Votes taken by the goblin.

  1. .
    Ormai Hogwarts sembrava frequentata solo dai Ben. E non sembravano tanti perché cinesi, dato che loro, di cinesi cinesi, non ne avevano neanche uno, ma perché erano davvero tanti. E, soprattutto, nessuno di loro era sparito in quel maledetto resort.
    Alzò lo sguardo verso il cielo azzurro e terso sopra di loro, i capelli spettinati dal vento carico di salsedine, e congiungendo le mani pronunciò l’ennesima preghiera silenziosa di ringraziamento. Era egoista e lo sapeva, ma non poteva fare a meno di sentirsi sollevato all’idea che nessuno dei Ben10 fosse scomparso. Tuttavia, non poteva dirsi anche felice, dal momento che tante, troppe persone a cui i suoi amici volevano bene non avevano avuto la stessa fortuna. Lo leggeva in ogni sguardo di Balt, e persino in quello di Ben, sebbene la corvonero lo mescolasse con la sua solita furia omicida. Aveva tentato di rassicurarli facendo loro notare di non riuscire a parlare con nessuna di quelle povere anime, cosa che lasciava dunque presumere che non fossero morte, ma non doveva essere stato troppo convincente. Dopotutto, si fidava fino a un certo punto dei propri poteri. E soprattutto di sé stesso. Per non parlare del fatto che, forse, l’assenza di anime forse non era un buon segno. Se sparivano anche gli spiriti, di una persona non rimaneva più nulla. E non sempre significava che fosse passata oltre…
    “Amen.”
    Lasciando ricadere mollemente le braccia lungo i fianchi, tornò ad abbassare gli occhi, giusto in tempo per trovarsi davanti l’immagine del professor Barrow (non riusciva a non pensarlo in altro modo, sebbene non fosse più un loro insegnante. Anche da lì a cinquant’anni, probabilmente, lo avrebbe salutato per la strada con un “salve, professore”, nonostante tutto) in mutande su un maxischermo. Be’, dopo il porno non esattamente soft dell’anno precedente questo non era così scandaloso. E forse aveva anche un suo senso.
    Senso che, però, lui non colse minimamente.
    Cercò chiarimenti nei suoi amici, ma Balt stava vomitando anche l’acqua del battesimo, Ben era andata a meditare decisamente oltre la sua portata e gli altri *inserire qui cosa stanno facendo, ma comunque vi amiamo, ciao*. D’accordo, allora era suo preciso compito cercare di carpire più informazioni possibili e poi passarle tutte al resto dei Ben10. Semplice, no?
    Aveva visto parecchi animali partorire, in quel di Bodie. Pecore, capre, mucche… e scrofe, naturalmente. Non era un grande amante del sangue e dei liquidi corporei in generale, anche perché erano la manifestazione più ovvia della fallacità dei corpi mortali, fatti di carne e ossa e sangue, appunto, ma non era neanche ai livelli di Balt su quella nave. Anzi, per certi versi, nonostante tutto, l’idea di aiutare e, ancora di più, di far venire qualcuno al mondo lo emozionava moltissimo. «Posso dare una mano!», si propose quindi, facendosi avanti un po’ esitante, ma con un sorriso sincero sulle labbra.
    Tuttavia, i suoi amici avevano deciso di farsi ingoiare da quelle che sembravano delle ostriche giganti. O forse delle vongole, in effetti, a guardarle bene. «Speriamo non si vogliano vendicare per la fine che fanno nella Storia delle ostrichette curiose di Alice…», borbottò con un brivido, rivolto ai Ben ancora superstiti. Bennet, chiaramente, aveva con coraggio aperto la strada per tutti, riempiendolo d’orgoglio, ma anche di ansia. Già era rimasto traumatizzato dalla lettura di Attraverso lo specchio, ma, per certi versi, la visione del cartone Disney l’aveva turbato ancora di più.
    Il professor Barrow però li incitava a entrare in quelle bocche spalancate, dicendo di lasciarsi leccare. Per qualche istante la sua mente volò altrove, ma fu il contatto con la viscida ed enorme lingua della piriña a ricordargli che no, non era nell’appartamento profumato e pieno di fiori di Erisha. Le leccate, però, non furono neanche la cosa peggiore: ripiegare due metri gambe lunghe e spigolose in uno spazio pensato sì e no per una persona alta la metà di lui non fu esattamente facile. Quando quindi finalmente uscì, ci mise parecchi istanti per rimettersi del tutto dritto e farsi scroccare anche l’osso del coccige. Per non parlare del guardarsi intorno e scoprire quel panorama bellissimo ma inquietante.
    Erano in una bolla di vetro al contrario. L’acqua era fuori, non dentro. Acqua che li copriva per metri e metri, anzi, chilometri, probabilmente. Una tomba bellissima, bellissima e letale.
    «Ma voi avete ascoltato.»
    Abbassò lo sguardo fino a incontrare quello confuso e corrucciato di Bennet, prima che gli occhi di lei sfuggissero da un’altra parte. «Dobbiamo aiutare gli aiutanti di questa specie di Atlantide – Takitaki, scusate – a capire da quale incantesimo o maledizione sono state colpite alcune creature oceaniche… e quindi anche a curarle?? Una volta fatta un’ipotesi dovremmo ricevere altre istruzioni…», sintetizzò, legandosi i capelli spettinati dal vento di poco prima alla meglio.
    Era sicuramente tutto molto affascinante. Anche se, al solito, non poteva fare a meno di chiedersi quanto fossero disperati al Ministero per chiedere il loro aiuto. Era troppo ingenuo e buono, naturalmente, per non realizzare che quello era un modo con un altro per non assumere altro personale e spendere soldi per gli stipendi. Erano in tutto e per tutto stagisti schiavi.
    Ad ogni modo, sorrise allegro a Dara mentre si avviavano verso il loro box. «Che bello essere insieme!», commentò con sincerità, soddisfatto dalla presenza rassicurante dell’amico. Quando però raggiunsero la loro postazione, la vista (ihihihi) della povera creatura spense ogni allegria dal suo volto. «Oddio poverino!» Si avvicinò al vetro che li divideva dall’esterno, fino a poggiarvi una mano sopra mentre osservava il dolore nell’enorme occhio semiaperto dell’animale. «Chissà che fastidio…» Sospirò e si voltò verso Dara. «Mi sa che è un betabioptal, tu che ne pensi? Con una bruttissima congiuntivite…»

    Arriverò con il codice... forse.

    CITAZIONE
    5. ictus, darae
    Betabioptal: completamente cieco, l'unico occhio della creatura è chiuso e secerne un liquido purulento, il che le impedisce di orientarsi e difendersi

    › betabioptal: XXX – “un mago capace dovrebbe cavarsela” + Dalla forma quasi completamente sferica, gran parte del suo corpo è composto da un enorme occhio. Apparentemente innocuo, il betabioptal è grande all’incirca come due volte la testa di un essere umano e si muove fluttuando nell’acqua, in un movimento che ricorda quello di una palla che rotola. La pericolosità risiede proprio nell’occhio, che usa per cacciare. Infatti, nel momento in cui un’altra creatura fissa troppo a lungo il grande occhio del betabioptal, questo è in grado di ipnotizzarla. In preda alle allucinazioni, solitamente la preda non si accorge dell’espansione della pupilla del betabioptal, né della comparsa di file e file di denti. L’occhio, infatti, è anche la bocca dell’essere, e può diventare grande non solo come tutta la creatura, ma raggiungere il doppio delle sue dimensioni, così da inghiottire anche animali molto più grandi.

    › altro: - Tanto la pelle quanto l’iride possono avere diversi colori, anche se la combinazione più diffusa è pelle verde acido e occhio verdeazzurro.
    - Lo sguardo dell’unico occhio è altamente magnetico e, a detta di molti, provocante.
    - Al tatto la pelle è liscia e morbida e calda, tanto da somigliare a quella di un neonato.
    - Non è ancora del tutto chiaro il processo digestivo di queste creature, dal momento che riescono a ingoiare, per intero, esseri molto più grandi di loro. L’ipotesi più diffusa tra i magizoologi è che vengano teletrasportate in uno stomaco-buco nero collettivo, dove i betabioptal di uno stesso branco mettono in comune non solo la fame, ma anche il nutrimento.
    - L’ipotesi precedente si basa sul fatto che è invece stato comprovato dalla comunità scientifica magica che i betabioptal di uno stesso branco condividono lo stesso cervello, o meglio, lo stesso neurone, poiché gli esemplari studiati in laboratorio si sono dimostrati essere privi di cervello, anche nella sua forma più elementare.

    CODICE
    <b>&#155; betabioptal:</b> XXX – “un mago capace dovrebbe cavarsela” + Dalla forma quasi completamente sferica, gran parte del suo corpo è composto da un enorme occhio. Apparentemente innocuo, il betabioptal è grande all’incirca come due volte la testa di un essere umano e si muove fluttuando nell’acqua, in un movimento che ricorda quello di una palla che rotola. La pericolosità risiede proprio nell’occhio, che usa per cacciare. Infatti, nel momento in cui un’altra creatura fissa troppo a lungo il grande occhio del betabioptal, questo è in grado di ipnotizzarla. In preda alle allucinazioni, solitamente la preda non si accorge dell’espansione della pupilla del betabioptal, né della comparsa di file e file di denti. L’occhio, infatti, è anche la bocca dell’essere, e può diventare grande non solo come tutta la creatura, ma raggiungere il doppio delle sue dimensioni, così da inghiottire anche animali molto più grandi.

    <b>&#155; altro: </b> - Tanto la pelle quanto l’iride possono avere diversi colori, anche se la combinazione più diffusa è pelle verde acido e occhio verdeazzurro.
    - Lo sguardo dell’unico occhio è altamente magnetico e, a detta di molti, provocante.
    - Al tatto la pelle è liscia e morbida e calda, tanto da somigliare a quella di un neonato.
    - Non è ancora del tutto chiaro il processo digestivo di queste creature, dal momento che riescono a ingoiare, per intero, esseri molto più grandi di loro. L’ipotesi più diffusa tra i magizoologi è che vengano teletrasportate in uno stomaco-buco nero collettivo, dove i betabioptal di uno stesso branco mettono in comune non solo la fame, ma anche il nutrimento.
    - L’ipotesi precedente si basa sul fatto che è invece stato comprovato dalla comunità scientifica magica che i betabioptal di uno stesso branco condividono lo stesso cervello, o meglio, lo stesso neurone, poiché gli esemplari studiati in laboratorio si sono dimostrati essere privi di cervello, anche nella sua forma più elementare.
  2. .
    Benedictus Deogratias
    Erisha Byrne
    In all of creation, all things great and small,
    you are the one that surpasses them all,
    more precious than any diamond or pearl.
    They broke the mold, when you came in this world...
    Benedictus non si riteneva intelligente, non lo era, un po’ perché farlo avrebbe significato peccare di immodestia e sovrastimarsi, un po’ perché realmente convinto della propria incapacità. Tuttavia, non poteva negare che, almeno in certi campi, non fosse del tutto digiuno di cervello. Anche perché, come gli diceva sempre Ficus, con tutti i libri che leggeva non poteva essere poi davvero così stupido (cosa che invece sosteneva Mona, anche se, naturalmente, in modo del tutto affettuoso, lui lo sapeva)!
    Eppure nessun libro lo aveva preparato a quello che stava per succedere. Ironico, visto che, da Cime tempestose in poi, lui ed Erisha avevano mostrato una predilezione forse un tantino sospetta per romanzi che parlavano di sentimenti e, nello specifico, d’amore. Paris l’aveva sfottuto in più e più occasioni, beccandolo con il naso immerso in quelle pagine, ma superati i primi istanti di imbarazzo Ictus si era stretto nelle spalle e aveva continuato a leggere. Gli piaceva farlo e gli piacevano quei libri. E, sebbene non volesse portare alla luce del sole quella consapevolezza, affrontarli in compagnia di Erisha aveva tutto un altro sapore.
    Anche lui, come lei, non capiva. O meglio, con tutta probabilità non voleva capire. Perché quel commento che gli era sfuggito dalle labbra, quella constatazione sul fatto che sì, era uno dei dormitori femminili di corvonero, ma quel solo e unico letto non poteva che essere quello di Eri, sottintendeva, che gli piacesse o meno, un’altra consapevolezza, una che non era abbastanza stupido da non cogliere. Insieme alla Byrne aveva letto abbastanza romance, nei mesi precedenti, da non cogliere quel trope così diffuso e, per quanto scontato, capace ogni volta di imbarazzarlo piacevolmente.
    «… stanza delle necessità?» Annuì quasi all’istante, senza rifletterci su, perché non poteva essere altrimenti. Gli ci vollero quindi parecchi secondi perché, però, quel nuovo elemento si sedimentasse in lui, unendosi al resto dei pezzi. Compreso il forte imbarazzo di Erisha, così forte che lei fu costretta a voltarsi verso il letto, il suo letto, per non doverlo più guardare.
    Perché era colpa sua.
    Era lui che, trovandosi senza realizzarlo davvero (ma forse sapendolo, nel profondo della sua mente traditrice) davanti alla Stanza delle Necessità, aveva desiderato che questa prendesse la forma che ora aveva messo Eri tanto a disagio.
    Era lui il pervertito. Lui, il cui sangue ribolliva ogni volta che la pensava, figuriamoci quindi quando era così vicina anche fisicamente. Lui, che ogni volta che chiudeva gli occhi, ma in realtà anche quando li aveva ben aperti sul mondo, non poteva fare a meno di raffigurarsela, e non sempre limitandosi ai suoi occhi e al suo sorriso. Lui, che ormai da mesi aveva scoperto che il suo corpo non era brutto e deforme e sbagliato solo fuori, ma anche dentro, perché reagiva in modi a cui non voleva neanche pensare, figuriamoci vedere, e che erano così dolorosamente piacevoli da rendergli la vita quasi impossibile, perché sapeva che solo accanto a una persona, solo con Erisha, sarebbero al contempo peggiorati e migliorati vertiginosamente.
    Il senso di colpa, per Ictus, era sempre stato una seconda pelle, tanto una corazza quanto uno strumento di tortura che si imponeva per proteggersi e per punirsi. Ma questo, di senso di colpa, era del tutto anomalo. Non si limitava a stringergli la gola e a fargli attorcigliare lo stomaco, a scatenargli quel sudore freddo che si spandeva fin nella punta delle dita; era fuoco bruciante nelle vene, veleno capace di diffondersi in ogni singola parte del suo corpo, risvegliandola.
    Per quanto debole, per quanto sbagliato, tutto ciò che desiderava era vederla sorridere di nuovo. A differenza sua, Erisha si mostrava sempre forte e fiera, bastava anche solo vedere come aveva affrontato quella nuova natura che le era piovuta addosso, per non parlare del fatto che fosse letteralmente andata a combattere in guerra; tuttavia, non c’era nulla di male nel permettersi di essere fragili, di tanto in tanto. E poi, se ora lei era tanto agitata, e imbarazzata, era solo colpa sua, ancora una volta. Cercare di farle capire, seppure in modo confuso e quasi sicuramente sbagliato, era il minimo che potesse fare per lei. Anche se farlo avrebbe quasi sicuramente significato rovinare tutto, e per sempre. Ma non era forse questo, l’implicito ma più vero regalo che poteva farle? Liberarla dalla sua presenza, dalla sua amicizia, da quel tumulto di emozioni e sensazioni che gli si agitavano dentro, e fin troppo spesso persino fuori, ogni volta che Erisha era in paraggi anche solo della sua mente.
    Da vero codardo le parlò mentre lei era ancora mezza girata, anche se non gli sfuggirono il tremore delle sue spalle e il profondo respiro che tirò. Ecco, era arrivato il momento. Quello in cui Erisha Byrne avrebbe finalmente capito che nulla, nulla nella loro amicizia aveva senso, quello in cui si sarebbe finalmente resa conto che una come lei non aveva nulla da spartire con uno come lui.
    Tuttavia, per un istante, si sentì più leggero, sapendo di aver confessato almeno una minimissima parte di ciò che sentiva. Aveva solo scalfito la superficie, certo, ma l’aveva comunque fatto. Per lui era già tantissimo, abituato com’era a essere sì cristallino e sincero, ma a reprimere tutto ciò che riteneva sbagliato e, ancora di più, immorale. Ma il sollievo durò solo un momento, perché nel frattempo Erisha si era girata e, in un battito di ciglia, e del cuore, gli era balzata vicino, con uno scatto che ricordava in tutto e per tutto quello che era stato l’animale incarnazione della sua anima e del suo potere. Senza rendersene conto trattenne il fiato e, incredibilmente, invece di sfuggire al suo sguardo la fissò, dall’alto al basso, così vicina, troppo vicina.
    «vuoi sapere come mi sento io, invece quando sono con te?»
    Impietosita? Impaurita? Annoiata?
    Disgustata?
    Probabilmente tutte queste cose, e anche molte di più, e molto peggiori. Tentò invano di respirare, gli incollati a quelli di lei. No, non solo ai suoi occhi… alla morbidezza delle sue guance, al naso piccolo e perfetto, quasi fosse stato scolpito da uno scalpello divino. E quelle labbra…
    L’aria finalmente passò per la sua gola, ma dovette pagare un pegno per quel transito. Gli sfuggì un gemito strozzato, proprio mentre Erisha lo toccava, a parole e ancora di più a gesti. Doveva aver sentito male. Lei non poteva avere detto quello che lui credeva di aver sentito. Eri avrebbe dovuto provare disgusto, appunto, per non dire schifo, nei suoi confronti. L’esatto opposto, dunque, del desiderio di stargli così vicina, in tutti i sensi.
    «mi sento maledettamente in colpa perché so che tu non pensi a me in quel modo ma starti vicino è… ubriacante, ed io sono astemia»
    C’erano così tante cose che avrebbe voluto, e, ancora di più, dovuto dire, e fare. Per farle capire che si stava sbagliando, prima di tutto. Si sbagliava a provare quelle cose, per lui, lui!. Si sbagliava a volerlo così vicino, a volerlo… com’è che aveva detto? Toccare?
    Dio.
    Tremò forte, incapace di fare altro.
    Ma soprattutto, Erisha si sbagliava credendo che lui non pensasse a lei in quel modo.
    Un altro brivido, e stavolta dalla gola gli risalì la più strozzata, la più stupida, la più assurda delle risate. Una sola, ma che bastava a fargli desiderare di essere inghiottito in quell’istante dal pavimento, per essere poi rinchiuso per sempre nella Sala Torture, buttando via la chiave.
    Non rideva di lei, ma di sé stesso. Dell’assurdità di quella situazione. Del suo maledetto, schifoso corpo, che invece di parlare, invece di aiutarla ad aprire gli occhi e a salvarsi, tremava e si scaldava e diventava molle e duro nei posti dove non avrebbe dovuto.
    Era lui quello ubriaco.
    Così ubriaco che quella sbronza non gli sarebbe mai passata nel tutto. Se lo sentiva nelle ossa, nel sangue.
    Se lo sentiva nel cuore.
    Ma tutto l’amore di carta e inchiostro di cui aveva letto, di cui avevano letto, insieme, non poteva prepararlo a quell’istante.
    Dapprima gli si offuscò la vista, forse per l’agitazione, forse per i capelli scuri come la notte di lei all’improvviso così vicini, intenti a sprigionare quell’intenso profumo che gli faceva girare la testa, che lo faceva, appunto, sentire ubriaco. Percepiva le mani di Erisha sulla camicia, ma mentre questa gli risultava quasi come un corpo estraneo, le dita di lei sembravano essere esattamente nel posto giusto.
    Non era sicuro a chi appartenesse quel respiro caldo, se a sé stesso o a lei, o forse a entrambi, a loro. Era tutto così sbagliato, eppure così giusto.
    Le sue labbra.
    Le.
    Sue.
    Labbra.
    Erisha Byrne lo stava



    baciando.

    Forse era morto e quello era il Paradiso. O forse, e più probabilmente, l’Inferno. Perché mai, mai, mai qualcosa del genere avrebbe potuto essere giusto. Non poteva esserlo. Non c’era nulla di giusto, di casto, nel desiderio bruciante che lo spingeva verso di lei, in quella fiamma che raggiunse le stelle nel momento in cui le loro labbra si toccarono.
    Ma allora perché si sentiva così bene?
    Stava così male da sentirsi bene.
    Ed era nel panico, perché non sapeva cosa fare, né tantomeno come farlo.
    Come si baciava qualcuno?
    Come si baciava Erisha Byrne?
    Sarebbe stato ipocrita, ipocrita e bugiardo, dire che non l’aveva mai immaginato. Anzi, vi aveva fantasticato su così tante volte, e con reazioni sempre peggiori, che alla fine era stato costretto a rinchiudere quel tumulto di immagini e sensazioni e sentimenti in un angolo della mente, un angolo così rovente da bruciarlo ogni volta che, masochista, non poteva fare a meno di sfiorare.
    Ma Ictus non aveva mai baciato nessuno, e non aveva mai avuto neanche intenzione di farlo. quel genere di cose non erano state fatte per lui. O meglio, lui non era fatto per quel genere di cose.
    Eppure non c’era nulla che desiderasse di più di sentire ancora e ancora le labbra di Erisha sulle proprie.
    Il panico si mescolò al fuoco dentro al suo corpo, all’emozione, alla felicità, all’eccitazione. Sarebbe stato immobile, se non fosse stato per gli infiniti brividi che, come piccole scariche elettriche, lo attraversavano.
    Si sforzò con tutto sé stesso di fare qualcosa, qualsiasi cosa, ma non sapeva neanche da dove cominciare, preso com’era dall’agitazione e dallo sconvolgimento. Premette le labbra contro quelle di lei, al contempo non desiderando altro ma sentendo il bisogno di molto di più, infinitamente di più. Un po’ meccanicamente, ma al contempo in modo istintivo, le sue mani cercarono, e trovarono, i fianchi di lei, stringendoli con delicatezza, attirandola più vicino.
    Pessima mossa, visto quello che stava succedendo al suo corpo.
    Quando alla fine capì di essere sul punto di svenire, senza più aria nei polmoni per la paura e l’emozione e quella tempesta che gli imperversava dentro, rendendo ogni centimetro del suo corpo bollente, a cominciare dalle guance solitamente pallide e ora del tutto in fiamme, si costrinse a scostarsi a malincuore dalla sua bocca, scoprendosi ancora capace di respirare, seppure affannosamente. «Scusami», le fece eco con un filo di voce, mettendo lentamente a fuoco il suo viso. Se possibile, era ancora più bella adesso, il volto arrossato e labbra gonfie, i capelli elegantemente fuori posto e gli occhi così brillanti da competere con le stelle. «Scusami», tornò a ripetere, sentendo le lacrime pizzicargli lo sguardo.
    Non riusciva ad articolarlo, ma avrebbe voluto scusarsi…
    «… per tutto. Lo s-so che non lo… volevi. Q-questo. Io. E… non sono… non sono capace. Non l’ho… non l’avevo…! … Mai fatto…» Come faceva a dirle che era stato il momento più bello della sua vita, ma che avrebbe capito se lei avesse voluto cancellarlo seduta stante? «Non devi preoccuparti… lo capisco, lo so che… ma giustamente non ti senti bene e sei triste e sconvolta e… qui… ci sono solo…» Di nuovo quella risatina strozzata, di nuovo un’altra fiammata a rendere il suo viso ancora più caldo e rosso. «… io. Ma va tutto… va tutto bene.»
    Non andava bene niente.
    E le sue mani erano ancora sui fianchi di lei.
    Li strinse appena, inavvertitamente, quando si rese conto di non star più fissando il suo viso, ma le sue labbra. Quelle labbra di cui sentiva ancora il sapore, quelle labbra che erano completamente diverse da ciò che aveva immaginato ancora e ancora, ma infinitamente meglio, infinitamente… vere.
    Non aveva minimamente idea di quello che stava facendo, o forse, di idee, ne aveva fin troppe. Non sapeva nulla, se non che quello che sentiva l’avrebbe prima ridotto in cenere, e poi spedito direttamente all’Inferno.
    Ma si incurvò, sempre di più, finché i loro respiri non tornarono a mescolarsi.
    Ignaro di tutto, a partire da sé stesso, posò di nuovo le labbra su quelle di lei.
    altair
    V year
    Ben10
    (God Must Have Spent)
    A Little More Time on You
    NSYNC
  3. .
    Razionalmente, Ictus sapeva benissimo che, per la legge dei grandi numeri, era quasi impossibile non capitare insieme ad almeno uno dei suoi amici, a lezione. Eppure, quando aveva aperto la propria cartellina e vi aveva letto dentro il nome di Paris, si era illuminato e sentito subito graziato. Non era tanto il fatto che si trattasse del Tipton, dal momento che non aveva preferenze tra i suoi amici, ma, appunto, si trattava di un Ben. Alzò un attimo lo sguardo dal foglio per cercarlo e, quando lo individuò, gli sorrise, ma prima di avvicinarsi fu catturato nuovamente dalla parola scritta. Era più forte di lui: sentiva il bisogno di leggere. Era sempre stato così, ma da quando aveva un’intera biblioteca a disposizione (e potenzialmente qualsiasi biblioteca, ovunque, in tutto il mondo!!) la sua necessità si era fatta ancora più forte. Per non parlare poi del fatto che, adesso, condividesse quella passione con Erisha, e proprio grazie a quell’interesse in comune era, be’, successo tutto.
    Il leggero sorriso che ancora aveva dipinto sulle labbra quando aveva ribassato lo sguardo dopo aver saputo e visto di Paris, e pensato a Eri, si spense mentre leggeva il contenuto del fascicolo. D’accordo, c’era sempre di peggio, ma quella storia non sembrava esattamente da nulla. Chan Kemorde, a differenza sua, non era un ragazzo molto fortunato.

    «Me l’ero immaginato diverso», ammise a bassa voce, una volta che lui e Paris furono nella stanza del paziente. C’era un odore, anzi, una puzza non indifferente, lì dentro. «Sembra di essere in una stalla.» Lungi da lui essere irrispettoso, anzi, si sarebbe volentieri flagellato davanti a quell’eventualità; era semplicemente un dato di fatto. «Mi ricorda un po’ Bodie.» Sospirò e guardò l’amico. «Hai qualche idea?»
    Per quanto lo riguardava, Ictus ne aveva parecchie, anche se quasi tutte gli sembravano decisamente assurde. La paura di sbagliare, e quella conseguente di essere giudicato, erano a dir poco intrinseche, in lui. Eppure sapeva benissimo che non sarebbe successo; non con un Ben. Certo, tra tutti e dieci Paris era secondo solo a Mona in quell’arte, ma lo special sapeva che entrambi non lo facevano con cattiveria, non davvero. «Io…», iniziò quindi esitante, dopo essersi inumidito le labbra, visto che il corvonero non aveva ancora proferito parola. «Io penso sia stato morso. Cioè. Questo è ovvio.» Indicò con un cenno del capo l’uomo sdraiato nel letto e, soprattutto, il braccio martoriato dall’orribile ferita purulenta. «E c’è scritto anche qui», segnalò, accompagnandosi con un dito, quell’informazione nel fascicolo. «Però non dicono da cosa… o da chi. Credo sia stato un cavallo mannaro. Per, emh, ovvie ragioni, anche qui.»
    Si fermò, osservando alternativamente l’amico e il malato, il malato e l’amico, la cartellina aperta in una delle grandi mani, poi prese a gironzolare per la stanza, pensoso. «Già gli antichi Romani sapevano come trattare i morsi dei cavalli mannari. Certo, non efficacemente come dopo la scoperta della penicillina, però esistono tantissime testimonianze dell’uso che facevano dell’allium caballinus, l’erba cavallina, insomma, e del ruggito di drago Tornò ad arrestarsi, sia a parole che a gesti, vicino al lettino del paziente. Guardare la ferita gli scatenava dispiacere, più che orrore, perché tra Bodie e l’orfanotrofio era sempre stato abituato a trattare con cose, e soprattutto corpi e situazioni, schifosi. «C’è anche un detto latino su chi è stato morso dai cavalli mannari, lo conosci?», domandò a Paris, rivolgendo lo sguardo verso di lui. «Più o meno si traduce come… i cavalli sono persone orribili Fece una smorfia. «Uno stupido pregiudizio, insomma.» Dopotutto, nessuno sceglieva volontariamente di diventare un cavallo mannaro… no?
    Sfogliò il fascicolo, scorrendo i dati che vi erano raccolti. «Mmh, qui dice che hanno provato a calmare l’infezione con la ruta… ma non con i fiori di camomilla. Non sarebbe meglio? Hanno pure un sapore più buono…», rifletté ad alta voce, tanto con sé stesso, quanto con Paris. «Hanno usato un sacco di cose, ma quasi mai abbinandole.» Con la fronte aggrottata, continuò a studiare ora il fascicolo, ora Chan. «Sicuramente sarà una follia, ma… potremmo preparare una pozione? Qualcosa di antibiotico, che combatta l’infezione dall’interno… e anche il morso stesso, se vogliamo che il signor Kemorde non completi la trasformazione e diventi del tutto un cavallo mannaro…»
    Così rifece mente locale insieme al Tipton di tutto quello che, secondo lui, poteva essere utile al loro scopo. Nel mentre, lo sguardo gli cadde su una boccetta posata sul comodino del paziente. Incuriosito, si avvicinò e la prese in mano, studiandone l’etichetta. «Cavallo goloso… è sciroppo di zucchero

    Scusate, questo post è totalmente no sense. E senza schema.
    MA NON HO GUARDATO SANREMO PER SCRIVERE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

    Apprezzate lo sforzo.


    GRUPPO 3 – 1° PIANO ORTOPEDIA
    (paris + ictus)

    ANTIDOTO
    Paziente: Chan Kemorde
    Sintomi ed evidenze: ferita profonda e purulenta, pelle attorno annerita, arto opposto trasformato in zampa di cavallo
    Diagnosi: morso di creatura magica
    ndF: noope, quella zampa proprio non dovrebbe essere lì


    Ictus: ingredienti + pozione
    Paris: ingrediente sbagliato + trasfigurazione


    lista ingredienti:
    1. Penicillina (antibiotico ricavato dalla muffa penicillium notatum con una forte capacità battericida. Ideale per combattere le infezioni, è anche un farmaco poco tossico, dunque tendenzialmente sicuro)
    2. Fiori di camomilla (infiorescenze della camomilla, si presentano come delicati fiori dai piccoli e fitti petali bianchi. Hanno effetti calmanti e anti-infiammatori, oltre ad agire positivamente sugli organi digestivi, soprattutto in presenza di convulsioni e di gonfiore, e spesso aiutano contro eczemi e irritazioni di vario genere della pelle)
    3. Ruggito di drago imbottigliato (in natura, quasi tutte le specie di drago apprezzano la carne di cavallo, tanto che spesso gli allevatori e le scuderie devono dotarsi di protezioni verso questi animali. I cavalli stessi, in quanto prede naturali dei draghi, hanno imparato a riconoscere il loro verso anche a grande distanza, così da tentare, quanto meno, di fuggire. Di conseguenza, il ruggito di drago terrorizza i cavalli – e tutto ciò che somiglia a un cavallo)
    4. Erba cavallina (vedere sotto)
    5. Sciroppo di zucchero (a chi non piace lo zucchero? Certo, i cavalli lo preferiscono sottoforma di zolletta, ma nella preparazione di una pozione è più indicata questa consistenza, già perfetta per qualsiasi preparazione)
    6. Ruta (pianta europea contenente derivati cumarinici, ovvero i principi attivi anticoagulanti. Utilizzata anche come potente digestivo e spasmolitico, nell’antichità veniva spesso somministrata, in dosi massicce, per i suoi effetti abortivi, sebbene alquanto tossici)

    nome: erba cavallina (allium caballinus)
    descrizione: Pianta perenne della famiglia delle Liliacee, forma fitti cespugli che arrivano al metro di altezza. La radice ricorda, nella forma, lo zoccolo di un cavallo, mentre le foglie sono sottilissime e fitte, quasi fossero la criniera di un animale, se non fosse per l’intenso colore verde. I fiori, che compaiono tra la fine della primavera e i primi mesi estivi, si presentano a grappoli di minuscoli gigli bianchi e hanno un odore molto forte, che a tratti sembra quasi quello che si percepisce in una stalla. In piena estate, i frutti arrivano a maturazione: dalla forma insolitamente cubica, possono essere di quattro colori diversi (rosso, giallo, blu e arancione), capaci però di manifestarsi tutti in un singolo cespuglio. Ogni fiore è ricoperto da una patina del tutto simile allo zucchero grezzo ed emette, alla giusta distanza, un profumo altrettanto dolce. Tanto le foglie e i fiori quanto i frutti sono perfettamente commestibili, ma non potrebbero avere sapori più diversi: mentre le foglie e i fiori si avvicinano al resto della famiglia, con un forte retrogusto di aglio, i frutti sono dolci e fruttati, in modo quasi stucchevole.
    proprietà: Sebbene possa essere benissimo usata in cucina come la sua più famosa sorella, l’erba cavallina è famosa sin dall’antichità per le sue proprietà anti-mannare. Non sono solo i cavalli a esserne golosi, ma anche i cavalli mannari; per questi ultimi, tuttavia, i frutti dell’erba cavallina sono altamente tossici, motivo per cui, da sempre, vengono utilizzati per preparare antidoti di vario genere a queste creature.

    nome: febris equestri
    descrizione: Pozione dalle proprietà altamente antibiotiche, è usata per curare infezioni interne ed esterne. Pur potendo essere sfruttata anche ad ampio raggio, è fortemente consigliata nel trattamento del morso di cavallo mannaro, che provoca lesioni medio-gravi con conseguente putrefazione della parte del corpo interessata e, agendo internamente, scatena la trasformazione del soggetto colpito in un ibrido umano-equino.
    lista ingredienti:
    - Penicillina
    - Fiori di camomilla
    - Ruggito di drago imbottigliato
    - Erba cavallina
    - Sciroppo di zucchero
    procedimento:
    1. Versare 33 cl di sciroppo di zucchero in un calderone, mescolando alternativamente in senso orario e antiorario.
    2. Una volta che lo sciroppo comincia a sobbollire, farvi cadere dentro uno alla volta, per un totale di 13, i fiori di camomilla.
    3. In un mortaio pestare 66 g di penicillina, fino a ottenere una polvere fine e verdastra.
    4. A fuoco spento, cospargere con un cucchiaino la penicillina nel calderone.
    5. Mescolare il composto ottenuto 9 volte, tracciando delle linee, e non dei cerchi, da destra a sinistra e da sinistra a destra. NB: l’ultima linea non torna indietro.
    6. Lasciar riposare per 33 minuti.
    7. Riaccendere il fuoco e far riprendere l’ebollizione al composto.
    8. Dopo essersi muniti di paraorecchie, versare contemporaneamente nel calderone una bottiglia da 66 fiati di ruggito di drago e 3 frutti e mezzo di erba cavallina (uno rosso, uno blu, uno giallo e metà arancione), senza smettere mai di mescolare in senso antiorario.
    9. Lasciar riposare per altri 33 minuti.
    effetti: Curare le infezioni, in particolare quelle provocate dal morso di un cavallo mannaro.
    effetti indesiderati: Anche se in via di guarigione, è stato osservato che circa il 33% dei pazienti nitrisce per tutti i 3 giorni di somministrazione. Un 3,3% degli utilizzatori di questa pozione che avevano contratto il morbo del cavallo mannaro, riferiscono di essere tornati totalmente umani, a eccezione degli organi genitali.
  4. .
    Benedictus Deogratias
    Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più,
    viventi siam rimasti noi e nulla più…
    La terra è tutta nostra, Marcondirondera!
    Ne faremo una gran giostra, Marcondirondà…
    «nessuno pensava li avresti fatti possedere»
    «Ah no?» *Meme di Salvini.* Un sospiro sollevato gli sfuggì dalle labbra, che subito si incurvarono in un sorriso a metà tra il contento e l’imbarazzato. «Non lo so, c’è a chi piace??» Si strinse nelle spalle, ma poi pensò che Troy meritava qualche elemento in più. «Tipo al mio amico Dara. A lui piace essere posseduto!! E gli piacciono molto i fantasmi. E i tentacoli. E le zanne», le spiegò con convinzione, annuendo alle sue stesse parole. «Gli piacciono un po’ tutti i mostri, in effetti.» Com’è che l’aveva chiamato Paris? Il monster!king? O forse era kink? Chissà, Ictus era abbastanza confuso, quindi non si azzardò a fare quell’aggiunta. «Comunque ecco, però ho sempre paura di fare dei casini quando lo faccio e…»
    «ma tu potresti»
    Sgranò gli occhi, con il solito, controproducente risultato di farli sembrare ancora più sporgenti e ancora più inquietanti (un po’ come quelli della mamma, smack), sentendosi nuovamente gravare dalla preoccupazione. «Be’, sì, immagino ne saranno morti un po’… Spero tutti di vecchiaia, però! Dopo una vita lunga e felice di successi sportivi e non.» Quell’augurio però non bastò a non farlo sobbalzare appena, quando sentì qualcosa, o meglio, qualcuno, sfiorarlo. Non aveva ancora provato a chiamare nessuna anima, com’era possibile? Un po’ spaventato ci mise qualche istante a realizzare che si trattava della mano di Troy e non di quella di uno spirito sportivo. «o puoi fingere, è indifferente. Basta che funzioni» «Oh. No, meglio la possessione.» Non ci pensò nemmeno un istante: come medium faceva schifo, ma come bugiardo ancora di più.
    E poi non voleva ingannare quei poveri bambini.
    Registrò di sfuggita lo scatto di Troy per allontanare la mano da lui, stavolta non smuovendosi di un centimetro. Era così abituato a essere scansato dalla gente, non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, che ormai non ci faceva neanche più caso. Anzi, gli sembrava strano quando accadeva il contrario, specie poi se si trattava di Erisha, che lo sfiorava, che lo baciava, che…
    Si sforzò di riscuotersi da quei pensieri, perché avevano una missione da compiere e, nonostante fosse cresciuto con un prete, sapeva che avere certe reazioni fisiche davanti a dei bambini non era esattamente consigliato. Tuttavia, per svariati momenti continuò ad aleggiargli sulle labbra un sorrisone ebete, mentre la sua mente, e il suo corpo, cercavano di sfuggire al suo controllo, per rifugiarsi tra le braccia della Byrne.
    Tuttavia, non voleva deludere i bambini, né tanto meno Troy, che era così gentile da non volerlo gettare in pasto ai lupi a giocare a uno sport che non sapeva neanche cosa fosse e che, appunto, di base, era uno sport. Aveva una tremenda paura di perdere la poca (?) stima che aveva di lui, specie sentendola sospirare ogni tre per due per le sue pessime idee. Non aveva affatto torto, però. A non avere stima in lui, s’intende.
    Così, la osservò con ammirazione mentre chiamava i bambini a raccolta con un fischio degno di Peter, il miglior amico di Heidi e, ancora più ammirato, ascoltò la sua precisa, e fantastica!, spiegazione sul da farsi.
    E chiaramente si aggregò ai cori di meraviglia e gioia per le caramelle. «Troy», richiamò la sua attenzione sottovoce. «Ce ne sono anche per noi? Di caramelle, dico.» Non che volesse rubare le caramelle ai bambini, in senso letterale proprio, ma almeno una se la meritavano anche loro, no? Più Troy di lui, ovvio, ma dal basso della sua bravura era certo che ne avrebbe riservata una anche per la sua incapacità.
    Scattò pure sull’attenti, al suo schioccare le dita, un bambino tra i bambini, cresciuto giusto quel metro e mezzo di troppo rispetto ai compagnucci. Compagnucci che, una volta distolto lo sguardo ammirato da Troy e posatolo su di loro, lo stavano fissando con malvagità.
    «…» Cercando di non farsi prendere dal panico lanciò un’occhiata alla ragazza, alla collega, all’amica (d’accordo, la conosceva sì e no da un’ora, non aveva il diritto di definirla così, ma sentiva??? Che sarebbe stata sua amica??? VERO????), vedendola sorridere trionfante. Aveva ragione, naturalmente: aveva fatto davvero tutto. Appena un po’ rassicurato le sorrise, cercando di farsi coraggio.
    Cos’è che gli aveva detto?
    Ah, già!
    «Ora mi faccio possedere. Io, non voi! Da un giocatore di hockey. Anzi, no, prima vi spiego come fare…» Si concentrò per qualche istante e, nel palmo della mano sinistra, gli comparve una piccola sfera di ectoplasma. Sorrise e si arrischiò a farsela rimbalzare sul palmo, con l’unico risultato di farla cadere per terra dopo ben un (1) rimbalzo. «Ehi! Fermi!! Dobbiamo fare tutti gli strumenti per giocare a hockey!!» D’accordo che era un gioco violento, ma cominciavano già a menarsi, ancora prima di iniziare? E per una pallina fantasma??
    Quando fu riuscito (forse) a calmare le acque si mise seduto sul prato, a gambe incrociate, circondato dai suoi dodici apostoli, i bambini che avevano dotati di poteri elementari. Prese un bel respiro, unì le mani e cominciò a spiegare loro passo per passo come costruire, sfruttando le loro abilità, le mazze e il resto.
    Il tutto facendo spesso e volentieri sorrisi e pollici alzati in direzione di Troy, come a dirle che sì, il suo piano era davvero fantastico.
    Se non che, adesso, dovevano scegliere. Dire quale fosse la mazza più bella, e quale palla, e rete, e ogni cosa. Ictus non sapeva, o meglio, non ricordava cosa significasse essere il figlio preferito, ma provò comunque tutto il senso di colpa dei genitori dei genitori che vengono costretti a esternare le proprie preferenze riguardo la loro progenie. Soprattutto perché, nonostante tutto, le creazioni dei suoi apostoli erano tutte belle, ognuna a suo modo. Persino gli sgorbi. «Troy?» Lo sguardo traboccante di panico, la invitò con un gesto, e gli occhi sgranati, naturalmente, a unirsi a loro sul prato. «Non sono stati tutti bravissimi?»
    Non c’era un briciolo di menzogna, nella sua voce.
    gif code
    16 Y.O.
    MEDIUM
    SINNER?
  5. .
    Benedictus Deogratias
    Erisha Byrne
    In all of creation, all things great and small,
    you are the one that surpasses them all,
    more precious than any diamond or pearl.
    They broke the mold, when you came in this world...
    «Non devi sforzarti, se non stai bene devi dirmelo»
    E invece quelle parole lo portarono a sforzarsi ancora di più. Di non piangere, in primo luogo, non solo per il suo essere un pg di Sara, ma soprattutto perché ne aveva davvero, davvero voglia. Proprio perché Erisha gli aveva posto quell’implicita domanda, una domanda che avrebbe dovuto essere normale, ma che per lui non lo era per niente.
    Stava bene?
    «Sì, sì, tranquilla, va tutto bene, davvero.» Sorrise, un po’ nervoso, ma la voce che gli uscì dalle labbra, così come il suo sguardo, era totalmente sincera. La cosa più assurda, di quella domanda, è che non era per nulla abituato a sentirla. O almeno, non davvero. A Bodie la cortesia era all’ordine del giorno, ma nessuno si scomodava a fare domande, specie poi se erano semplici convenevoli, allo strano ragazzino cresciuto grazie alla carità del sacerdote locale. A Hogwarts era un modo per parlare del più e del meno, tanto che, ormai, la gente non si sforzava neanche più di pronunciarla e, se lo faceva, era solo per educazione, vera o finta che fosse. Ma Erisha… Erisha era sincera nel porgliela. Era questo a sconvolgerlo. Questo e il fatto che lo chiedesse proprio a lui.
    Si inumidì le labbra, rendendosi all’improvviso conto di quanto fossero secche, al pari della sua gola, e cercò di mettere in ordine i pensieri. Odiava far preoccupare gli altri, a maggior ragione con altri si intendevano i suoi amici e, ancora di più, la geocineta. Anche perché… lui stava effettivamente bene. Anzi, a dirla tutta, non era mai stato meglio. Si sentiva accolto, capito, amato. Dai Ben10 e, anche se quasi non osava nemmeno pensarlo, persino da Erisha, almeno un po’. Eppure tutto questo lo faceva sentire anche in colpa, perché sapeva che avrebbe dovuto sentirsi amato da sempre. Qualcuno lo amava da lassù, proprio come amava tutto il resto dell’umanità e del creato. Lo sapeva, lo sapeva da sempre, e l’aveva anche sentito in più e più occasioni… ma non aveva mai provato quello che sentiva adesso.
    «È solo che...» «quel posto era diventato soffocante» Sgranò appena gli occhi, fissandola per un istante sorpreso, quindi annuì deciso. Soffocante era una definizione calzante per la folla rumorosa, quasi un mare, di studenti raccolti per il prom. Le voci, la musica, le luci, gli odori… Sentì la gola tornare a serrarsi quasi del tutto, mentre lo stomaco riprendeva a contrarsi con forza. Eppure, gli bastò guardare ancora Erisha perché quelle strette, per quanto dolorose e deliranti, assumessero una sfumatura piacevole. Mai avrebbe paragonato il modo in cui alle volte si sentiva in mezzo alla confusione, e soprattutto a tante, troppe persone, a ciò che provava costantemente quando passava del tempo con l’ex corvonero (e in effetti anche solo quando la pensava, cioè in quasi ogni istante della sua giornata, e spesso, se non sempre, persino durante la notte), ma, ora che rifletteva, avendo davanti agli occhi entrambe, non poté non vedere il parallelismo. Solo che da una parte il dolore era fine a sé stesso, mentre dall’altra faceva tutto il giro e diventava un calore che dal petto si irradiava per tutto il corpo, facendolo sudare e tremare al tempo stesso, impedendogli di respirare a dovere ma che gli faceva venire voglia di mettersi a urlare, o forse a cantare. «Tutte quelle persone… il rumore… sembrava essere finita l’aria, come se l’avessero respirata tutta e non ce ne fosse più per me e…»
    «io lo capisco se non ti allieta la mia compagnia»
    Rimase a labbra socchiuse, dimenticando quello che voleva dire, scordando il goffo tentativo che stava facendo di spiegarle come si era sentito nei cortili poco prima, perché convinto di aver sentito male. Cercò una conferma, o meglio, una smentita nello sguardo di lei, aggrottando inavvertitamente le sopracciglia. Gli occhi scuri di Erisha, però, sfuggirono ai suoi, lasciandolo a osservare le ciglia così folte e lunghe che adesso quasi le sfioravano le guance, tanto era concentrata a evitare il suo sguardo. «Perdonami, ma non credo di aver capito bene… Anzi, non ho capito proprio», cercò di esplicitare, sulla lingua un sapore amaro, il gusto della paura.
    Non voleva dire ad alta voce quello che credeva di aver sentito, perché era troppo orribile e, soprattutto, lo terrorizzava. La presenza che, da sempre, non allietava nessuno era la sua. Era impossibile che Erisha stesse rivolgendo a sé stessa quell’accusa. Forse, anzi, sicuramente era un modo gentile e delicato di fargli capire che era vero il contrario: era lei a non volere più passare del tempo con lui. O forse non l’aveva mai voluto, ma era troppo educata e generosa per scacciarlo. Persino adesso, quindi, non lo stava facendo davvero, con tutta probabilità per paura di ferirlo.
    Ma lì l’unica persona orribile era lui, perché invece di confortarla fu attirato dal movimento delle dita di lei, su cui si fissò. Non gli sembrava vero di averle strette fino a poco prima. Magari era stata proprio quella la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: Erisha non poteva più sopportare il tocco viscido e gelido della sua pelle. Non con quelle dita piccole e affusolate, che ora giocherellevano con il nastrino appuntato sulla maglietta leggera, che copriva ma non nascondeva affatto la morbidezza al di sotto e…
    «ti ho trascinato qui senza che magari tu lo volessi, ho pensato solo ai miei interessi, quindi se vuoi tornare dai tuoi amici vai pure »
    «I miei…? Qui…?» Si sentiva, anzi, era, era così stupido! Perché non riusciva nemmeno a parlare? Non che fosse la sua dote migliore, anzi, ma da lettore accanito quale era doveva avere un vocabolario decente, se non altro. Però non era in grado di sfruttarlo. Così come non era in grado di confortare Erisha, né di dirle che era la cosa più bella che gli fosse mai capitata.
    E adesso era ancora più confuso, perché, intorno a loro, il blu e il bronzo facevano da padroni, delineando una stanza elegante e accogliente, curata nei minimi dettagli. Guardò Erisha in cerca di rassicurazioni, sebbene avrebbe dovuto essere lui a rassicurare lei, ma la vide e la sentì altrettanto confusa. «Non ne ho idea…? E come abbiamo fatto a entrare, visto che…» Si interruppe, arrossendo, a un passo dal baratro. Anche se con grande forza e ancora più coraggio Erisha aveva non solo accettato, ma abbracciato la sua nuova natura di geocineta, Ictus sapeva benissimo quanto il pensiero della vita che aveva sempre conosciuto, ma che ora le era stata strappata via.
    «Però c’è solo un letto», constatò, rendendosi conto di star fissando quella parte del mobilio. Quel posto sembrava in tutto e per tutto il dormitorio corvonero, ma, invece dei soliti cinque giacigli tipici di ogni stanza per studenti, qui c’era un unico baldacchino, sul cui copriletto blu finemente ricamato vi era poggiato un pupazzo a forma di pantera.
    Un pupazzo a forma di pantera identico a quello che aveva regalato a Erisha per il suo compleanno.
    Non era un letto solo e solo un letto. Era il letto di Erisha Byrne.
    Serrò gli occhi e cercò di prendere un bel respiro, sebbene l’aria faticasse ancora a passare, augurandosi che la pelle del suo viso non fosse così visibilmente rossa come il calore che vi bruciava sotto lasciava presagire.
    No.
    Anche se il suo corpo era un traditore che si stava agitando sempre di più (ma d’altronde cos’altro aspettarsi dalla carne?), Erisha doveva sapere. Non tutto, perché non aveva il coraggio, da fallibile uomo quale era. Ma doveva almeno provare a farla sentire serena.
    Espirò e riaprì gli occhi, cercando i suoi con la speranza che stavolta non gli sfuggissero. «Eri… non mi ha trascinato qui senza che io lo volessi. Mi hai… salvato. Là dentro stavo… stavo soffocando. Non so bene come spiegarlo, ma delle volte… quando ci sono tante persone… quando c’è tutta quella confusione… mi sento proprio male fisicamente, capisci?» Sapeva di stare mettendo per sempre un punto alla loro amicizia con quella confessione, ma se questo l’avrebbe fatta sentire meglio ne sarebbe valsa la pena. «Mentre quando ci sei tu… mi sento così bene da stare male.»
    altair
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  6. .
    Ananke BeckettV, 15 y.o.beater
    «non vi libererete tanto facilmente di me»
    Literally due secondi dopo: bolide da 17 su Amio.
    Ananke: «🗿🗿🗿».
    Sapeva che il quidditch era così, ed era uno dei motivi per cui lo amava, ma una parte di lei si chiese se non avrebbe fatto meglio ad allenarsi per diventare portiere, invece di battitrice. Starsene lì, a difendere i buchi degli anelli da assalti non richiesti, salvatori della propria (patria) casata… Lanciò un’occhiata a Paris, che da poco aveva parato, per il rotto della cuffia, il primo tentativo di goal della partita.
    Il fatto era che, sebbene non lo avrebbe mai e poi mai ammesso, Ananke ancora non sapeva cosa voleva. Dal quidditch, certo, ma soprattutto dalla vita.
    Davanti a tutti si mostrava decisa e risoluta, di una certezza quasi granitica.
    Tuttavia, dentro, era in subbuglio. E una domanda la tormentava sin dal momento in cui aveva messo piede nell’adolescenza.
    Chi sono?
    Quello, però, non era il momento di mettersi a cantare Les Mis (sebbene, sia chiaro, lei sarebbe stata perfetta nel ruolo di Jean Valjean). O almeno, non quella canzone. Molto più adatto, se mai, il numero iniziale, con i carcerati che trascinano enormi navi dentro un cantiere.
    Cosa? Sentiva il peso della vita dell’intera squadra sulle spalle?
    Figuriamoci……….
    «Le tue minacce non mi sembrano molto efficaci, dovresti lavorarci», fece notare con un sospiro ad Amethyst, invitandola con un cenno del capo a farsi più in là. Stavolta con chi se la sarebbe presa? Fece mentalmente la conta dei tassorosso e alla fine, la mazza stretta in mano, cercò di colpire con il bolide la cercatrice avversaria che sembrava avere occhi più per il proprio capitano che per la palla.
    «Giovani.»
    Paths Of Victory
    Bob Dylan
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    (17) DIFESA AMIO (amio + ana): le parla e le fa cenno di spostarsi.
    BOLIDE SU SUN (ana):
  7. .
    Benedictus Deogratias
    Erisha Byrne
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    Come Sara sul taxi in lacrime dopo essere stata borseggiata nella metro di Parigi, anche Ictus non sapeva come fossero arrivati in quel corridoio silenzioso, quando un attimo prima erano immersi nella calca di adolescenti sudaticci ammassati a suon di musica nei cortili del castello. Non era davvero così strano, conoscendolo, anzi, non lo era per niente, data la sua innata capacità di disconnettersi dal mondo involontariamente, un po’ per protezione, un po’ perché, nei momenti più disparati, il suo cervello finiva per focalizzarsi su qualcosa in modo tanto netto da dimenticarsi del resto dell’universo. E quando poi c’era di mezzo Erisha Byrne, era la fine.
    Purtroppo non era in grado di leggere e capire il greco, perché a Bodie era cresciuto a pane e latino (e cilicio? Kinky), dunque non aveva potuto leggere quell’ode in originale. Tuttavia, Catullo si era ispirato proprio a Saffo in uno dei suoi carmi e, proprio come la lettura dell’intero Liber l’aveva turbato (e soprattutto affascinato, ma ammetterlo lo faceva andare a fuoco dalla vergogna), quella composizione era diventata ben presto un modo efficace per descrivere come si sentiva ogni volta che si trovava in presenza di Eri.
    … lingua sed torpet, tenuis sub artus
    fiamma demanat, sonitu suopte
    tintinant aures, gemina teguntur
    lumina nocte.

    Per tutta la sera aveva pregato che lei non si accorgesse delle sue reazioni così strane, ma in fondo sapeva di essere un caso perso, come spesso gli aveva detto Mona. Quando la sua frequentazione con la Byrne aveva cominciato a farsi sempre più frequente, a partire dai sabato mattina che condividevano in biblioteca, aveva sperato che, ora dopo ora, si sarebbe finalmente abituato alla sua presenza, imparando a non coprirsi ogni volta di pericolo. Con l’andare dei mesi, però, non aveva fatto che peggiorare.
    … ma la lingua si paralizza, tenue sotto le membra
    scorre una fiamma, le orecchie ronzano
    di un suono interno, entrambi gli occhi
    si coprono di tenebre.

    Sebbene la musica sparata da Balt fosse ormai lontana, si sentiva comunque quasi assordato da un rombo. Proveniva da lui. Dal suo cuore. E i corridoi avrebbero potuto essere tanto pieni di gente quanto deserti: tutto ciò che riusciva e che voleva vedere era Erisha, a un passo da lui, che lui guidava passo dopo passo, voltandosi spesso a guardarlo con aria preoccupata.
    «V-va tutto bene… davvero…», tentò di rassicurarla, sebbene, in realtà, il suo cervello non fosse neanche riuscito ad afferrare le parole che dovevano essere uscite dalle labbra di lei. Quelle labbra rosee a forma di cuore, ora piegate appena all’ingiù, ennesimo segno del suo fallimento su tutta la linea.
    Non solo aveva impedito a Erisha di divertirsi con i loro amici, costringendola a passare del tempo con lui in uno dei fortini, quando si era sentito sopraffatto dal rumore, dalle luci, dagli odori e soprattutto dalle persone, ma, decidendo infine di avventurarsi fuori, sicuro di potercela fare, l’aveva condannata a perdersi l’intera serata. E non una serata qualsiasi. Quello era il prom. L’ultimo prom di Eri, che da lì a pochi giorni avrebbe sostenuto i MAGO e lasciato il castello per sempre… il castello e lui.
    A quella consapevolezza un’ondata di panico, che finalmente sembrava essersi un po’ calmato, lo tornò invece ad attraversare dalla punta dei piedi sin nella fronte, che sentì imperlarsi ancora di più di sudore gelido e bruciante. Senza rendersene conto aumentò la stretta intorno alla mano di lei, salvo poi realizzare di quanto le sue dita fossero sudaticce e fredde, al pari della sua fronte.
    Faceva schifo e aveva costretto Erisha ad abbandonare quella che, simbolicamente, rappresentava la fine della sua adolescenza, l’ultima occasione per potersi divertire senza pensieri. Erano in tanti a meritare quegli ultimi attimi di serenità, quasi assurdi, certo, dopo la guerra, ma egoisticamente non riusciva a non pensare che fosse proprio l’ex corvonero a meritarlo più di tutti. Aveva perso così tanto… eppure non si era arresa. L’aveva fatto per aiutare gli altri.
    Proprio come ora stava, ancora una volta, aiutando lui.
    Sebbene fosse un lettore appassionato e curioso, erano tante, troppe, infinite le cose che Ictus non sapeva. Non sapeva dare un nome a ciò che provava per Erisha. Non riusciva a capire cosa gli succedesse, certe volte, quando il mondo prendeva a vorticargli intorno, il petto oppresso da un macigno pesantissimo ma invisibile, lo stomaco stretto in una morsa acuta e dolorosa e la testa tanto insostenibile quanto confusamente vuota. O meglio, quello che sapeva era l’unica cosa di cui fosse sempre stato certo: c’era qualcosa di sbagliato in lui.
    «Dovremmo tornare… ti riaccompagno! Al massimo io poi… vado… così la smetto di…» In mezzo alla nebbia che gli aleggiava nella mente, scegliere le parole era terribilmente difficile. E il respiro gli si mozzò del tutto, quando, all’improvviso, il corridoio dai contorni sfocati fu sostituito da quello che sembrava in tutto e per tutto… «Il dormitorio corvonero…? Ma come…?»
    altair
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    Ben10
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    Speriamo che anche Ictus ci metta così tanto.
    (Cosa? Cosa.)
  8. .
    gifs16 | BEN10MEDIUMBenedIctus De13
    currently playing
    Ghost Stories
    Coldplay
    Maybe I’m just a ghost
    Emptier than anybody knows
    Maybe I’m on the ropes
    Or I’m not even here
    Non era mai stato fisionomista. Non lo era adesso, per quanto avesse passato buona parte della sua (seconda) vita senza niente di meglio da fare che osservare le altre persone (mettendo loro addosso una più che comprensibile agitazione, vista la faccia, e ancora di più gli occhi, che si ritrovava), e di certo non lo era stato prima (o dopo, punti di vista). Ictus o Cent che fosse, tendeva a perdersi nel suo mondo e, ancora di più, in riflessioni pseudo filosofiche, meglio conosciute come viaggi mentali senza né capo né coda.
    Ecco perché, a un primo sguardo, non solo riconobbe a stento giusto la persona che stava cercando, nonché padrona di casa, ma non capì.
    E non capì neanche al secondo e al terzo sguardo.
    «benedictus. stavo giusto pensando a te»
    Sgranò gli occhi, confuso e un po’ spaventato. «A me… prof?»
    Solo in quel momento, osservando il sorriso rassicurante della rossa, si rese conto di conoscerla. Anzi, non solo la conosceva, ma era una delle auctoritates, a Hogwarts. E lui non l’aveva trattata con il rispetto che la sua posizione, e la sua gentilezza, esigevano.
    «Mi scusi, io non…»
    «puoi vederci tutte e tre? Senti di poterci controllare?»
    Annuì, ma poi si affrettò a scuotere la testa. «Sì!! Cioè, no… Voglio dire che…»
    «Forse siamo morte, ma non c'è traccia dei nostri cadaveri. Tu?»
    Insieme ai suoi occhi, che sgomenti rimbalzavano da Lydia a Fitz e da Fitz a Lydia, anche le sue emozioni non facevano che passare da un estremo all’altro, alternando paura e confusione, stupore e imbarazzo.
    «sta meglio di noi sicuramente.»
    A quel commento, se non altro, il suo sguardo si fermò sulla terza ragazza. Ora che la metteva a fuoco veramente, comprese che anche lei era un volto familiare. Era una special a sua volta, molto amica della Fitzgerald.
    E aveva ragione, Jane.
    «Io… io sto bene, grazie!! Non c’era bisogno di… Insomma, siete voi quelle in difficoltà, mentre io non ho alcun diritto e…», cercò di cominciare, partendo dalla cosa più importante, cioè il fatto che, nonostante tutto, si stessero preoccupando loro per lui. Era assurdo e lo sapeva, eppure non poté fare a meno di sentirsi quasi bene, per un attimo, al pensiero che qualcuno volesse davvero accertarsi della sua salute. Ovviamente, però, quella sensazione fu subito spazzata via dal senso di colpa.
    Strinse le labbra e si impose, o meglio, provò a imporsi di riordinare le idee e di continuare. «Vi vedo, sì. Ma non credo che siate morte? Spero che non lo siate!! Ma se lo foste… non sareste così?? C’è qualcosa di… di vivo, nelle vostre anime. Non come…» Il suo sguardo si posò su Ari, che, accanto a Fitz, lo fissava a braccia incrociate. «Come Ari! O Sara!» Indicò con un cenno del capo lo spirito che, lo sapeva, era sempre presente quando faceva figuracce. Ovvero praticamente ogni istante della sua vita. «Non vuole essere un insulto a nessuna di voi, ovviamente!!», precisò, sincero e imbarazzato, alzando le mani. E annuì, in direzione di Nikita, sentendola spiegare ad Ari che non percepiva le altre due ragazze nel modo in cui percepiva quella fantasma.
    Voleva davvero aiutarle, ma… «Mi dispiace che, tra tutti, sia capitato qui proprio… io. Sicuramente uno dei miei amici saprebbe cosa fare!! Io…» Non voleva giustificarsi, non era giusto che lo facesse, ma non poteva fare a meno di sentirsi inutile e, appunto, affranto. È vero, proprio grazie a Fitz aveva cominciato a capirci qualcosa di più dei suoi poteri, ma era ben lontano dall’essere anche solo vagamente consapevole. E, in generale, forse Mona aveva ragione quando lo definiva un incapace…
    Tuttavia, le tre ragazze sembravano convinte del contrario. Nuovamente, si sentì spezzato tra un vago calore nel petto e uno molto più bruciante sul viso. «Potete possedermi!! O farmi tutto quello che volete!», accettò di buon grado, aprendo le braccia in segno di invito. Non aveva bei ricordi delle volte in cui gli era successo, ovviamente sempre del tutto al di fuori della sua volontà, ma non solo avrebbe cercato di aiutarle in ogni modo, ma farsi possedere non richiedeva un suo impegno attivo. Al contrario, sarebbe stato del tutto passivo e, dunque, non avrebbe dovuto dare sfoggio della sua incapacità.
    «puoi aiutarci a tornare tangibili?»
    Cosa che invece non poteva dirsi nell’agire in prima persona per cercare di farle tornare di carne e sangue. «Non lo so… Lo spero, e vorrei, ma non so da dove partire? E se sono capace?» Sospirò agitato, ma poi di colpo sorrise. «Ma Fitz può spiegarmi!!», realizzò, arrivando solo in quel momento alla più ovvia delle conclusioni. «Dimmi cosa devo fare, e io lo faccio.»
    Ma anche l’idea del cronocineta della prof Hadaway aveva senso. Anche se… «Siete… sicure? Del cronocineta, dico…» Tentennò un istante, ma poi si fece coraggio e riprese. «E se ci dicesse che siete davvero… morte? E se fosse… colpa mia??»
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
  9. .
    primo pg del gruppo?
    link scheda: benedictus deogratias
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    Benedictus Deogratias
    Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più,
    viventi siam rimasti noi e nulla più…
    La terra è tutta nostra, Marcondirondera!
    Ne faremo una gran giostra, Marcondirondà…
    «ictus?»
    Si strinse nelle spalle, e annuì. Era abituato alle reazioni non esattamente preparate che il suo nome suscitava negli sconosciuti. Gli piaceva leggerle tutte come confusione, curiosità persino, omettendo invece la larga fetta di sconcerto e persino disgusto. Nel caso della ragazza, comunque, poteva tirare un sospiro di sollievo. Sembrava quasi… dispiaciuta, se mai.
    «tu ictus, io troy. ma che dici, acciarino, stai andando alla grande!»
    Ed era anche molto gentile, in effetti! Le sorrise, grato. «Grazie, Troy!» Si sentiva rinfrancato, ma forse, forse, era stato un tantino troppo ottimista.
    Non che ci fosse nulla di strano, in realtà. Sebbene a vederlo fosse molto più facile pensare all’esatto contrario, Ictus era sempre estremamente ottimista. E come non esserlo, quando si era così profondamente convinti, come appunto lo era lui, che esistesse qualcuno a proteggere e vegliare su tutti gli esseri viventi del creato dall’alto dei cieli? Anche se, nell’ultimo periodo, la sua fede aveva vacillato svariate volte. La guerra, ovviamente, non il suo peccato, era il motivo. Tuttavia…
    Tuttavia era comunque un inguaribile ottimista. Che però, adesso, doveva fare i conti con la realtà insieme a quella ragazza che, in tutto e per tutto, gli ricordava un folletto. Anzi, una fatina, una di quelle del polveroso, e unico, libro di fiabe che c’era a Bodie. Piccola e delicata, con un sorriso vagamente ferino a tenderle le labbra, la ragazza lo spaventava e affascinava al tempo stesso. Sembrava così sicura di sé, e di quello che la circondava. Motivo per cui, a differenza sua, aveva capito immediatamente l’entità del problema che avevano davanti. Lui era partito in quarta, certo di poter accontentare il desiderio dei bambini di giocare a hockey. Non tanto perché credesse nelle proprie capacità, anzi, tutto il contrario, ma perché voleva sinceramente aiutare quei ragazzini in cui, volente o nolente, rivedeva sé stesso. Se giocare a quello sport conosciuto poteva portare loro anche solo un accenno di gioia, avrebbe fatto di tutto per farli sentire meglio, anche solo per un attimo.
    «non so un cazzo di bambini»
    «Ah.» Un altro reality check. Lanciò un’occhiata nervosa a Troy, rendendosi conto di aver più o meno inconsciamente ricamato il proprio ottimismo sulla convinzione che lei, a differenza sua, con i bambini ci sapesse fare. Anche perché non era quello che aveva detto poco prima al ministeriale? Che fosse… una balla?
    No, Ictus era troppo stupido ingenuo per vederla così. Perché mai mentire? «Possiamo farcela comunque! Anzi, sono sicuro che ci riusciremo! Una volta che avremo capito cos’è questo… hockey», cercò quindi di rassicurare tanto lei quanto sé stesso, per poi spiare oltre la sua spalla lo schermo del cellulare di Troy, apprendendo che esisteva un hockey su prato… e uno si ghiaccio, ovvero quello a cui puntavano i bambini. «Sembra molto bello, Ralph, ma… è estate? Non pensi che sarebbe un po’ complicato procurarsi e mantenere del ghiaccio, così?»
    «conosco un solo criocineta… ha raso al suolo una città una volta, ma è un bravo ragazzo»
    «Ma… in che senso…», balbettò a bassa voce, sentendosi la bocca asciutta. Voleva davvero sapere? In realtà no, ma Troy stava già digitando qualcosa sullo schermo del suo telefono, motivo per cui, adesso, distolse lo sguardo, non volendo invadere la sua privacy.
    Però il problema rimaneva. Dove lo trovavano il ghiaccio? E i pattini? E le mazze?
    «Emh… per caso qualcuno di voi sa… fare il ghiaccio? Non con il freezer, eh.» Ridacchiò impacciato e imbarazzato per la bruttezza della sua stessa battuta. «Voglio dire… c’è un criocineta, tra voi? Io posso chiedere a qualche, umh, amico invisibile di indirizzarvi, se lo siete ma non sapete farlo tanto bene…» Rise di nuovo, nervoso, e fece un cenno intorno a sé con una mano. «Sono un medium! Potrei cercare l’anima di un criocineta e… farci dare dei consigli, ecco. Non farvi possedere!!»
    Perché si fosse preso la briga di specificarlo non è dato saperlo, ma ormai era fatta. E aveva come il sospetto che, se anche ci fosse davvero stato un bambino in grado di controllare il ghiaccio, a questo punto non si sarebbe fatto avanti neanche sotto tortura…
    Si guardò intorno dispiaciuto e imbarazzato, per poi sobbalzare appena quando la voce di Troy lo riportò (circa) alla realtà.
    «allora, lampioncino. Le squadre le facciamo noi, perché sicuro sono bulli infami e c’è qualcuno che viene sempre scelto per ultimo.»
    «Mi sembra un’ottima idea. Così possiamo essere imparziali… e non far sentire nessuno escluso», concordò, ricordando le infinite volte in cui era stato lui l’ultimo della lista. Cioè sempre. Non a caso lo diceva anche il suo numero da Ben: era il 10. Non gli pesava, naturalmente, non con i suoi amici, ma certi traumi non si superano mai del tutto.
    Ma perché ora Troy parlava di denti che si infilano in ogni pertugio e… chiedeva a lui cosa dire? «Cosa gli… diremo?», ripeté quindi esitante, non sapendo minimamente da dove cominciare. Anche perché adesso la ragazza stava elencando quello che non avevano.
    Ovvero tutto.
    «però, c’è di positivo che sia uno sport estremamente violento e brutale»
    Avrebbe dovuto sentirsi confuso, spaventato persino, visto che Troy sorrideva su di giri all’idea di vedere i bambini rompersi le ossa, ma provò un forte senso di familiarità. «Alla mia amica Ben piacerebbe molto!», commentò sorridendo a sua volta, rinfrancato al pensiero dell’amica. «Forse anche giocare a questo hockey, ma soprattutto vedere scorrere il sangue! Tipo l’ultima volta che Balt si è rotto entrambe le gambe…» Volta in cui, per inciso, aveva come il sospetto che ci fosse proprio lo zampino di Ben, in quella ruzzolata giù per tutte, ma proprio tutte, le scale del castello.
    «noi facciamo gli arbitri.»
    «Oh Dio, grazie!» Congiunse le mani in segno di ringraziamento al cielo e annuì. «Piuttosto che giocare mi romperei anche io entrambe le gambe qui e ora…», ammise con una mezza smorfia, intimorito com’era da qualsiasi tipo di sport. Uno perché era troppo scoordinato per fare qualsiasi cosa di anche solo vagamente sensato. Due perché gli ricordava tutte le volte per cui era stato escluso anche per questo, e anche in anni decisamente recenti, non solo da bambino.
    «Allora quando giochiamo??», intervenne Ralph, il tono della voce decisamente un po’ troppo alto per i suoi gusti. «Dov’è il ghiaccio? E le mazze?? E i pattini???»
    Già, c’erano ancora quei piccoli problemi.
    «Ve l’ho detto, è estate… come lo facciamo il ghiaccio?? Guardate invece che bel prato che c’è…» Sorrise e indicò il prato che li circondava, che di bello, in realtà, non aveva assolutamente, secco e giallo com’era. «È enorme! Non è molto meglio l’hockey sul prato, per questa volta? Cominciate a cercare dei bastoni per fare le porte!»
    Stava prendendo tempo, invece di trovare una soluzione?
    Assolutamente sì.
    «Forse potrei riuscire a fare una palla fantasma, ma tutte le mazze?», disse a Troy, non appena i bambini si furono sparpagliati alla ricerca dei bastoni, tenendoli però d’occhio con un velo di apprensione. «Mi dispiace, sono inutile…»
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    SINNER?
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    Benedictus Deogratias
    Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più,
    viventi siam rimasti noi e nulla più…
    La terra è tutta nostra, Marcondirondera!
    Ne faremo una gran giostra, Marcondirondà…

    Ictus era un uomo nuovo.
    Lo era in quel mondo, altrettanto nuovo, imposto con la violenza, il sudore e soprattutto il sangue da Abbadon, dove si era improvvisamente ritrovato catapultato dalla parte opposta della catena alimentare. Non era più il tassello più basso, l’ultimo degli ultimi, bensì… il primo. Lui, che non sapeva neanche cosa volesse dire essere primi. Lui, a cui era stato insegnato che solo in paradiso gli ultimi diventeranno i primi.
    Ma quello non era il paradiso.
    Era l’esatto contrario.
    Persino nel mondo ovattato e protetto del castello, dove, nonostante tutto, si sentiva a casa, perché c’erano i suoi amici, qualcosa, nel mese precedente, aveva cominciato a trapelare. All’inizio era stato quasi impercettibile, un gocciolio lento ma perenne. Sussurri. Poi, con l’andare dei giorni, il volume era cresciuto, dell’acqua e delle parole, fino a trasformarsi in un grido. Lontano, certo, ma pur sempre un grido.
    Forse avrebbe dovuto essere felice, ora che aveva il mondo ai suoi piedi. Ma anche solo l’idea era del tutto contraria alla sua natura. Ironico, naturalmente, visto che era la sua natura stessa a renderlo un privilegiato, un eletto, adesso. Come si poteva vivere in un mondo del genere, fatto di sofferenze e soprusi? Un mondo dove il più debole non rischiava solo di soccombere, ma veniva costretto a farlo, alla luce del sole?
    Eppure, Ictus era un uomo nuovo.
    Ma non perché gli special governavano il mondo, adesso.
    Era un uomo a tutti gli effetti, adesso.
    Perché aveva peccato.
    E poteva rimuginarci sopra quanto voleva, ma in fondo lo sapeva benissimo. Sapeva che l’avrebbe rifatto altre dieci, cento, mille volte. Perché la carne era debole. Perché lui era debole.
    Debole e innamorato.
    Chiuse gli occhi e li riaprì, trovando, invece del viso di Erisha su cui aveva più o meno inconsapevolmente fantasticato fino a un istante prima, seduto sulla pancina dell’Aetas, quello di un uomo di mezza età, dall’espressione stanca e tirata. Nonostante, con tutta probabilità, gli arrivasse a malapena alle spalle, visto che, persino da quella posizione, faticava a svettare su di lui, sobbalzò per quell’intrusione inaspettata nei suoi pensieri. E avvampò, sentendosi colto sul fatto.
    Sebbene non avesse fatto assolutamente nulla.
    D’accordo, non era vero che non aveva fatto assolutamente nulla. Anzi.
    Il senso di colpa gli serrò la gola, ma si sforzò di mandarlo giù, con il conseguente rischio di affogarsi, e di connettere il cervello, visto che l’uomo, il ministeriale, anzi, a giudicare dal badge che portava appeso alla giacca sgualcita, gli stava parlando. Era un po’ confuso, però: Paris aveva sempre detto che si diventava ciechi a fare certe cose, non sordi… perché faceva così fatica a sentire? O meglio, a capire quello che stava sentendo? Forse perché, in effetti, non faceva più certe cose (come no………………….), ma aveva fatto ben altro?
    Il viso gli divenne ancora più incandescente e, finalmente, iniziò a connettere tutti i puntini. E si rese conto che lì nel parco non c’era solo il ministeriale, ma anche un nutrito gruppo di bambini. Erano diversissimi tra loro, come età, aspetto e atteggiamento. Ma erano tutti accomunati da qualcosa che Ictus riconobbe a colpo d’occhio: la tristezza dell’orfano. Era quella che aveva provato per dodici anni e che, a dirla tutta, continuava a provare. Da quando era arrivato nel futuro e aveva incontrato i Ben le cose erano migliorate in modo esponenziale, ma, molto più spesso di quanto volesse davvero riconoscere, quell’emozione gli tornava a germogliare nel cuore. I suoi amici erano la sua famiglia e lo sarebbero stati sempre, ma sapeva che, a differenza sua, loro avevano anche un’altra famiglia. Quella che lui non aveva mai avuto. Quella che quei bambini non avevano più.
    Quando quindi l’uomo gli chiese di dargli una mano, di intrattenere il gruppo, quasi non lo lasciò neanche finire di parlare: si era già alzato, e aveva già accettato. Rifiutò, invece, pieno di imbarazzo, i soldi che il ministeriale voleva offrirgli. Gli sembrava un insulto. Non a sé stesso, anche perché vi era decisamente abituato, ma ai bambini. Avevano perso tutto: non meritavano di essere persino trattati come un oggetto, come una zavorra sopportabile solo a fronte di una ricompensa in denaro.
    L’uomo non insistette, motivo per cui Ictus alzò gli occhi al cielo in una preghiera silenziosa. Quindi, si avvicinò ai bambini, cercando goffamente di approcciarsi a loro. «SONO BRAVISSIMA CON I BAMBINI!» A differenza sua, invece, che si sentiva sempre di troppo, eppure al contempo invisibile… Voltò il capo in direzione della voce, vedendo una ragazza avvicinarsi a grande falcate, le braccia spalancate. Le sorrise imbarazzato, facendole un piccolo cenno di saluto con il capo. «Ciao… sono Ictus, piacere. Sicuramente in due sarà più facile far fare ai ragazzi qualcosa di bello… Ti chiedo scusa in anticipo, però: non solo molto bravo con… i bambini», le spiegò, finendo per sospirare. «D’accordo, non solo con i bambini. Con le persone, di qualsiasi età…» Quell’ammissione lo fece tornare ad arrossire, ma quasi non ci fece nemmeno caso, abituato com’era alla cosa. La sua incapacità a relazionarsi con i vivi (ma anche con i morti, in effetti) e la maledizione di provare imbarazzo per ogni singola cosa.
    «giochiamo a hockey?» «Hokey?» Confuso, spostò lo sguardo dal bambino lentigginoso che aveva appena esposto quella richiesta, Ralph, alla ragazza, quindi nuovamente a Ralph. «Hockey…» Come si giocava a hockey? A Bodie facevano altri sport, come Io-sputo-più-lontano o Il tiro al piccione. Non sapeva assolutamente nulla di quella disciplina. Tuttavia, sorrise incoraggiante a Ralph. «Possiamo… provarci. Dicci cosa serve per giocare… Poi, mentre noi prepariamo, puoi spiegare ai tuoi compagni come si fa?» Avrebbe fatto di tutto per far giocare davvero quei bambini… compreso giocare lui stesso a quello sport sconosciuto.
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  12. .
    Benedictus Deogratias
    Razionalmente sapeva che nulla di quello che Erisha stava facendo era strano o sconvolgente. Anzi. Eppure, per lui che si agitava anche solo al pensiero di stare respirando a distanza decisamente ravvicinata la stessa aria di lei, ogni sua mossa aveva la stessa capacità di sovvertire ogni cosa di un terremoto. Per cui si dimenticò di respirare per parecchi istanti, per poi riprenderlo a farlo troppo in fretta, e di colpo, quando la vide accavallare le gambe e tirarsi su quella cascata di onde scure. Si chiese come fosse possibile che esistesse una nuca tanto perfetta, dalla leggera conca che, ne era sicuro, doveva avere la stessa inclinazione della sezione aurea, alle ciocche sicuramente soffici ben più di una piuma. E il suo profumo… la sua risata…
    Un momento, si stava incolpando? Lei? Quando lui faceva quei pensieri da peccatore o – com’è che li chiamava Paris? Da pervertito? Sentì le guance bruciare e dovette impegnarsi a fondo per collegare il suono delle parole al loro senso. «Ictus va bene, se a te piace» «Io non… lo so?» Sbatté le palpebre, confuso. «Insomma, in parte sì, perché me l’hanno dato i miei amici.» Sorridendo intenerito abbassò un attimo lo sguardo. «Ma non ci ho mai davvero riflettuto… Però Bennie… va benissimo???» Perché, in questo caso, gliel’aveva dato lei. E… «Perché è… carino?? Mille volte meglio di… Goblin, ecco.» Ridacchiò arrossendo e si strinse nelle spalle. «Forse… anzi… sicuramente… anche di Ictus, in effetti. Se uno non sa da dove viene è…» Fissò prima la caramella, poi Erisha, poi di nuovo la caramella, quindi si indicò, sorpreso, come a chiedere se fosse per lui. Pregò con tutte le sue forze che lei non notasse quanto gli tremava la mano, quando, qualche istante dopo, la avvicinò alla sua per prenderla, cercando di fare più attenzione possibile a non sfiorarle la pelle. Non voleva fare nulla che potesse importunarla e, egoisticamente, aveva anche paura delle proprie reazioni. «Ne hai una anche per te, però?», chiese quando ormai era troppo tardi e la gelatina era tra le sue dita, guardandola dispiaciuto. «Grazie…» Ormai era fatta, quindi se la appoggiò sulla lingua, sforzandosi di non pensare che prima era stata in mano a lei – e fallendo miseramente. «Fragola! La mia preferita!»
    Forse grazie allo zucchero (una delle tante cose a cui, nonostante fossero passati anni, non si era ancora abituato del tutto, motivo per cui, spesso e volentieri, gli faceva un po’ l’effetto della droga di Pandi), forse perché, proprio per tentare di scacciare l’imbarazzo, prese a parlare un tantino troppo a macchinetta, finì per trovare il coraggio di, appunto, parlarle. E quale argomento migliore, Gesù a parte, della biblioteca e dei libri? Era tutt’altro che esperto e lo sapeva bene, ma si sentiva vagamente sicuro, in quel campo, perché almeno era qualcosa che gli piaceva e dove non aveva paura di esplorare. Più o meno.
    Le parole di Erisha, però, a differenza dei suoi gesti, che razionalmente sapeva essere del tutto normali, erano straordinarie. Non che avesse mai avuto dubbi a riguardo, ma averla lì, accanto a lui, a parlare proprio con lui, non fece che dimostrarglielo. Non solo lo ringraziò ancora, suscitando tutto il suo stupore e il suo imbarazzo, ma si disse d’accordo con lui sulla bellezza delle biblioteche e della lettura.
    Sembrava così tranquilla, così rilassata… Era sorpreso di farle quell’effetto, visto che, lo sapeva bene, non erano pochi a trovarlo inquietante, per non usare altre parole, specie come faceva anima!Sara, sempre pronta a essere la voce della verità al suo orecchio. Però la cosa lo rendeva stranamente e, lo sapeva, ingiustamente orgoglioso, e contento. Si sforzò di non fissarle la gamba, all’improvviso così vicina, irrigidendosi appena e tentando nuovamente, in modo del tutto inutile, di farsi piccolo sulla panca. «non scusarti!! era una domanda lecita» Era pronto a scusarsi di nuovo, e persino a spiegarle il perché con nome e cognome (ciao Lollo), ma quella era la mano di Erisha sulla sua. Sì. La mano di Erisha sulla sua.
    Un fremito lo percorse anche in punti che nemmeno sapeva di avere.
    Lei ritirò la mano.
    «No…» Per la mano? Per le scuse? Per entrambe? «… Non è giusto dover parlare di qualcosa di cui non si vuole solo perché dall’altra parte qualcuno è invadente…» «non faccio male a nessuno, hai ragione, non dovrei vergognarmene ma a volte mi preoccupo troppo di ciò che pensano gli altri» «Aspetta… tu ti preoccupi di quello che pensano gli altri? T-tu?» Non c’era accusa, nel suo tono, tutt’altro. Era solo… profondamente sorpreso. Ma poi ecco emergere il senso di colpa. «Perdonami, non avrei nemmeno dovuto presupporlo, perché tutti possiamo sentirci insicuri e impauriti… Soprattutto chi è più degli altri sotto gli occhi di tutti…», cercò di spiegarsi e di rimediare, con però, probabilmente, solo il risultato opposto. Non avrebbe dovuto dare per scontato che Erisha fosse sicura di sé e mai preoccupata dal giudizio altrui perché popolare, intelligente e bellissima; al contempo, proprio perché popolare era naturale che, infinitamente di più di una nullità sfigata com’era lui, si sentisse costantemente sotto i riflettori, con una platea pronta a giudicare ogni suo respiro.
    Erisha era tutto questo, certo, ma era anche molto di più. «sono un po’ sempliciotta e credo nel ”vissero felici e contenti” non ci posso fare nulla» Sebbene ancora agitato e imbarazzato per l’uscita infelice che aveva appena fatto, sentendola dire così si sciolse e le sorrise raggiante. «Ci credi perché è vero! Tutti avremo il nostro felici e contenti… Perché tutti se lo meritano!» Ne era profondamente convinto, non era solo qualcosa che si ripeteva, la notte, quando certi pensieri emergevano dall’oscurità. «In questo mondo o nell’altro, saremo tutti felici e contenti, perché in fondo c’è del buono in ognuno…»
    E, a proposito di vita dopo la morte, finì per chiederle delle presenze che popolavano Cime tempestose. All’inizio era davvero concentrato, così concentrato da essersi quasi rilassato, nonostante l’estrema vicinanza di lei. Ma poi Erisha mosse la gamba e, con un gesto fluido, gli scivolò più vicina. Ictus, dal canto suo, si immobilizzò, se non fosse che tutto il suo corpo prese a tremare come in preda alla febbre. In effetti, era proprio così che si sentiva: febbricitante. «si tratta di… anime gemelle, due persone che si incontrano e realizzano che le loro anime sono uguali, che si rendono conto che sono fatte per stare insieme, e che stare separati fa più male di una ferita» Malato.
    Il respiro di lei, il suo profumo, a quella distanza praticamente inesistente, ormai, erano inebrianti. Come facevano le persone a starle vicine senza impazzire? La sua amica Neffi, ad esempio, che le stava sempre attaccata… non le girava la testa? Non si sentiva come se il Paradiso avesse permesso di raggiungere il cielo più lontano, sedendo tra i santi e i beati ad ammirare la Sua bellezza? O nel bel mezzo delle fiamme dell’Inferno, e al contempo nelle profondità dei suoi ghiacci, come i peggiori tra i traditori? Perché lui si sentiva così, e tutto insieme. <b>«C-capisco…»
    Tentò di riprendere fiato, ma l’aria gli sembrò troppo densa per riuscirci davvero. «O meglio… vorrei capire… provarlo…», ammise, inumidendosi le labbra secche. «Dev’essere bellissimo e terribile…»
    Perché la sua, di anima, era la sola a provare quelle cose, per quella persona, e così sarebbe stato sempre.
    Ecco perché, fin troppo entusiasticamente, annuì alla sua proposta, con così tanta enfasi da allentare l’elastico che gli legava il codino. «Facciamolo! Insieme!»
    When you smile,
    I melt inside.
    I’m not worthy
    for a minute of your time…

    Ben10Altair16 y.o.


    Sara: veloce e indolore!
    Sempre Sara: hello darkness my old friend....................................
  13. .
    Benedictus Deogratias
    Erisha Byrne
    In all of creation, all things great and small,
    you are the one that surpasses them all,
    more precious than any diamond or pearl.
    They broke the mold, when you came in this world...
    Benedictus Deogratias era decisamente morto e risorto, più volte, in quel breve, brevissimo lasso di tempo.
    Era morto aspettando ansioso l’arrivo di Erisha, per poi resuscitare e morire di nuovo vedendola.
    Era risorto per il sorriso di lei, ma era morto ancora, e stavolta in grande stile, quando lei l’aveva toccato. Sì, letteralmente!! E per ben due volte!!! Si vergognava e sapeva di essere nel torto, ma si era sentito molto più felice ed emozionato in quei pochi istanti che in tutte le volte, sommate oltretutto l’una con l’altra, in cui aveva fatto la comunione. Ma come non poteva morire di gioia nel sentire le piccole dita dell’ex corvonero armeggiare con la sua camicia, lasciargli una carezza??
    E risorse ancora, solo per morire di nuovo, quando, un attimo dopo, Erisha gli fu così vicina, le sue labbra gli furono così vicine da fargli dimenticare non solo come si respirava, ma proprio come si viveva (certo, non che, di solito, sapesse farlo; tirava a campare, più che altro). Con la mano che gli tremava e il sangue che gli rimbombava nei timpani si avvicinò le dita all’orecchio e, così facendo, sfiorò inavvertitamente quelle di lei, con il risultato di risorgere, e morire, ancora una volta.
    «Grazie!!», commentò senza fiato, rendendosi conto che quello che lei gli aveva appuntato tra i capelli era un fiore. Anzi, non un fiore qualsiasi. Un girasole. «Così siamo… com’è che si dice? Coordinati!!» Rise arrossendo, anche se poi il divertimento tornò a trasformarsi in ansia mentre cercava di sondare le reazioni di lei davanti al fiore fantasma. «mi piace tantissimissimo» Tirò un sospiro di sollievo, non solo mentale, ignorando alla meglio il fuoco che gli ardeva sotto la pelle. «mi aiuti a metterlo?» Annuì in fretta e qualche ciocca di capelli gli scivolò davanti al viso. Con uno sbuffo imbarazzato cercò di spostarla, mentre, con dita incespicanti, tentava effettivamente l’impresa.
    Poi Erisha l’aveva toccato di nuovo. E a lungo.
    La stava stringendo troppo? Troppo poco? Sentiva quanto stava sudando? Riusciva a percepire i battiti impazziti del suo cuore? E gli sbalzi di temperatura?
    Quando arrivarono a farsi mettere lo smalto era morto e risorto così tante volte, per essere stato tutto quel tempo mano nella mano con Erisha Byrne, che probabilmente avrebbe dovuto farsi una chiacchierata con Mac per capire come si poteva andare avanti dopo essersi spenti e riaccesi così tanto. E anche come non farsi odiare dai propri amici, visto che, agitato e confuso e felice com’era, non riuscì a spiccicare parola con gli altri Ben, mentre finivano di radunarsi insieme ai rispettivi accompagnatori, limitandosi a sorridere come un deficiente. Oddio, e lei l’aveva notato?? Ma come faceva anche solo a pensare di poter pensare, quando lei era al suo fianco? Quando lei era… lei?
    Perché il fatto era che Erisha era bella. Lo era fuori, certo, persino un cieco se ne sarebbe accorto, ma lo era ancora di più dentro. In lei c’erano una dolcezza e una purezza che non smettevano mai di stupirlo. Era vera, Erisha, ed era lì. Una costante, una presenza tangibile, che poteva, e che aveva persino!!!, toccare con mano.
    Era più reale di qualsiasi altra cosa, compreso tutto ciò in cui aveva sempre creduto.
    Nuovamente senza fiato, si rese conto di essersi incantato a fissarla. Sgranò gli occhi, invece di allontanarli come avrebbe dovuto fare. E da quant’è che non diceva nulla?? «Non ho nessuna giustificazione…», esordì finalmente, cercando di sdrammatizzare dicendo la verità. «È solo che… sono felice.» Si strinse nelle spalle, nel solito meccanismo istintivo di difesa per cui cercava – inutilmente – di farsi più piccolo, più invisibile. Rise piano, scuotendo la testa. «Detta così è veramente una stupidata… ma non so in che altro modo dirla?? Sono felice di essere qui, in questo momento.» Con te. E no, non era anima!Sara, per una volta, ma la sua stessa voce interiore.
    C’erano davvero tante cose da fare, lì fuori, troppe, persino, motivo per cui, rendendosene ogni istante sempre più conto, si sentì sopraffatto. Cercò di dissimulare il panico che già sentiva sobbollire nello stomaco, ma quando incontrò lo sguardo di Erisha capì che non poteva, e non voleva, mentirle. «Perdonami, ma è un problema se…» Si inumidì le labbra, nervoso e dispiaciuto, sforzandosi di contenere i tremiti. «… andiamo un attimo là…?» Indicò con un cenno i fortini, un’oasi tranquilla in mezzo al casino crescente. Cominciavano a esserci persone dappertutto… e a lui mancava l’aria. «Mentre aspettiamo che entrino tutti… Così si disseminano in giro e… c’è meno caos…» Deglutì nel vano tentativo di buttare giù il nodo che gli stringeva la gola, sentendosi terribilmente in colpa, mentre però si ripeteva che, se si fosse fatto prendere dall’agorafobia, sarebbe stato ancora peggio.
    E poi non voleva nascondere nulla a Erisha. Non voleva nascondersi da lei.
    Così raggiunsero un fortino lontano dalla calca, che diventò solo un’eco sullo sfondo. Di nuovo, nel giro di poco tempo, Ictus si trovò a tirare un sospiro di sollievo. E a ringraziare Erisha. Morendo e risorgendo, al contempo, nell’averla lì accanto a lui. «Non voglio deluderti…»
    altair
    V year
    Ben10
    (God Must Have Spent)
    A Little More Time on You
    NSYNC



    Outfit: cursed booty short have mercy (rossi, però) con sopra camicia a maniche corte a righe
    (sempre rossa)

    - (Muore e risorge più volte.)
    - Parla con Erisha.
    - Sfiora l'attacco di panico per l'agorafobia.
    - Va in un fortino con Erisha.

    [/QUOTE]
  14. .
    Benedictus Deogratias
    Erisha Byrne
    In all of creation, all things great and small,
    you are the one that surpasses them all,
    more precious than any diamond or pearl.
    They broke the mold, when you came in this world...
    Ictus non aveva mai davvero pensato di partecipare a un prom. Non che non fosse mai andato a una festa, sia chiaro – a Bodie ne organizzavano di fantastiche dopo la messa, anche se, in quei cinque anni con i suoi Ben, aveva imparato che le feste potevano essere anche molto, molto diverse –, ma questo era diverso. Non solo perché, fino all’anno prima, lui e i suoi amici erano troppo piccoli per parteciparvi.
    Non aveva mai davvero pensato di poterci andare con qualcuno.
    Specie se, questo qualcuno, era la ragazza più dolce, intelligente e meravigliosa del creato. Senza nulla togliere alle sue amiche, certo, che erano, ognuna a suo modo, dolci, intelligenti e meravigliose (sì, persino Mona), ma, appunto, erano le sue amiche, la sua famiglia. Lei era diversa, sotto ogni aspetto. Era tutto ciò che non aveva mai nemmeno osato immaginare, quindi figuriamoci sperare.
    Se prima la sua era semplicemente una cotta assurda e irrealizzabile, in quei mesi in cui aveva cominciato a conoscerla davvero era diventata molto, molto di più. Perché lei stessa era molto, anzi, infinitamente di più.
    Per cui, sì, la sua era ancora una cotta assurda.
    Ma forse, ora, non più così irrealizzabile.
    «niente mini ictus, capito? e ricorda che sono pantaloncini molto aderenti: pensa a balt nudo»
    *meme della scimmia che si guarda intorno.*
    «Be’, Balt è un bel ragazzo.» Era la verità!! «Siete tutti belli??» Altra verità, che sottolineò guardandosi intorno, circondato com’era dai suoi amici che, sì, erano oggettivamente tutti bellissimi. Sorrise orgoglioso e annuì alle parole di Gol: nell’aria c’era davvero profumo di opportunità (e di ormoni adolescenziali probabilmente, anche se la serata non era ancora davvero cominciata).
    E a proposito di persone bellissime, c’era giusto una piccola cosa da fare, prima di ricongiungersi con gli altri Ben davanti all’ingresso dei cortili. Il tragitto verso Different Lodge gli sembrò al contempo interminabile e brevissimo e, una volta arrivato, non poté fare a meno di notare quanto le sue ginocchia tremassero, pallide e in evidenza com’erano. Forse non era stata un’idea poi così geniale farsi convincere da Ficus e Dara a vestirsi tutti uguali, quella sera. Certo, era felicissimo di essere coordinato ai suoi amici, ma, a differenza loro, non era oggettivamente bellissimo. Anzi. Dunque, quell’outfit composto da pantalocini che lasciavano ben poco all’immaginazione (con però scritto, sul fondoschiena, have mercy!!! Un sogno, il Signore era sicuramente felice, proprio come lo era lui!!) e camicia a maniche corte coordinata (che però non aveva avuto il coraggio di tenere slacciata, nonostante Paris gli avesse detto che dovevano fare così) non era esattamente il suo genere, né gli faceva molto onore, ma era uguale a quello dei Ben10 womini ed era rosso. Un colore a caso, naturalmente, non perché fosse il preferito di una certa persona………..
    “Tranquillo, tanto lo sa già che sei un mostrillo. Lo sa benissimo.” Ci mancava solo l’anima!Sara, in effetti. Gemette a bassa voce, spostando il peso da una gamba all’altra nell’attesa. Ancora una volta, un tempo interminabile ma brevissimo, poi lei uscì dal dormitorio. (Anche se non sappiamo ancora quale sarà l’outfit prescelto TM, sicuramente possiamo però dire che) «Sei bellissima.» D’accordo, ormai si era incantato su quel termine, ma era… vero. Era tutto bellissimo. Quella serata, i Ben…
    E ovviamente Erisha.
    «Scusa se non… insomma, volevo… ma non aveva senso e…», si incartò, imbarazzato, e sospirò, chiudendo per un istante gli occhi nel (vano) tentativo di calmarsi. Non era la prima volta che le parlava, anzi. Negli ultimi mesi aveva passato letteralmente ore a farlo. Però non c’era niente da fare: anche solo la vista di lei lo mandava totalmente nel pallone, nel bene e nel male. «Volevo portarti qualcosa. Un fiore, d’accordo. Ma poi ho pensato che… sarebbe stato stupido», riuscì finalmente a spiegare, con una risata timida. «Per cui ho chiesto a una delle anime di aiutarmi e… sai che in vita Linneus era un erborista e botanico bravissimo?» Stava per mettersi a raccontarle di quell’anima, sicuramente molto più simpatica e meno invadente di ghost!Sara, ma fu proprio quest’ultima a ricordargli che prima doveva fare una cosa. «Sì, no, scusa, ecco. Lui mi ha aiutato a fare… questo.» Le porse quello che aveva sì le fattezze di un fiore, un girasole, per la precisione, ma sembrava fatto di una sorta di nebbiolina evanescente e luccicante. «Lo so, è un po’ macabro, ma… è un fiore fantasma??», le spiegò, avvampando. «Se non ti piace non sei obbligata a mettertelo, però! Linneus non si offenderà!!»
    In mezzo a quel fiume di disagio, intanto, avevano raggiunto gli altri Ben10 e, dunque, l’ingresso dei cortili e del prom. Anche se costantemente in preda a ondate di imbarazzo sorrise raggiante ai suoi amici e, insieme a Erisha, si fece mettere lo smalto. «Sei stata brava, non preoccuparti…», disse alla ragazzina che, decisamente terrorizzata, era appena stata cazziata da Mona. C’era da dire, però, che la sua amica aveva ragione: lei era molto più brava a darlo… Ad ogni modo, le canzoni boomer scelte da Nelia, come aveva spiegato Ben, non lo infastidivano così tanto. O meglio, il fatto è che quasi non le sentì, perché, ora come ora (ma anche in ogni altro istante, in effetti), tutto il suo essere era focalizzato su Erisha.
    altair
    V year
    Ben10
    (God Must Have Spent)
    A Little More Time on You
    NSYNC



    Outfit: cursed booty short have mercy (rossi, però) con sopra camicia a maniche corte a righe
    (sempre rossa)
    - Parla con gli altri Ben.
    - Va a prendere Erisha.
    - Regala a Erisha un girasole fantasma (?) da mettere al polso.
    - Si ritrova con gli altri Ben all'ingresso e si fa mettere lo smalto.
    - Entra insieme a Erisha.


    Edited by the goblin. - 9/7/2023, 00:31
  15. .
    Il senso di colpa, nella sua vita, era sempre stato una costante. Per non essere abbastanza. Per i pensieri sbagliati. Per gli errori.
    Per l’essere sé stesso.
    Eppure, ora lo sapeva, c’era chi sosteneva che il senso di colpa fosse stato inventato proprio da quella religione che, per così tanto tempo, aveva rappresentato non solo il centro e il fulcro, ma tutta la sua vita.
    Ma adesso non era più così. Non del tutto, almeno.
    E per questo si sentiva in colpa.
    Così come si sentiva in colpa per aver pensato di continuo a lei, mentre infuriava una guerra mondiale, totale. L’aveva pensata in ogni istante, rileggendo ancora e ancora quella lettera, aprendola e chiudendola così tante volte che, alla fine, pieno di vergogna era dovuto andare da Ben per farsela riparare con un incantesimo, visto che si era consumata. E dire che non aveva davvero bisogno di leggerla: aveva imparato a memoria ogni parola già alla terza volta in cui, con mani tremanti, l’aveva aperta.
    Aveva pensato a lei, a quello che gli aveva scritto, alla paura che, da quei campi di battaglia, non tornasse mai, invece di pensare a tutti quelli che, da una parte e dall’altra, avevano deciso di combattere. A lei e a Gali, ugualmente in pericolo, ugualmente ossessionato e, soprattutto, terrorizzato, dall’idea di non rivederle più.
    Ma la guerra era finita e Bengali era tornata.
    Ed Erisha era tornata.
    Si sentiva in colpa perché, mentre lei faticava a riconoscersi, lui non poteva fare a meno di pensare che, in un qualche modo assurdo, ma giusto, adesso fosse ancora più sé stessa di quanto non lo fosse mai stata. Si sentiva in colpa perché il suo non poteva essere che un sentimento egoista, dettato dal fatto che, ora, lei fosse, in modo ancora più assurdo, simile a lui.

    Seduto alla piccola scrivania, la schiena perfettamente dritta, leggeva l’ultimo romanzo che con Erisha avevano deciso di affrontare insieme: Lolita. Si sentiva decisamente turbato e, naturalmente, in colpa. Perché gli stava piacendo. Accorgendosi di essersi un po’ accasciato tornò a raddrizzarsi, inconsciamente memore degli insegnamenti ricevuti fin da bambino: mai leggere stravaccati su un divano, o, ancora peggio, sul letto; anche nella lettura, come in tutte le cose, ci voleva rigore.
    Fu a quel punto che sentì, in successione, un rumore alle spalle, dove c’era la porta, un fischio e uno scappellotto. «Ehi!!», si lamentò, vedendo con la coda dell’occhio Paris entrare nel suo campo visivo. «Non sto studiando nemmeno io, non vedo perché debba farlo tu.» «Non lo sto facendo, infatti… stavo leggendo…» «Lolita???» Gli occhi sgranati e la risata dell’amico lo fecero avvampare e distrarre, motivo per cui non riuscì a non farsi fregare da sotto il naso libro. «N-no Paris, ridammelo… dai… è della biblioteca…!», protestò preoccupato, mentre il corvonero gironzolava per la stanza leggendo stralci tra una risata e l’altra. Ictus si fece ancora più rosso e si alzò, deciso a riprendersi il romanzo. Un passo dopo l’altro, si ritrovò nei pressi della finestra.
    PROM?, campeggiava sotto ai suoi occhi, in una distesa di allegri girasoli. Si perse a guardarli per parecchi istanti, sorridendo intenerito all’idea che qualcuno si fosse preso la briga di fare qualcosa di tanto dolce. Chissà chi era la fortunata o il fortunato a cui erano rivolti… «Guarda che se non ti muovi a rispondere devo dare ragione a Mona…» «In che senso…?»
    Fu allora che la vide.
    La fissò, le labbra schiuse per la sorpresa, gli occhi brillanti per l’emozione, il viso in fiamme per l’imbarazzo. Era bellissima.
    «allora? ci vieni con me?»
    Lui.
    Al prom.
    Con Erisha Byrne.
    Lui.
    «No amo, non sei ancora morto», gli sussurrò all’orecchio l’anima che, se lo diceva da sempre, più che essere bloccata lì, nel limbo, avrebbe dovuto prendere un direttissimo per l’Inferno. Evidentemente, però, era così sfigata da dover usare Trenitalia, quindi, invece della dannazione eterna, era una dannazione per lui. «Soprattutto a giudicare da quello che ti sta succedendo nelle mutande……………»
    Classic Sara.
    La odiava.
    E si sentiva in colpa.
    Non era del tutto sicuro di chi, tra Sara e Paris, gli stesse dando del coglione perché non aveva ancora risposto, ma non riusciva a smettere di fissare Erisha imbambolato. Sarebbe davvero potuto morire in quel momento ed essere felice così. Se non fosse che lei meritava una risposta, una vera risposta. E non quell’annuire come un deficiente a cui a breve si sarebbe staccata la testa, vista la foga con cui lo stava facendo.
    «S-sì!» No, così non bastava. Non con quella voce tutta tremolante e mezza balbettata per l’agitazione. Divenne ancora più rosso, anche se, comunque, non riusciva a smettere di sorriderle. Si sporse dalla finestra, rischiando di cadere di sotto. Ma cosa importava? Erisha Byrne l’aveva invitato al prom!! «CERTO CHE VENGO AL PROM CON TE!!!»

    Scusate il codice arriverà.

    (o forse no, conoscendomi. Slay)


    Edited by the goblin. - 30/6/2023, 22:38
19 replies since 28/2/2023
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