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    Bash Baker aveva fatto della filosofia del non affezionarsi mai a niente e nessuno un po’ la base di tutta la sua esistenza: mai una persona tenuta abbastanza vicina al cuore da considerarla importante e speciale, mai neppure un pesciolino rosso da accudire e da amare. Una vita solitaria, la sua, fatta perlopiù di contatti e numeri di emergenza da chiamare per chiedere – o riscuotere – un favore, ma niente cene di famiglia riuniti attorno alla tavola imbandita, né amanti con cui condividere ogni momento, bello o brutto che fosse. Aveva fatto affidamento sempre e solo su una persona, se stesso, e non aveva mai dato la possibilità a qualcun altro di fare altrettanto — di avvicinarlo, di stringerlo, di confortarlo e di rassicurarlo. Non lo aveva fatto sua madre, perché mai avrebbero dovuto aspettarselo da degli sconosciuti?
    La vita che Bash aveva deciso di vivere era una distaccata, sempre a due o tre passi da quella degli altri, mai abbastanza invadente da finire, anche solo per sbaglio, con il toccare l’esistenza altrui. Entrava a testa bassa nelle vite di chi pagava per passare con lui qualche ora, e allo stesso modo ne usciva; sempre un po’ meno suo, sempre un po’ più rotto, sempre un po’ più lasciato indietro, ad un mondo che non lo meritava e che non lo voleva. Ogni volta che accettava del denaro per concedere una parte di sé ai clienti, perdeva inevitabilmente qualcosa che, come sosteneva lui, non gli servisse comunque; cosa doveva farci, dopotutto, con un’anima, quando sentiva non gli fosse mai appartenuta sin dal principio?
    Ma con Kiel era diverso.
    Lo era sempre stato.
    Forse per deformazione professionale, o forse perché Bash si era lasciato cullare e illudere dai modi gentili del guaritore, ma in qualche modo, e senza fatica, il Kane era sempre riuscito a ridare un pizzico di qualcosa, a Bash, senza mai prendere nulla. Non se ne era accorto subito, il ballerino, ma solo gradualmente, con il tempo, quando rimaneva solo dopo ogni incontro e non si sentiva incompleto o danneggiato come succedeva con tutti gli altri. Kiel era un cliente, si ripeteva — lo faceva persino in quel momento, seduto sul divano di casa del Kane, con il sangue ad imbrattare il sofà e il pavimento. Ci credeva sempre un po’ meno, a quell’affermazione, e la sensazione che bruciava nello stomaco, più dei tagli appena disinfettati, era sconosciuta e terrificante. Non gli piaceva, perché minava le fondamenta della sua intera realtà come un carico di dinamite piazzato ai piedi dei pilastri che sostenevano un’intera vita. Della presenza delle altre persone nella sua vita, Bash non aveva mai saputo cosa farsene.
    «cambierebbe qualcosa se mi dicessi di no.»
    Non lo avrebbe detto — pur essendo, quella, la verità. Non avrebbe mai potuto, perché avrebbe implicitamente confessato ad alta voce qualcosa che non era pronto a ripetere nemmeno a se stesso, pur sapendo di aver sempre avuto quel piano d’emergenza nascosto da qualche parte nella sua mente. Non razionalizzare quel pensiero, non lo rendeva meno vero. O meno premeditato.
    L’indirizzo del suo appartamento, Bash, lo aveva letto sui documenti di Kiel una sera che quest’ultimo non aveva prestato molta attenzione; era sempre stato bravo a fornire distrazioni, il ballerino, e non aveva potuto privarsi di quell’opportunità per accaparrarsi un’informazione piovuta quasi per caso, il portafogli caduto dalla tasca dei jeans e aperto proprio sul documento di identità del Kane.
    In caso di necessità, si era detto, imprimendosi bene nella mente la via e il numero civico; avrebbe fatto comodo avere un posto sicuro dove andare, se ne avesse avuto bisogno.
    Il piano non aveva mai contemplato la presenza dell’altro ragazzo all’interno dell’appartamento, però.
    Stanco, ora che le ferite erano state disinfettate e l’adrenalina iniziava ad abbandonarlo, decise che valesse la pena sforzarsi un attimo di più ed esercitare maggior controllo sulla propria lingua, e non rispondere.
    Sia lui che Kiel avrebbero continuato a vivere benissimo pur senza avere una risposta a quella domanda. Forse, addirittura, avrebbero vissuto meglio. Voleva convincersene, il Baker.
    «magari sì, se solo fossi in grado di tenerti in piedi.»
    Kiel non aveva idea delle cose che Bash aveva superato pur non tenendosi in piedi — non era quello il momento di elencarle, però. e dubitava lo sarebbe stato mai. Erano troppo personali, tutte le volte in cui non ce l’aveva quasi fatta, persino quando non l’aveva meritato affatto. Eppure era ancora lì, per ricordarle tutte, una ad una, e tenerle chiuse a chiave nei cassetti della memoria.
    La resilienza era una caratteristica che non gli era mai mancata.
    Rimase in silenzio, labbra serrate e un occhio castano a seguire il profilo del guaritore; l’altro appannato e quasi completamente chiuso per il numero, e l’intensità, dei colpi ricevuti.
    «sono stato un po’ in grecia, un po’ in polonia, ed in messico.» per qualche motivo, Bash faticava a credere che Kiel fosse semplicemente andato in vacanza. Ed ebbe la sua conferma subito dopo. «volevo aiutare, sai? in quanto guaritore intendo…»
    Tsk, che pensiero stupido e inutilmente ottimista. Voler aiutare; non ripagava mai bene. Era una valuta di scambio sempre troppo alta, che in pochi potevano permettersi. Non di certo quelli come loro.
    «volevo» una pausa più pesante delle altre, che Bash non seppe (né volle) riempire; la loquacità non era mai stata il suo forte, né un dono di cui potesse farsi vanto. Così come non lo era mai stata nemmeno l’empatia. Attese dunque, semplicemente, che Kiel riprendesse a parlare. «fare del bene.» Lo guardò ridere, una risata amara e che non raggiungeva né gli occhi, né il cuore, e non poté fare a meno di serrare ancora di più i ranghi.
    Gelido, impassibile, esausto. Forse anche ad un passo dall’incoscienza e dall’oblio, quello tanto agognato.
    Fino a che.
    «non è andata come avevo immaginato.»
    «e come avevi immaginato che sarebbe andata?»
    Una domanda spontanea, quasi banale e di certo superflua, ma che sfuggì dalle labbra prive di colore del ballerino, mentre lo sguardo si induriva appena, indugiando sulla figura dell’altro.
    Si era trattato di una guerra, cos’altro avrebbe immaginato potesse succedere? «meno morti? meno città distrutte? meno caos?» non lo chiedeva con aria ironica, il Baker. Era genuinamente interessato. Anche troppo, per i suoi gusti. Fino a che punto poteva spingersi l’immaginazione di qualcuno interessato a cosa succedeva nel mondo? Non era mai stato il suo caso, quello.
    Forse, anche per quello, non riusciva a ricambiare il sorriso mesto offerto da Kiel; non aveva mai capito il senso di andare a combattere una guerra, Bash, in nome di qualcosa o qualcuno, e non avrebbe saputo dove andare a pescare nelle proprie riserve emotive già prosciugate, per trovare un minimo di compassione, o di solidarietà, nei confronti del guaritore.
    Non era lui quel genere di persona in grado di farlo.
    Poi la domanda di Kiel mise ancora di più tutto in discussione
    «puoi restare qui se vuoi.»
    Se avesse avuto la certezza di potersi muovere da quel divano senza crollare a terra come una marionetta a cui avessero tagliato improvvisamente i fili, Bash lo avrebbe fatto.
    Perché non era mai stato bravo a rimanere, non aveva mai voluto farlo, e iniziare proprio quella sera aveva l’aria di portare solo guai.
    Ma non si mosse, perché non poteva, e perché non riusciva.
    Quel “se vuoi” implicava che avesse la possibilità di fare una scelta, quando in realtà la sua testa aveva già deciso per lui: che gli piacesse o meno, l’avrebbe ascoltata.
    «hai paura che non riesca ad arrivare nemmeno alla fine della strada?» un dubbio, e un timore, più che lecito; non aveva affatto l’aria di uno che fosse in grado di alzarsi dal divano, figuriamoci camminare fino… a chissà dove. E non aveva bisogno di vedersi allo specchio, per saperlo; il dolore alle ossa – e a muscoli che non sapeva di avere – e la vista appannata, erano campanelli di allarme più che sufficienti.
    Distolse lo sguardo, solo per passare una mano sugli occhi stanchi e nascondere il respiro affannato dietro il palmo aperto. «penso sia una terribile idea.» Bash il ballerino era un bugiardo, per mestiere e per sopravvivenza; Bash Baker, invece, era quanto di più reale si potesse trovare in giro. Onesto, persino ai limiti della decenza e del buon costume; quando non poteva trarre beneficio da una menzogna, preferiva colpire con la verità. E in quel momento non era in servizio — poteva permettersi di essere se stesso.
    Sollevò di nuovo lo sguardo per incrociare quello scuro di Kiel, mostrando il minimo indispensabile di emozioni. «però credo anche di non avere molta scelta.» Sarebbe stato più facile, andarsene, se ne avesse avuta una? «ok.» decise infine, un sospiro pesante più che una conferma, «ma avrò bisogno di più alcol.» per frenare l’istinto che gli diceva di fuggire via, e andarsene il più lontano possibile; aveva già ottenuto quello che cercava (garze, disinfettante, un posto dove riposare il corpo martoriato), che senso aveva prolungare la sua permanenza? Non poteva permetterselo.
    «o di una doccia,» ah, quella sarebbe stata un sogno, non è così? Il getto bollente a lavare via sangue, pelle e fatica.
    Sai cosa le'? Volevo fargli dire altro, ma lo terremo invece così.
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    Non c’era nulla, nella postura o nell’atteggiamento di Bash, che indicasse quanto quella conversazione potesse interessargli: non era avvezzo alle chiacchiere (punto.) inutili, e se aveva permesso alla brunetta di ciarlare ancora e ancora e ancora pur senza venire al sodo, era solo perché fosse estremamente annoiato e sulla buona strada per essere idiotamente ubriaco.
    Dire che le parole della sconosciuta gli scivolassero addosso, era un eufemismo; eppure suonavano quasi come una promessa alla quale Bash avrebbe potuto credere, se si fosse sforzato un pochino di più.
    «se fossi stata una ministeriale questa conversazione non la staremmo tenendo qui.»
    Oh no, ma che peccato, cosa potrà mai fare un giovane come lui.
    Evabbé.
    Non gli rispose che avrebbero dovuto (assumere i torturatori per imbiancare i muri del Ministero una volta l'anno) perché non interessava a lei, e di certo non interessava a lui; al contrario di quanto le sue azioni dimostrassero, non era uno stupido — magari voleva solo fingersi tale. Era bravo a fingersi qualcuno che non era, a inventare una persona diversa che potesse indossare la sua pelle livida e graffiata, e piacere a chi si trovava di fronte. Solo che, di solito, era per scopi diversi.
    Di piacere a quella lì, Bash non aveva alcun interesse; non gli sarebbe entrato in tasca nulla.
    Unless?
    Quelli che facevano il suo lavoro, infondo, non staccavano mai.
    La osservò mandare giù il whiskey gentilmente offerto, e con lo stesso sguardo impassibile prese nota della reazione — quella di qualcuno che, era chiaro, non era abituata al sapore amaro e al fuoco incandescente che quel genere di alcolici lasciavano nella gola. Non era come lui, dunque, che avrebbe ingoiato pezzi di vetro pur di provare qualcosa, e di provare tutto.
    Per giusta o sbagliata che fosse, Bash Baker non conosceva altra via.
    «gli direi che a spingerlo ad agire è stato l'istinto. la convinzione, sepolta nel profondo, che fosse giusto»
    Schioccò la lingua contro il palato, assimilando forse le prime parole dell’intero discorso, ma dimostrando esattamente meno di nulla alla sua interlocutrice; per quanto se sapevano entrambi, stavano ancora facendo un discorso ipotetico e mirato a nessuno in particolare, di certo non a lui.
    «a quel ragazzo direi che lo capisco, che so cosa ha provato e probabilmente anche cosa prova ora»
    La risposta a quelle affermazioni rimase incastrata in gola, tenuta a bada, mentre perdeva importanza man mano che l’altra si muoveva e andava avanti. Se fosse stato un cronocineta, Bash avrebbe approfittato di quel momento per fermare lo scorrere inesorabile del tempo e permettersi di tirare un pugno alla parete per sfogare a gesti quello che non poteva dire a parole.
    Poteva ancora farlo — almeno l’ultima parte.
    Ma non si mosse, a malapena si permise di respirare o di indurire le labbra nel vederla andare via per pagare la bottiglia, serrando le labbra in una smorfia incazzata; col mondo, con se stesso. Difficile dire chi fosse al primo posto, in quel preciso istante.
    (Lui; c’era sempre Sebastian Baker al primo posto, perché non c’era anima viva (o morta) con cui Bash fosse più incazzato.)
    Non una novità, insomma.
    Non era quella, comunque, la novità.
    Per quanto fastidioso fosse ammetterlo, quella consapevolezza a pizzicare alla base del collo e muoversi sulla pelle come un formicolio impossibile da frenare, sapeva che non si sarebbe mosso — non perché in lui ci fosse quella parte sepolta che gli suggerisse che fosse stato giusto fare ciò che aveva fatto… o forse sì?
    No, era solo noia.
    Il fastidio di essere stato beccato, e la necessità di capire quanto l’altra sapesse e come fare per rimediare a quell’errore che, se non l’avesse corretto subito, lo avrebbe perseguitato per il resto della sua (breve) vita.
    Non si mosse, dunque, rimanendo in attesa del ritorno della sconosciuta e combattendo contro l’istinto che gli diceva di voltarsi per cercarla nella folla, assicurandosi non stesse tramando nulla alle sue spalle, e già sfiancato dai due lupi che si scontravano in lui: chi ricordandogli perché fosse una terribile idea rimanere lì, chi invece curioso di sapere cosa avesse da proporre la brunetta.
    Avrebbe voluto lasciare che il primo lupo vincesse, e sbranasse il secondo, perché la curiosità non aveva mai portato a nulla di buono.
    Ma nemmeno l’ignoranza, no? E solo Dio sapeva quanto avesse compromesso se stesso — non che Bash credesse in alcun Dio, ovviamente. E voleva sapere anche lui la portata del danno commesso.
    Era l’unico motivo per cui, quando tornò al tavolo, l’altra lo trovò ancora lì, gambe divaricate e labbra strette contro il collo della bottiglia; tanto lei non lo beveva, no?
    Asciugò le gocce di whiskey con il dorso della mano, prima che potessero scivolare sul mento, e mise giù la bottiglia. «ti do dieci minuti.»
    E poi?
    Poi avrebbe deciso cosa fare.
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    «caspita, come passa il tempo quando ci si diverte»
    Il tono sarcastico della stalker scivolò addosso al Baker che, seduto in maniera scomposta sulla sedia libera di fronte a lei, la osservava con lo sguardo più vuoto possibile, valutando dentro di sé quanto fosse furbo da parte sua trovare un modo per sbarazzarsi anche di quel problema che si era verificato.
    La risposta era: poco.
    E tutto perché non si era fatto i cazzi suoi quando avrebbe dovuto; ma cosa gli era saltato in mente?! Perchè mai aveva pensato che agire fosse la soluzione? Anche vero che in quel momento tutto aveva fatto tranne che pensare — ma non era comunque una motivazione sufficientemente valida per giustificare il suo coinvolgimento in quella storia. Non portava mai nulla di buono.
    Non disse nulla in risposta alla sconosciuta, ma si limitò a sciogliere le braccia per versarsi un altro generoso goccio di whiskey, mandandolo giù alla velocità della luce.
    «per rispondere alla tua domanda— curiosità.» Aveva un concetto molto strano di “curiosità”, quella lì. «voglio dire, come ti ho visto io poteva vederti chiunque altro. eppure sei intervenuto comunque»
    Già: eppure era intervenuto comunque.
    Aveva come la sensazione che quello sbaglio l’avrebbe definito per il resto dei suoi giorni — che, comunque, contando le sue tendenze autodistruttive, non erano molti; poteva considerarlo il lato positivo?
    Ancora una volta, non rispose: cos’aveva da dire? Qualsiasi cosa detta avrebbe confermato le parole dell’altra, e condannato definitivamente Bash. Probabilmente la soluzione più furba era gaslightare l’altra e convincerla non fosse stato lui, quello sulla scena del crimine.
    Alle brutte, avrebbe fatto ricordo al suo potere che, per quanto generalmente ignorato dal Baker, tornava innegabilmente utili in situazioni come quella.
    Per ora, comunque, non lo avrebbe fatto: voleva vedere fin dove si sarebbe spinta la ragazza, e valutare i danni limitandosi alla sua versione dei fatti.
    «potevi scappare, e non l'hai fatto. di questi tempi è più facile che la gente si faccia gli affari propri, piuttosto che rischiare»
    «mi domando come mai.» nelle sue parole sarcastiche, non c’era alcun accenno di colore o emozione. Era vero quello che lei diceva, che la società era diventata incredibilmente più egoista negli ultimi decenni – forse lo era sempre stata –, e non aveva senso contraddirla.
    Né spiegare il perché del suo intervento, e del suo coinvolgimento. Francamente, non erano affari suoi.
    E Bash sapeva a malapena dare una risposta a sé stesso, figuriamoci fornire scuse e spiegazioni ad una perfetta sconosciuta che, per quanto ne sapeva lui, poteva lavorare con il ministero ed essere lì per arrestarlo o interrogarlo in maniera non ufficiale.
    «volevo chiederti cosa ti avesse spinto, ma forse non lo sai nemmeno tu»
    A quel punto, le iridi giada divennero due schegge appena visibili oltre le palpebre serrate, lame taglienti rivolte a quella persona che presupponeva di sapere tutto di lui, quando in realtà non sapeva prorpio un cazzo.
    (Eppure ci aveva preso su tutta la linea.)
    Si mise più dritto, i gomiti puntati sulle ginocchia e il mento poggiato sul dorso delle mani unite. «temo tu mi abbia scambiato per qualcun altro.» disse lentamente, offrendole la possibilità di rimangiarsi quanto detto e togliersi dai coglioni: non aveva davvero tempo per gestire anche lei. «se questo è il modo in cui il ministero da la caccia ai sovversivi,» aggiunse, indicandola appena con un cenno del viso impassibile, «mandando persone ad accusare innocenti civili, non mi sorprende che le cose vadano a rotoli.» Avrebbe dovuto fare più attenzione, parlare con meno irriverenza e stando più attento alle parole usate, alle provocazioni fatte, perché il ministero dava davvero la caccia agli innocenti, marchiandoli come colpevoli, pur di girare l’opinione pubblica a suo favore: moltissime persone erano state falsamente accusate e torturate, senza un vero – e giusto – processo per definire i capi d’accusa; altri erano semplicemente spariti nel nulla di punto in bianco.
    Era il modus operandi del ministero della magia; come poteva essere sicuro che non lo avrebbero fatto anche con lui?
    (Non poteva, e quello rendeva tutto più interessante.)
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    Nel primo pomeriggio di giovedì 26.10.23, c'è stato uno scontro tra ribelli e mangiamorte nella piazza di Hogsmeade. Questi ultimi, dopo lunghe indagini, hanno fiutato il nascondiglio di alcuni ribelli e hanno proceduto allo smantellamento della "cellula"; i sovversivi, in un disperato tentativo di resistere, hanno risposto al fuoco nemico generando un conflitto che ha coinvolto anche tutti i civili presenti.
    La battaglia è stata breve ma sanguinosa, i ribelli hanno combattuto dando tutto quello che avevano ma alla fine sono rimasti schiacciati dalla forza dei pavor e dal fatto di esser stati colti di sorpresa; tre ribelli (le cui identità non sono - ancora - state rivelate) sono stati catturati; altri sono caduti nello scontro e solo in pochi sono riusciti a scappare.
  5. .
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    Bash avrebbe dovuto farsi gli affari suoi.
    Era sempre stato bravissimo, in quello; aveva campato – non necessariamente “bene”, ma di quei tempi era un lusso che pochi potevano permettersi; e di sicuro non sarebbe arrivato ai proverbiali cento anni, né desiderava farlo – fino a quel momento preoccupandosi solo di se stesso, perché scegliere proprio ora di smettere? Nessuno lo avrebbe ripagato, né a parole e men che meno monetariamente, per il suo coinvolgimento.
    E quello lo sapeva.
    Così come sapeva che non era stato unicamente il pensiero della riconoscenza, a muoverlo.
    Mandò giù in un solo sorso un altro shot di whisky e poggiò il bicchierino a testa in giù, in attesa del successivo: era stato abbastanza chiaro con il barista, quando gli aveva suggerito di provvedere a tenerlo sempre pieno fino a che Bash non fosse stato abbastanza lercio da non reggersi più in piedi. Non si era fatto scrupoli ad avvicinare il ragazzo e a sussurrare al suo orecchio quell'innocuo comando, di certo non si era preoccupato della possibilità che quello perdesse il lavoro per aver versato gratuitamente, ad un cliente, quasi un'intera bottiglia di Jack Daniel's — trovava che i suoi problemi, al momento, valessero eccome quel momento di debolezza che l’aveva spinto ad abusare del suo dono, e non c’era posto per i sensi di colpa o l’umanità.
    D'altronde, non era mai stato da Bash farsi scrupoli per ottenere ciò che voleva, e nonostante non fosse un grande fan dell'utilizzare il proprio potere per influenzare la volontà altrui – aveva altri modi per farlo, modi che gli procuravano meno mal di testa –, trovava ci fossero momenti in cui era semplicemente necessario.
    Come quello.
    Proprio come da programma, il ragazzo oltre il bancone si avvicinò per riempire il tumbler vuoto, mosso da un istinto che non si rendeva conto nemmeno di avere, ma il Baker non lo degnò di uno sguardo, più preoccupato invece a rivivere gli avvenimenti delle ultime ore, come se non avessero lasciato già un segno permanente su di lui: le abrasioni – laddove la pelle delicata si era scorticata, quando lo special era stato schiantato contro il muro diroccato – si sarebbero risanate nel giro di qualche giorno (non erano nulla di nuovo, per il ballerino) ma quanto vissuto sarebbe rimasto impresso nella mente a lungo.
    Si era trattato semplicemente di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato – storia della sua vita – in un giorno che sembrava partito come tanti altri (e quindi: male) in cui il fu Hilton non aveva immaginato, o messo in programma, di rimanere invischiato nel bel mezzo di uno scontro tra ribelli e Mangiamorte. Non era mai stato nei suoi interessi, né nella sua Bingo Card del 2023.
    E invece.
    Aveva ancora impresso sulla pelle, e dietro le palpebre se si concedeva di strizzarle un po’ più serratamente, gli attimi di scompiglio generati dall'apparizione improvvisa di un gruppo di pavor che avevano preso d'assalto uno stabile che affacciava sulla piazza di Hogsmeade; “un covo di ribelli”, aveva esclamato qualcuno, riportando quanto sentito nel trambusto generale. Ricordava le (lente, troppo lente) reazioni dei presenti, la sua compresa, e il modo in cui tutto era successo fin troppo in fretta.
    Non c'era stato nemmeno il tempo di mettere in sicurezza la zona, che una manciata di ribelli – a quanto pare nascosti davvero all’interno del palazzo – avevano risposto all’attacco delle forze dell’ordine, coinvolgendo loro malgrado anche i civili presenti nell'area, Bash compreso. In un secondo sulla piazza avevano iniziato a piovere detriti e incantesimi, ed era stato il caos: ognuno aveva cercato di salvare la propria pelle, qualcuno aveva tentato di portare in salvo bambini e anziani, i negozianti si erano rinchiusi nelle loro attività.
    Bash non era stato da meno, ma un’improvvisa esplosione nel terreno, troppo vicina alla sua posizione lo aveva mandato a sbattere contro un muro non lontano da lì, costringendolo a fermare la propria fuga ma, se non altro, spingendolo via dal centro della fottuta rappresaglia. Quando aveva trovato nuovamente l’equilibrio, svariati minuti dopo, aveva notato come tutto fosse ancora nel vivo ma non ci aveva messo molto a capire che la sorte non era affatto a favore di quelli con la maschera.
    Mandando giù l’ennesimo drink, Bash pensò che avrebbe dovuto davvero farsi gli affari suoi.
    Non era stato di certo quello che aveva inteso per “trovati uno scopo” quando, settimane prima, aveva letto la lettera scritta da se stesso; figuriamoci, era una creatura egoista e solitaria, lui. Non gli poteva importare di meno delle condizioni e del benessere altrui.
    Eppure.
    Eppure.
    In un momento di confusione – gli piaceva definirla così, per via della botta presa – aveva agito prima ancora di rendersene conto. Gli era bastato notare la figura di un ribelle, pochi metri più in là, accerchiato da tre pavor e chiaramente con le spalle al muro e senza via di fuga, per reagire; nascosto dietro il muro contro il quale era stato sbalzato, aveva preso di mira una vetrina non distante dal gruppetto e l’aveva fatta esplodere, utilizzando il proprio potere. Non un attacco, ma un diversivo — abbastanza da permettere al ribelle di sfruttare quel momento di confusione nella confusione e allontanarsi dai pavor.
    Stavolta fu lui a richiamare il giovane barista, e a chiedere un altro giro. «doppio.» Poi, prima che l’altro potesse andarsene, ci ripensò e lo fermò con una mano. «lascia la bottiglia.» tanto ormai; l’aveva già fottuto per bene nella testa, tanto valeva approfittarne fino alla fine.
    Avrebbe dovuto farsi i cazzi suoi, perché quella guerra non era nulla che potesse interessare un Baker qualunque. Non gli avrebbe portato nulla, se non tante rogne.
    E invece si era immischiato, convinto di poter fare affidamento sulla sua capacità di confondersi con l’ambiente; non era così. Perché sentiva uno sguardo su di sé da troppo, e non quel genere di sguardi che promettevano risvolti interessanti per la serata. No, erano le attenzioni che di solito non portavano nulla di buono. E sapeva perfettamente da dove provenissero; ne teneva traccia dal tardo pomeriggio.
    Afferrò la bottiglia, e si allungò per prendere un secondo bicchiere tra quelli disposti sul bancone, ignorando le proteste del barista – non programmato, ahimé, per ignorare del tutto il Baker; col senno di poi, avrebbe dovuto pensarci – e si mosse pigramente per raggiungere la fonte di quel fastidio.
    Quando arrivò davanti alla brunetta, piazzò la bottiglia sul tavolo e il bicchiere pulito di fronte a lei. «offre la casa.» e, senza attendere una reazione o un invito, prese posto sulla sedia libera, gambe divaricate e braccia incrociate al petto. «perché non mi dici come mai mi stai seguendo da ore?»
    Forse non era stato così bravo a coprire le proprie tracce come credeva, e aveva la necessità di capire fino a che punto si estendesse l'entità del danno per capire come porvi rimedio. Il Testa di Porco era il posto perfetto per quel genere di discorsi, il luogo dove nessuno badava a nessun altro.
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    Bash era rimasto fedele alla sua indole, e aveva volentieri continuato a tenere lontano il resto della sala protetto da un’aura di indifferenza e nascosto dietro gli occhiali da sole – superflui all’interno del locale, ma necessari per sopravvivere –, per lo meno fino al terzo (o quinto? aveva perso il conto) bicchiere di whiskey; dopodiché si era concesso di voltare la schiena ed osservare finalmente la sala, gomiti poggiati sul bancone alle sue spalle e occhi pigri a passare in rassegna volti sconosciuti e che difficilmente sarebbero rimasti impressi nella memoria del ballerino.
    Solo la figura della ragazza mora che saliva sul palco aveva effettivamente catturato con successo la sua attenzione, abbastanza da decidere di rimanere ad ascoltare: nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe sorbito una gara di barzellette o pessime esibizioni al karaoke — nulla che non avesse già affrontato, nel tempo, per un fine superiore.
    (Il fine superiore: trovare qualcuno discretamente brill* da accettare di offrirgli da bere fino a che anche Bash non avesse smesso di formulare pensieri coerenti; qualcosa che solo persone con il portafoglio bello gonfio potevano permettersi.)
    Se avesse saputo che quello non sarebbe stato affatto come il karaoke, forse, Bash avrebbe girato i tacchi prima ancora che la mora potesse sorridere, incerta, e dire «Buonasera! Benvenuti alla nostra umile festa»

    Santiago Goose – Thiago, per quei pochi amici che aveva avuto nella vita – non era mai stato un uomo altruista: tutto quello che aveva fatto, in ventinove anni, lo aveva fatto solo ed esclusivamente per se stesso. E si rendeva conto, mentre scriveva quelle poche righe affidate ad una lettera vagamente impersonale – che forse avrebbe superato a pieni voti un viaggio temporale, o forse si sarebbe persa per sempre nell’etere, chi poteva dirlo – che quella decisione non era diversa da tante altre prese con il fine ultimo di pensare per sé e per nessun altro.
    Non lo faceva per riavere indietro sua madre, della quale non aveva alcun ricordo e con cui non aveva condiviso mai nulla se non i tratti asiatici e la lunga lista di scelte sbagliate; non lo faceva per suo padre, conosciuto troppo tardi, in una fase in cui ormai l’affetto e la curiosità di Thiago erano stati annientati dal pessimismo cosmico nel quale aveva deciso di affogare; non lo faceva per quei pochi amici che aveva collezionato nel tempo, più rari di una mosca bianca; non lo faceva per cugini, o parenti, o vattela a pesca chi.
    Lo faceva per se stesso, perché per tutta la sua fottutissima vita aveva avuto solo ed esclusivamente quello; e se gli veniva data la possibilità ricominciare da capo, e rifare tutto, Thiago era più che felice di afferrarla al volo. Non gli sarebbero mancate, le persone che lasciava indietro; non lo preoccupava l’idea di dimenticare tutto e tutti e di non portare nulla di loro con sé nella nuova esistenza; aveva ventinove anni e di cose buone, nella vita, Thiago non ne aveva fatta nemmeno una. Non aveva una famiglia sua, non aveva figli e non aveva nessuno di speciale che potesse allungare la mano e cercare di trattenerlo lì, in un mondo la cui sorte era già stata scritta; non aveva conseguito successi in ambito lavorativo, e non aveva costruito nulla che valesse la pena di lasciare in eredità a qualcuno.
    Una volta varcato il metaforico portale nello spazio-tempo, di lui non sarebbe rimasto più nulla.
    Non fare lo stesso sbaglio”, si ritrovò a scrive e, sebbene avesse potuto cancellarlo con un tratto spesso di inchiostro o ricominciare tutto da capo, decise di lasciare quelle cinque parole a pesare sulla pergamena scura: scriveva a se stesso, da parte di se stesso — e poteva essere sincero e onesto almeno in quel caso. “Costruisci qualcosa per cui valga la pena stringere i denti e resistere; crea legami, vivi anziché limitarti a sopravvivere, cerca quella famiglia che ti sei sempre rifiutato di lasciar entrare. Ricordati che ‘Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.’ So già che se sarai anche solo in minima parte come me, queste parole suoneranno vuote e finirai col capirle troppo tardi, ma posso sperare che riconoscerai in queste poche e necessarie righe una parte di te stesso, una parte di noi, e deciderai di dargli ascolto. Puoi continuare a proteggere te stesso, a vivere come ho fatto io tutta la vita, pur senza rimanere solo.
    Qualche ora dopo, al momento di affidare la lettera a qualcuno che l’avrebbe conservata e custodita fino al momento adatto, Thiago incolpò l’alcol per l’onestà e per la debolezza di aver ceduto a quelle parole; sapeva che, fosse stato lui a ricevere una missiva del genere, non avrebbe sprecato un solo battito di ciglia prima di accartocciarla e gettarla via.
    Poteva solo sperare che la sua seconda chance sarebbe andata meglio, e compiere quell’atto di fede conscio di non aver più nulla da perdere.

    Il ballerino non aveva prestato davvero attenzione alle parole di Kieran, o alle immagini che la special aveva creato intorno a loro per dare un po’ di colore e di sostanza alla storia che stava raccontando; ma nel momento stesso in cui aveva stretto la lettera consegnata dall’altra ragazza, il mondo si era ridotto tutto a quella stupida pergamena e alle parole che vi aveva trovato scritto sopra.
    Bash Baker era sempre stato una persona difficile, poco incline a lasciare entrare gli altri o ad accettare che potessero essere più di semplici mezzi per arrivare a fine giornata; la vita, purtroppo, non gli aveva concesso di imparare ad amare o come concedersi di vivere in maniera leggera, e spensierata.
    Quello che trovava scritto nella lettera, poteva benissimo averlo scritto lui stesso; e stando a quello che diceva quel Thiago, era proprio così.
    Non era una persona scettica, Bash, ma non era nemmeno così pronto a credere alle prime parole scritte da uno sconosciuto che, per quanto ne sapeva, poteva benissimo aver letto nella sua testa qualche informazione di troppo e averla usata poi per rendere tutta quella farsa un po’ più convincente. Ma a che pro? Non aveva soldi, il Baker, e quello lo escludeva già dalla lista delle possibili persone da raggirare e a cui fregare tutti i risparmi. Non aveva nient’altro da dare — non vedeva perché farlo finire vittima di uno scam organizzato nei minimi dettagli.
    Ma era bravo a leggere le persone, e a meno che non fossero tutti attori, quelli presenti al Platinum quella sera, stava davvero succedendo qualcosa.
    Leggeva stupore, sconcerto, e persino tristezza nello sguardo di alcuni; incredulità e scetticismo in quello degli altri. Il suo, invece, rimaneva imperscrutabile, nascosto dietro le spesse lenti nere. Tutti quelli a cui era stata affidata la lettera, dopo averla letta, avevano reagito: ognuno in modo diverso, certo, ma nessuno ne era rimasto inscalfito. Bash non sapeva cosa avessero trovato, nelle buste che gli erano state consegnate, ma aveva osservato qualcuno alzare una foto e metterla controluce, come a voler assicurarsi che fosse originale e non un bluff. Poteva capirli.
    Lui non aveva foto, non aveva ritagli di giornale e non aveva cimeli di famiglia nascosti in mezzo alle pagine della lettera; aveva solo mezza pagina, concisa e diretta, esattamente quello che avrebbe concesso lui se si fosse trovato nella stessa situazione di quel Thiago.
    Era sufficiente a fargli mettere tutto in discussione.
    Ma non l’avrebbe fatto lì, e di certo non avrebbe cercato supporto e sostegno in completi sconosciuti: loro, le ragazze, potevano anche conoscere lui ma il discorso non era a doppio senso e Bash non avrebbe mai affidato a qualcuno di estraneo i proprio dubbi, e le proprie incertezze.
    Avrebbe affrontato quella nuova verità come aveva fatto in tutti gli altri momenti sconvolgenti della sua vita: da solo.
    Le parole di Thiago gli risuonavano nella testa, ma sarebbe passato ancora del tempo prima che riuscissero ad attecchire: lasciare entrare gli altri non era mai stato il suo forte, e avrebbe dovuto trovare certe risposte da solo prima di convincersi che fosse tutto reale.
    26.06.03
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    SPOILER (click to view)
    è stato un piacere, grazie, bash non parla con nessuno (nella sua hans era, cit): prende la sua lettera e se ne va.
  7. .
    «non sei qui per farti medicare,»
    Eppure, l’aveva comunque lasciato fare, no? Il bruciore sordo del disinfettante sulle ferite appena trattate ne era una prova concreta e sufficiente; no, non era andato lì per farsi medicare, ma aveva comunque permesso al Kane di appellare il suo kit d’emergenza e lavare via con un batuffolo di cotone almeno parte del sangue che si era seccato intorno ai tagli e alle lacerazioni della pelle. Quindi insomma.
    Non voleva nemmeno essere costretto a fare quella vita, Bash, eppure.
    Diciamo che non avesse mai avuto molta voce in capitolo su ciò che gli aspettava, o su cosa fosse necessario fare per sopravvivere. Perché, alla fine della fiera, era sempre lì che si andava a parare no? Sopravvivenza. Alcuni erano abbastanza fortunati da riuscire persino a godersela, convincendosi di star vivendo; altri, invece, potevano sperare al massimo di arrivare a vedere il giorno successivo, strappando con le unghie e con i denti una fottuta ora in più a quell’esistenza. Bash rientrava in quella seconda categoria; e per certi versi, pure il Kane. Lo sapevano entrambi.
    Al quest’ultimo, per inciso, non rispose: si limitò ad osservarlo con occhi stanchi mentre metteva via l’ultimo batuffolo di ovatta, e prendeva nota del lavoro fatto — e di quello ancora più profondo fatto da qualcun altro. Qualcuno a cui Bash aveva lasciato la possibilità di farlo, vero, ma quello non era un problema del guaritore.
    «non sei qui per i soldi,»
    No, non credeva di potersi permettere una visita a domicilio nelle sue condizioni; un vero peccato, perché gli avrebbero fatto davvero, davvero comodo quei soldi, ma no: non era lì per i soldi. Scuotere la testa per confermare le parole di Kiel sarebbe stato superfluo, in quanto l’altro stava a malapena ripetendo quelle dette dallo stesso special, perciò fu risparmiò quel briciolo di forze che avrebbe richiesto un’azione del genere, conservandolo per un momento in cui ne avrebbe avuto più bisogno.
    Perché poteva anche essere lontano anni luce dalla realtà, in quel momento, anche il più flebile dei suoi a rimbombare nella testa, gli occhi che bruciavano per le luci e per la stanchezza, e le ossa che chiedevano solo di poter riposare per qualche giorno, o qualche mese — ma a dispetto di tutto, Bash era lì. Quel suo essere ancora in piedi non aveva nulla a che fare con la resilienza, quanto più con la testardaggine e l’ostinatezza, convinto di non aver ancora finito i giorni a sua disposizione (purtroppo, o per fortuna – dipendeva sempre dai punti di vista) e di dover quindi stringere i denti ancora per un po’. E, nel suo piccolo, era pronto ad affrontare la domanda che sentiva stava per arrivare: e allora perché sei qui.
    Che fosse giunta con parole diverse, con un tono di stanca curiosità a colorarne gli spazi vuoti, non aveva importanza: era il momento di serrare i ranghi, chiudersi a riccio, e limitare i danni fatti fino a quel momento.
    «cambierebbe qualcosa se ti dicessi di sì?» Se avesse mentito, se avesse scelto per entrambi la via più comoda? Probabilmente no, non sarebbe cambiato nulla per nessuno dei due. L’alternativa era confessargli che non avesse avuto scelta, che la sua mente il suo corpo avessero agito prima ancora che potesse comprendere — e che non avrebbe comunque potuto recarsi in ospedale; non voleva, non voleva!, dichiararsi, neppure ora che per “quelli come lui” c’erano tutta una serie di benefit e vantaggi che venivano forniti insieme all’assistenza sanitaria; non voleva essere lo stronzo di nessuno, di certo non di un governo appena capovolto e ancora instabile.
    L’alternativa all’alternativa era ammettere con Kiel di non sapere perché fosse arrivato fino alla sua porta: aveva bisogno di un amico? Di un confidente? No, forse aveva sperato solo di farsi aprire la porta da qualcuno che non facesse domande, e guardate com’era stato ripagato.
    Si riprese la bottiglia, e bagnò le labbra con il liquido ambrato. «magari ero davvero in zona» infondo Kiel che ne poteva sapere, no? Quella poteva non essere una bugia, nonostante ne lasciasse l’amaro sapore a permeare sulla lingua anche dopo esser stata sputata via. «magari casa tua era la più vicina» tenendo in considerazione che Bash non potesse, per ovvi motivi, smaterializzarsi, anche quella avrebbe potuto benissimo essere una (mezza) verità. «magari mi serviva solo una bottiglia e un po’ di garze.» si strinse nelle spalle, continuando ad elencare le infinite possibilità che avrebbero spiegato la sua presenza lì. «magari se non fossi stato in casa» di nuovo, o ancora, difficile dirlo con esattezza, «sarei entrato comunque per rubarti entrambi» azzardò un sorriso, una smorfia che colorò a malapena la piega delle labbra, senza arrivare allo sguardo, «magari avrebbe lasciato che fosse Kiel a riempire i buchi di quella conversazione che non andava assolutamente da nessuna parte, infondo nemmeno lui aveva voluto rispondere alle domande di Bash. E okay, era stato il ballerino a piombare a casa del guaritore e non viceversa, forse qualche risposta la doveva concedere davvero, ma dopo un mese e mezzo di silenzi, anche Kiel aveva qualcosa da concedere.
    Non che a Bash importasse qualcosa, figuriamoci.
    sebastian
    bash baker

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    20 | 26.06.03 | usa
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  8. .
    sebastian 'bash' baker
    santiago goose (hilton)
    secret destroyers hold you up to the flames,
    what do I get for my pain? betrayed desires && a piece of the game
    I suppose I'll show all my cool and cold;
    despite all my rage, I am still just a rat in a cage
    Sapete di cosa non aveva assolutamente voglia Bash? Andare ad una stupida festa.
    Sapete, invece, a cosa non avrebbe mai saputo dire di no? Alla promessa di alcol gratuito.
    (Ah, non era un party con open bar? Beh, adesso sì; che razza di “invito esclusivo” è se poi, arrivato alla festa, uno si deve anche pagare da bere?)
    E, siccome il richiamo dell’alcol era più forte del suo disprezzo generale per il genere umano, alla fine, vinse il prospetto di una serata a farsi lercio a discapito degli organizzatori di quella festa hawaiana che, già solo dalle premesse, sembrava orribile; una volta lì, poi, avrebbe fatto ciò che gli riusciva meglio e, dopo aver puntato e agganciato un potenziale cliente, avrebbe fatto sì che la festa diventasse privata e si spostasse altrove, possibilmente in un altro locale, uno con alcol migliore, prima di concludersi nella stanza puzzolente di qualche motel.
    Oh, guarda un po’, un tipico martedì nella vita di Bash Baker.
    Emozionante.
    Stava già vibrando dall’eccitazione, yay, mentre con sguardo annoiato e le labbra tirate in una linea impassibile osservava il suo riflesso nello specchio della camera da letto; col cazzo che si sarebbe vestito a tema: il modo di entrare l’avrebbe trovato lo stesso, era bravo a persuadere la gente (e sapeva farlo, pensate un po’, anche senza ricorrere al proprio potere) perciò l’idea di essere trattenuto fuori dal bouncer di turno, solo perché non aveva rispettato il dress code, non lo preoccupava minimamente.
    E poi, da nessuna parte sull’invito c’era scritto che fosse obbligatorio; aveva visto un sacco di contratti, Bash, nella sua giovane vita, molti non per motivi lusinghieri, e sebbene fosse lontano anni luce dall’essere un magiavvocato – o anche solo il tirocinante di un segretario che aveva vagamente competenze di giurisprudenza – aveva letto (e sofferto le conseguenze) di abbastanza cavilli e loopholes da diventare, col tempo, molto attento alle parole messe nero su bianco su carta stampata: se non era espressamente detto, o se non era espressamente detto il contrario, non aveva alcuna valenza.
    Perciò — jeans scuri strappati in più punti, canottiera bianca, scarponcini pesanti, ogni piercing a fare bella mostra di sé, occhiali neri sulla testa e, per concludere, l’accessorio che non mancava mai nell'outfit del ballerino: l’ennesimo occhio nero, e un labbro spaccato; lividi giallognoli e cicatrici ancora fresche a rendere la sua pelle pallida l’imitazione scrausa di un Pollock.
    Bash Baker, nel bene o nel male.
    Solitamente, più nel male; ma gli importava forse qualcosa? La risposta era tutta in quel gesto secco con cui spense l’ennesima cicca di sigaretta nel posacenere già pieno, prima di calare gli occhiali sul naso, afferrare il portafogli infilandolo nella tasca posteriore dei jeans, e uscire di casa.

    Il mondo era stato sconvolto da una guerra e la gente organizzava feste a tema Hawaii.
    Perché no, infondo?
    Bash lavorava nel settore dell’intrattenimento, uno dei pochi che non si era fermato neppure durante quei quaranta lunghi giorni tra preparazione al conflitto e il conflitto stesso; ne sapeva qualcosa del bisogno sempre presente della gente di distrarsi, in qualsiasi modo o maniera fosse possibile. Lui stesso era, molto spesso, la distrazione che si concedevano. Quindi non avrebbe giudicato la scelta di quella o quell’altra persona di organizzare un party simile; d’altronde era estate, feste simili non erano certamente una novità e quella non sarebbe stata né la prima né, immaginava lo special, l’ultima.
    Quando arrivò, notò con piacere che i festeggiamenti e la musica erano iniziati già da un bel po’: a cosa si brindasse, o perché, sinceramente, era l’ultimo dei problemi del Baker — fintanto che ci fosse stato alcol, andava tutto bene, potevano anche star festeggiando il Giorno del Procione o qualche altra festività altrettanto caotica.
    Gli piaceva arrivare alle feste quando la folla era già ben compattata e discretamente sbronza; entrare in un posto e dirigersi con passo lento e mento alto verso il bancone, senza ricambiare nemmeno uno degli sguardi che si posavano, senza alcun riserbo, sulla sua figura — curiosi, malevoli, di apprezzamento o anche solo involontari; erano la dimostrazione che, almeno per un’altra giornata, Bash non avrebbe rischiato di rimanere disoccupato. O annoiato.
    Raramente lo faceva per piacere personale – la sua “seconda” professione aveva perso quel fascino già da tempo – ma quando era estremamente fortunato (quindi: non molto spesso) gli capitava di trovare quella nota non troppo stonata in una sinfonia tutta da rivedere, e la serata non era poi così insoddisfacente.
    Guardandosi intorno, però, nel locale non abbastanza affollato per i suoi gusti, dubitava sarebbe stato quello il caso di una serata fortunata.
    Arrivato alla sua meta (il bancone — dal quale, dando le spalle a chiunque, osservava la sala riflettersi negli specchi dietro le bottiglie) ordinò subito un «whiskey» decidendo che il problema del pagamento lo avrebbe risolto in un secondo momento, ancora convinto che fosse già tutto pagato e pronto per essere consumato.
    Un altro paio di bicchieri, si disse, e poi avrebbe iniziato almeno a far cadere lo sguardo nocciola sul resto dei presenti, giusto per fingere di essere interessato a quanto succedeva intorno a lui.
    Non aveva idea del perché quell'invito fosse giunto anche fino a lui; sembrava una festa ben lontana dai suoi soliti scenari, magari era stat* un* ex cliente che, nella speranza di replicare lontani dalle luci soffuse del Lilum, magari, aveva deciso di invitare lì Bash; qualsiasi fosse la ragione, davvero, non gli importava. Fin tanto che ci fosse stato alcol, Bash sarebbe rimasto.
    26.06.03
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  9. .
    Bash aveva distolto lo sguardo solo per un secondo, portandolo su qualcosa alle spalle del guaritore che in realtà non vedeva davvero, piuttosto perso ancora una volta in pensieri sconclusionati e confusi, di cui riprese il filo solo quando sentì Kiel parlare; dovette concentrarsi per comprendere la domanda, per mettere le parole nel giusto ordine e per trovare dentro di sé una risposta.
    Alla fine, aveva scelto di non darne alcuna; al Kane non sarebbe importato, era abituato ai mutismi selettivi di Bash e non sarebbe stato di certo strano, o lontano dalla sua natura, quell’evadere una risposta scomoda e una verità biasimevole.
    Chiese, invece, qualcosa di più forte – ma non sapeva nemmeno lui cosa volesse, cosa necessitasse, e lasciò dunque che la (non proprio) battuta del maggiore scivolasse nel silenzio tra loro, annuendo appena.
    «ma forse ne hai già prese anche troppe.»
    E comunque non abbastanza, aggiunse Bash mentalmente, prima di rendersi conto - finalmente - delle intenzioni di Kiel.
    Il primo istinto fu quello di bloccare la mano del Kane, stringendo le dita pallide della mancina intorno al polso del maggiore, applicando abbastanza pressione affinché mollasse la presa; essere toccato da mani sconosciute non lo preoccupava, non lo infastidiva, poiché paradossalmente erano le mani di chi conosceva ad aver fatto più danni di qualsiasi altra cosa - mani che avrebbero dovuto accarezzarlo, e che invece l'avevano sottoposto a dolori che Bash provava in tutti i modi a lasciarsi indietro, da anni, senza successo. Le mani di una madre che gli aveva lasciato addosso molte cicatrici, alcune visibili, tante altre nascoste all’occhio umano.
    Con un battito di ciglia, e abbassando lo sguardo sulle proprie gambe, Bash allentò la presa sul polso di Kiel; non poteva ridurre la linea dura delle labbra, o la posa rigida della schiena, ma poteva almeno cercare di non comportarsi da stronzo. Non con Kiel. Il problema era che ciò che lo infastidiva davvero, ciò che gli faceva serrare la mascella e indurire lo sguardo, era l'avere qualcuno che testimoniasse le sue debolezze, qualcuno che si prendesse cura di lui, che sottolineasse la fragilità di un corpo martoriato e portato allo stremo ancora, e ancora, e ancora.
    Era il tocco leggero di Kiel, e le dita delicate, e l'accortezza con cui passava il batuffolo di ovatta sulle ferite ancora aperte, a creare un problema; non era così che al Baker piaceva farsi vedere. Non c’era abituato. Nel suo mondo, quel genere di fragilità veniva sempre punito, prima o poi, o peggio: usato contro di lui. Non aveva mai lasciato che quei lividi e quei tagli fossero nient’altro se non un’armatura danneggiata e usurata, proprio come lui, e non vedeva perché iniziare proprio ora.
    Ma non aveva le forze per contrastare le attenzioni del Kane, non importava quanto volesse: si sentiva come una marionetta con i fili tagliati, incapace di alzare anche solo un braccio, o il viso, senza l’aiuto dell’altro. Il massimo che potesse fare era dissociarsi (seppur involontariamente) ed essere riportato alla realtà nel modo più brusco possibile, quando il disinfettante bruciava le ferite e lo costringeva a smorfie di dolore, e versi poco dignitosi.
    «shh»
    Fu quello a risvegliarlo, a riportarlo per l’ennesima volta - anche se per poco - nel presente; nel soggiorno silenzioso di Kiel, seduto sul suo divano (ora macchiato di sangue che Bash non si preoccupò di offrirsi per lavare via), il viso dell'ex corvonero pericolosamente vicino al suo.
    Non era la prima volta che si trovavano così, ma solitamente c'erano meno strati di vestiti ad occupare lo spazio tra loro – e, paradossalmente, non un filo di imbarazzo ad appesantire l’atmosfera. Bash aveva smesso di vergognarsi anni e anni prima, scendendo a patti con la consapevolezza che quello fosse un lavoro come un altro, e che lui avesse disperatamente bisogno di soldi al punto da non potersi permettere di arricciare il naso o scegliere di non farlo.
    Non sapeva quali fossero i pensieri, o le motivazioni, di Kiel, ma onestamente non gli interessava.
    Quella sera (notte? mattina?), però, a rendere tutto meno facile, oltre agli abiti, c'erano anche dei silenzi pesanti e sguardi troppo indiscreti, a cercare qualcosa che né Bash né Kiel avrebbero detto, ciascuno per le proprie ragioni. Una consapevolezza che non fermò comunque il ballerino dal chiedere all'altro dove fosse stato, in un momento in cui la stanchezza ebbe la meglio sul buon senso; non aveva dei filtri per rendersi conto cosa fosse giusto (lecito) chiedere oppure no, ma se avesse potuto, avrebbe evitato di aprire bocca.
    Dal silenzio di Kiel, ebbe la certezza di aver posto la domanda sbagliata; ma, ancora una volta, non era in grado di afferrare i margini confusi di quella coscienza che scivolava via come olio tra le dita, alla quale Bash, testardo come un mulo, cercava comunque di aggrapparsi per rimanere, se non vigile e attento, quanto meno presente. Era difficile, però, quando tutto quello che voleva fare era chiudere gli occhi e abbandonarsi all'oblio che la stanchezza, e lo scontro, avevano portato con sé.
    Il suo richiamo alla realtà, la sua sola ancora, rimaneva il bruciore del disinfettante che veniva a contatto con la pelle graffiata; solo in quel modo sapeva di essere ancora sveglio, e di non star sognando. Alla fine si convinse che l silenzio di Kiel, tutto sommato, poteva accettarlo e capirlo: nemmeno lui avrebbe voluto dare risposte, a parti invertite. Perciò arrivò inaspettata la risposta del guaritore, quando ormai Bash non ci contava più: si era quasi convinto che non gli importasse affatto sapere cosa Kiel avesse fatto della su vita per un mese e mezzo.
    «perché, hai sentito la mia mancanza?»
    Bash riservò a Kiel un leggero battito di ciglia, lo spazio interminabile di un secondo che sembrò durare una vita, e, quando aprì la bocca, dalle sue labbra uscì solo la verità: «sì.»
    Diretto, conciso, sfacciato.
    Sincero.
    Non era qualcosa a cui Bash era abituato, non c'era mai stato quel genere di onestà nella sua vita, nella sua natura, ma nelle condizioni in cui verteva quella sera non poteva fare a meno di cedere all'obiettività della cosa. Kiel gli era mancato — vuoi perché era un cliente fisso, vuoi perché era uno dei pochi non così egoista da lasciarlo insoddisfatto durante i loro incontri, vuoi perché, col tempo, aveva iniziato a cercare per abitudine lo sguardo scuro del Kane sperando di vederlo nella folla di clienti del Lilum.
    C'erano un sacco di motivi, fin troppi, e in quel momento premevano tutti gli uni contro gli altri nella scatola cranica del Baker, contribuendo ad un mal di testa già lancinante. Non voleva pensarci.
    Sostenne invece lo sguardo dell'altro, sfidandolo a commentare quella risposta involontaria ma necessaria, quasi istigandolo a dimostrare di essersi sbagliato — perché cos'era, Sebastian Baker, se non sempre e comunque sbagliato, fuori luogo, e inopportuno? Cos'era?
    Sulle labbra premevano altre parole scomode, quel “non hai risposto alla domanda” che l'avrebbe dipinto come ipocrita, e alle quali cercò di resistere, serrandole in una linea stretta e dura. «quei soldi mi avrebbero fatto comodo» sussurrò, mentendo solo in parte: non era una bugia, ogni falce e ogni zellino racimolato erano fondamentali per lui, ma non era nemmeno completamente onesto. Né con se stesso, né con il Kane.
    Era solo ciò che poteva permettersi di essere, di fronte a Kiel, e nelle sue attuali condizioni.
    «non sono qui per i soldi» Una precisazione inutile, ma anche necessaria, che trovò la strada verso la libertà prima Bash potesse rendersene conto. Sperava che Kiel non gli chiedesse, allora, per quale motivo fosse lì: Bash non era certo di avere una risposta.
    sebastian
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  10. .
    Fu la voce, piuttosto che il rumore della serratura che scattava e dei cardini che ruotavano per far aprire l'uscio, a destare lo special dai suoi pensieri. O, per meglio dire, dallo stato confusionale in cui era ricaduto una volta scemata l'adrenalina che lo aveva spinto fino alla porta del guaritore.
    «bash?»
    Il ragazzo in questione battè le palpebre un paio di volte, lo sguardo a vagare sui lineamenti familiari del Kane, pur senza riconoscerli del tutto; l'idea che l'altro potesse non essere in casa non l'aveva nemmeno sfiorato, ma ora che se lo trovava di fronte reputava davvero una fortuna che avesse aperto. Annuì, pur sapendo razionalmente che non servisse una conferma. Erano molte le cose che Bash razionalmente sapeva, ma non tutte tornavano alla memoria in quel particolare frangente.
    Quando Kiel gli fece cenno di entrare, l'altro lo seguì all'interno, inciampando più che camminando, mosso da fili invisbili che governavano il suo corpo meglio di quanto non riuscisse a fare la sua mente. Si addentrò a fatica lungo il corridoio, le mani a cercare involontariamente un appiglio ovunque fosse possibile, per rimanere dritto, e macchiando le superfici con il sangue raccolto dalle ferite; avrebbe chiesto scusa a Kiel, e si sarebbe offerto di dare una pulita, se solo se ne fosse reso conto. Ed invece, a malapena era presente a se stesso.
    Registrava i dintorni e sapeva esattamente dove fosse, ma se gli avessero chiesto come ci fosse arrivato, non avrebbe saputo rispondere. C'erano continui e fastidiosissimi buchi neri nella sua memoria, che mangiavano i ricordi tra il momento in cui aveva riaperto gli occhi in quel vicolo puzzolente, e quello in cui Kiel Idowu-Kane aveva aperto la porta di casa sua.
    Un attimo prima attraversava l'uscio, quello dopo crollava sul divano dell'ex corvonero, testa reclinata all'indietro, e mani a premere sugli occhi, sulle tempie, sui capelli corti. Non era sua intenzione chiudere gli occhi, ma non voleva nemmeno tenerli aperti; senza rendersene conto, cedette al canto da sirena della stanchezza, respiri affannati a scivolare via dalle labbra appena dischiuse.
    «perdonami, non ho fatto la spesa.»
    Quelle parole lo destarono, di soprassalto, e Bash si ritrovò costretto per l'ennesima volta in chissà quanto tempo a contare i battiti e a far rimbalzare lo sguardo stanco su ogni superficie che fosse a portata di mano, rendendosi conto che fossero familiari, ma non abbastanza: la risposta al dove sono? arrivò con qualche istante di ritardo, seguita dalla spiacevole consapevolezza di non avere alcuna idea di come ci fosse arrivato, a casa di Kiel — un po' come pandi che torna ubriaca dal compleanno di saralessia e non si ricorda dove ha attraversato, né il tragitto per casa, ed è un miracolo sia ancora viva per raccontarlo.
    Proprio come pandi la mattina dopo, dunque, anche Bash rimase in silenzio a fissare il vuoto per più minuti di quanto fosse lecito, provando a ricostruire un percorso a cui mancavano troppi pezzi per poter essere coerente; ricordava il ring, ricordava di aver scommesso i suoi stessi soldi (e la sua stessa pelle) sul cavallo favorito, e di aver poi riaperto gli occhi in una traversa abbandonata da Dio e da ogni essere umano sulla faccia della terra.
    Quei pochi che non erano morti per la guerra, comunque.
    Tutto il resto era un blob informe di immagini vaghe, alcune troppo saturate e altre in banco e nero; non valeva la pena ingigantire il mal di testa, già padrone di ogni sofferenza, per cercare di ricordare più di quel poco che sovveniva in maniera naturale.
    «chi hai fatto incazzare?»
    Nessuna risposta da parte di Bash, non per il momento comunque. Era difficile spiegare i continui lividi e le perenni ferite che adornavano una tela pallida ma mai intonsa, Bash aveva persino perso ogni interesse a raccontare le storie sempre diverse, ma troppo simili tra loro, dietro i segni che lo marchiavano quasi quotidianamente; ma era ancora più difficile spiegare perché ne avesse così bisogno, perché le cercasse tutte disperatamente, dalla prima all'ultima. Come un qualsiasi altro essere umano affetto da una dipendenza, anche il Baker era vittima allo stesso tempo del bisogno viscerale e della vergogna che anche la sua si portava dietro.
    Allora preferì rimanere in silenzio, allungando una mano per ricevere in cambio la bottiglia ancora piena, sulle labbra spaccate un «non hai qualcosa di più forte?» d'obbligo — non voleva miracolosa medicine o un incantesimo che smorzasse il dolore, o la sensazione di torpore per la quale s'era sbattuto così tanto, altrimenti avrebbe significato faticare per nulla. Ma di qualcosa aveva bisogno, e dubitava fortemente di poter reggere qualsiasi altra cosa o attività, in quel momento, nonostante fosse abituato a lavorare anche nelle condizioni più critiche. Non era andato da Kiel per quello, non quel giorno.
    Alzò lo sguardo su di lui, a quel punto, osservandolo come se lo vedesse per la prima volta, pur faticando ancora a metterlo a fuoco ma riconoscendo comunque la stanchezza sul volto del maggiore, i segni sulla pelle d'ebano e qualcosa di spezzato nello sguardo profondo. «dove sei stato?» perché Kiel raramente faceva trascorrere più di un paio di settimane tra un loro incontro e l'altro, e invece erano passati mesi da quando s'erano visti l'ultima volta. In un primo momento Bash aveva immaginato che, con una cazzo di guerra in corso, le persone sarebbero state meno nell'umore per andare a scopare con perfetti sconosciuti — e invece gli affari, al Lilum, non erano minimamente calati. Era solo la presenza del Kane ad essersi fatta più rara, fino a sparire del tutto. Poteva capirlo, infondo: chissà quanta gente era finita al San Mungo ogni giorno, per quasi due mesi, chi in condizioni critiche, chi in un sacco nero; Kiel doveva aver avuto le mani piene.
    O così preferiva convincersi la mente stanca dello special, perché l'idea che l'altro avesse appena compiuto un viaggio di andata e ritorno dall'inferno, non risuciva nemmeno a sfiorarlo.
    sebastian
    bash baker

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  11. .
    C’erano giorni in cui Bash saliva sul ring di Spaco con l’obiettivo di portarsi via qualche galeone extra con cui arrotondare, conscio comunque, già in partenza, del fatto che parte della vincita l’avrebbe poi utilizzata per comprare alcol – che fosse anche abbastanza forte da affievolire il dolore dei colpi subiti; e c’erano giorni, invece, in cui ci saliva armato solo del masochismo intrinseco nel suo DNA, pronto a farsi abbattere da energumenti grossi il doppio di lui solo perché era abbastanza rotto al punto da trovare piacevoli quei piccoli momenti di puro blessing tra un colpo e un altro.
    Bash Baker non era una persona funzionale. Aveva un modo tutto suo, e poco salutare, di vivere la vita; l'alcol e il sesso erano solo due dei tanti vizi che lo special aveva; la violenza era un altro.
    La trovava, molto spesso, catartica e necessaria; non la cercava per sentire qualcosa, ma piuttosto per avere ancora una volta la conferma di quanto puttana fosse quella vita. Ogni colpo ricevuto era l'ennesima dimostrazione che se c'era una cosa certa, a quel mondo, erano i colpi ben assestati dati dal destino — fisici o meno, facevano un male cane entrambi. E ogni schiaffo preso, ogni attimo di mancata lucidità quando il dolore era troppo per poter essere sopportato, ogni livido che lasciava colorare la propria pelle, Bash lo accoglieva con la stessa familiarità con cui si salutano due amici di vecchia data.
    Quella, era una delle sere in cui Bash aveva bisogno di ricordare il marcio, e quale miglior modo se non cercandolo direttamente nella casa di Spaco, tra un pugno sul naso e un calcio alle costole; la mattina dopo avrebbe mentito ancora, dicendo che stesse bene, ma senza inventare balle non necessarie — preferiva il silenzio, e lasciare che il suo sguardo nocciola scoraggiasse gli altri dal fare domande. Dopotutto, non erano molti coloro i quali si (preoccupassero) azzardassero a porre quesiti. Quanto al lavoro, beh: non c'era nulla che un po' di trucco non potesse mascherare, been there done that, avrebbe chiesto a Cass una mano se fosse stato necessario.
    Per il momento, voleva pensare solo a quel duello il cui esito era già scritto nelle stelle — Bash l'aveva scelta apposta.
    Nonostante il sangue che colava già dal labbro spaccato, e il fatto fosse poggiato contro il bordo del ring perché a malapena in grado di reggersi sulle proprie gambe, il sorriso che l'americano stava rivolgendo allo sfidante si fece più insolente e provocatorio. «Tutto qui quello che sai fare?» Gli avevano promesso che non sarebbe stata una sfida ad armi pari, e fino a quel momento era rimasto deluso: aveva insaccato un colpo dietro l'altro, ma niente a cui non fosse già abituato.
    Aveva bisogno di qualcosa di più forte, quella sera; un bisogno fisico che non sapeva spiegare, e che nemmeno la scorta di alcolici che aveva in casa avrebbe soddisfatto.
    «Dovresti colpire più forte.» Si allontanò a fatica dal bordo del ring, muovendo passi lenti in direzione del gigante che aveva di fronte — da quella poca distanza, per osservarlo in faccia, Bash doveva reclinare il capo all'indietro. Lo stava deludendo. «Colpisci più forte, coglione.» Bash Baker amava provocare: che fosse a parole, a gesti, con un semplice sguardo, non faceva differenza; gli piaceva mettere a disagio le persone e spingerle a compiere azioni che in altre circostanze non avrebbero mai fatto. Lo trovava divertente ma anche giusto: voleva vedere il marcio nascosto dietro ogni persona, voleva strappare via a morsi le maschere di finta educazione che ciascuno di loro aveva appiccicata sulla faccia.
    Quel caso non era diverso: istigare un uomo grande il doppio di lui solo per farsi picchiare più violentemente e guadagnare qualche istante di stordimento. Che razza di junkie, che era.
    «Andiamo! Più forte ho detto!»
    Il problema di riuscire a persuadere le persone a fare ciò che comandavi, comunque, era che poi queste ubbidissero.


    Aprì gli occhi lentamente, Bash, prendendo coscienza di dove fosse un centimetro di parete alla volta: le iridi nocciola setacciarono a fatica i dintorni, vista offuscata dalle palpebre gonfie e dal mal di testa che gli martellava nelle tempie.
    Era mezzo sdraiato e mezzo seduto in un vicolo buio di Londra — qualcuno, al ring clandestino, doveva averlo visto, incosciente e ad un respiro di distanza dell'esalare l'ultimo, e doveva aver pensato che fosse meglio abbandonarlo da qualche parte il più lontano possibile da lì, piuttosto che dover fornire spiegazioni riguardo un cadavere ritrovato dai Cacciatori nei loro locali occupati illegalmente.
    Che l'avessero dato per spacciato era poco ma sicuro; peccato che gli stronzi non sapessero che Bash Baker era duro a morire.
    Aveva incassato botte come un cazzo di professionista, fino all'ultimo pugno sulla tempia che, rivelandosi un po' troppo ben assestato, gli aveva fatto perdere i sensi. Beh, era stato lui a chiedere che l'avversario picchiasse più forte, dopotutto.
    Attese qualche minuto che Londra smettesse di oscillare davanti ai suoi occhi, poi raccolse le ossa doloranti e i muscoli portati allo stremo, e si alzò. Riuscì a fare ben due passi prima di finire nuovamente a terra, le ginocchia a impattare con l'asfalto umido e i palmi delle mani a frenare la caduta. Sputò a terra, e sorrise; aveva guadagnato ciò che voleva, alla fine; quello che, a causa della povertà, non poteva cercare in una dipendenza più seria. Almeno gli incontri illegali avevano il duplice effetto di eccitarlo e soddisfarlo — anche se poi rischiava di lasciarci le penne una volta sì, e quella dopo pure. Ma era parte della scarica di adrenalina che Bash andava continuamente cercando.
    Si rimise in piedi per la seconda (terza? quarta?) volta, fingendo che non avesse dei chiodi a premere contro la scatola cranica, o che il dolore alle ossa e ai muscoli non fosse così forte da provocare giramenti di testa e vista annebbiata. Aveva visto di peggio; era stato conciato molto peggio di così, picchiato dalle stesse mani che avrebbero dovuto proteggerlo, e lasciato incosciente per intere notti, ed interi giorni, al punto da sviluppare una resistenza fisica invidiabile.
    Ma aveva comunque bisogno di qualche analgesico anche lui, di tanto in tanto. Peccato che non potesse rivolgersi al San Mungo direttamente — nonostante perdesse il controllo, di tanto in tanto, era comunque intenzionato a mantenere segreto il suo stato di sangue, e consegnarsi volontariamente ai guaritori sembrava controproducente persino alla sua mente messa duramente alla prova dall'incontro.
    Ah, se solo avesse avuto un guaritore a portata di mano; uno che non facesse domande sarebbe stato ancora meglio, ma Bash doveva accontentarsi di quello che aveva.
    Come sempre.
    Passò il dorso della mano sotto il naso e sulle labbra, asciungando quel poco di sangue che non si era già addensato sul suo viso, fingendo di darsi un'aria meno disastrata di quanto non fosse in realtà, ricordandosi solo in seguito che il Kane lo aveva visto ridotto in condizioni peggiori. Non si fermò fino a che non raggiunse, interminabili minuti dopo, il portone che stava cercando; per lo meno, nel suo girovagare per le strade di Londra non aveva incontrato troppi sguardi curiosi, complice l'ora tarda e la zona.
    Citofonò e rimase in attesa.
    sebastian
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    A Bash, di base, le persone non piacevano.
    Fine.
    Non c’erano motivazioni complesse dietro quel sentimento, era così e basta. Forse, se qualcuno avesse proprio voluto impegnarsi nel cercarle, e darsi una spiegazione, leavrebbe potute ricondurre alla sua terribile infanzia e al modo in cui Bash era sempre stato trattato da coloro che, in teoria, avrebbero dovuto prendersi cura di lui; ma non sarebbe stato corretto, né tantomeno utile, perché con ogni probabilità Sebastian Baker avrebbe odiato e fatto guerra al mondo anche se fosse stato amato e cresciuto da una famiglia normale e umana.
    Era semplicemente ciò che era, la sua natura.
    E le persone, alla fine della fiera, erano suoi clienti; niente di più, niente di meno. Non c'era una ragione sufficientemente valida affinché li considerasse qualcosa di più, di affettivo o di importante.
    Non aveva molti amici, non aveva (mai avuto) uno stretto rapporto con la famiglia biologica e di certo non lo aveva (avuto) con quelle a cui era stato affidato nel corso degli anni; era un lupo solitario, capace di sopravvivere senza un branco — anzi, forse era proprio nella sua solitudine che Bash riusciva a sopravvivere meglio. Non gli piaceva circondarsi di persone, non quando rischiavano di diventare una liability.
    Ma, come per ogni altra cosa, esistevano delle eccezioni; qualche collega un po’ più simpatico con cui Bash non trovava insopportabile condividere il turno; uno o due clienti che pagavano bene ed erano anche tollerabili nei modi di fare; sconosciuti incontrati per caso, e mai più rivisti, che, anziché fargli arricciare il naso con disapprovazione, gli avevano persino strappato un mezzo sorriso riluttante.
    Arabells Dallaire, dopo pochi secondi dalla sua apparizione, finiva già in quell’ultima categoria; e vi prese definitivamente posto quando, leggendo quel che bastava dalla rigidità del corpo di Bash, mollò la presa e si allontanò verso il bancone. Brava, pensò il ballerino, seguendola con passo lento, e annuendo silenziosamente alle sue parole.
    «oh, lizzy che pensiero gentile» Bash avrebbe detto idiota, perché si conosceva abbastanza bene da sapere che, potendo approfittarsi di un quasi letterale open bar, avrebbe scelto gli alcolici più raffinati e non si sarebbe limitato ad uno o due bicchieri; ma non disse nulla, lungi da lui spaventare la Barbie spagnola e farla tornare sui suoi passi. Quel che era promesso, era promesso.
    Fece un cenno d’assenso in direzione di Arabells, come a voler far intendere che fosse d’accordo con lei e non potessero di certo mancare di rispetto al conto in banca della bionda, e alzò il bicchiere nella sua direzione quando il barista gli allungò la vodka ordinata. Non brindò – le due ragazze non avevano ancora piazzato le proprie ordinazioni – ma mandò comunque giù in un solo sorso l’intero contenuto del bicchiere; il primo, sperava, di molti. «questa non era male, se ti piacciono le cose forti» e, per qualche ragione, pur conoscendone solo la versione di giornali e critici del quidditch, Bash aveva il sospetto che alla Dallaire piacessero eccome, le cose forti.
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    «Dios mío, che broncio orribile»
    Non era sua abitudine farlo, ma si trattenne dal commentare con un poco educato “ti sei guardata allo specchio”, perché con una veloce occhiata Bash aveva già inquadrato il genere di persona che aveva di fronte — e sì, era proprio quel tipo di persona che si guardava, e come se si guardava; più di una volta all’ora, su qualsiasi superficie riflettente, baciando il proprio riflesso.
    Rimase inespressivo, dunque, a malapena un sopracciglio inarcato ad accompagnare “il broncio”; non aveva senso fare un commento del genere, non quando così ovvio,
    (Che poi, giusto per amor di cronaca: quella era la sua espressione rilassata, grazie tanto. Era incazzato, sì, e di malumore, ma non aveva il broncio.)
    «No scusami baby, dico, prenditela con quel bestione» Sapete cosa? In altre circostante, Bash l’avrebbe fatto molto più che volentieri: sarebbe andato a bussare sulla spalla dell’uomo che aveva causato il trambusto, e lo avrebbe provocato fino a sentire le nocche dell’altro impattare contro la propria mascella, o contro il costato — poco importava il dove, gli interessava solo la promessa di una rissa fatta a dovere.
    Ma quella sera? Era troppo preso male pure per aizzarsi contro le violenza cieca di un energumento tutto muscoli e niente cervello. Ma non lo disse alla bionda: non erano affari suoi. Che capisse pure ciò che preferiva, a Bash non poteva importare di meno. Infatti, al successivo «hai il dente avvelenato perché vuoi più di un drink? bastava dirlo prima» si limitò a rispondere con un vago cenno di assenso con il capo, perché, ancora una volta, chi era lui per rifiutare drink gratis.
    «va bene così?» Beh, stava decisamente meglio.
    (Bash spendeva in alcol più di quanto guadagnase con entrambi i lavori — extra compresi; era ovvio che avere una finta Paris Hilton pronta ad accollarsi il suo alcolismo fosse un regalo molto ben accetto dallo special. Non per questo si sarebbe dimostrato adorante e debitore nei suoi confronti.)
    «scusa mi sfugge il tuo nome, io sono Liz, piacere» RImase in silenzio un attimo a decidere quale nome darle, se quello ufficiale o quello d’arte, e si rivelò un attimo di troppo. Prima ancora di poter aprire bocca, percepì una nuova presenza giungere al suo fianco e poi una voce che non gli era familiare. «maaaaaaaaaaaatt» Il sorriso entusiasta della nuova arrivata non trovava posto in quel particolare quadretto che si stava andando a creare, ma Bash decise comunque di stare al gioco: giocare, dopotutto, gli era sempre piaciuto. La osservò ammiccare, rivolgendogli un non detto che il Baker non tardò a cogliere, e che ammorbidì istantaneamente la sua espressione. «non ci si può distrarre un attimo, boubou» Che soprannome di merda, maledetti francesi (cit. i Linguini 24/7) «cosa mi sono persa?»
    Sebastian Baker non era affatto un appassionato di Quidditch; era, al contrario, l'ultimo dei suoi problemi. Ma aveva imparato molto presto a sopravvivere osservando e, soprattutto, conoscendo; sapere sempre un po' più degli altri si era rivelato, molto spesso, la carta che aveva fatto la differenza nelle situazioni più critiche.
    Per questo, pur non essendo un tifoso, il viso di Arabells Dallaire non gli era sconosciuto.
    Rimase ad osservarla un po', soppesando in silenzio i gesti fluidi della giocatrice che sottolineavano un'amicizia che non esisteva, ma convincenti abbastanza da solleticare l'apparentemente inesistente curiosita di Bash: perché una Arabells Dallaire doveva fingere in quel modo, con due perfetti sconosciuti? Cosa poteva mai sperare di ricavarne?
    Drink gratis, certo; ma Bash dubitava che non potesse permettersi un bicchiere di rum.
    Beh che, in effetti, a lui fregava meno di nulla.
    Non si illudeva nemmeno che fosse arrivata lì per salvarlo — punto primo: non ne aveva bisogno; punto secondo: le sarebbe entrato in tasca ancora meno, quindi ne dubitava ancora più fortemente.
    Alla fine, concesse un mezzo cenno del mento alla giocatrice, e poi forzò con facilità un sorriso mellifluo sulle labbra: anche lui era bravo a fingere, lo faceva costantemente, ogni giorno. Non sarebbe stato di certo un imprevisto, o un cambio di espressione, a coglierlo impreparato. Indicò con una mano la Barbie spagnola. «Liz si è appena offerta di mettere i miei drink sul proprio conto, per scusarsi di avermi inavvertitamente colpito col fondo di quella bottiglia.» si affrettò a spostare il dito verso la bottiglia in questione, che aveva tutta l’aria di costare almeno quanto lo stipendio di sei mesi del ballerino. Arabells avrebbe colto al volo ciò che Bash lasciò non detto; posò lo sguardo castano sulla ex Arpia, guardandola come se fossero amici di vecchia data. «Direi che sarebbe scortese non approfittare della sua gentilezza, tu che dici?» L’angolo della bocca a piegarsi appena di più verso l’alto: solo un attento osservatore avrebbe notato come il corpo di Bash rimaneva contrario all’accettare la presenza invadente della Dallaire. Non era rilassato, nemmeno un po’ ma poteva distrarre abbastanza le attenzioni da quel particolare affinché nessuno se ne accorgesse.
    Era bravo in quello.
    «Dunque,» stavoltà guardò di nuovo Liz. «Io prendo una vodka. Ripiano in alto.» Ovvio.
    I want
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    things


    SPOILER (click to view)
    siamo in tempi difficili e di ristrettezze, 400parole massimo è tutto ciò che mi posso permettere BACINI
    (scusa j, scusa liz, bash è davvero.... così. meh. ugh.)
  14. .
    Lo metto come disclaimer just in case: menzioni a prestazioni sessuali a scopo di lucro (cit.) perché insomma, è Bash.


    sebastian 'chris' baker
    Don’t you dare
    rest easy
    && leave the rest
    of it to me


    2003 ✧ wafiakinesis ✧ loverboy
    don't remember
    many daybreaks;
    how many sunrises
    have come
    as I lay awake.
    Don't dwell on
    my worst mistakes.
    Con un sospiro pesante, Bash si chiuse alle spalle la porta dell’appartamento e rimase lì per qualche secondo, schiena contro la porta di legno massiccio e occhi chiusi, come in attesa di qualcosa. O forse, semplicemente, alla ricerca di un po’ di pace.
    Peccato che la via londinese dove si trovava non fornisse esattamente la calma e la tranquillità di cui lo special necessitava in quel momento.
    Fu veloce a riaprire gli occhi, iridi cangianti fisse sul viavai di inglesi che non badavano minimante a lui; e come biasimarli, d’altronde. Bash non era nulla se non un puntino inutile nel grande schema delle cose; una macchia su una tela che andava ben oltre la sua persona. Non faceva alcuna differenza, nell’esistenza altrui.
    E loro non la facevano nella sua.
    Con un colpo di reni, si staccò dalla porta e pescò dalla tasca posteriore dei jeans un pacchetto di sigarette acciaccato; non era abbastanza per mascherare il sapore di bocche e corpi sconosciuti che ancora premevano sulle sue labbra, ma era una distrazione più che sufficiente, almeno per il momento. Per togliersi davvero la sensazione di mani sconosciute sulla pelle, poi, sarebbe servito ben più di una sigaretta — o di una doccia. Almeno due o tre bicchieri mandati giù uno dietro l'altro.
    Rimise l’accendino nel pacchetto, il pacchetto nella tasca, e si allontanò dall’appartamento.
    Le visite a domicilio erano quelle che Bash meno sopportava — ma erano anche quelle che fruttavano di più; non era nella posizione per poterle rifiutarle. Ormai riusciva persino a convincersi, dopo mesi e mesi di pensieri tormentati affogati in qualsiasi alcolico riuscisse a recuperare, che non fosse poi così diverso dagli incontri al Lilum, o nei bordelli di Dark Street; era solo la location a cambiare, non il resto.
    E la paga — ma perché la visita a domicilio prevedeva una tariffa più alta: se Bash doveva sopportare l’idea di mettere piede in casa altrui, vedere le foto messe in bella mostra sul camino o appese alle pareti, le facce sorridenti di coniugi che nella maggior parte dei casi non avevano la più pallida idea di essere traditi senza scrupoli sotto il proprio tetto, nei propri letti, allora si meritava anche di guadagnare di più. Non era forse un caso, dunque, che la clientela che solitamente preferiva le visite a casa fosse altolocata: erano senza dubbio quelli che più facilmente potevano permettersi di contattarlo. E anche quelli più annoiati dai - o infelici dei -proprio matrimoni.
    A Bash non importavano le motivazioni, fintantoché sborsassero i galeoni pattuiti.
    A quel pensiero, lo sguardo gli cadde sull’anello che, per comodità più che per vero interesse, aveva indossato al dito indice della mano destra. Era bello, quello era indubbio, ma lo special storse comunque il naso: non era solito accettare compensi che non fossero in denaro, ma l’ultimo cliente aveva insistito affinché Bash prendesse anche quell’anello e chi era lui per rifiutare un cimelio che sembrava valere più di quanto il Baker spendesse in alcolici in un solo mese? Quindi l’aveva preso, senza fare (troppe) storie, e l’aveva messo al dito. Non vedeva l’ora di rivenderlo al mercato nero di Inferius e guadagnarci qualcosa sopra.
    Pratica che avrebbe dovuto attendere ancora fino all’indomani, perché per quella sera Bash aveva ancora un appuntamento. Un veloce sguardo all’ora sul display del telefono gli confermò quello che già sapeva: aveva ancora un po’ di tempo per tornare a casa, farsi una doccia, mettere dei panni puliti e recarsi all’ultimo indirizzo di quel giorno. Se le cose fossero andate bene, avrebbe messo in saccoccia qualche altro galeone e poi sarebbe stato abbastanza libero fino al successivo turno al Lilum, a due giorni di distanza. Era solo quel pensiero a muovere le gambe stanche, e il bisogno di mettere da parte abbastanza denaro che, sapeva già, avrebbe speso ancora prima di guadagnare.
    Quando arrivò all’abitazione, appena un paio di ore dopo, notò subito che si trattava di una bella casa: non aveva molte informazioni sui clienti che si rivolgevano alla piattaforma, e non gli interessavano. Né gli servivano. Non aveva nemmeno la certezza che non fossero psicopatici ma hey, ogni mastiere aveva i propri rischi, anche quello più antico del mondo.
    Sospirò, poi si costrinse a suonare il campanello. Nei pochi istanti che passarono, da quel momento a quando l’uscio venne finalmente aperto, Bash pensò: pensò a chi poteva vivere in quella casa, chi fosse così disperato da richiedere la sua presenza a quell’ora, quali strani kink avrebbe dovuto cercare di soddisfare quella sera. Ma nessun pensiero era arrivato anche solo lontanamente vicino alla realtà.
    E Bash, suo malgrado, si trovò a dischiudere le labbra quando ad aprire la porta fu Anjelika Queen in persona. Anjelika Queen la Superpavor. Forse aveva sbagliato indirizzo — forse aveva appena commesso un grave errore che gli sarebbe costato la vita. Uno faceva tanto per renderla un po’ meno marcia, e poi bastava un piede in fallo per mandare tutto a puttante.
    Fece per aprire la bocca e scusarsi: l’ultima cosa che voleva era finire sul radar di uno dei Mangiamorte più pericolosi dell’Inghilterra, sia come (futuro o già) ribelle (ancora non si sa), sia come special. Ma quando la Queen si spostò appena per lasciarlo passare, Bash si fermò di colpo. Uno come lui aveva poco da perdere, ma molto da nascondere; ancora di più da guadagnare. Poteva permettersi di giocare d’azzardo con il destino e accettare di varcare la soglia, entrando volontariamente nella dimora del nemico? A giocare, Bash Baker era bravo; ma ciò non significava che fosse sempre baciato dalla Dea bendata. Anzi, se proprio, la sua vita era la dimostrazione dell’esatto contrario.
    L’esitazione durò non più dello spazio di un secondo. Poi lo sguardo si fece più rilassato, la posa meno guardinga, e le labbra persero perfino la linea dura e stretta che solitamente il ragazzo portava con orgoglio. Un mellifluo «mi scusi se l’ho fatta attendere» scivolò dalle sue labbra, mentre seguiva la Superpavor all’interno, non potendo fare a meno di prendere nota di ogni singola stanza e porta e finestra e dettaglio su cui riuscisse a posare lo sguardo senza rendere troppo palesi le sue intenzioni.
    Aveva scelto di vedere quella mano, di andare all-in, e sperava di non doversene pentire troppo.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©


    SPOILER (click to view)
    QUOTE
    13) [ON] un anello con un emblema sconosciuto sopra. Vi rendete conto che toccando una persona mentre avete questo anello addosso, vedrete un suo ricordo random (a scelta dell'altro player)
  15. .
    ECCOMI!!! Allora. Non ti lascio lo schemino perché non è aggiornato ma trovi comunque qui tutti i miei pg — o quasi, ne mancano sicuramente tre che sono i nuovi e non ho ancora segnato.
    Magari prima o poi aggiornerò anche............

    Nel frattempo posso offrirti:
    Wren come amico dai tempi di scuola! Lui è '97 ma è stato Grifondoro prima di finire nei labs, e poi è ribelle!!! Quindi di sicuro si conoscono (e Wren è letteralmente amico di chiunque perciò non può non averci provato anche con Luke!!!!) (Oddio è uscita male e intendevo /a instaurare un'amicizia anche con luke/ ma effettivamente chi voglio prendere in giro, Wren ci prova con chiunque respiri.)
    Nelia è l'attuale Capo Addestratori nonché addestratrice ribelle, perciò se vuoi può essere la sua mentore o anche semplicemente qualcuno da cui andare quando Luke ha un problema!! Lei è la mom friend dei ribelli, e le piace parlare e ascoltare!1!1!
    Nathan è leggermente più piccolo (2000) ed era tassorosso, ma è un cuore puro e un cinnamonroll esattamente come Luke quindi magari si possono conoscere???;;!! Dimmi tu!!!
    Kyle è '98 ma ha studiato in corea; è un ribelle quindi sicuro si conoscono ma kyle non è molto bravo con le relazione umane e preferisce gli AI o i cani .
    Hold pure è '98 ma non è andata ad Hogwarts, è abbastanza estroversa (e pericolo pubblico.) da poter comunque trovare un modo diverso per farli conoscere se vuoi1!1!1

    Infine!! Willa (che non è nello schema e che ho appena postato nella discussione dei personaggi wip, quindi nessuno sa niente di lei.) che sarebbe una ex Grifondoro, anche lei del 98 ma abbastanza capra da aver perso un anno....o forse due.... chissà vedremo. È tutto un work in progress in realtà, anche se è la versione adulta di una mia vecchia pg!1!1! E penso che farà la guaritrice, vediamo, ci sto pensando!1!1!1

    Eeeee niente. Questo è quanto e devo fuggire di nuovo a lavoro ma sai dove trovarmi per discuterne meglio o per altri ed eventuali plot che ora magari io non ho proposto e che ti vengono in mente 👀

    BACI
19 replies since 20/9/2022
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