oh god, kinda please, would you kill me now?

tenda-owo + lolit0-fail!!!1!!11

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    Un nuovo mondo significa tante cose, e non necessariamente belle. Significa costringere la normalità in nuovi limiti, comprendere come reinserire la propria quotidianità nel nuovo quadro generale. Non c'è solo sangue e cattive abitudini, nella nuova era di Abbadon: c'è anche un gruppo di bambini - orfani di guerra, presumibilmente; special e maghi in egual numero - più numeroso di quanto i Legionari siano in grado di gestire. Non un problema di tenda, figurarsi di lolito, ma lo diventa quando uno dei Ministeriali, esausto e provato, vi invita ad avvicinarsi a lui. Disposto a pagarvi per il vostro tempo, vi chiede di intrattenere i ragazzini fin tanto che capisce cosa fare, ed è uno dei bambini - un certo Ralph - a mormorare piano che vorrebbe giocare ad hockey. Anche gli altri bambini sembrano d'accordo, mostrando un entusiasmo non presente fino a poco prima. E che fate, con quei musetti ad osservarvi carichi di aspettativa, non organizzate un campo estivo di hockey? Eh! Il fatto che non sappiate nulla dello sport, a questo punto, è terribilmente relativo.
    Forse.
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    Ci stava provando, ok? Non si poteva chiedere molto altro, ad una creatura nomade cresciuta fra inganni e truffe. Negli anni di formazione, non aveva mai dovuto preoccuparsi di questioni banali come i sentimenti, o le persone. Aveva sperato ogni giorno che Kosmo morisse, portando con sé Pornhub, e la liberasse dalle sue catene. Non aveva pensato alla sua famiglia, quella che si era lasciata alle spalle prima ancora di avere l’età per essere accettata a Durmstrang. D’altronde, per quanto sbagliati, aveva avuto i suoi motivi per andarsene, e non rimpiangeva averlo fatto (un po’ di rimorsi sulle conseguenze sì, ma quello era un altro discorso.). Troy Bolton Hawkins non era mai rimasta ferma abbastanza a lungo da interessarsi ad un dopo; a malapena i durante, e solo perché le servivano per sopravvivere. Uno poteva erroneamente pensare che in quattro anni la chiaroveggente si fosse abituata a quella nuova normalità, ma come avrebbe detto la Pausini, non era così.
    Ma ci stava provando. Cercava di essere un essere umano migliore, mandando a Kyle video di robot anziché quelli degli animali (...ma mandava anche quelli) perché sapeva potessero interessargli di più, preparava il caffè (...corretto) all’Hansen quando lo vedeva triste senza che lui glielo domandasse, ed aveva comprato una pallina di Natale per Julian malgrado fossero in Primavera. Non funzionava così? Esistere non era forse affrontare l’immediato nell’immediato e arrangiarsi con quel che si aveva…? No? Beh. Aveva funzionato per anni.
    Poi c’era stata la Guerra.
    Vi stupirà (derogatory) sapere che alla Bolton Hawkins non fregasse assolutamente nulla della politica. Niente. Zero. Non la capiva. Se le davano regole semplici, poteva anche essere in grado di rispettarle per mero quieto vivere, ma tutto il resto era una nebbia nella quale non era mai stata interessata ad addentrarsi. Stava scegliendo la palla per Julian – a forma di Babbo Natale era abbastanza cringe, ma a lei piaceva di più il pupazzo di neve – quando il signor Abby li aveva costretti al suo soliloquio. Aveva annuito, labbra curvate verso il basso, perché quello sembrava il pensiero maggiore, ed a seguire la massa non si sbagliava mai. L’ultima volta che l’aveva visto, era stata quand’era arrivata a Londra per la prima volta scortando un Tavolo (non era davvero il suo nome, ma mica lo ricordava) al prom, quando aveva resuscitato tot persone al ritmo di Old Town Road, quindi… diciamo che fosse incline a dargli ragione. Guerra al mondo babbano? Oh, sure thing love, mark me as scared and horny, let’s go lesbians let’s go.
    E lì era finita.
    Per lei.
    Poi avevano messo in lockdown Hogwarts.
    Poi erano spariti tutti: niente Sinclair, niente Kieran e Hold (...niente Murphy? Unclear), niente Kyle. Aveva aspettato, Troy, perché non era che avesse di meglio da fare. Aveva mangiato tutto quello presente nella dispensa dell’Hansen, una preghierina al fly per l’uomo ed un bacio soffiato al cielo, e aveva aspettato, e chiesto a Kyle con quale audacia non visualizzasse i suoi video su Tiktok, ed aveva ignorato tutte le sensazioni perché la chiaroveggente usava il suo potere solo per affari. Non voleva sapere un beneamato cazzo. Non voleva sentire il proprio cuore saltare un battito ogni volta che guardava il posto a tavola di Sin, perché sentiva che non fosse l’affetto e la mancanza dell’uomo – dai, non esageriamo, gli voleva bene ma non così tanto – a farle appiattire la linea. In qualche modo, Troy lo sapeva.
    E lo ignorava. Perchè era brava, ad ignorare le cose.
    Tipo il sapere perfettamente che Kyle odiasse si insinuasse nei suoi sogni, e farlo comunque.
    (era un abitudine che aveva preso di recente, quella di passeggiare nel mondo onirico altrui, perché sapeva di essere… poco utile nella vita di tutti i giorni, ma almeno gli incubi li poteva tenere a bada. Kyle era indubbiamente il suo preferito perché non l’aveva mai tradita facendola scivolare in un sogno erotico, ed a giurarci su Dio c’erano cose del suo fratellino che non voleva vedere, ok.)
    Le aveva detto, «questo è un sogno» e Troy si era portata commossa la mano al cuore, «perchè ti manco??», ricevendo in risposta l’espressione assolutamente neutra e piatta del coreano, ed un «no» che non suonava neanche difensivo, solo un mero dato di fatto. Poi Kyle si era svegliato, e con lui la Bolton Hawkins in Inghilterra, incapace di mandare giù il sapore di sangue e polvere da sparo a pesare sulla lingua.
    Non voleva sapere; non avrebbe chiesto. A non far domande scomode, si campava cent’anni.
    I giornali non li leggeva, ma i pettegolezzi li ascoltava tutti. Stava facendo colazione con un bagel sul portico di New Hovel, quando il mondo il Primo Giugno era cambiato. Un interruttore. L’aveva percepito sotto pelle come una scossa, lo sguardo a farsi più attento sui ciottoli del quartiere. Le labbra in una linea serrata.
    Una nuova era.
    Forse se fosse solo cambiato tutto, Troy avrebbe potuto abituarcisi e basta. I cambiamenti funzionavano come le medicine su di lei, a furia di subirne era diventata immune. Ma erano cambiate le persone, e quello la Bolton Hawkins non aveva saputo come prenderlo.
    Malgrado non fosse più obbligatorio, si era denunciata come special («MIKE! Sorpresonaaaa» un bacino a Nathaniel Henderson) così che le assicurassero un appartamento suo a New Hovel, e la smettesse di vivere di rendita facendo la (finta) badante a Sin. Passava ancora da lui: anche se incapace di offrire conforto, poteva stracciarlo a briscola e bere una birra facendo bird watching; se particolarmente propositiva, dargli una paterna pacca sulla spalla. Kyle era… Kyle, solo più irraggiungibile di prima, lanciato sul lavoro come se ne andasse della sua vita. Per quel che ne sapeva Troy, era proprio così.
    Il sole di Julian, seppur flebile, brillava ancora: la Hawkins se lo sarebbe fatto bastare.
    E lì finivano le conoscenze della chiaroveggente. Guarda caso, su quattro persone che conosceva, uno era suo fratello, uno l’aveva raccattato per caso in chat, e gli altri due li aveva beccati ai random.obl: poteva forse non iscriversi di nuovo? Eh! Forse se lo sarebbe risparmiato, sapendo cosa la aspettava. E se quello non era il karma per falle fare l’insegnante con Turo1!! non saprei come altro definirlo. Per essere una chiaroveggente, il suo terzo occhio era davvero chiuso.
    Aveva di recente scoperto che esisteva una particolare razza di piccioni commestibile, e stava prendendo nota al parco dell’Aetas per informare Murphy su quali fossero le loro caratteristiche e quanti ce ne fossero nella loro zona – le era sembrata molto interessata all’argomento, e tutto era utile quando si voleva rimandare qualcosa come cercarsi un lavoro fisso – quando il tizio aveva iniziato a gesticolare.
    Troy aveva finto di non vedere.
    Un sacco di volte.
    Poi l’altro aveva tirato fuori il portafoglio.
    Troy Bolton Hawkins si era alzata, stiracchiandosi come un gatto, e si era diretta languida verso l’uomo, ignorando la mandria di marmocchi attorno a lui. Sperava non volesse vendergliene uno – o acquistare: non aveva più l’utero per farlo, scusa – non davano neanche più gli assegni di mantenimento.
    «dovete occuparvi di loro...solo per un po’»
    «loro… i bambini?»
    Il Legionario l’aveva guardata come fosse stata stupida. A suo favore, era parzialmente così.
    «vi pago»
    «quanto?»
    Un’occhiata alla scolaresca. Uau. Erano tanti pidocchi.
    «abbastanza» dalla stanchezza nel tono dell’uomo, Troy dedusse che avrebbe potuto chiedere qualunque cifra. Quindi sorrise, allargando le braccia: «SONO BRAVISSIMA CON I BAMBINI!»
    «giochiamo a hockey?» Arricciò il naso. Abbassò gli occhi sul bambino lentigginoso, valutando che arrivasse giusto ad altezza ginocchio per colpirlo dritto sul naso.
    Narrator: in fact, she wasn’t.
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    Ne faremo una gran giostra, Marcondirondà…

    Ictus era un uomo nuovo.
    Lo era in quel mondo, altrettanto nuovo, imposto con la violenza, il sudore e soprattutto il sangue da Abbadon, dove si era improvvisamente ritrovato catapultato dalla parte opposta della catena alimentare. Non era più il tassello più basso, l’ultimo degli ultimi, bensì… il primo. Lui, che non sapeva neanche cosa volesse dire essere primi. Lui, a cui era stato insegnato che solo in paradiso gli ultimi diventeranno i primi.
    Ma quello non era il paradiso.
    Era l’esatto contrario.
    Persino nel mondo ovattato e protetto del castello, dove, nonostante tutto, si sentiva a casa, perché c’erano i suoi amici, qualcosa, nel mese precedente, aveva cominciato a trapelare. All’inizio era stato quasi impercettibile, un gocciolio lento ma perenne. Sussurri. Poi, con l’andare dei giorni, il volume era cresciuto, dell’acqua e delle parole, fino a trasformarsi in un grido. Lontano, certo, ma pur sempre un grido.
    Forse avrebbe dovuto essere felice, ora che aveva il mondo ai suoi piedi. Ma anche solo l’idea era del tutto contraria alla sua natura. Ironico, naturalmente, visto che era la sua natura stessa a renderlo un privilegiato, un eletto, adesso. Come si poteva vivere in un mondo del genere, fatto di sofferenze e soprusi? Un mondo dove il più debole non rischiava solo di soccombere, ma veniva costretto a farlo, alla luce del sole?
    Eppure, Ictus era un uomo nuovo.
    Ma non perché gli special governavano il mondo, adesso.
    Era un uomo a tutti gli effetti, adesso.
    Perché aveva peccato.
    E poteva rimuginarci sopra quanto voleva, ma in fondo lo sapeva benissimo. Sapeva che l’avrebbe rifatto altre dieci, cento, mille volte. Perché la carne era debole. Perché lui era debole.
    Debole e innamorato.
    Chiuse gli occhi e li riaprì, trovando, invece del viso di Erisha su cui aveva più o meno inconsapevolmente fantasticato fino a un istante prima, seduto sulla pancina dell’Aetas, quello di un uomo di mezza età, dall’espressione stanca e tirata. Nonostante, con tutta probabilità, gli arrivasse a malapena alle spalle, visto che, persino da quella posizione, faticava a svettare su di lui, sobbalzò per quell’intrusione inaspettata nei suoi pensieri. E avvampò, sentendosi colto sul fatto.
    Sebbene non avesse fatto assolutamente nulla.
    D’accordo, non era vero che non aveva fatto assolutamente nulla. Anzi.
    Il senso di colpa gli serrò la gola, ma si sforzò di mandarlo giù, con il conseguente rischio di affogarsi, e di connettere il cervello, visto che l’uomo, il ministeriale, anzi, a giudicare dal badge che portava appeso alla giacca sgualcita, gli stava parlando. Era un po’ confuso, però: Paris aveva sempre detto che si diventava ciechi a fare certe cose, non sordi… perché faceva così fatica a sentire? O meglio, a capire quello che stava sentendo? Forse perché, in effetti, non faceva più certe cose (come no………………….), ma aveva fatto ben altro?
    Il viso gli divenne ancora più incandescente e, finalmente, iniziò a connettere tutti i puntini. E si rese conto che lì nel parco non c’era solo il ministeriale, ma anche un nutrito gruppo di bambini. Erano diversissimi tra loro, come età, aspetto e atteggiamento. Ma erano tutti accomunati da qualcosa che Ictus riconobbe a colpo d’occhio: la tristezza dell’orfano. Era quella che aveva provato per dodici anni e che, a dirla tutta, continuava a provare. Da quando era arrivato nel futuro e aveva incontrato i Ben le cose erano migliorate in modo esponenziale, ma, molto più spesso di quanto volesse davvero riconoscere, quell’emozione gli tornava a germogliare nel cuore. I suoi amici erano la sua famiglia e lo sarebbero stati sempre, ma sapeva che, a differenza sua, loro avevano anche un’altra famiglia. Quella che lui non aveva mai avuto. Quella che quei bambini non avevano più.
    Quando quindi l’uomo gli chiese di dargli una mano, di intrattenere il gruppo, quasi non lo lasciò neanche finire di parlare: si era già alzato, e aveva già accettato. Rifiutò, invece, pieno di imbarazzo, i soldi che il ministeriale voleva offrirgli. Gli sembrava un insulto. Non a sé stesso, anche perché vi era decisamente abituato, ma ai bambini. Avevano perso tutto: non meritavano di essere persino trattati come un oggetto, come una zavorra sopportabile solo a fronte di una ricompensa in denaro.
    L’uomo non insistette, motivo per cui Ictus alzò gli occhi al cielo in una preghiera silenziosa. Quindi, si avvicinò ai bambini, cercando goffamente di approcciarsi a loro. «SONO BRAVISSIMA CON I BAMBINI!» A differenza sua, invece, che si sentiva sempre di troppo, eppure al contempo invisibile… Voltò il capo in direzione della voce, vedendo una ragazza avvicinarsi a grande falcate, le braccia spalancate. Le sorrise imbarazzato, facendole un piccolo cenno di saluto con il capo. «Ciao… sono Ictus, piacere. Sicuramente in due sarà più facile far fare ai ragazzi qualcosa di bello… Ti chiedo scusa in anticipo, però: non solo molto bravo con… i bambini», le spiegò, finendo per sospirare. «D’accordo, non solo con i bambini. Con le persone, di qualsiasi età…» Quell’ammissione lo fece tornare ad arrossire, ma quasi non ci fece nemmeno caso, abituato com’era alla cosa. La sua incapacità a relazionarsi con i vivi (ma anche con i morti, in effetti) e la maledizione di provare imbarazzo per ogni singola cosa.
    «giochiamo a hockey?» «Hokey?» Confuso, spostò lo sguardo dal bambino lentigginoso che aveva appena esposto quella richiesta, Ralph, alla ragazza, quindi nuovamente a Ralph. «Hockey…» Come si giocava a hockey? A Bodie facevano altri sport, come Io-sputo-più-lontano o Il tiro al piccione. Non sapeva assolutamente nulla di quella disciplina. Tuttavia, sorrise incoraggiante a Ralph. «Possiamo… provarci. Dicci cosa serve per giocare… Poi, mentre noi prepariamo, puoi spiegare ai tuoi compagni come si fa?» Avrebbe fatto di tutto per far giocare davvero quei bambini… compreso giocare lui stesso a quello sport sconosciuto.
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    Se non fosse stata la sorella di Julian Bolton, sarebbe stata inquietata dall’altezza del ragazzino, ma no: non era quello a turbarla, malgrado fosse considerevole e irrispettosa verso i più maturi (lei) che avrebbero potuto raggiungere la sua altezza solo con un bambino in spalle, quanto tutto il resto. Aveva l’aria malata di una dama vittoriana, tutto arti lunghi e deformi come quelli di un ragno (quelli che abitavano ogni angolo dell’appartamento di New Hovel, perché la leggenda diceva portassero soldi, ed alla Bolton Hawkins piaceva credere a qualunque cosa desse speranza al suo portafoglio) ed altrettanto pallidi. Perfino lei sembrava più abbronzata e sana, rispetto a quello strano spaghetto di soia.
    Ed era russa.
    Arrampicò gli occhi nocciola dalla punta delle scarpe, al sorriso gentile di Spidey.
    Oh, merda.
    Si ritrovò a sospirare piano, incontrandone lo sguardo, sentendo nel profondo del proprio cuore, che non potesse bullizzarlo perché sarebbe stato un reato, come picchiare chi indossava gli occhiali, e palpare qualcuno per più di dieci secondi. Aspirò le labbra all’interno della bocca, inarcando sopracciglia corvine all’espressione smarrita, ma morbida, dell’adolescente.
    Non le piacevano gli adolescenti. Ma le piacevano meno i bambini, quindi immaginava di poterci… lavorare. Mentalmente, unì le mani fra loro chiedendo al suo gigante di fiducia un briciolo di forza; percepì l’AO!!! entusiasta di Julian quanto bastò a scegliere di non scappare.
    Per il momento.
    «Ciao… sono Ictus, piacere. Sicuramente in due sarà più facile far fare ai ragazzi qualcosa di bello… Ti chiedo scusa in anticipo, però: non solo molto bravo con… i bambini» Lo osservò un paio di secondi, battendo lenta le ciglia. «ictus?» ripetè, perché era proprio un nome di merda – e lei si chiamava Troy Bolton, per Dio. Far fare ai ragazzi qualcosa di bello… la chiaroveggente era già propensa ai lavori forzati, ma dal viso smunto ma entusiasta di Ictus, immaginava l’opzione non fosse sul piatto. Maledizione, dove davvero pensare a come intrattenere una mandria di bambini? Non sapeva neanche se giocassero al riporto! Come se non bastasse, sgorbione non era bravo con i bambini. E che minchia ci faceva lì, allora? Non aveva neanche preso i soldi (e Troy, a fine giornata, si sarebbe assicurata che quei soldi finissero nelle sue tasche, quindi grazie Ictus, nothing but an angel). Magari era un agnello pazzo, e masochista. «D’accordo, non solo con i bambini. Con le persone, di qualsiasi età…» E quanto arrossiva, santiddio. Si allontanò di mezzo passo dal fiammifero – lungo, punta rossa, eddai - temendo che la testa gli sarebbe implosa. Non lo fece. Non ancora. Dato che era una ragazza compassionevole e gentile, gli diede una poderosa pacca sulle spalle, sbuffando una breve risata. «tu ictus, io troy. ma che dici, acciarino, stai andando alla grande!» ed avrebbe volentieri continuato ad hyparlo, se avesse significato che l’avrebbe convinto a fare cose con i bambini.
    Tipo, appunto, l’hockey.
    Conosceva il calcio, Troy; la pallavolo, il basket, ma di uno sport che prevedeva ghiaccio, bastoni e dischetti, non sapeva un cazzo. Quanti erano in squadra…? Avevano dei ruoli? Quanto valeva segnare? STUPIDI SPORT, PERCHè NON POTEVANO GIOCARE AD ACCHIAPPARELLA E BASTA COME TUTTI? BAMBINI DI MERDA. «Possiamo… provarci. Dicci cosa serve per giocare… Poi, mentre noi prepariamo, puoi spiegare ai tuoi compagni come si fa?» Dalla bocca della mora, uscì un sofferto verso di gola. Il suono di un animale morente a bordo strada, schiacciato parzialmente sotto le ruote di una bicicletta ed in triste attesa della sua fine. Generalmente non voleva la propria fine, Troy, ma forse per quella giornata poteva fare un eccezione. Annuì ad entrambe le creature, mostrando tutti i denti in un sorriso marginalmente maniacale, spostando se stessa e Ictus verso i bambini così che potessero sentire anche loro la spiegazione.
    Stava ancora sorridendo.
    «non so un cazzo di bambini» strizzò a bassa voce fra i molari, stritolando il polso del ragazzo per farlo avvicinare a sé. Sapete cosa sapeva, invece? (Kyle, in background: niente) ADATTARSI E SOPRAVVIVERE! Quindi fece quello che chiunque nella sua posizione avrebbe fatto: prese il telefono, cercando le regole dell’hockey su Google.
    Ok. Come disse anche Ralph al resto della mandria, esisteva anche un tipo di hockey su prato.
    «nooooooo noooooooooo vogliamo il ghiacciooo buuuu»
    Bastarde creature demoniache. Arricciò il naso, la Bolton. «conosco un solo criocineta» Pausa drammatica. «ha raso al suolo una città una volta, ma è un bravo ragazzo» Tanto, scusa, che altro aveva da fare in un qualsiasi pomeriggio estivo, che non fosse andare a ghiacciare il prato per dei bambini orfani aiutando così una cara, carissima (Justin: do i even know….you) amica? Dai, faceva bene al karma. Gli mandò un messaggio – che poi magari qualcuno di quei bambini sapeva farlo, ma lungi dalla Bolton pensare avessero delle competenze: lasceremo a te l’onore, Goblin - tornando poi alla sua ricerca internet.
    E intanto. «allora, lampioncino. Le squadre le facciamo noi, perché sicuro sono bulli infami e c’è qualcuno che viene sempre scelto per ultimo.» Alzò lo sguardo dallo schermo del cellulare, per guardare Ictus. «e con i bambini bisogna essere decisi e determinati, o quelli infilano i loro dentini in ogni breccia, e fanno di te quello che vogliono. quindi, cosa gli diremo?» domandò, invitandolo a rispondere con un cenno della mano. Tornò poi a leggere, e pensare a… cose.
    Tipo «non abbiamo le porte» lei non poteva crearle: vedeva il futuro, mica era un fabbro.
    Tipo «undici bambini per squadra sono ventidue bambini.» con l’orrore che quella frase meritava, senza contare il fatto che non avesse idea di quanti infanti ci fossero in quella colonia batterica.
    Tipo «… neanche i pattini. O il dischetto» Forse dovevano fare reality check ai bambini e dire loro che il ghiaccio non fosse possibile… Oppure farli pattinare con le scarpe? Sembrava rischioso e pericoloso; le piaceva già.
    «… le mazze» non avevano niente.
    Basta. Era già stanca. Non aveva manco la VOGLIA. Lo SBATTI. Valeva?
    «però, c’è di positivo che sia uno sport estremamente violento e brutale» sorrise, euforica. Bambini che si prendevano a mazzate? COUNT HER IN! «noi facciamo gli arbitri.» chiarì, perché non era certa di potersi trattenere con una mazza in mano e creature urlanti in avvicinamento.
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    «ictus?»
    Si strinse nelle spalle, e annuì. Era abituato alle reazioni non esattamente preparate che il suo nome suscitava negli sconosciuti. Gli piaceva leggerle tutte come confusione, curiosità persino, omettendo invece la larga fetta di sconcerto e persino disgusto. Nel caso della ragazza, comunque, poteva tirare un sospiro di sollievo. Sembrava quasi… dispiaciuta, se mai.
    «tu ictus, io troy. ma che dici, acciarino, stai andando alla grande!»
    Ed era anche molto gentile, in effetti! Le sorrise, grato. «Grazie, Troy!» Si sentiva rinfrancato, ma forse, forse, era stato un tantino troppo ottimista.
    Non che ci fosse nulla di strano, in realtà. Sebbene a vederlo fosse molto più facile pensare all’esatto contrario, Ictus era sempre estremamente ottimista. E come non esserlo, quando si era così profondamente convinti, come appunto lo era lui, che esistesse qualcuno a proteggere e vegliare su tutti gli esseri viventi del creato dall’alto dei cieli? Anche se, nell’ultimo periodo, la sua fede aveva vacillato svariate volte. La guerra, ovviamente, non il suo peccato, era il motivo. Tuttavia…
    Tuttavia era comunque un inguaribile ottimista. Che però, adesso, doveva fare i conti con la realtà insieme a quella ragazza che, in tutto e per tutto, gli ricordava un folletto. Anzi, una fatina, una di quelle del polveroso, e unico, libro di fiabe che c’era a Bodie. Piccola e delicata, con un sorriso vagamente ferino a tenderle le labbra, la ragazza lo spaventava e affascinava al tempo stesso. Sembrava così sicura di sé, e di quello che la circondava. Motivo per cui, a differenza sua, aveva capito immediatamente l’entità del problema che avevano davanti. Lui era partito in quarta, certo di poter accontentare il desiderio dei bambini di giocare a hockey. Non tanto perché credesse nelle proprie capacità, anzi, tutto il contrario, ma perché voleva sinceramente aiutare quei ragazzini in cui, volente o nolente, rivedeva sé stesso. Se giocare a quello sport conosciuto poteva portare loro anche solo un accenno di gioia, avrebbe fatto di tutto per farli sentire meglio, anche solo per un attimo.
    «non so un cazzo di bambini»
    «Ah.» Un altro reality check. Lanciò un’occhiata nervosa a Troy, rendendosi conto di aver più o meno inconsciamente ricamato il proprio ottimismo sulla convinzione che lei, a differenza sua, con i bambini ci sapesse fare. Anche perché non era quello che aveva detto poco prima al ministeriale? Che fosse… una balla?
    No, Ictus era troppo stupido ingenuo per vederla così. Perché mai mentire? «Possiamo farcela comunque! Anzi, sono sicuro che ci riusciremo! Una volta che avremo capito cos’è questo… hockey», cercò quindi di rassicurare tanto lei quanto sé stesso, per poi spiare oltre la sua spalla lo schermo del cellulare di Troy, apprendendo che esisteva un hockey su prato… e uno si ghiaccio, ovvero quello a cui puntavano i bambini. «Sembra molto bello, Ralph, ma… è estate? Non pensi che sarebbe un po’ complicato procurarsi e mantenere del ghiaccio, così?»
    «conosco un solo criocineta… ha raso al suolo una città una volta, ma è un bravo ragazzo»
    «Ma… in che senso…», balbettò a bassa voce, sentendosi la bocca asciutta. Voleva davvero sapere? In realtà no, ma Troy stava già digitando qualcosa sullo schermo del suo telefono, motivo per cui, adesso, distolse lo sguardo, non volendo invadere la sua privacy.
    Però il problema rimaneva. Dove lo trovavano il ghiaccio? E i pattini? E le mazze?
    «Emh… per caso qualcuno di voi sa… fare il ghiaccio? Non con il freezer, eh.» Ridacchiò impacciato e imbarazzato per la bruttezza della sua stessa battuta. «Voglio dire… c’è un criocineta, tra voi? Io posso chiedere a qualche, umh, amico invisibile di indirizzarvi, se lo siete ma non sapete farlo tanto bene…» Rise di nuovo, nervoso, e fece un cenno intorno a sé con una mano. «Sono un medium! Potrei cercare l’anima di un criocineta e… farci dare dei consigli, ecco. Non farvi possedere!!»
    Perché si fosse preso la briga di specificarlo non è dato saperlo, ma ormai era fatta. E aveva come il sospetto che, se anche ci fosse davvero stato un bambino in grado di controllare il ghiaccio, a questo punto non si sarebbe fatto avanti neanche sotto tortura…
    Si guardò intorno dispiaciuto e imbarazzato, per poi sobbalzare appena quando la voce di Troy lo riportò (circa) alla realtà.
    «allora, lampioncino. Le squadre le facciamo noi, perché sicuro sono bulli infami e c’è qualcuno che viene sempre scelto per ultimo.»
    «Mi sembra un’ottima idea. Così possiamo essere imparziali… e non far sentire nessuno escluso», concordò, ricordando le infinite volte in cui era stato lui l’ultimo della lista. Cioè sempre. Non a caso lo diceva anche il suo numero da Ben: era il 10. Non gli pesava, naturalmente, non con i suoi amici, ma certi traumi non si superano mai del tutto.
    Ma perché ora Troy parlava di denti che si infilano in ogni pertugio e… chiedeva a lui cosa dire? «Cosa gli… diremo?», ripeté quindi esitante, non sapendo minimamente da dove cominciare. Anche perché adesso la ragazza stava elencando quello che non avevano.
    Ovvero tutto.
    «però, c’è di positivo che sia uno sport estremamente violento e brutale»
    Avrebbe dovuto sentirsi confuso, spaventato persino, visto che Troy sorrideva su di giri all’idea di vedere i bambini rompersi le ossa, ma provò un forte senso di familiarità. «Alla mia amica Ben piacerebbe molto!», commentò sorridendo a sua volta, rinfrancato al pensiero dell’amica. «Forse anche giocare a questo hockey, ma soprattutto vedere scorrere il sangue! Tipo l’ultima volta che Balt si è rotto entrambe le gambe…» Volta in cui, per inciso, aveva come il sospetto che ci fosse proprio lo zampino di Ben, in quella ruzzolata giù per tutte, ma proprio tutte, le scale del castello.
    «noi facciamo gli arbitri.»
    «Oh Dio, grazie!» Congiunse le mani in segno di ringraziamento al cielo e annuì. «Piuttosto che giocare mi romperei anche io entrambe le gambe qui e ora…», ammise con una mezza smorfia, intimorito com’era da qualsiasi tipo di sport. Uno perché era troppo scoordinato per fare qualsiasi cosa di anche solo vagamente sensato. Due perché gli ricordava tutte le volte per cui era stato escluso anche per questo, e anche in anni decisamente recenti, non solo da bambino.
    «Allora quando giochiamo??», intervenne Ralph, il tono della voce decisamente un po’ troppo alto per i suoi gusti. «Dov’è il ghiaccio? E le mazze?? E i pattini???»
    Già, c’erano ancora quei piccoli problemi.
    «Ve l’ho detto, è estate… come lo facciamo il ghiaccio?? Guardate invece che bel prato che c’è…» Sorrise e indicò il prato che li circondava, che di bello, in realtà, non aveva assolutamente, secco e giallo com’era. «È enorme! Non è molto meglio l’hockey sul prato, per questa volta? Cominciate a cercare dei bastoni per fare le porte!»
    Stava prendendo tempo, invece di trovare una soluzione?
    Assolutamente sì.
    «Forse potrei riuscire a fare una palla fantasma, ma tutte le mazze?», disse a Troy, non appena i bambini si furono sparpagliati alla ricerca dei bastoni, tenendoli però d’occhio con un velo di apprensione. «Mi dispiace, sono inutile…»
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    troy bolton hawkins
    Dear God, where'd you go?
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    Perchè mettere al mondo dei figli? Perchè, quando immancabilmente, entrando a far parte della società, erano destinati a diventare un problema degli altri, e nello specifico il suo. Poco le importava che quei nani fossero orfani, e quindi i genitori non potessero più prendersi alcuna responsabilità nei loro confronti, così come non la toccava che la mancata riproduzione potesse portare all’estinzione del genere umano. C’erano ben poche cose che interessavano Troy Bolton, in effetti, ed erano tutto ciò che la teneva ancorata a quel posto, gli occhi nocciola a rimbalzare da una testa all’altra: denaro, quello che avrebbe preso dal legionario insieme alla quota di Ictus; redemption arc, perlomeno figurato, in cui avrebbe ricalibrato il suo karma mostrando a Julian che fosse una brava persona; cibo, ma in quel caso specifico, si ricollegava al tema denaro, considerando che quel pomeriggio di duro lavoro le avrebbe pagato almeno una scatola extra di mochi al caramello.
    Priorità.
    E insomma. Avere un’attività in programma, dato che l’avevano proposta loro, sembrava un buon inizio per tenere sotto controllo i delinquenti, ma da lì a metterla in pratica, ci passava un intero universo di regole e schemi e strumenti che non possedevano, il che rendeva la situazione :sparks: problematica :sparks: . Troy era una problem solver, ma forse neanche lei poteva improvvisare abbastanza da permettere alla progenie del demonio di giocare una partita ad hockey su ghiaccio in piena estate, ed in un parco pubblico.
    Forse. Mai dire mai, con Troy.
    «Voglio dire… c’è un criocineta, tra voi? Io posso chiedere a qualche, umh, amico invisibile di indirizzarvi, se lo siete ma non sapete farlo tanto bene…» (Faceva ridere, ma anche riflettere, che Troy fosse nata come criocineta; maledizione, avremmo risolto subito il problema) La mora curvò gli angoli della bocca verso il basso, sollevando gli occhi chiari sul volto del lampioncino. I suoi… amici invisibili? Dude. Battè le ciglia, scambiandosi un’occhiata d’intesa con Ralph. Il fatto che un bambino non solo la capisse, ma condividesse i suoi timori, bastò a farle drizzare la schiena e dipingerle in volto un broncio severo e seccato: fanculo i bambini di merda, e fanculo se Ictus era inquietante ed aveva amici invisibili – erano una squadra, lei e il ragno chilometrico. Sarebbe rimasta dalla sua parte contro il nemico comunque, anche quando pensava fosse folle e senza senso. «Sono un medium! Potrei cercare l’anima di un criocineta e… farci dare dei consigli, ecco. Non farvi possedere!!» Ah… uhm. Osservò un punto sul prato inglese, sforzandosi molto forte di non cercare ancora gli occhi del bambino. Ma davvero il suo collega aveva parlato di possessione? «nessuno pensava li avresti fatti possedere» chiarì, dopo i secondi necessari per assicurarsi che non avrebbe iniziato a ridere istericamente, dando una pacca solidale alla spalla del ragazzo.
    Kiddos.
    E, con un po’ di ritardo, ma thinkin. Piegò il capo sulla spalla, ruotando sul posto fino a fronteggiare Ictus. «ma tu potresti» Lo studiò, indice contro il labbro inferiore. Forse potevano convincere i nani a giocare su prato anziché su ghiaccio, se avessero avuto qualcuno di pertinente a suggerirlo. «farti possedere da un giocatore di hockey, intendo. Minchia, ne saranno morti, no?» Non aveva assolutamente idea di come funzionassero i medium, avevano dei cerca persone sovrannaturali?, ma immaginava avessero i loro… modi, per sapere certe cose. Prese nota del placido vibrare del ragazzo al suo fianco, prima di sospirare e posare cauta una mano sul suo braccio. «o puoi fingere, è indifferente. Basta che funzioni» Tolse immediatamente il palmo dal tessuto, non volendo far scattare il proprio potere: era una chiaroveggente, e – come potrete immaginare conoscendola almeno un poco – delle vite degli altri, non voleva sapere proprio un cazzo. Era seccante avere sogni profetici, ma vedere il passato delle persone? Quella era davvero una fottuta palla al piede. NO, KAREN, NON MI INTERESSA SE QUAND’ERI BAMBINA I TUOI GENITORI NON GUARDAVANO I TUOI DISEGNI, MOVE THE FUCK ON!
    Comunque, andando avanti. Provò a gettare le basi per una solida collaborazione, così che potessero fare fronte unito con i pidocchi demoniaci che attendevano l’inizio del gioco, ma non era certa che fossero sulla stessa lunghezza d’onda. Forse avrebbe dovuto suggerirgli di chiamare la sua amica Ben: senza dubbio, loro due si sarebbero divertite tantissimo. Lo squadrò impassibile un altro paio d’istanti, giusto per chiarire che neanche contro dei bambini l’avrebbe fatto giocare ad hockey – era molto, molto, sottile, e aveva l’aria di volare via al primo soffio di vento – prima di proseguire con il sospiro degno di qualunque millenials verso le nuove generazioni. Palla fantasma? «mh. Proviamo così» Infilò pollice ed indice in bocca, fischiando abbastanza forte da far girare tutti le cimici in circolazione. Con un ampio cenno della mano, indicò loro di avvicinarsi.
    Problem solving, ricordate?
    «chi sono i poteri elementali? Un passo avanti» Poco più di una dozzina di bambini, fece quel timido passo avanti. Non avevano qualcuno che creasse il ghiaccio, ma – «se ancora non lo sapete fare, il mio collega vi insegnerà ora come creare degli oggetti usando i vostri poteri» e visto che sapeva preventivamente fossero dei piccoli pigri di merda, prima che potessero protestare, alzò un indice. «le creazioni più belle, verranno premiate» tutte, ma che ne sapevano loro. Abbassò il tono di voce con fare cospiratorio. «con delle caramelle ooohhh. Aaaah! Per i pochi bambini rimasti fuori dalla competizione, bisognava pensare a qualcos altro con cui potessero entrare in gara. Farli mettere insieme ad altri compagni avrebbe avuto poco senso, considerando fossero in pochi… Mh. «gli altri dovranno pensare ai nomi delle squadre. Vogliamo una lista pronta entro quando i vostri compagni avranno finito. Dopodichè, sceglieremo democraticamente dalle vostre proposte» Schioccò le dita, fingendosi molto più professionale di quanto non fosse.
    I bambini dovevano essere proprio stupidi, perché ai suoi ordini - ai suoi ordini - scattarono immediatamente sull’attenti, e mentre i poteri mentali e fisici si dividevano dal gruppo per pensare a come chiamare le squadre, gli altri volsero i loro occhietti malvagi tutti su Ictus, in attesa della lezione.
    Troy sorrise trionfante. Il suo lavoro era fatto.
    (Ma non hai fatto niente……..)
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    Benedictus Deogratias
    Di gente, bestie e fiori no, non ce n’è più,
    viventi siam rimasti noi e nulla più…
    La terra è tutta nostra, Marcondirondera!
    Ne faremo una gran giostra, Marcondirondà…
    «nessuno pensava li avresti fatti possedere»
    «Ah no?» *Meme di Salvini.* Un sospiro sollevato gli sfuggì dalle labbra, che subito si incurvarono in un sorriso a metà tra il contento e l’imbarazzato. «Non lo so, c’è a chi piace??» Si strinse nelle spalle, ma poi pensò che Troy meritava qualche elemento in più. «Tipo al mio amico Dara. A lui piace essere posseduto!! E gli piacciono molto i fantasmi. E i tentacoli. E le zanne», le spiegò con convinzione, annuendo alle sue stesse parole. «Gli piacciono un po’ tutti i mostri, in effetti.» Com’è che l’aveva chiamato Paris? Il monster!king? O forse era kink? Chissà, Ictus era abbastanza confuso, quindi non si azzardò a fare quell’aggiunta. «Comunque ecco, però ho sempre paura di fare dei casini quando lo faccio e…»
    «ma tu potresti»
    Sgranò gli occhi, con il solito, controproducente risultato di farli sembrare ancora più sporgenti e ancora più inquietanti (un po’ come quelli della mamma, smack), sentendosi nuovamente gravare dalla preoccupazione. «Be’, sì, immagino ne saranno morti un po’… Spero tutti di vecchiaia, però! Dopo una vita lunga e felice di successi sportivi e non.» Quell’augurio però non bastò a non farlo sobbalzare appena, quando sentì qualcosa, o meglio, qualcuno, sfiorarlo. Non aveva ancora provato a chiamare nessuna anima, com’era possibile? Un po’ spaventato ci mise qualche istante a realizzare che si trattava della mano di Troy e non di quella di uno spirito sportivo. «o puoi fingere, è indifferente. Basta che funzioni» «Oh. No, meglio la possessione.» Non ci pensò nemmeno un istante: come medium faceva schifo, ma come bugiardo ancora di più.
    E poi non voleva ingannare quei poveri bambini.
    Registrò di sfuggita lo scatto di Troy per allontanare la mano da lui, stavolta non smuovendosi di un centimetro. Era così abituato a essere scansato dalla gente, non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, che ormai non ci faceva neanche più caso. Anzi, gli sembrava strano quando accadeva il contrario, specie poi se si trattava di Erisha, che lo sfiorava, che lo baciava, che…
    Si sforzò di riscuotersi da quei pensieri, perché avevano una missione da compiere e, nonostante fosse cresciuto con un prete, sapeva che avere certe reazioni fisiche davanti a dei bambini non era esattamente consigliato. Tuttavia, per svariati momenti continuò ad aleggiargli sulle labbra un sorrisone ebete, mentre la sua mente, e il suo corpo, cercavano di sfuggire al suo controllo, per rifugiarsi tra le braccia della Byrne.
    Tuttavia, non voleva deludere i bambini, né tanto meno Troy, che era così gentile da non volerlo gettare in pasto ai lupi a giocare a uno sport che non sapeva neanche cosa fosse e che, appunto, di base, era uno sport. Aveva una tremenda paura di perdere la poca (?) stima che aveva di lui, specie sentendola sospirare ogni tre per due per le sue pessime idee. Non aveva affatto torto, però. A non avere stima in lui, s’intende.
    Così, la osservò con ammirazione mentre chiamava i bambini a raccolta con un fischio degno di Peter, il miglior amico di Heidi e, ancora più ammirato, ascoltò la sua precisa, e fantastica!, spiegazione sul da farsi.
    E chiaramente si aggregò ai cori di meraviglia e gioia per le caramelle. «Troy», richiamò la sua attenzione sottovoce. «Ce ne sono anche per noi? Di caramelle, dico.» Non che volesse rubare le caramelle ai bambini, in senso letterale proprio, ma almeno una se la meritavano anche loro, no? Più Troy di lui, ovvio, ma dal basso della sua bravura era certo che ne avrebbe riservata una anche per la sua incapacità.
    Scattò pure sull’attenti, al suo schioccare le dita, un bambino tra i bambini, cresciuto giusto quel metro e mezzo di troppo rispetto ai compagnucci. Compagnucci che, una volta distolto lo sguardo ammirato da Troy e posatolo su di loro, lo stavano fissando con malvagità.
    «…» Cercando di non farsi prendere dal panico lanciò un’occhiata alla ragazza, alla collega, all’amica (d’accordo, la conosceva sì e no da un’ora, non aveva il diritto di definirla così, ma sentiva??? Che sarebbe stata sua amica??? VERO????), vedendola sorridere trionfante. Aveva ragione, naturalmente: aveva fatto davvero tutto. Appena un po’ rassicurato le sorrise, cercando di farsi coraggio.
    Cos’è che gli aveva detto?
    Ah, già!
    «Ora mi faccio possedere. Io, non voi! Da un giocatore di hockey. Anzi, no, prima vi spiego come fare…» Si concentrò per qualche istante e, nel palmo della mano sinistra, gli comparve una piccola sfera di ectoplasma. Sorrise e si arrischiò a farsela rimbalzare sul palmo, con l’unico risultato di farla cadere per terra dopo ben un (1) rimbalzo. «Ehi! Fermi!! Dobbiamo fare tutti gli strumenti per giocare a hockey!!» D’accordo che era un gioco violento, ma cominciavano già a menarsi, ancora prima di iniziare? E per una pallina fantasma??
    Quando fu riuscito (forse) a calmare le acque si mise seduto sul prato, a gambe incrociate, circondato dai suoi dodici apostoli, i bambini che avevano dotati di poteri elementari. Prese un bel respiro, unì le mani e cominciò a spiegare loro passo per passo come costruire, sfruttando le loro abilità, le mazze e il resto.
    Il tutto facendo spesso e volentieri sorrisi e pollici alzati in direzione di Troy, come a dirle che sì, il suo piano era davvero fantastico.
    Se non che, adesso, dovevano scegliere. Dire quale fosse la mazza più bella, e quale palla, e rete, e ogni cosa. Ictus non sapeva, o meglio, non ricordava cosa significasse essere il figlio preferito, ma provò comunque tutto il senso di colpa dei genitori dei genitori che vengono costretti a esternare le proprie preferenze riguardo la loro progenie. Soprattutto perché, nonostante tutto, le creazioni dei suoi apostoli erano tutte belle, ognuna a suo modo. Persino gli sgorbi. «Troy?» Lo sguardo traboccante di panico, la invitò con un gesto, e gli occhi sgranati, naturalmente, a unirsi a loro sul prato. «Non sono stati tutti bravissimi?»
    Non c’era un briciolo di menzogna, nella sua voce.
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