a gonfiarsi nel petto, un’emozione che trasbordò e che appannò il mondo. Cristo santo, William Barrow. Se l’era scelto lei, e l’avrebbe fatto altre cento volte. «ti amo, william» premette le labbra a quelle di suo marito, il suo presente e futuro. Fino a che morte non avrebbe tentato di separarli.

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    La sposa entra su queste note.

    Vi spammo senza alcun ritegno la bacheca per il matrimonio e la playlist che accompagnerà la magika serata.

    Vi ricordo che potete rispondere anche senza aver postato l'entrata! Il momento della cerimonia vera e propria è finito, ma non potete ancora andare in pace perché vi aspetta il ricevimento con cena/balli/open bar. Se avete portato dei bambini vi invito a mollarli al baby parking, perché non c'è bisogno che vedano i genitori fare i clown. I clown sanno di chi parlo ♥
    Amen.
     
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    Se Hyde era solo discretamente ubriaco, lo doveva all’essere stato invitato in qualità di Capo del Consiglio, costretto dalle regole della società e della civile convivenza a mantenere serietà e professionalità perfino ad un lieto evento come il matrimonio di una collega. Con più whiskey in corpo, non sarebbe mai stato inopportuno quanto buona parte del resto della sua famiglia, ma voleva comunque evitarsi errori da principianti come perdere l’equilibrio di fronte a tutti quei cazzo di avvoltoi; il compromesso era quello stato di discreto torpore che lo rendeva impermeabile all’ambiente circostante.
    Non sentiva niente. Soprattutto, non voleva sentire niente.
    Le lenti scure coprivano interamente lo sguardo turchese del biondo, il cui pallore della pelle era paragonabile solo al lungo vestito della sposa. Se l’avessero tenuto esposto ai raggi del sole per più tempo del necessario, sarebbe virato in fretta al resto della palette di quella celebrazione – un viola cianotico e malato. - e forse un po’ ci sperava. Poco interessato alla cerimonia, l’attenzione di Hyde non era rivolta agli sposi, quanto più all’allampanata testa di uno dei testimoni dello sposo.
    Capiva Barrow. Sersha. Perfino Joe. Ma Renèe. Non riusciva ad immaginarsi al suo posto, con lo storico che si portavano entrambi alle spalle. Sull’altare, a testimoniare l’unione dei genitori che in un altro tempo l’avevano cresciuto, e che in quello neanche sapevano chi cazzo fosse. Si sforzò di non cercare l’abito azzurro di Maeve fra le panche, preferendo atterrare un assente occhiata protetta dalle lenti scure – no, neanche per il rito aveva ritenuto opportuno privarsene - sulla persona al proprio fianco. Si chiese se Bertuccia (gender neutral, cit) stesse pensando la stessa cosa.
    Si disse che non aveva importanza, come sempre. Quella vita se l’erano scelta, e non gli rimaneva che attaccarsi al cazzo e tirare forte. Aspirò il labbro inferiore fra i denti, affondando una mano nella giacca, di un grigio così scuro da apparire nero, per poter prendere la fiaschetta custodita nella tasca interna. I brillanti (ebbene sì, come un cazzo di Cullen) sull’abito, perfettamente abbinati a quelli della sua accompagnatrice, scintillarono alla luce prendendosi beffe della sua anima scura e priva di colori; mentre William Barrow diceva ad Akelei Beaumont di amarla, bevve un altro sorso di whisky desiderando di essere ovunque eccetto che lì.
    La reclinò poi verso Bertie, perché era un gentiluomo. «vuoi?»

    Maeve Winston era nervosa. Il sorriso sulle labbra era plastico e forzato, ma dubitava qualcuno ci avrebbe dato più peso del necessario: non aveva mai nascosto la propria animosità nei confronti di Barrow Senior, e chi non conosceva il retroscena, poteva imputare la sua staticità a quello. Non lo era. Era vero che Will non le piacesse – condividevano un ideale, ma non le modalità per raggiungere il medesimo obiettivo – ma sarebbe andata a quella celebrazione anche se l’etichetta non l’avesse imposto: aveva passato anni con William ed Akelei, nel futuro, e li aveva visti… crescere. Diventare quel che erano in quel momento su quell’altare. Una sensazione buffa, vederli lì; sapeva tanto di melanconia. Non era comunque quello l’unico motivo che l’aveva spinta ad indossare il suo abito migliore, un lungo vestito azzurro pastello ricamato sul busto, e le sue scarpe più scomode, e no, non c’entrava Barrow Skylinski, anche se faceva parte del movente tanto quanto essere stata testimone dell’evoluzione dei genitori.
    Era una situazione altamente critica. Estrema, e pregna di rischi. Tutte le cariche più alte del ministero, al matrimonio del capo della resistenza britannica, promesso in sposo alla responsabile dei cacciatori? Era benzina, ed una miccia già accesa. In un mondo migliore, avrebbe creduto che un matrimonio – che quel matrimonio – fosse di suo un deterrente ad agire in maniera violenta, avevano così pochi momenti felici che rovinarli sembrava controproducente verso tutto ciò in cui credevano, ma non vivevano in un mondo migliore. Vivevano in quello, e quello era reale e crudele.
    Da un punto di vista prettamente logico, si rendeva conto che qualcuno potesse reputarla l’occasione perfetta.
    Ed ecco perché era nervosa.
    Continuava a ripetersi di essere solo paranoica; ci credeva solo a battiti alternati.
    Alzò lo sguardo alla propria sinistra, osservando il profilo di Al, e lo spostò a destra, cercando il mezzo sorriso - che Maeve neanche era certa sapesse di star indossando – di Jade, sapendo che avessero le stesse preoccupazioni, ma fossero entrambi migliori di lei a nasconderlo.
    Così sul fondo, che non potè fare a meno di domandarsi se Jade sapesse qualcosa. In altre circostanze, la Beech sarebbe stata una delle prime a proporsi per agire, fosse anche solo lanciare vernice rosso sangue sugli invitati alla cerimonia, ma conosceva William ed Akelei, e sapeva quanto quella giornata fosse importante anche per Eugene.
    Conosceva sua sorella abbastanza da non escluderlo comunque.
    (still love her, tho)
    Si sporse in avanti, attirando su di sè lo sguardo serio di Uran per offrirgli una linguaccia, a cui il suo nipotino sorrise. Le mancavano le sue bimbe, ma per quel giorno erano rimaste a casa (nel mio headcanon, River ha voluto rimanere con le sorelline perché è il fratello maggiore e deve proteggerle da ogni male TM, ma rimbalzo la palla a genitore 2. Ciao Al): William aveva detto che se qualche infante avesse pianto durante la cerimonia, Akelei l’avrebbe mangiato; Maeve aveva creduto scherzasse, ma meglio prevenire che curare.


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    vi stupirò dicendovi che non parlano con nessuno.
    è ancora ambientato durante la cerimonia (hyde offre da bere a bertie.) ma vi terrò aggiornati sugli spostamenti TM. Intanto se volete postare, andate pure a cazzo duro di ignoranza come preferite. CIAO AMICI AIUTO TROPPE EMOZIONI MA AVETE LETTO ODDIO SI SONO SPOSATI è SUCCESSO è SUCCESSOOOOOOOOOOOO DA QUALCHE PARTE DOVEVOE EMOZIONARMI, E NON SARANNO I MIEI PG A FARLO PER ME PERCH SONO DELLE MERDINE!!!!!!!!
     
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    «è il primo matrimonio a cui sono stata invitata» Scosse appena la treccia oltre le spalle, Heidrun Crane, abbastanza da non sentire più la punta affilata del sai, usato come fermaglio nella chioma bruna, pungerle la base del collo. Sospirò, satolla e felice, affondando con l’usuale poca grazia su una delle sedie riservate al pubblico. Non nelle prime file, non era da lei, ma neanche nelle ultime, perché voleva essere abbastanza vicina da assorbire per osmosi gli heart eyes di Akelei e Will – soprattutto la prima, ma aveva passato bei momenti (pump pump!) con entrambi, e non era tipa da sputare nel piatto dove aveva mangiato. Nel mezzo, come piaceva a lei: dopotutto, non c’era faccia che non conoscesse, lì in mezzo. Non necessariamente una nota positiva.
    Di sedie c’erano parecchie, a quella celebrazione. File e file e file; dovevano essere almeno un centinaio.
    CJ Knowles alzò gli occhi al cielo, lì fermandoli sul piatto azzurro della Provenza, ed appiattì la lingua sul palato: tante, sedie. Avrebbe dovuto immaginarlo che se ci fosse qualcuno in grado di sfidare ogni legge della probabilità, quel qualcuno sarebbe stata sua madre. Scorreva nel sangue, uh? Umettò le labbra, mimando la posa della mimetica al proprio fianco: gambe divaricate, schiena affondata sul sedile, capo leggermente reclinato sulla spalla. La osservò di sottecchi, prendendo marginalmente nota dell’outfit stranamente… sobrio della donna che, in un’altra linea temporale, l’aveva messo al mondo. Dal canto proprio, CJ essendo CJ, non era uscito dal personaggio. Indossava un completo elegante, certo; giacca e pantaloni abbinati, perfino. Poi c’era la camicia, canonicamente già sbottonata fino a metà busto, e la cravatta appesa slacciata al collo. I vibes del mi sono svegliato così, non erano poi così lontani dalla verità. «non sei mai stata ad un matrimonio?» biascicò, attorno alla sigaretta spenta. Quando Run ruotò gli occhi verdi su di lui, gli venne quasi da ridere.
    La stessa sfumatura. E lo stesso sguardo, piatto ed annoiato, ma sempre affilato. Passò il pollice sulla guancia per assicurarsi di non essersi tagliato.
    «ho detto invitata. per chi mi hai presa» Scrutò il Knowles a palpebre assottigliate, soffermandosi sulla cravatta abbandonata al collo. Sorrise, lenta e sorniona, allungando una mano per sollevarla e farla ricadere sul petto. C’era qualcosa, in quel CJ; c’era sempre qualcosa su cui non riusciva a mettere il dito, ma che le fece drizzare la schiena e sospirare tutto assieme. Familiare, forse. Più intimo del già visto. Lo osservò una manciata di secondi in silenzio, seguendone lo sguardo verso l’altare. Provò una punta di invidia nel far scivolare gli occhi sul Barrow, per quanto capriccioso ed infantile fosse. Era felice per lui, lo era davvero, ma non poteva impedirsi di farsi La Domanda.
    Tipo perché il suo Will ci stesse mettendo tanto. Cercava di non pensarci e convincersi che fosse merito, mai colpa, sua; che non fosse pronta, e stesse rimandando, e che fretta c’era?, ma le questioni in sospeso di Gemes Hamilton stavano prendendo più spazio di quanto la Crane si fosse aspettata, e – Deglutì, scuotendo il capo.
    «è troppo bella per te» Sollevò un angolo delle labbra, una bieca occhiata all’ex Tassorosso.
    Manco fosse stata la prima volta che glielo diceva. Non lo ricordava, CJ Knowles, così come non poteva saperlo, Run, ma avevano già avuto quella conversazione – ed esattamente come l’allora CJ Hamilton, la sua unica risposta fu un dito medio alzato alla guancia, dove lo premette fino a lasciarci l’impronta. Non aveva creduto fossero cazzi suoi quando a darle ragione c’era stata Meara Beaumont, figurarsi quando a sollevare un dito alla gola da metri e metri di distanza c’era Sersha Kavinsky. CJ offrì anche a lei il gesto volgare che meritava, e se sembrò più una promessa che una minaccia, non erano cazzi vostri.
    «però sono il suo +1, pensa. Il tuo ha già iniziato a piangere?» Si raddrizzò, lanciando un’occhiata alle proprie spalle alla ricerca della testa (bionda…?) di Murphy Skywalker. Sua cugina. Il suo appuntamento per il matrimonio, era sua cugina. Quando sorrise a mamma cara, ferino e brutale, sapeva non fosse un sorriso piacevole.
    Per inciso, sì, Murphy stava già piangendo.
    Heidrun sibilò offesa fra i denti, alzandosi ed allungando le dita per strizzarle sulle guance del degenerato che in un altro tempo – un altro ancora! - padre Shaw aveva adottato, rendendolo ufficialmente il suo non ufficiale figlioccio. «sono già tutti vestiti eleganti, non facciamolo diventare un funerale» si chinò anche per premere le labbra sulla testa, prima di piroettare sul posto e scivolare fra le file fino a trovarsi vicina al salice.
    «baby» le diede un colpetto con la spalla, avvolgendola in una stretta. «non un vezzeggiativo. Aspetta almeno che cominci» con tanto di lieve percussione come fosse stata una pignatta.
    You must've made some kind of mistake
    I asked for death, but instead I'm awake
    The Devil told me, "No room for cheats"
    I thought I'd sold my soul,
    but he kept the receipt
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    giusto perchè la linea temporale non ha senso, QUESTO post è ambientato PRIMA della cerimonia.
    oggi mi sento chaosbringer
    run parla con murphy, e basta. non fanno niente.
     
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    A Dominic piacevano i matrimoni; l’atmosfera festosa, l’emozione sul viso degli sposi, la sensazione che tutti potessero semplicemente innamorarsi da un momento all’altro, la preparazione nei minimi dettagli, i vestiti eleganti e gli accessori costosissimi – diciamoci la verità, tutte queste cose erano proprio la sua tazza di tè: ci sguazzava dentro e allo stesso tempo se ne saziava. Eppure, quelle situazioni sociali piene di gente avevano il terribile potere di farlo tornare bambino e di fargli sentire quel familiare vuoto allo stomaco che lo assaliva quando partecipava agli importanti eventi di casa Cavendish e ministeriali e famiglie di alto rango iniziavano a ronzargli attorno, facendogli schizzare alle stelle la paura di poter fare, dire, o anche solo pensare qualcosa di sbagliato, di muovere solo mezzo passo falso e di rovinare tutto. In quel preciso momento storico, poi, l’ex corvonero sentiva più di ogni altro momento la sensazione di poter soccombere da un momento all’altro se sottoposto a una pressione simile – non sarebbe preciso dire che dopo quello che era successo, dopo la guerra, Dominic era semplicemente sparito dalla circolazione, ma in un certo senso non era neanche una descrizione molto lontana dalla realtà. Non era sparito, ma si era nascosto al massimo delle sue possibilità, e sebbene avesse iniziato a frequentare posti più affollati era sempre stato molto accorto a evitare quelli dove poteva incontrare gente che conosceva, amici, presunti tali.
    Insomma, era una questione spinosa quella; riteneva di avere degli amici, ma quelli, d’altra parte, lo ritenevano ancora un amico? Willa, Bells, Wren, Bertie, gli Oakes, tutte quelle persone che l’avevano visto puntargli la bacchetta e l’arco contro dall’altro lato del campo di battaglia, tutte quelle persone che aveva aiutato a distruggere – in un modo o nell’altro – lo ritenevano ancora un amico?
    Non gliel’aveva chiesto. Preferiva non saperlo, preferiva semplicemente girare lo sguardo e smaterializzarsi il prima possibile appena sentiva la più remota possibilità di incrociarli; preferiva, in sostanza, non pensare a quello, non pensare a loro, non pensare ad assolutamente niente, e piuttosto starsene in ospedale a fare il suo lavoro, circondato da ossa rotte, muscoli stirati, e scartoffie da compilare.
    Con queste premesse, come cazzo faceva Dominic Cavendish a presentarsi a quel fottutissimo matrimonio?

    A Frederik, d’altronde, i matrimoni avevano sempre dato una sensazione di stress superfluo – con particolare enfasi sulla parola “superfluo”, che riteneva perfettamente esplicativa di tutta l’atmosfera intorno ai matrimoni; un concetto che il tedesco non aveva esitato a esprimere quando chiamato in causa, con un sospiro stanco e un po’ esasperato di fronte alle espressioni sconvolte di Eugene Jackson e Nathaniel Henderson, che invece – ovviamente – la pensavano in modo diametralmente opposto.
    Non che si aspettasse una reazione differente da parte dei due colleghi, aveva capito ormai che tipi fossero, ma pensava che un po’ di buonsenso gli fosse rimasto. Insomma, non si trattava nemmeno di avere una visione differente della vita di coppia – okay sì, anche, magari in parte – ma era soprattutto una questione di pragmatismo, di restare con i piedi per terra.
    Prima di tutto: i soldi. Lui forse era un po’ troppo crucco riguardo quel topic, ma c’erano persone che spendevano tipo diecimila galeoni solo per i fiori. Diecimila galeoni. E non era considerata nemmeno una cifra assurdamente alta nel settore. Sapete quante vacanze a Honolulu si potevano organizzare con diecimila galeoni?! Per non parlare dei vestiti immotivatamente costosi, i menù sopravvalutati e sovrapprezati, lo spreco di carta, cibo, materiali vari, l’inquinamento acustico e ambientale, il disturbo della quiete pubblica – tutte queste cose rendevano i matrimoni la rappresentazione terrena più vicina alla sua idea di inferno.
    Ma a parte quello, il professore cercava di convincersi del fatto che in realtà la sua mancata fascinazione per i matrimoni era causata da quella trappola mortale che era stato il matrimonio dei suoi genitori – per lui, per sua madre, in parte anche per suo fratello e suo padre, sebbene non riuscisse a provare pena per i due maggiori di casa Faustus. Insomma, non era colpa sua se faticava così tanto a credere che quel vincolo potesse sancire l’inizio di una famiglia felice. Un calcolo razionale e una matematica perfetta fatta di statistiche e di probabilità gli venivano incontro in quel ragionamento, eppure molto in fondo sentiva di provare anche lui il desiderio remoto di qualcosa di simile: una famiglia, un matrimonio, qualcuno a cui giurare amore eterno.
    E poi, eh, c’era quell’altra questione – la questione. Ormai sembrava che lo facessero quasi di proposito, che il mondo si voltasse verso di lui con un ghigno divertito e gli ricordasse che non gli fosse concesso nemmeno un istante di tranquillità. Puntualmente, infatti, i suoi impegni e gli appuntamenti importanti apparivano come per magia sul calendario solo ed esclusivamente durante la settimana segnata in rosso (quella del ciclo, sì), o immediatamente prima, o immediatamente dopo. E sapete quanti pleniluni aveva avuto il fantastico mese di agosto 2023? BEN DUE, di cui l’ultimo era avvenuto solo il trentuno agosto – eh, esatto, solo un paio di giorni prima; eh esatto, proprio il giorno prima dell’inizio dell’anno scolastico.
    Uno non voleva sempre stare lì a rompere il cazzo, però a na certa davvero… che cazzo, dal profondo del cuore.

    Un biondo e un moro, un inglese e un tedesco, un inguaribile romantico e un inguaribile e basta; due storie e due attitudini completamente differenti, ma entrambi accomunati, per un motivo o per un altro, da quella sensazione che morire sarebbe stato meno doloroso che partecipare a quel matrimonio; e ovviamente entrambi, manco a dirlo, non potevano assolutamente mancare a quell’appuntamento.
    Dominic era un Cavendish prima ancora di essere un responsabile del San Mungo, e i Cavendish non mancavano a quegli appuntamenti – e soprattutto, facevano regali costosi.
    Freddie non aveva davvero avuto una scelta, non gli era stata concessa quella libertà, non gli era stato dato nemmeno un invito, era stato semplicemente informato che il giorno tre settembre (di domenica poi, ma chi cazzo si sposa di domenica?) sarebbe stato impegnato.
    Grazie tante, insomma. Il libero arbitrio, questo sconosciuto.

    «finché morte non vi separi»
    Una promessa.
    Una condanna.
    tag your oc.

    «Chel, me l’hai promesso: nessun bombarda» abbassò lo sguardo sull’ex grifondoro, cercando il suo sguardo per avere la conferma che la battitrice avesse afferrato davvero il punto «nemmeno al buffet dell’aperitivo per farti spazio» ci tenne a chiarire dopo appena qualche istante, consapevole che quel pensiero stesse vagando nella testa della minore come un bolide impazzito «e nemmeno al taglio della torta» arrivò anche quella postilla, con un brivido di terrore ad attraversare la schiena del guaritore, che immaginava già l’entusiasmo della rossa per quei fuochi d’artificio a sorpresa «e…» si apprestò a fare l’ennesima precisazione, a indicare l’ennesimo momento della cerimonia che la Weasley non aveva il permesso di rovinare facendo saltare tutto in aria, ma alzò appena lo sguardo per posare le iridi chiare sulla scena di fronte a sé e si bloccò.
    Le parole gli si fermarono in gola, i piedi interruppero il loro incedere, mentre con il fiato sospeso guardò davanti a sé nientepopodimenoche Nice Hillcox, perfettamente preparata e vestita di tutto punto, mentre allungava le dita affusolate per aggiustare il papillon del ragazzo insieme a lei. La gola gli si chiuse in un nodo strettissimo, improvvisamente sentì le gambe cedergli, e lo assalì la terribile sensazione che sarebbe svenuto da un momento all’altro, o avrebbe vomitato, o entrambe le cose contemporaneamente.
    Non vedeva la sua (ex) fidanzata da quando aveva lasciato l’appartamento in fretta e in furia al tramonto il giorno stesso dell’annuncio di Abbadon, lo scorso maggio. Non l’aveva più cercata, non l’aveva più vista, aveva deciso che non l’avrebbe più tormentata con i suoi problemi, dopotutto, nonostante le “chiacchierate” con Stiles il pensiero che non fosse la persona giusta per la vigilante, e la convinzione che le avesse provocato ormai troppo dolore, non riusciva ad abbandonarlo; ma non aveva mai smesso di pensarla, e non aveva mai smesso di amarla. Vederla lì, però, per la prima volta dopo mesi, nemmeno a dirlo gli fece crollare il mondo di convinzioni che aveva costruito intorno a sé e che gli aveva permesso di tirare avanti fino a quel momento: voleva rinnegare tutto, voleva piangere, voleva semplicemente correre nella sua direzione, tirare un pugno a chiunque fosse quella faccia da mummia che stava con la stilista, e dimostrarle che poteva ancora essere il ragazzo perfetto per lei – quello che le aveva promesso che non le avrebbe mai fatto del male, non quello che l’aveva delusa per due volte.
    Si aggiustò gli occhiali da sole sul naso e si prese ancora qualche istante per guardare la coppia (erano una coppia? probabilmente sì, ma Dominic si rifiutava anche solamente di pensarlo) andare via insieme, e poi tornò a dedicare attenzione alla sua accompagnatrice. «forse un solo bombarda in effetti non farà male a nessuno, ma deve essere molto preciso…» soppesò con un sospiro pesante e forzando un sorriso «ma prima ho bisogno di alcool»
    Che era un po’ la soluzione condivisa da tutti, in effetti, e soprattutto dal professore di trasfigurazione, che dopo la cerimonia, le promesse dei due sposi, e lo scambio degli anelli, si era alzato dalla sua postazione e con un sospiro si era diretto verso l’open bar (è già aperto? Si spera di sì, time to: ubriacarsi). Non l’avrebbe mai e poi mai ammesso ma un po’ si era emozionato a sentire le parole dei due sposi – e non era una cosa positiva, non per lui perlomeno. Era stato… strano. Non era solito a provare gelosia o invidia quando vedeva le coppiette per strada, ma, come si dice in gergo, in realtà si era fatto rodere un po’ il culo sapendo che quello non era il finale destinato a lui – per una sua personalissima scelta, certo, but still.
    Ma era felice per Will. Lo era davvero. Il Barrow gli era sempre stato simpatico, e sebbene l’inglese non sembrasse ricambiare la simpatia ai tempi in cui lui e Nelia erano una coppia, ora sembrava essere acqua passata (e che ne sapeva il tedesco che in realtà l’ex prof di strategia non aveva ancora unito i puntini); aveva dei difetti, certo, ma comunque non riteneva fosse il peggiore dei suoi colleghi.
    E a proposito di colleghi…
    Alzò lo sguardo e scorse tra la folla la Meisner; non l’aveva (ancora) avvicinata, per ovvi motivi, quindi si limitò ad aspettare che la professoressa ricambiasse il suo sguardo e a farle un cenno col capo, alzando il bicchiere verso di lei in segno di saluto e cercando di non pensare che anche quella fosse una situazione un po’ cringe. Non che fosse l’unica, comunque. E infatti eccallà, il moro prese un lungo sorso dal drink di aperitivo e poi si fermò a un passo da Eugene, cercando di non prestare troppa attenzione al vestito, o a tutto il resto. «Jackson» salutò così il professore di arti oscure, e avrebbe anche voluto aggiungere dell’altro, ma cosa? Cosa si diceva a un collega che improvvisamente si presentava con i capelli lunghi, le tette, e il pancione da donna incinta – perché era a tutti gli effetti una donna incinta? «ti dona questo colore» annuì seppur poco convinto «sei un inverno, mh? chi l’avrebbe mai detto» di male in peggio. Decise quindi di voltarsi verso la sua compagna, o compagno, o insomma Jaden, e stirò le labbra in un sorrisino «congratulazioni, comunque» anche se non era proprio sicuro fosse la cosa giusta di dire; era perlopiù confuso, glielo si leggeva in faccia, e aveva già bisogno di un altro drink – o altri dieci.

    Dominic, d’altra parte, non aveva perso tempo, ed era già al terzo bicchiere, appoggiato al tavolo dell’aperitivo, con lo sguardo attento a non perdersi nemmeno un movimento dell’ex serpeverde. Intanto, annuiva un po’ assente alle parole della Weasley; non stava davvero seguendo il suo discorso, ma poteva immaginarlo dai.
    Prese un sorso dal bicchiere e poi si strinse nelle spalle «sì, anch’io credo che i boxer gli donino molto di più degli slip e che quella fanart non gli renda giustizia» il soggetto? Potete immaginarlo, suvvia; ma sorprendentemente l’ex infermiere si affrettò a cambiare discorso da un momento all’altro, senza spostare un attimo lo sguardo da quella coppia inedita «senti, ma quindi tu sai quel biondo con la faccia da trota chi è?» non voleva essere rude, ma «cioè, no davvero, chi cazzo è?» era rude.
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    aiuto non fanno assolutamente niente, e non so nemmeno quando è ambientato il post ma secondo me dopo la cerimonia, quando aprono le danze e soprattutto l'alcol dai.

    dom parla (e si lamenta) con Chelsey
    freddie odia tutto e si congratula con Euge e Jade

    fine. arriverò con cose più utili poi
     
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    «baby» in tutta risposta, murphy tirò delicatamente su con il naso (niente cochina, purtroppo — cit. barry), come un'alice qualunque all'ennesimo spruzzo di acqua sulfurea dritto nelle narici. il fatto che si fosse lasciata sfuggire tra le ciglia una singola lacrima, continuando a piangere dentro, dimostrava quanto ci tenesse al lavoro svolto da kieran per renderla presentabile: se fino a quel momento era riuscita a non rovinarsi il make-up, poteva arrivare tranquillamente a fine serata.
    niente l'avrebbe scossa più di quanto già non fosse.
    [ake e will che si dichiarano amore eterno vibrando come ragazzini alla prima cotta: bonjour]
    «non sto piangendo» disse, ruotando il capo verso run senza resistere all'impulso di raggomitolarsi contro il fianco della cugina; con gli occhi scuri colmi di lacrime trattenute (a stento) e un sorriso tremolante dipinto sulle labbra color ciliegia, la Skywalker era identica al bambino del meme. so che sapete quale, ma nel dubbio ve lo metto qui perché questo sarà quel-tipo-di-post™ — cazzate e sfondamento della quarta parete a bilanciare l'emotività eccessiva di rob murphy sulla questione matrimonio akerrow.
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    rimaneva un'inguaribile romantica, Murphy. nonostante l'orrore e il dolore, quello che aveva provato e quello che aveva causato; avrebbero dovuto renderla cinica, cancellare anche la più piccola stilla di speranza a batterle nel petto. e lo avevano fatto: togliendole un pezzo alla volta, mordendo e strappando — se non respirano significa che sono morti, in un loop infinito, troppe perdite e sconfitte e rimorsi per contarli. ma quella speranza era una batteria ricaricabile che non esauriva mai del tutto le sue energie.
    rimaneva sempre qualcosa, una scintilla dalla quale ripartire.
    Luke e Leia, quando le si accoccolavano addosso, addormentandosi nello stesso istante.
    Run che insultava gemes per quindici minuti straight e poi ridacchiava da sola scuotendo la testa.
    Shot a bussare sul vetro della finestra, rischiando di prendersi il bidone della spazzatura in testa, con un sacchetto di patatine in mano e un sono le tue preferite a sfiorargli le labbra.
    William Barrow, con il quale condivideva qualcosa ben più grande di una causa, con un post-it stropicciato in una mano e il cuore a ballargli sul palmo dell'altra.
    scintille.
    se le era sempre fatte bastare, Murphy Skywalker.
    anche quando sembrava che niente avrebbe mai più potuto scaldarla, perché il gelo a intorpidire le membra non era solo superficiale ma scavava in profondità «ma li vedi?» oh, il salto temporale tattico fino alle promesse!!! «adesso sto ufficialmente piangendo» da almeno dieci minuti, ma questo nessuno aveva bisogno di specificarlo. si passò piano un fazzoletto sotto gli occhi umidi, un lieve puuuuh ad abbandonare le labbra dischiuse. labbra che premette tra loro, cercando di distenderle in un sorriso, quando le iridi cioccolato incontrarono per un istante quelle altrettanto scure di Nelia. perché non serviva la telepatia, nel caso della ribelle: I suoi pensieri si muovevano impetuosi come onde, increspando la superficie e smuovendo il fondo.
    sarebbe stato assurdo credere che quegli stessi pensieri non avessero sfiorato la mente di ciascun membro della resistenza — un'unione rischiosa, quella. poteva mettere in pericolo la vita di William? forse. compromettere tutto ciò per cui avevano lottato fino a quel momento? probabile. ma Murphy si fidava del Barrow.
    per scelta, e per mancanza di scelte.
    perché voleva, e perché doveva «guarda come sono belli, ugh» tirò nuovamente su con il naso, l'angolo di un fazzoletto a tamponare la pelle umida sotto gli occhi; nell'appoggiare la testa contro la spalla di Run, mentre sul palco partiva il limone, Murphy non poté fare a meno di rivolgere uno sguardo rassegnato alla figura triste e ingobbita (.) di chariton deadman. quel figlio di 'ndrocchia. non è che l'avesse perdonato, non del tutto, ma in occasioni come quelle per la geocineta diventava più difficile resistere all'impulso di stringergli le braccia attorno al collo — senza l'obiettivo di soffocarlo, si intende. hhhh, pagliaccio maledetto «se gemes non si dà una svegliata dovrò sposarti io, run. già ti vedo con un vestito pazzesco» e non era un modo di dire: aveva già tutti i raccoglitori pieni con i dettagli, Murphy.
    questa volta a sfuggirle dalle labbra fu un aaaahhh leggermente aspirato; il tentativo di fermare le lacrime: fallito.
    ma non aveva rimpianti, la skywalker, nessuno uno, nemmeno mezzo.
    Marcus un rimpianto invece ce l'aveva.
    e sapete cosa? ho deciso che gli faccio un post tutto suo, fuck it we ball.
    anche perché Fred si è messo a bere quindi è tempo di aprire il banchetto aperitivo, sfondarsi di alcol e ballare «signorina crane, mi concedete l'onore di questo ballo?» si alzò in piedi, la geocineta, afferrando l'orlo dell'abito blu petrolio così da non inciampare nella stoffa, rivelando ai più un paio di scarpe da ginnastica dall'aria davvero comoda. sapeva che quel momento sarebbe arrivato, murphy, e non voleva farsi cogliere impreparata. la mano che offrì a run, invece, conteneva nel palmo un flute di champagne per la cugina, sottratto al tavolino più vicino, e una tartina non meglio identificata pronta a svanire nel nulla «sai cosa» cinse la vita della ragazza, incapace di trattenere un sorriso quando le prime note di una canzone familiare presero a risuonare tra la lavanda e i profumi della provenza «forse per oggi posso evitare di lanciargli la spazzatura» e con un cenno del capo le indicò Shot, poco lontano, la piega delle labbra a farsi un po più dolce — mmmocc a chitemmuort.
    però voi immaginatevi la scena, ok?
    dalle casse irrompe l'intro di What a Feeling.
    teste si sollevano, sguardi si incrociano.
    gli HEMERA potrebbero trovarsi ovunque, capirsi con una sola occhiata.
    William Barrow è felice.

    poi incrocia lo sguardo di akelei beaumont, sua moglie, e il messaggio non potrebbe mai essere più cristallino di così:
    "ho 48 ore per annullare il matrimonio. pensaci attentamente"
    il resto, come si suol dire, è ubriacatura molesta.


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    murphy di base piange, parla solo con run, insulta shot, invita run a ballare sulle note di What a Feeling
     
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    Rea Hamilton strinse più saldamente l’ultimo bottone della giacca verde pastello, prima di sedersi sulla sedia libera vicino al nuovo Jade. Teneva fra le mani un calice di vino, che non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo, e sospirava piano appannando il vetro del bicchiere, prima di inumidirsi le labbra.
    Dire che non fosse una persona da matrimoni, sarebbe stato un eufemismo. Funerali, forse, se proprio si voleva parlare di cerimonia, ma in generale preferiva le grandi feste senza impegno, dove non ci fosse alcun protagonista. Trovava quella giornata uno spreco di denaro e di tempo, nonché di beni considerando che quello era il 3 Settembre in cui Akelei Beaumont sceglieva, pubblicamente e con dei testimoni, di prendere in marito la quintessenza del nulla. Sorrideva cortese agli ospiti, era pur sempre un Hamilton, e studiava i presenti con discrezione e gentilezza, stringendo appena la presa sulla frusta argentata avvolta al braccio destro, mostrandosi una perfetta ospite, perché le apparenze erano importanti. Rea manipolava la realtà; certe cose, le sapeva. Non si sarebbe mai presentata se non avesse creduto che favorisse la sua immagine pubblica, malgrado – se non soprattutto - Akelei le piacesse. Per quanto la Hamilton fosse perfetta in ogni circostanza in cui scegliesse, volente o meno, di presentarsi, il concetto di base dietro quella – discutibile – scelta ch’era un matrimonio, la faceva sentire quasi a disagio. Era qualcosa di troppo alieno alla sua psiche perché potesse comprenderlo o accettarlo; capiva i matrimoni per denaro e convenienza, ma per amore? Lo trovava sfaldabile, e delicato. Una motivazione troppo frivola per commettere se stessi vita natural durante. L’amore, come le stagioni, tendeva a passare. Sfumava in colori meno piacevoli, ed in convivenze fredde che facevano rivalutare la libertà persa negli anni confiscata in una relazione di cui non era mai valsa la pena. C’erano altre priorità al mondo.
    Rea Hamilton era troppo impegnata ad amare se stessa per far posto a qualcun altro.
    Romanticamente parlando. Purtroppo, sulla restante tipologia di affetti non era avara quanto si era sempre convinta di essere; c’era anche da dire che la famiglia – scelta, trovata o capitata – era stata sin dall’inizio la sua eccezione.
    «ho molte domande» voce bassa e setosa, perché Rea Hamilton era sempre raso e morbidezza sulla pelle. Battè lunghe ciglia scure sul paio d’occhi cioccolato ruotati al proprio fianco sul biondo che si era convinta essere Jade, il capo appena reclinato sulla spalla. «dov’è la creatura?» Eugene, non Uran – il nipotino era in cantina insieme ad Elijah.
    Poco distante, era la stessa domanda che si poneva il pro pro nipote della mora.
    Jamie Hamilton indossava un completo semplice, perché la natura aveva già reso impossibile potesse passare inosservato. I tatuaggi scuri spuntavano dalla camicia bianca, qualche bottone sbottonato; aveva optato per non mettere la cravatta, anche se a seconda di come si sarebbe conclusa quella serata, immaginava potesse rimpiangerlo; il verde scuro della giacca faceva sembrare i suoi occhi più acquamarina che turchesi, ed enfatizzava l’abbronzatura dorata di quell’estate. Dai suoi quasi due metri d’altezza, ed uno spessore, decisamente non indifferente, non aveva bisogno di abiti più stravaganti per essere mozzafiato. Non era peccare di immodestia, quand’era la realtà dei fatti, e sarebbe stata una menzogna dire che non avesse usato il suo pretty privilege spesso nella sua vita.
    Progettava di farlo ancora. Quel giorno, poi, aveva un obiettivo specifico che sapeva essere alquanto suggestionabile alla sua presenza, e non era mai capitato che Jameson Black Barrel Hamilton non usasse tutte le carte a sua disposizione per ottenere quello che voleva – nel caso specifico, il perdono. So che pensavate ad altro (e se non l’avete fatto, evidentemente non lo conoscete abbastanza bene, perché era subito dopo nella lista priorità.) ma prima avesse raggiunto la redenzione, meno avrebbe dovuto faticare per tutto il resto.
    Sapeva fosse una questione di tempo. Tutto era una questione di tempo, e guarda caso, il tempo era la sua specialità. Aveva aspettato per anni – tredici, e non ad Azkaban ma quasi – che William Barrow II aprisse gli occhi e lo vedesse allo stesso modo, ed avrebbe aspettato ancora, certo che per loro esistesse un solo finale.
    Erano inevitabili. Con qualche ostacolo sul loro cammino – Jamie, Jamie era l’ostacolo – ma non era contemplabile un finale diverso. Avrebbe aspettato perché sapeva essere paziente, e si sarebbe preso tutte le briciole del mentre perché non sapeva essere paziente, e giocava sporco. Sempre.
    Sorrise, lento e sornione, a Niamh Barrow. Sapeva di essere ospite poco gradito dalla nonna di Gugi, ma sapeva anche che non fossero cazzi suoi, quindi le ammiccò gentile e divertito alzando il calice nella sua direzione. Gugi o meno, Jamie restava un dipendente – il migliore, grazie tante – di Akelei Beaumont, e l’invito era arrivato puntuale alla sua porta. Svuotò il calice in un sorso, poggiando il bicchiere vuoto su uno dei vassoi dei camerieri presenti, e diede le spalle alla ragazza continuando la sua ricerca della testa mora del Barrow.
    Non era difficile trovarlo. Non lo era mai stato, infestando ogni attimo di veglia o meno di un Hamilton di qualunque età, e non avrebbe cominciato quel giorno. Lo vide seduto ad uno dei tavoli più esterni, ed approfittò delle zone d’ombra per avvicinarsi di soppiatto: aveva il brutto vizio di sparire non appena Jamie era nei dintorni, e per quanto amasse la caccia, era lì in buona fede. Non era un gioco.
    Non tutto, ecco. Almeno una parte doveva esserlo, altrimenti quale Jamie sarebbe stato.
    Alle sue spalle, si chinò sopra di lui senza realmente violare il suo spazio, ma abbastanza da farsi sentire - il profumo familiare, il calore della sua pelle, riportare a galla la sensazione di sentirlo sotto le dita… insomma, manipulating 101. (Non 104, attenzione) – e da poter sfilare il bicchiere dalle sue dita. In una sola mossa, invitò la persona al suo fianco ad alzarsi, spostando poi la sedia per prendere posto, posando un sorriso sul vetro del calice appena rubato. «permesso, grazie» mano sollevata verso Gugi, un’espressione sincera e malinconica che sapeva di tregua, se non perdono.
    E di quell’Hamilton undicenne che a mensa aveva occupato il tavolo del coetaneo, allungando il palmo nel medesimo «jamie» a curvare gli angoli della bocca del cronocineta in quel momento.
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    REA: parla con un tizio biondo convinta sia jade. non è jade, quindi sentitevi liberi di esserlo
    JAMIE: saluta niamh (derogatory) e parla con gugi. lo so, non hanno postato, ma nel mio cuore ci sono.
     
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    Il fatto che la sua prima uscita pubblica dopo mesi passati a decomporsi a letto fosse a un matrimonio la diceva lunga sulla sanità mentale di Bertie.
    Se si escludeva, certo, quel pomeriggio afoso su una panchina sgangherata di una Londra deserta e post apocalittica, nel vero senso della parola, che aveva passato con Taichi. E le inevitabili giornate in cui, nonostante tutto, il senso del dovere aveva prevalso, fortemente incoraggiato dal bisogno fisico di non darla vinta a Sinclair, portandolo, portandola, a presentarsi al lavoro. Dopotutto, per fare il magiavvocato non serviva davvero la magia. Anzi, come aveva fatto notare con finta noncuranza proprio Perses, il suo nuovo io lo rendeva vagamente utile, permettendogli di assumere le fattezze di chiunque. E quale miglior modo per entrare nella testa di qualcuno se non mostrarle le fattezze della persona amata, o, ancora meglio, della vittima?
    Bertie non voleva trovarsi lì, così come non voleva trovarsi ovunque, sulla faccia della Terra. Voleva non esserci. Anzi, lo avrebbe voluto, visto che, pur ripetendolo a sé stesso da mesi, dal giorno in cui la sua vita era finita, là tra le macerie di Stonehenge, invece c’era ancora. Continuava a esistere, perché era un codardo. Perché si odiava, o forse perché non lo faceva abbastanza.
    Eppure era lì.
    A il matrimonio, per antonomasia.
    Ed era proprio come essere a casa, seduta com’era accanto a Hyde, entrambi intenti a fissare il vuoto davanti a loro, apatici. Morti.
    Perché, allora, gli pizzicava la gola? Perché qualcosa, nel suo petto, si mosse, quando non riuscì a non notare lo sguardo con cui William osservò Akelei avvicinarsi? Perché quelle parole trite e ritrite, pronunciate da così tante labbra senza alcuna reale intenzione, senza alcun vero sentimento, gli parvero così pure, così vere?
    Non esitò neppure un istante, quindi, quando con la coda dell’occhio vide Hyde cominciare a muovere la fiaschetta nella sua direzione, rispondendogli di sì ancora prima che lui le offrisse effettivamente un sorso. Un attimo dopo l’alcol già le bruciava la lingua, spingendo giù per la gola quella sensazione così assurdamente simile alla commozione.
    *
    «Non è ridicolo essere qui a celebrare una storia già scritta?», sentenziò poco dopo, mentre gli ospiti cominciavano a sparpagliarsi per la vera festa. «Almeno metà dei presenti lo sa. Sposi compresi.» Anche solo perché la progenie Akerrow rappresentava una buona fetta degli invitati, in effetti. Sospirò, con studiata noia, e sfilò due – ennesimi – calici di champagne dal vassoio del cameriere più vicino. Per un attimo ponderò se scolarseli entrambi da sola, tutto d’un fiato, anche perché non troppo lontano, a proposito di famiglie, aveva intravisto la sua, ma poi ne porse uno a Hyde. «Mi sento particolarmente magnanima, oggi.»
    Forse era quello il motivo per cui era andata al matrimonio di William Barrow e Akelei Beaumont. Perché si sentiva magnanima. Non perché voleva accarezzare i suoi genitori con lo sguardo, tra la gente, sapendo che non sarebbe mai potuta tornare da loro, adesso. Da una parte era sempre stata dolorosamente consapevole dell’impossibilità di rimettere le cose a posto, di riappropriarsi di quel futuro che aveva deciso di abbandonare. Dall’altra, però, non si era mai davvero rassegnata all’idea, continuando a illudersi che, prima o poi, le cose sarebbero tornate al loro posto, che lui sarebbe tornato al proprio posto.
    Ma ora Albert non esisteva più.
    E con lui il suo futuro.
    La sua famiglia.
    Presagendo che suo padre Adam stava per fare qualcosa di molto, molto stupido, in perfetto stile Adam Cox, si costrinse ad allontanarsi, il cuore stretto in una morsa di dolore e nostalgia. Avendo in corpo più alcol che altro, grazie anche alla preparazione a cui lei e Hyde si erano sottoposti ancora prima di uscire di casa, intenta com’era a ignorare completamente Dominic, che si era palesato per prelevare Chelsey, non prestò davvero caso a dove stesse andando, né se il Crane Winston fosse ancora con lei.
    Ecco, a proposito di progenie Akerrow per fare numero. «Renée», salutò il ragazzo, trovandoselo improvvisamente davanti. «Volevo dire, Zelda Arricciò le labbra e gli smollò la flûte ormai vuota, impaziente di procacciarsi un bicchiere pieno. «Dove sono finiti tutti i camerieri?» Dicendolo, scostò lo sguardo dall’aria malaticcia, per non dire in perenne punto di morte, del ragazzo, in cerca di qualche addetto del catering. E, così facendo, notò che l’ultimo Beaumont-Barrow non era solo.
    «Per fortuna Akelei può contare sul suo splendore naturale, perché quel vestito è davvero… insulso.»
    In quei tre mesi, Nice non l’aveva cercata.
    Mai.


    Tecnicamente, Adam era stato invitato. Anche nella pratica. Quello che mancava era un invito ufficiale, sulla costosissima carta profumata di lavanda, quasi di sicuro scritto a mano da un bambino esperto di calligrafia rapito e schiavizzato da Akelei Beaumont in persona, identico ai due che, per mesi, erano rimasti appesi alla bacheca della cucina del loro appartamento. Ma che senso aveva mai avuto un pezzo di carta per la Ribellione? Non era una firmetta a sancire l’impegno, la lealtà. Erano gli ideali. Era il cuore.
    William era un amico, un compagno. Avrebbe fatto di tutto per la libertà e l’uguaglianza, per la causa. E per Akelei.
    Era stato un invito di cuore, il suo, motivo per cui Adam, nella realtà dei fatti, era un quasi imbucato. Ma si poteva davvero definire tale, dal momento che conosceva buona parte dei presenti? E poi non era un semplice +1, ma un +1 +1, come quando si rilanciano i +2 a Uno, sancendo così la fine di amicizie decennali.
    Mediando tra l’essere costantemente in anticipo del Wood e lo studiato ritardo da star della Bulgakov, erano arrivati in perfetto orario, né un minuto di troppo prima né uno dopo. E adesso sedeva tra i due, da sempre il suo luogo preferito in cui essere, il salame in un panino anglo-burgaro, intento a godersi dalla cerimonia.
    Pianse, naturalmente, perché era pur sempre un Cox, emozionato per gli sposi e con loro, orgoglioso del coraggio che stavano mostrando nell’impegnarsi non solo pubblicamente, ma in modo ufficiale. Se il primo punto non era mai stato un problema, per lui, non poteva invece dirsi lo stesso del secondo, vista la sua avversione per le etichette e, ancora di più, per i vincoli. Eppure, vedendo Ake e Will dirsi che sì, si amavano, e che l’avrebbero fatto per sempre, non poté fare a meno di domandarsi non se, ma quando, anche loro tre avrebbero trovato il coraggio di fare quel passo.
    Non aveva paura.
    Non per questo, almeno.
    Per qualche ora aveva deciso di lasciare tutto il resto fuori e di tornare a essere il vecchio Adam, il vero Adam, quello che non aveva alcuna intenzione di tenersi la testa sulle spalle e le grazie nelle mutande. In fondo, non c’era nulla più da lui che ignorare il fatto che, appena qualche passo al di là della bellissima villa e dei campi di lavanda, il mondo fosse in balia della peggiore dittatura di tutti i tempi e l’intera umanità fosse stata messa a ferro e fuoco da il più sadico dei tiranni.
    Era lì per divertirsi, per festeggiare, per vivere.
    Perché sì, nonostante tutto, erano ancora tutti vivi, e tutti insieme.
    Schioccò un bacio prima a Daisy, poi a Tyler, promettendo che avrebbe riportato loro due piattini carichi di cibo pescato dalle a dir poco infinite isole di buffet. In realtà sapevano benissimo tutti e tre che sarebbe arrivato ben poco fin lì, dal momento che Adam non avrebbe resistito a smangiucchiare tutto il suo lauto bottino prima di tornare da loro. Ma come poteva essere altrimenti? C’era letteralmente qualsiasi cosa su quei tavoli!
    Si sentiva davvero commosso.
    Dalla cerimonia, certo, ma soprattutto dal cibo.
    «ho molte domande» «Anche io», bofonchiò con la bocca mezza piena. «Tipo la ricetta di questa... cos’è, secondo te? Una mini pie?? Non capisco cosa ci sia dentro, ma è…» Con un secondo e ultimo morso finì di ingollarla, la bocca costantemente impastata. «… deliziosa! L’hai provata??»
    Conosceva la ragazza con cui stava parlando? Assolutamente no.
    Ma non era certo un mistero che fosse in grado di parlare anche con i muri.
    «dov’è la creatura?» Aggrottò appena la fronte, masticando il pezzo di formaggio che, senza aver ancora mandato giù del tutto la pie, si era già buttato tra i denti. «Le creature sono dai miei, a Kensington», sospirò, dispiaciuto, volando col pensiero a Minerva e Albert. «Avevo detto a Tyler che secondo me almeno Minnie poteva venire, ma si è messo a dire che si sarebbe annoiata, che non è giusto costringere gli estranei a sopportare i figli altrui, che…» Sbuffò ed indicò il baby parking in lontananza. «E invece guarda!! Ci sono un sacco di bambini!! Avrebbe potuto fare amicizia!!!»
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    Bertie parla con Hyde, beve, beve, beve, parla con Renée, gli smolla il bicchiere e insulta il lavoro di Nice.

    Adam parla con Tyler e Daisy (fuoricampo), piange, si emoziona, mangia e importuna parla con Rea.
     
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    Si sistemò di fronte a Ty, lisciando lento le inesistenti pieghe della giacca del suo accompagnatore fingendo l'altro non sembrasse desiderare essere ovunque eccetto che lì. Qualcuno avrebbe potuto pensare che Joe King stesse prendendo tempo prima di salire i gradini che l'avrebbero portato sull'altare al fianco di Renée, Barry, Ellis e William Barrow; quel qualcuno, avrebbe avuto ragione. Non era da lui essere nervoso, ma non poteva fare a meno di sentirsi un intruso. Un impostore, con il sorriso ad allargare le labbra ed un braccio allungato sulle spalle di fratelli che fino a qualche mese prima neanche sapevano della sua esistenza, tutti imbellettati per il matrimonio dei genitori che in un altro tempo l'avevano cresciuto dandogli la possibilità di esistere in quel momento.
    Battè le ciglia, deglutendo denso. Rimbalzò da una guancia all'altra la piccola pastiglia bianca, aspettando si sciogliesse e facesse effetto. Serviva solo a rilassarsi: ci voleva ben più di una pasticca prima che l'americano perdesse il senso di se stesso, purtroppo. Il suo corpo, come narrava la leggenda delle madri di Giada ed Elisa, si era abituato abbastanza da risultare pressoché immune.
    «sembri simpatico» asserì, sollevando pigro lo sguardo a cercare gli occhi scuri del cinese. Se vi state chiedendo perché fosse andato al matrimonio di mamma e papà con un perfetto sconosciuto che aveva risposto al suo annuncio, evidentemente non lo conoscete abbastanza.
    (Più facile dare la colpa al fato che ammettere nella sua vita non ci fosse nessuno che valesse la pena portare con sé; Joe era abbastanza imprevedibile da non fare sembrare quella mossa troppo assurda anche senza una motivazione.)
    «non farmi fare brutta figura, o mi tocca ucciderti» Sfoderò i denti in un sorriso divertito e ferale, occhi ridotti ad una ridente fessura blu, ed il palmo della mano destra alzato a schiaffeggiare gentile la guancia dell'altro; Taichi avrebbe fatto bene a credergli, perché Joe King non stava scherzando affatto. Gli darebbe dispiaciuto, forse, ma se necessario l'avrebbe fatto: il californiano era schiavo di qualunque cosa fosse in grado di schiacciarlo - alcool, droghe, furia cieca e dissoluta - e ben più che felice di lasciare ad altro di prendere il controllo.
    Non se n'era mai fatto un cazzo.
    Alleggerì la tensione con una risata; si sporse in avanti per posare le labbra sulla sua guancia come Giuda, fermandosi il tempo di spiare oltre le spalle dell'altro il resto degli invitati. Il Limore non reagí, forse temendo l'avrebbe morso; aveva ragione, quindi non lo corresse.
    Non conosceva un cazzo di nessuno. Anche su Bertie lo sguardo passò senza registrarlo, perché non l'aveva mai visto (vista?) nelle sue nuove vesti. Non era corretto da parte sua pensare che sarebbe stato meglio rimanere negli USA, ma una parte di Joe era terrorizzata da quello che implicava essere lì in quel momento: non era un tipo da impegnarsi, eppure stava promettendo di esserci per rimanere - come aveva fatto sul tetto di Edimburgo dicendo a Sersha che un tempo, Ronan, era stato lui. Voleva darsi quella possibilità; incastrarsi, se non in un pattern, perlomeno in un contorno preciso. Essere parte di qualcosa. Riavere la sua famiglia. Non gli era sembrato uno scambio eccessivo rispetto alla vita che aveva vissuto sino a quel momento, ma nell'istante in cui aveva incrociato l'espressione estasiata di William Barrow all'altare, due domande se l'era fatte. Strizzò i denti sul rimasuglio di pastiglia, spaccandola fra i molari, e si ritrasse con un passo indietro ed un sorriso.
    Si sentIva inadeguato.
    Un bugiardo.
    Se l'era cercata
    Aveva mentito, dopotutto, e per quale santiddio di motivo al mondo avrebbe dovuto essere accettato? Renée perlomeno aveva dalla sua una memoria storica che non poteva fare a meno di suscitare curiosità da parte del resto della famiglia, un buon motivo per tenerselo stretto, ma Joe King sul piatto non portava nulla che valesse la pena tenere. Voleva comunque essere lì. Abbastanza da restarci, nonostante il cuore stritolato fra lingua e palato ed una forzata posa rilassata. Abbastanza da fare i metri che lo dividevano dai fratelli, cercare lo sguardo di Sersha e trattenerlo per un po'; da sistemarsi al fianco di Barry, schiarirsi la voce, e dirgli «secondo te il bouquet contiene oppiacei?» prima di sorridere, e far atterrare infine gli occhi sul fratello maggiore, annuendo appena.
    Concedendosi di restare.
    Distolse l'attenzione solamente quando le prime note annunciarono l'entrata in scena di Akelei Beaumont, ed a Joe bastò l'espressione della madre per decidere che ne fosse valsa la pena, ed avrebbe continuato a farlo.
    Tutto quanto.

    Akelei Beaumont le aveva chiesto di fare da damigella al suo matrimonio.
    Lydia Hadaway batté le palpebre, incredula in quel momento - mentre la francese danzava al centro della pista con le braccia attorno al collo del neo marito - esattamente come lo era stata alla sua offerta. Incapace di scrollarsi di dosso la sensazione di stupore, e meraviglia, e delicatezza. Temeva che un qualsiasi respiro meno cauto degli altri potesse far rimpiangere la (sorella?) cacciatrice di quella scelta.
    Se fosse stata meno Lydia e più Annie, la Baudelaire cresciuta (e traviata) nell'ombra delle gemelle Beaumont, avrebbe compreso che se non si era (ancora) pentita dell'uomo con cui si era scambiata l'anello, lei si trovava in una botte di ferro - ma non era Annie. Non ricordava lo sguardo ferino di una giovane Akelei sfidarla a seguire lei e la sorella nel buio della campagna francese oltre il coprifuoco; non ricordava la brace rossa della sigaretta che Ivy le aveva messo fra le labbra dicendole che lo facevano tutti quand'era stata troppo malleabile per crearsi da se una personalità - quando aveva voluto piacere ad entrambe un po' troppo.
    Ma ci stavano provando comunque, perché erano state famiglia, ed a loro modo, potevano provare a tornare ad esserlo. Era orgogliosa di essere a quella celebrazione, di aver assistito alle promesse, di essere stata presente al sorriso di Akelei quando erano stati annunciati marito e moglie. Quando aveva avuto l'audacia, perché di altro non si poteva trattare, di distogliere lo sguardo dalla Beaumont, era stato per posarlo su Arci, la mano allungata a cercare quella del fratello - sapeva che per lui, che Akelei l'aveva conosciuta prima di scoprire fosse un Baudelaire, quell'invito avesse il sapore più intimo dei sospiri stanchi della panetteria, piuttosto che di memorie perse ed appannate; sapeva di qualcosa di reale che era stato prima ancora di esserlo davvero - e sorridergli felice. Per cercare nella folla la testa corvina di Nathaniel, la prima famiglia di Lydia, perché avere l'Henderson al proprio fianco la faceva sentire più concreta e presente. Non glielo avrebbe detto, perché non aveva bisogno di farlo, ma voleva fosse fiero di lei e di dove fosse arrivata; che sapesse lui facesse parte della sua famiglia comunque, radicato in ogni paio d'occhi alzati al cielo e respiri profondi.
    E per cercare Jay, perché non si sapeva mai, rilassando le spalle solo quando lo trovò fra gli invitati.
    Non aveva neanche bisogno del vino per essere felice.
    Ma torniamo alla festa, che era esattamente quello che si era aspettata conoscendo gli organizzatori: un misto di eleganza (la locheschion) ed assolutamente inappropriato (la musica). Lydia lo adorava. Pensò, nell'angolo occupato in uno dei tavoli disposti sotto il gazebo, che finite le danze della sposa avrebbe potuto approcciarla per delle tartine, o bere qualcosa insieme? Non era il tipo di persona da intavolare conversazioni dal nulla, ma le sarebbe piaciuto ritagliarsi un pezzo di storia di quella serata di cui fare parte.
    Pensò anche di essere troppo sobria per racimolare il coraggio. Giocherelló nervosamente con i ricami del completo - l'aveva preferito al vestito, più nelle sue corde - rimbalzando lo sguardo da uno all'altro delle sue tre ave Marie personali per assicurarsi che ci fossero ancora (non così scontato) e che fossero lucidi e sensato (assolutamente non scontato, per niente.) finendo poi per decidere che se doveva testare le acque delle sue (inesistenti) social skills, tanto valeva farlo con uno degli ospiti.
    Si schiarì la voce, attendendo il momento di silenzio per inserirsi nella conversazione.
    Attendendo.
    Ed attendendo.
    Piegò le labbra in un sorriso. Forse Dylan non avrebbe mai smesso di parlare. Forse andava bene così, dai. «vino?» offrì solo, giusto perché mi serviva il parlato.

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    sapete cosa fanno? niente esatto.
    Joe E ancora al matrimonio pensate. un po' fatto. parla con ty e i vari cavalieri

    Lydia è per qualche mistico motivo seduta al tavolo con Dylan e offre del vino perché questa è la persona c+3 E. baci
     
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44 replies since 28/9/2023, 17:45   1528 views
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