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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    «c’eri prima tu.» Vero, e reale. Non passò inosservato al Bigh come Balt, pur consapevole ci fosse stato prima lui, non offrí la medesima cortesia invitando se stesso ad andarsene. Non si era aspettato nulla di diverso, e mantenne placido il fantasma di un sorriso sulle labbra, consapevole che non gli avrebbe comunque chiesto di farlo. Trovava Baltasar Monrique un caso di studio interessante, reso ancor più intrigante dal suo essere diametralmente opposto non solo a tutto ciò che Mood era, ma anche quello in cui credeva. Era una delle creature che più al mondo avrebbero dovuto fargli rimpiangere di non aver bruciato quella scuola incolpando uno special quando ancora quella scusa avrebbe attecchito, ed invece provava nei suoi confronti una sorta di… tenerezza fredda, e calcolata. Poteva allungare una mano per stropicciargli dolcemente i capelli, e con la stessa percentuale di probabilità, rimanere a guardare senza battere ciglio mentre lo picchiavano a sangue. Non voleva attivamente ucciderlo, che di per sé, conoscendo un minimo Mood, non era così scontato, ma l'idea che potesse trovarsi in una situazione di vita o morte e dovesse cavarsela da solo, lo affascinava più di quanto non facesse saperlo al sicuro. Voleva metterlo in un'arena, e guardarlo come uno spettatore di lotte fra galli - cosa che sarebbe stata a tutti gli effetti, a ben pensarci: aveva visto galli meno polli del Tassorosso.
    Voleva vederlo rovinato. Usurato dal tempo e dalle persone come una moneta. Avrebbe retto, quel sorriso? Si sarebbe ancora fidato, dei Mood del mondo? Chiuse gli occhi, sentendolo sedersi poco distante, ed immaginando quale futuro avrebbe atteso lo spagnolo se fosse rimasto così …Balt. O forse, quello che pensava come un ingenuo, dalla vita aveva in realtà capito tutto, ed aveva scelto il Serpeverde come male minore sapendo l'avrebbe trovato più intrattenente da vivo che da morto. D'altronde, Mood non era il più cattivo in circolazione: era solo il più vicino. Era così terribile, farsi usare dal Serpeverde? Se non ricordava male (spoiler: non faceva niente male, neanche ricordare.), le persone che lo circondavano erano ancora tutte vive, vegete, ed in salute - se non lo erano, non per colpa sua.
    aSi concesse l'intero minuto di silenzio con il quale Balt lo grazió, perché non sapeva quando avrebbe avuto un'altra occasione - o se l'avrebbe voluta, un'altra occasione: le uniche volte in cui il Monrique non parlava, era perché impegnato ad essere triste o a vomitare, ed avrebbe felicemente evitato entrambe le opzioni; checché se ne dicesse, le persone miserabili gli piacevano solo quand'era lui a causare la loro sofferenza, non quando doveva sorbirsi gli effetti collaterali del danno di qualcun altro. - persistendo ad osservare come le fiamme delle torce di riflettessero sul cimelio di famiglia. Scollò gli occhi scuri dallo stocco quando, inevitabile come la morte ed il coinquilino di Alessandro, Balt aprì bocca per dire qualcosa di inequivocabilmente stupido.
    Arrivavano proprio da universi differenti, Balt e Mood, se era arrivato a fare quella domanda. A lui, poi. In un battito di ciglia, nell'espressione onestà dello spagnolo vide l'immagine speculare di Dara. Lo stesso pressante bisogno di - cosa, poi. Di cosa. Aveva solo verità scomode e bugie dolci come sciroppo per la gola, e nessuna delle due era mai la risposta giusta. Sapeva che Baltasar volesse una replica sincera, e faceva già ridere che la cercasse da Mood, ma non era certo fosse quello di cui avesse bisogno in quel momento.
    Gli importava?
    Studiò il profilo del compagno, intrecciando le dita sopra l'elsa della spada per poterci poggiare il mento. Piegò le labbra in un sorriso divertito e triste, pur non provando propriamente nessuna delle due emozioni. Non escludeva ci fossero, da qualche parte, solo perché statistica e percentuali avevano il potere di smentirlo, ed amava troppo avere ragione per darla vinta alla matematica. «balt» mormorò semplicemente, perché pur non essendo l'attrezzo più affilato della scatola, neanche lui poteva essere così stupido da metterlo in dubbio. Era lo stesso, identico pattern adottato a San Valentino: rapimento, ostaggio, salvatori; rapimento, ostaggio, salvatori. Non era il se la fosse, la questione sul piatto, ma il perché. Tristemente, a quello non aveva risposta, e solo teorie. Teorie facilmente scartabili, per giunta: considerando che avessero rapito Hold, dubitava avessero bisogno di menti affini o capacità particolari con cui conquistare il mondo, il che, purtroppo, escludeva molti dei suoi perché. Temeva che ci fosse una sola soluzione, e fosse anche la più ovvia.
    Sarebbe stato alquanto anticlimatico.
    Inspirò dalle narici, soffiando piano l'aria dalle labbra dischiuse. «ho sentito dire ci siano tante mete, e che non andremo tutti nello stesso posto» di quello, Baltasar poteva farsene quello che preferiva: era un fatto, e come tale, aveva senso solo quando interpretato. Avrebbe sperato toccasse a qualcun altro? Sentito, nel cuore, che quel qualcun altro sarebbe stato lui? Si strinse nelle spalle. «sai quando il ministero apre le missioni ai civili?» accarezzò con il pollice il metallo dello stocco, osservando distratto lo stesso punto del Monrique. La voce si era fatta più fredda e distante, più Mood, ma d'altronde, non aveva un vero e proprio motivo per mostrarsi un raggio di sole con Baltasar: l'aveva pur sempre ucciso, insomma. Con tutte le attenuanti del caso, si, ma se non era bastato quello a convincerlo fosse il caso di mantenere le distanze, non lo sarebbe stato il grammo più di cinismo che usualmente teneva per sé.«quando non vogliono perdere risorse» spostó gli occhi scuri sull'altro, osservandolo attentamente. Non solo credeva fosse una trappola, Mood, ma pensava anche che qualcuno ai piani alti sapesse esattamente di cosa si trattasse, ed avesse scelto di usare i propri cittadini come carne da macello. Non poteva giudicare: avrebbe fatto lo stesso. «la mente umana è facile da manipolare. o la è la nostra, o quella di chi è tornato» ancora scosse le spalle, decisamente meno preoccupato di quanto avrebbe dovuto. «saperlo, o supporlo, non cambierà il fatto che andremo» quindi. «quindi» punto. E la conversazione, per Mood Bigh, avrebbe potuto finire (molto prima. magari neanche iniziare) li, ma non lo fece. Tacque solo un paio di istanti prima di domandare in un filo di voce, attento a non disturbare la quiete della stanza, «a cosa pensi?» sinceramente curioso della risposta, perché con Balt, tutto poteva essere.

    mood
    bigh

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  2. .
    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    Non si muoveva da un po’, Mood. Fermo come quand’era arrivato, la guancia posata contro il metallo – freddo, un tempo, ed oramai scaldato dal contatto con la pelle – le braccia incrociate sul petto a stringere la lama senza tagliarsi, una gamba allungata oltre la poltroncina. Affondato nel cuscino su cui aveva piantato lo stocco come se potesse ingurgitarlo. Lo sguardo era posato su quella o l’altra pietra del pavimento di Hogwarts, nulla di entusiasmante. Non stava realmente guardando nulla, distratto dalle sue due cose preferite al mondo (se stesso, ed il silenzio) permettendo ai pensieri di vagare indisturbati fino al placido nulla della meditazione. Quel labirinto di passato e ricordi che non gli appartenevano (non lo facevano? Un intero corridoio di libri di storia, e di piante ormai secche, ed appunti ordinati al limite dell’ossessione) non era il posto in cui avrebbe voluto essere – l’oro del podio andava al suo laboratorio sotterraneo a Praga – ma quello che più vi si avvicinava, non potendo permettersi altro. Di cui aveva bisogno, se il nome della Stanza poteva essere di qualche indicazione. L’aveva scoperta l’anno prima, e da allora, era stata spesso la dimora del suo non esistere per un po’. Si spegneva fra quelle mura come uno stoppino stretto fra pollice ed indice. Un tempo, aveva lasciato quell’onore all’ufficio di Check, l’unico posto in quella maledetta scuola dove poter essere più Mood, se non solo Mood - quello era un privilegio che concedeva unicamente a se stesso, e neanche tutti i giorni.
    Si cresceva. Si cambiava. Un giorno aveva guardato suo fratello ed aveva capito che fosse giunto il momento di prendere le distanze, perché l’avrebbe fatto comunque ma preferiva fosse graduale. Non voleva esserci sempre, nella sua vita; doveroso un passo indietro per iniziare ad abituarlo alla sua assenza, perché non voleva diventasse un effetto collaterale delle sue decisioni. Si dicesse quel che si volesse di Mood, ed a ragione, ma sapeva amare abbastanza da capire quando non fosse il caso di superare una linea. Non significava abbastanza da non farlo, come dimostrava quotidianamente nel suo mero, ma mai semplice, esistere; lo faceva, e spesso. Aveva giusto appena finito di farlo. Semplicemente, non voleva farlo con Check.
    Non sarebbe tornato a casa per un po’, il Serpeverde. Scelta, non necessità. Nella vita a scacchiera che aveva diligentemente creato, aveva spostato gli ultimi pezzi solo poche ore prima. Non gli rimaneva che aspettare la mossa successiva, e decidere come muoversi una volta che le sue azioni avessero avuto delle conseguenze quantificabili – ah, la storia della sua vita.
    Adorava la sua famiglia. In maniera misurata, e calcolata, ma lo faceva. Perfino Justin e Hold, apparsi nella sua vita solo per andarsene di continuo, occupavano un posto nel suo mondo, e neanche quello più in basso. Avrebbe fatto qualunque cosa per loro, eccetto sacrificare se stesso – un fardello che lasciava loro più che volentieri, ciascuno alquanto propenso al martirio in ogni caso – ed aveva deciso di dimostrarlo nel modo che gli riusciva meglio. Quello incomprensibile ai più, ma che importanza aveva; quello crudele, perché era pur sempre Mood, e tenere a qualcosa significava farlo al suo peggio.
    Era puntuale nei suoi appuntamenti mensili a Francoforte, perché non si mangiava mai bene come a casa propria e perché gli aggiornamenti in merito alle sue giornate erano doverosi. La leggenda narrava che i genitori amassero i propri figli in maniera eguale, e forse era davvero così, ma certamente con il minore dei fratelli Case-Beer-Vibe-Bigh erano più ovvi. Magari non era il preferito, ma sicuro come l’oro lo sembrava, e Mood calzava quella parte con la perfezione di chi c’era nato e si era allenato per diventarlo. Pensavano di averlo modellato a piacimento, che l’ultimo fosse stato infine un successo formativo, senza considerare che la storia amasse ripetersi, e fosse avvenuto esattamente il contrario: si era modellato su di loro, cambiando forma e spigoli fra mamma e papà. Era rimasto ore a guardare Cole Beer dipingere, la guancia sulla sua gamba mentre distrattamente gli carezzava i capelli; aveva appreso i nomi di tutti i colori apposta per indicarle il tramonto e dirle fosse vermiglio. Si era addormentato centinaia di notti sul divano insieme a Penn Case mentre il padre gli leggeva poesie e romanzi, ed aveva imparato a distinguere i sonetti solo per interromperlo e farlo ridere. Interi pomeriggi con Rue Vibe nel laboratorio dove non avrebbero dovuto entrare a guardarlo lavorare su quello o l’altro meccanismo, imparando il nome degli attrezzi solo per poterglieli passare. Il lavoro migliore di Mood, restava comunque Krush Bigh - e viceversa. Aveva lasciato lo guidasse, modificando poco del proprio tragitto; permesso gli tenesse la mano, e portandola distrattamente dove voleva andare lui. Sua madre gli aveva insegnato a sorridere e non farlo significare un cazzo, ad amare e saperlo contenere. Impeccabile, fino a quando decideva di non esserlo. Due anni prima, con l’accusa di omicidio e la conseguente espulsione, aveva rischiato ed aveva vinto, permettendo a tutti di passarci sopra. Giustificarlo.
    E poi, «andrete? Per hold» aveva gelato il sangue di tutti i presenti, mentre lui sollevava inquieti e pesanti occhi scuri a cercare i loro sguardi. Fece in modo che lo vedessero deglutire con fatica il boccone, e si rendessero conto di quanto (quanto?) gli fosse costata quella domanda. Era stato così prevedibile, il resto. Così scontato, che Mood non potè che rimanerne parzialmente deluso. Sapeva di essere bravo, ma non così bravo da prevedere la reazione di tutti i presenti; poteva significare solo una cosa: che fossero semplici. Che avesse finito di combattere, ed avesse già vinto. Tollerava tanti difetti nel genere umano, ma non la mediocrità.
    Tua sorella - divertente, come fosse sua sorella, e non anche loro figlia - ha fatto la sua scelta, molti anni fa. In modi diversi, ed in toni differenti, ma tutti e quattro gli avevano risposto al medesimo modo. Ed allora, «ma noi possiamo ancora farlo, no? sceglierla» labbra dischiuse in sorpresa, la voce a scendere di qualche nota. Non nascose la propria delusione, Mood; sapeva avrebbero scelto loro come interpretarla, e che l’avrebbero fatto nel modo sbagliato.
    Sapeva non avrebbero mai partecipato alla missione. Nessuno di loro. L’aveva saputo anche quando giorni prima aveva lasciato segnassero il suo nome, e quando aveva alzato un sopracciglio a Check come se non avessero saputo entrambi che l’avrebbe usato come scusa per fare la stessa cosa – come se parte del motivo per cui Mood avesse deciso di rischiarsi la giocata, non fosse sapere che ci sarebbe stato il fratello. Per Hold? Anche. Una interpretazione come un’altra, quasi tutte corrette, e forse perfino migliore rispetto alla realtà. Più lusinghiera di certo: non faceva altrettanta scena dire che fosse annoiato e curioso. Inoltre, non una bugia. Voleva sapere dove fosse finita sua sorella, anche solo per sfarfallare le dita in saluto e soffiarle un bacio a distanza. Il fatto che, potenzialmente, potesse essere pericolosa, lo riguardava solo marginalmente – avrebbe trovato qualcuno a cui faceva abbastanza tenerezza da farsi proteggere a costo della vita. Oltre a Check, si intendeva. Sperava fosse l’ultimo a morire, che era più di quanto Mood concesse a chiunque altro.
    «e se fossi io» aveva domandato, in un bisbiglio. «se fossi io. Verreste, per me?» Certo che l’avrebbero fatto. Cole era stata la prima a prendergli il viso fra le mani, i pollici a premere sulle guance, e dirgli che l’avrebbero fatto, ma lui non avrebbe mai dato motivo perché dovessero farlo, non è vero? Aveva annuito, poco convinto. Aveva atteso un altro paio di battiti.
    «è mia sorella»
    Un’altra pausa. Se loro non le davano importanza, gliene avrebbe data lui, sottolineando che riconoscesse fosse parte della sua famiglia. «se le succedesse qualcosa -» Labbra umettate.
    «vi importa?»
    La voce a tremare. «vi è mai importato?»
    «justin? e-» finse di interrompersi, permettendo di completare l’orchestra. Check.
    «crederà che l’abbiamo abbandonata. L’abbiamo fatto?» Stupore, come se non fosse stato scontato. Il millesimo tabù in una casa di segreti di pulcinella. «lascerete che muoia? come -» Justin. Tacque solo per lo schiocco. Non improvviso, se l’era aspettato, ma comunque… strano. Krush Bigh non aveva mai, mai alzato un dito su Mood.
    C’era sempre una prima volta.
    Con il bruciore sulla guancia dello schiaffo, il sedicenne si sentì in diritto di forzare le lacrime e dire fosse esattamente per quello che tutti li odiavano. Che se gli era rimasto solo lui, avrebbero dovuto farsi due domande. Che l’avrebbero perso, inevitabilmente.
    Ma non lo fece. Fosse mai. Perchè lo sapevano già, e Mood aveva sentito il crack delle loro illusioni in ogni parola, nel battito irregolare visibile sul collo. Se avesse reagito come un qualunque altro adolescente, avrebbe davvero cambiato le cose: sarebbero andati, forse. Guariti tutti. Serviva uno strappo netto per aggiustare i fallimenti di una decade.
    Però non voleva andassero. Voleva solo -
    «loro se ne sono andati, ma non dobbiamo fare lo stesso» prese la mano di sua madre fra le proprie, portandole alle labbra per premere un bacio di Giuda sulle nocche. «vi voglio bene» perfino vero, nella sua assurdità. Trattenne il sorriso, perché era certo di aver sentito quelle stesse parole centinaia di volte dopo ogni maldestro tentativo di manipolare il suo affetto nei loro confronti. «lo sapete, vero?»
    - spezzargli il cuore, perché era l’unico a poterlo ancora fare. Farli sentire in colpa.
    Stava ancora pensando all’occhiata ferita dei suoi genitori, quando sentì la porta aprirsi e chiudersi. Non si scompose troppo: era un crocevia di anime disperse, quel posto lì che si trovava ovunque ed in nessun luogo. Accoglieva chiunque avesse bisogno di spazi, e di qualcosa da fare. Non era altro se non un enorme e labirintico mausoleo di chiunque fosse passato fra quelle mura da che il castello era stato costruito. Sostanzialmente, un posto dove farsi i cazzi propri, motivo per cui non accennò a mostrarsi, rimanendo seduto ed immobile alla sua poltrona.
    Fino a che non riconobbe il suono dei passi. Molto peculiare da parte sua, ma aveva imparato a riconoscere il rumore delle catastrofi prima che potessero avvicinarsi troppo. Si sporse oltre la libreria che lo nascondeva alla vista, tenendosi in equilibrio con lo stocco rubato a Francoforte a far da leva sulla poltrona. Sorrise a Balt Monrique come se fossero sulla stessa barca (non quella. Quella metaforica, della vita) che, di per sé, era già ironico considerando il Tassorosso soffrisse di mal di mare. Gli offrì l’espressione triste e morbida di chi avesse perso una parte della propria famiglia, e pur essendo troppo giovane per avere un peso nell’universo, rischiava tutto pur di fare qualcosa. Che era vero, immaginava. In parte. Una parte decisamente non importante in egual misura, per l’uno o l’altro. «posso andarmene, se preferisci»
    mood
    bigh

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    Edited by honestly‚ mood - 6/4/2024, 22:24
  3. .

    when
    oct. 2023
    where
    quo vadis
    who
    not your business

    haunted
    Familiare la era davvero, quella situazione. Un già vissuto martellante, venato appena da qualcosa di crudo e amaro come buccia di limone strizzata fra i denti. Mai quanto in quei pochi istanti, Mood Bigh, era stato tanto conscio della forza di gravità; non sfuggì al Serpeverde l'ironico tempismo delle leggi della fisica. Come se il resto - la pressione delle mani sul petto, il battito sulla schiena, l'alito caldo a solleticare i ricci scuri - non fosse stato abbastanza a ricordargli che quella non fosse più una maledetta simulazione in un fittizio microcosmo magico. Vulnerabile, negli occhi scuri abbassati dove le dita stringevano il braccio di Cory. Per i motivi sbagliati, che poco avevano a che fare con la pistola ancora piantata fra le vertebre. Esposto, più nudo in quel vicolo di quanto non lo fosse stato sulla maledetta nave. Cristo. Buon Dio. Era stato stupido da parte sua lasciare al Capitano qualcosa pensando non avrebbe avuto senso non farlo; non gli capitava spesso, di essere stupido.
    Era quello, che si provava?
    Era vergogna, quella a pulsare sulla lingua?
    Non farci questo, aveva implorato. A suo modo, ma l'aveva fatto. Quell'incontro sarebbe stato più semplice, e più divertente, se si fossero presi solamente la pelle, e la carne, e il sudore. Il sangue, che poteva ancora sentire caldo fra le dita come se avesse poggiato il palmo sul taglio in quel momento. La stoffa ruvida sotto i polpastrelli. Troppo semplice, forse - e non ne aveva visto il punto, Mood. Non assuefatto com'era stato dal momento, e da impossibili occhi verdi a pungere come vetro. Così gli aveva ceduto la cosa più preziosa che avesse. Se avesse avuto un cuore o un'anima, forse fra quelle casse gli avrebbe lasciato anche quelli, malgrado avesse un indole più decadente che romantica, e sarebbe comunque stato meno personale di quanto gli avesse concesso: i suoi pensieri. Aveva ritagliato un posto per lui nella parte più Mood che avesse, quella di cui andasse più fiero. La sua arma migliore, ed il suo scudo più resistente. Aveva volontariamente abbassato il ponte levatoio, perché come poteva non volergli far spazio, e quanto avrebbe potuto fare la differenza. Gli aveva dato importanza. Un errore da principiante dare un nome ad un animale destinato al macello; il riconoscimento era la prima causa a rendere una profezia, una condanna.
    L'aveva reso reale.
    E si era reso reale, ai suoi occhi. Sincero nel bisogno viscerale e maledettamente umano del prendere e non farselo bastare, esagerare e non sentirsi sazi. Impenitente nel rubarne ogni respiro, ed arrogante nel soffiare il proprio sulla sua bocca, forzandolo ad ingoiarlo come fosse stato suo.
    E la cosa che meno tollerava dello sconosciuto familiare alle proprie spalle, era che in qualche modo, protetto da quello che erroneamente credeva non fosse possibile, l'avesse desiderato. Sognato ed aspettato. Per il tempo loro concesso, e nel suo essere tristemente umano, Mood aveva voluto esattamente quello, portandone gli strascichi all'alba o tramonto.
    Era facile volere qualcosa quando non era contemplabile averla. Solo seccante quando non poteva comunque, ma era proprio lì.
    Ora capite perché lo odiasse? Rappresentava tutto ciò che Mood disprezzava del mondo: imprevisti, distrazioni, e giochi persi in partenza.
    «me lo ha detto anche il mio psichiatra» Se solo avesse saputo che si riferisse al nuovo docente di cdcm, il Prefetto avrebbe capito il senso di affinità provata nei confronti del Vaughan maggioren(evidente condividessero le stesse condanne: fratelli bestie, ed un Cory) e magari gli avrebbe concesso scacco matto una volta in più. «sembra una persona saggia» scandí piano, impedendo alle labbra di curvarsi in un sorriso compiaciuto. Mantenne piuttosto un'aria di quieta serenità, come se essere sbatacchiato in giro da gente armata fosse il suo pane quotidiano - non troppo lontano dal vero: frequentava Hogwarts, dopotutto. Si schiarì la voce, cercando ancora di liberare la camicia dalla presa del biondo. Evidentemente, e ne aveva la prova con gli abiti da straccione indossati in quel momento, Leonard Vaughan non aveva mai stirato in vita sua, o avrebbe saputo quanto fosse difficile eliminare quelle pieghe, e l'avrebbe perlomeno privato di quella tortura. «dovresti ascoltarlo.» Concluse, senza la minima inflessione a lasciar intendere se fosse un consiglio o l'ennesimo atto di derisione.
    «vuoti di memoria in effetti li ho» Dopo i venti, era tutto in discesa 💅 «sogni strani... valgono quelli erotici?» Alzò d'istinto gli occhi al cielo, coraggioso del fatto che l'altro non potesse vederlo, perché era proprio una risposta del cazzo - così, per rimanere in tema. - ed esitò sul cielo grigio di Londra, domandandosi se stesse parlando di loro. Egocentrico e narcisista da parte sua, nonché megalomane, ma Mood era egocentrico, narcisista, e megalomane, e sperava la risposta fosse sì. Sperava lo sognasse e lo odiasse e non potesse farne a meno. Sperava di averlo infettato come una malattia, e che il fantasma di quel che era stato lo perseguitasse. Sperava di aver fatto la giusta pressione su una psiche già delicata, da farsi cercare in ogni sconosciuto.
    Si chiese se anche lui avesse chiuso gli occhi e finto che le mani d'altri sul proprio corpo fossero le sue.
    Ma quando dischiuse le labbra, fu per un sottile e titubante «mamma non ti ha voluto bene?» con il tono più sincero che avesse, triste al punto da suonare preoccupato. Impossibile guardarlo e credere non fosse onesto, e privo di malizia. Un po' meno credibile considerando lo stesse domandando ad un ladro che aveva pensato fosse una buona idea prenderlo in ostaggio, ma quello era un problema unicamente del biondo. Innocente fino a prova contraria, e nessuno ne aveva mai. «o papà?» O entrambi, perché no. Non se la sentiva di giudicarli. Prima che l'altro potesse decidere di rischiarsi la giocata e sparargli davvero, corrugò le sopracciglia ed alzò un palmo. Una parvenza di panico non così difficile da simulare, con le linee tutte archi del cardiogramma. «deformazione professionale, mi dispiace» impossibilitato a stringersi nelle spalle, optò per un sospiro strozzato ed una risata secca e nervosa. Ridendo e scherzando, credeva (e sara temeva: un mondo terrificante.) esistesse almeno un au in cui fosse vero, che avesse studiato come psicomago. Non quello, ma che ne sapeva Cory. «non volevo farmi gli affari tuoi»
    E quella si, che era una bugia. La prima, probabilmente. Poteva odiarlo, ed esserne comunque incuriosito in maniera leggermente ossessiva, abbastanza da andare contro ogni logica di nostro signore e fermarsi al vicolo dal quale sapeva sarebbe uscito. Come un astronomo che avesse l'assurda possibilità di studiare una stella toccandola.
    Sono molto felice di rispondere a questa role dopo una lezione UFFICIALE in cui tutti hanno visto Mood vivo, perché a quel punto della conversazione, con la canna della pistola direttamente sotto il mento, qualche dubbio sulla sua sopravvivenza mi sarebbe venuto. Passò la lingua sui denti, inspirando dalle narici. Si immobilizzò davvero Mood, più teso di quanto fosse stato fino a quel momento.
    Non aveva paura di morire, ma non significava che volesse farlo. Reclinò il capo all'indietro cercando quantomeno di sottrarsi alla pressione della pistola, appiattendosi contro la spalla del biondo. Era un bugiardo eccellente, ma nessuno era perfetto, e non riuscí a celare del tutto il fastidio a guizzare negli occhi scuri. Uno sguardo in tralice piccato ed indisposto, tinto appena dal cinismo di qualcosa di già visto che non era finito come avrebbe dovuto. «a me sembra abbastanza vera. perfetta per la roulette russa, se sei il tipo a cui piacciono certe cose» Sciolse in fretta la rabbia come un bambino con la nuvola di zucchero filato, lasciando dietro di sé solo grumi e ricordo di com'era stato. Quasi inconcepibile credere avesse mai avuto un'altra forma. Quando tentò di incrociarne lo sguardo, non una posizione proprio semplice in cui farlo, c'era solo stupore sul suo volto. Timore. Esitazione. «era solo una domanda» mormoró, perché era un adorabile ragazzino curioso, privo di filtri o cattiveria, voleva mica sparargli davvero? Batté le palpebre, innocuo come un cerbiatto.
    Se pensava che in un'altra vita gli aveva coperto gli occhi per impedirgli di vedere Liz che si spogliava........... (come sara,) Si sentì tradito come la prima volta. Il mondo non avrebbe mai capito il livello di slealtà, perché non l'avevano vissuto - e se vi sembra un intervento unprompt, è perché lo sia del tutto coerente con l'accozzaglia di emozioni del Serpeverde. Perfino dopo tutto quel tempo, bruciava ancora. In modo casuale ma costante.
    Bastardo.
    Il Fato, ma anche Cory - o qualunque fosse il suo vero nome.
    Torniamo all'effetto collaterale dell'avere una pistola puntata alla testa, oltre all'avere una fottuta pistola puntata alla testa, ovverosia essere pericolosamente vicino al suo interlocutore. «ma come, ti sei già stancato di me?» Abbastanza da abbassare lo sguardo sulla linea della mandibola, ricordando di averla stretta nel palmo. Se avesse avuto poco più spazio di manovra, sarebbe riuscito facilmente a posare le labbra sullo stesso punto baciato ancora ed ancora con bocca diversa e identico sorriso.
    Voleva fargli male. Di nuovo. Stringere le dita attorno ai capelli e sbattergli la faccia contro il muro, e magari far scivolare le labbra sul collo, premere un bacio o l'impronta dei denti. Ricordava tutto, Mood. La fronte sulla sua, il respiro sulle labbra, il naso sulla guancia, la lingua sulla gola. Voleva sentire se avesse lo stesso sapore, la stessa consistenza sotto gli incisivi. Se il sangue fosse sempre rosso; se facesse male.
    Sorriso che lampeggiò verso il biondo senza rispondere alla sua domanda, innocente e lontano dai pensieri poco casti stipati fra i denti. Allargò anche le braccia per permettergli di cercare più comodamente nelle tasche - aveva solo la bacchetta, contanti, l'orologio, caramelle e gomme da masticare - e per quanto fosse un ragazzo intelligente, si sentí obbligato dalla legge e dalla scienza a bisbigliare «deja-vu» perché checché ne dicesse il mondo, Mood Bigh aveva un grande senso dell'umorismo.
    Lo guardò sottrargli la bacchetta con sopracciglia corrugate e triste sguardo bruno sul catalizzatore, palpebre a battere lente. Riflessivo, nella sua mai spontanea confusione.
    Quello era un problema, ma se doveva del tutto essere onesto, affrontò il furto con un senso di sollievo, perché significava anche essersi liberato dalla concreta, e reale pressione del torace contro le scapole. Respirava bene anche prima, Mood, ma si sentì più se stesso con distanza fra se e l'altro. Più ancorato a se stesso, senza dover condividere gli spazi. Libero perlomeno di sentire il cuore contro le costole senza che fossero cazzi di nessuno.
    Ne fu particolarmente grato quando si ritrovò costretto a guardarlo in volto, un opzione comunque migliore rispetto all'abbassarlo sull'oggetto così gentilmente offerto. Aveva un paio d'occhi scuri onesti e seri, Mood Bigh. Chi diceva che gli occhi non potessero mentire, non aveva lunghe ciglia scure ed una madre manipolatrice. Sempre leggermente destabilizzanti, seppur nessuno avrebbe saputo dire perché; immaginava fosse difficile associare tutto quel vuoto alla cornice incantevole del resto. Batté le palpebre, guardando infine la pistola.
    O meglio: avrebbe guardato la pistola, se la sua attenzione non fosse stata inghiottita da quello stupido anello del cazzo, e per un istante fu nuovamente come trovarsi sulla nave,
    («anche tu hai qualcosa che mi appartiene, capitano»)
    e Mood rimase immobile, senza accennare a voler prendere l'arma. Di nuovo. L'ennesima storia già vista, ironica nel suo svolgersi tanto quanto poco divertente. Come un attore sul palcoscenico destinato a seguire il copione, aprí la mano lasciando che gliela facesse cadere sul palmo. Sopracciglia corrugate, e dita ad arrampicarsi brevemente sul filo dorato fingendo non fosse intenzionale. Un tocco casuale e delicato come il bacio di Giuda a Gesù. Il polpastrello premuto ora sul freddo del metallo per remare contro un bruciore che sapeva essere solo mentale.
    Ma guarda te. Bastardo di un volatile di merda.
    Avrebbe davvero dovuto ucciderlo quando ne aveva avuta la possibilità, invece di credere che per una volta potesse allentare le redini senza conseguenze. Arrivavano sempre, le stronze. Facevano giri lunghissimi solo per prendere meglio la mira, ed affondare dove la carne fosse più vulnerabile.
    Di sottecchi, lo guardò allontanarsi. Storia vecchia, ma ripetiamola comunque: se avesse avuto un penny per ogni volta che Cory gli aveva dato la propria arma, avrebbe avuto due penny, che non era molto, certo, ma era comunque strano fosse successo due volte. Strinse la mano attorno al metallo, distogliendo gli occhi dalla nuca del biondo per portarli sulla pistola. Un peso estraneo, una forma che non conosceva. Valutò di buttarla nel cestino insieme al gelato giusto perché poteva, ma l'intrigo vinse sul capriccio facendogli avvolgere le dita sull'impugnatura. Non prese in considerazione neanche per un istante di puntarla sul fu pirata, e non perché attaccare alle spalle non fosse nel suo stile (anzi.) ma perché credeva che se fosse stata carica non gliel'avrebbe affidata, ed anche se lo fosse stata, sarebbe stato alquanto anticlimatico ucciderlo senza neanche presentarsi.
    «ti hanno mai sparato?» domandò, perché se non poteva lui, sperava che almeno qualcun altro ne avesse avuto l'onore. Aveva un accento americano; la risposta, era probabilmente sì. Posó l'indice sul grilletto, una lieve pressione con la canna puntata al pavimento. Non schiacciò fino in fondo perché temeva che avrebbe rovinato l'esperienza - ci teneva alle sue prime volte - ma tenne quella leggera pressione per il puro piacere di immaginare. Che fosse carica, che potesse farlo. Che non ci sarebbero state conseguenze.
    Ma dove cazzo erano i Cacciatori.
    Socchiuse un occhio per prendere la mira su nulla di specifico, sollevando il braccio fino a trovare l'altezza giusta. Abbassò la voce, troppo concentrato ed assorto per ricordarsi di suonare forzatamente allegro e civettuolo. «hai mai ucciso qualcuno?» aprí entrambi gli occhi, osservando incuriosito - e senza neanche uno sbuffo, ma avrebbe voluto - pirata e barbabietola da zucchero. Mimó un bang con le labbra soffiando un sorriso nell'abbassare l'arma, ma senza ridarla al legittimo proprietario. A suo favore, non accennò neanche a chiedere la propria bacchetta indietro. Doveva forse avvallare la propria causa al farsi lasciare andare? Andiamo: si vedeva lontano un miglio, che non fosse una minaccia.
    Schioccò la lingua sul palato, improvviso memore di qualcosa. Parve quasi titubante, nel battere le ciglia verso il biondo.
    Gli aveva dato dello schizofrenico, aveva suggerito avesse daddy e mommy issues, e domandato se avesse ucciso qualcuno. Il tutto senza neanche presentarsi! Mamma l'aveva cresciuto meglio di così.
    E lo so che stai già immaginando cosa accadrà, e ti dirò freme: hai ragione. È proprio quello che pensi.
    «cory, comunque» una pausa, giusto perché voleva. Breve, il tempo di corrugare le sopracciglia e indicare il proprio petto con l'indice. «il mio nome, intendo» fosse mai. Limpido, Mood - e falso quanto mare in acquario.
    Aprì il palmo libero verso di lui, indicando con un timido cenno del capo l'imbocco del vicolo.«posso...?» Chiedere non costava niente 🥺

    bigh
    mood
    It's what you do
    It's what you see
    I know if I'm haunting you,
    you must be haunting me
    gif: ppkritts.tumblr.com
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
  4. .

    prefect

    16 y.o.

    slytherin
    ugly ending
    best frenz
    Come diceva un saggio, e si parlava di nientedimeno che il prof Quinn, se doveva andare all’inferno, tanto valeva andarci in grande stile. Salendo sulla nave, infilò gli occhiali dalle lenti scure, inspirando l’umida aria di mare che popolava tutti i suoi incubi migliori ed i suoi sogni peggiori. Guardava l’orizzonte con l’espressione leggera di chi nelle onde dell’oceano vedesse la quiete che la società sembrava tanto integerrima nel non concedere, e nel cuore possedesse la morbida e confortante consapevolezza che la morte sarebbe sopraggiunta per tutti, e per alcuni prima di altri. Con un gomito al parapetto e la guancia sul palmo, rilassato come solo uno studente in gita poteva permettersi, Mood Bigh sognava ed immaginava tutti i modi in cui avrebbe potuto far affondare quella cazzo di nave con sopra tutti i suoi abitanti, forse se stesso compreso. La sua immagine mentale preferita, era quella della Nave Fantasma, con il filo di metallo a staccarsi tranciando di netto tutti i presenti a bordo della crociera.
    Era un sorriso felice, quello del Serpeverde. Gli scenari di morte, tendevano a fargli quell’effetto. Per quanto fallace, decise di prendersi il sollievo del proprio au delulu dove sacrificava i compagni allo spirito del kraken o la maledetta balena bianca, masticando pigro una gomma alla menta. Quando Eugene Jackson avesse guardato nella sua direzione, con pensieri MENDACI ED ERRONEI (è successo solo una volta ok. Non è che abbia come vizio di sbattersi qualunque creatura che volesse potenzialmente ucciderlo.) non avrebbe visto altro che un adorabile sedicenne entusiasta di affrontare un’altra emozionante avventura insieme alla sua compagnia del cuore, perché con l’anello aveva già dato. Yay, am i right.
    Avvicinò maggiormente l’oggetto al proprio fianco. Sospirò con sincera, sentita, malinconia, perché quelli sì che erano tempi d’oro, abbassando gli occhiali da sole il tempo di ammiccare al proprio riflesso – ed ora come allora, si sarebbe affogato per se stesso. Self love and all – prima di rialzarsi e poggiare la schiena a quello che perlomeno spero non essere legno. I swear to god, nel santo anno 2024 basta vascelli, spero bene. «mood» e chi. Chi altro poteva essere, con quella voce roca proveniente direttamente da uno dei gironi infernali, se non uno dei Monrique. Erano peggio del resto, loro due; popolavano perfino i suoi momenti di veglia, con la loro affatto placida esistenza.
    «maluma» morbido. Quasi intenerito, pur apparendo senza una minima preoccupazione al mondo, viso al sole e mani affondate nelle tasche dei pantaloni. Era quasi il loro anniversario. Molto romantico da parte loro ritrovarsi in una situazione specchio alla precedente. Arricciò solo appena il naso, al millesimo conato di Balt. Romantico, dicevo. Immerse l’asciugamano nell’acqua del secchio al proprio fianco, strizzandolo con un sospiro divertito ed esausto. Lo poggiò sulla fronte del Tassorosso, le ciocche bionde sulla fronte spostate gentilmente con la punta delle dita.
    «sto vomitando»
    «lo vedo» mormorò, tenendo premuto lo straccio sul viso sudato di Balt.
    Sognava, Mood. Sognava di abbassare lo straccio alla bocca, e farglielo ingoiare. Sognava di accompagnarlo all’uscita, spingendolo nelle stesse acque dove stava riversando la propria anima, così che potessero essere riuniti per sempre. Sognava, le labbra dischiuse in un broncio poco pronunciato.
    Sognava il giorno in cui Balt Monrique sarebbe stato felice. Allora e solo allora, toglierlo dall’equazione sarebbe stato soddisfacente: doveva concedere il diritto alla vita finché la vita non fosse valsa qualcosa, altrimenti qual era il punto. Godeva del suo stato miserabile, se la tenerezza con cui asciugava la pelle madida poteva esserne un segno – se aveste conosciuto almeno un poco Mood Bigh, avrebbe dovuto esserlo.
    Guardò le ostriche. Intensamente.
    wow. C’erano proprio tutti: Mood, Balt, Liz. Eli, da brava medium, era la morte nel cuore di tutti loro. Mannaggia, allora forse il timore del Jackson era reale.
    Inspirò profondamente. Più profondamente, all’idea di farsi leccare e quasi ingoiare da un’ostrica gigante.
    Ma perché a lui.
    Sollevò l’indice, scambiandosi intense occhiate con le milf di mare.
    Meno uno.

    Abbandonate le lenti scure, alzò gli occhi al soffitto della struttura.
    E sapete che c’era? Che lui, al contrario di Ben, avrebbe preferito tornare sulla nave ed aiutare il prof Jackson a partorire un mostro roseo e piagnucolante, piuttosto che rimanere un altro istante in compagnia di qualcuno che, in una stanza circondata da vetri ed al cospetto di una creatura dall’aria alquanto incazzata (sul serio questa volta.) ed orripilante, lo avvertiva di non toccarla. Ma perché cazzo avrebbe dover voluto toccare la versione marcescente di Staryu.
    «cercherò di resistere» le lampeggiò un sorriso divertito, piacevole a vedersi e falso quanto un immagine creata con l’intelligenza artificiale.
    Si avvicinò cauto alla superficie trasparente, cercando di osservare il Riotan con occhio clinico. C’era indubbiamente qualcosa che non andava con le squame solitamente brillanti della creatura, e quello avrebbe potuto riconoscerlo perfino la Roux, ma cosa? Sembravano in rilievo, quasi pietrificate, ma non… proprio. Se fosse stata roccia, non avrebbe vinto contro la gravità riuscendo a rimanere appesa al vetro. Cristallo? Non sapeva se potessero usare blandi incantesimi di illuminazione li sotto, o se avrebbero fatto entrare le bestie in uno stato di eccitazione febbrile e omicida, quindi attese che la luce naturale si riflettesse sulle squame. Non avevano l’aria di essere ghiaccio, e non sembravano neanche gli effetti di un incantesimo di trasfigurazione andato male – yabai, anyone? Da qualche parte c’è ancora Alec che cerca di afferrarlo – eppure c’era qualcosa di… Battè le ciglia, capo piegato sulla spalla. Roteò riflessivi occhi scuri su ogni parte visibile della creatura, mordendo distratto l’interno del labbro. «lo sapevi che le squame del riotan vengono usate per creare gioielli?» le indicò, senza toccare il vetro. «non al loro stato naturale, certo. Ma diventano gemme, quando la creatura...» Una pausa, giusto per assicurarsi che la ragazza avesse seguito il ragionamento. «invecchia.» si solidificavano, permettendo una facile lavorazione e risultati eccezionali. Certo, c’era bisogno di tempo, e il mondo quando mai ne aveva più? Volevano tutto e subito, indipendentemente dal come. Quella era la vera condanna del loro secolo.
    «immagino che venga usato spesso l’incantesimo di invecchiamento. Per gli affari» tono piatto, privo di alcuna inflessione. Non ne aveva mai visto uno all’opera. Non poteva dirsi… non deluso. Intrigato, anche se per tutte le ragioni sbagliate. Per inciso: non approvava la tortura sugli animali.
    Solo sulle persone. E solo quando ne aveva voglia.
    «il contro incantesimo è … complesso» mormorò, tenendo per sé fosse impossibile al loro livello - e con loro intendeva se stesso, non aveva fiducia nella ragazza. Manifesting che avrebbero fatto gli scambisti e sarebbe toccato a qualcun altro <3
    Now I'm bored
    I'd like to skip ahead
    And see the ending
    #mood


    CITAZIONE
    3. Mood, Myrtylle
    Riotan: il suo corpo è ricoperto da formazioni cristalline che appaiono dolorose alla vista. queste gli impediscono di muoversi con agilità, rendendola una preda facile


    Incantesimo della vecchiaia


    Formula: Vita Inverso. Causa il rapido deterioramento temporale di un oggetto, una persona, o una creatura. Più si mantiene attivo l'incanto, più passeranno gli anni. Usato spesso sugli oggetti - più facile che sulle persone - per aumentarne il valore, ed uno strumento di tortura terribile e dei più efficaci contro le persone. Possibile usarlo solo su una parte, umana o meno che sia, e non sull'intero soggetto. ATTENZIONE! Esiste il rischio che possa essere irreversibile, ed il contro incantesimo non funzioni.


    non verbale. Roteare la bacchetta in senso orario, puntarla sulla parte interessata, e piegare il polso verso di sè. Il colore del fascio si scurisce mano a mano che l'incantesimo viene mantenuto attivo, dal rosa al purpureo.




    Incantesimo del Giusto Tempo


    Formula: Tempus Fugit. Permette di far acquisire al soggetto od oggetto colpito dall'incanto oscuro Vita Inverso, gli anni persi. Più viene mantenuto attivo, più possibilità ci sono possa tornare allo stato originale. ATTENZIONE! Non sempre funziona, dipende dal mago e dal tempo passato dall'incanto oscuro. Non è possibile utilizzarlo ex novo per ringiovanire qualcuno: funziona solo come contro incantesimo di Vita Inverso.


    non verbale. Portare la bacchetta verso di sè, quindi puntarla verso la parte interessata, e roteare il polso. Il colore si schiarisce mano a mano che l'incantesimo viene mantenuto attivo, dal porpora al rosa.



    HTML
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    <h2>Incantesimo della vecchiaia</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>Vita Inverso</i>. Causa il rapido deterioramento temporale di un oggetto, una persona, o una creatura. Più si mantiene attivo l'incanto, più passeranno gli anni. Usato spesso sugli oggetti - più facile che sulle persone - per aumentarne il valore, ed uno strumento di tortura terribile e dei più efficaci contro le persone. Possibile usarlo solo su una parte, umana o meno che sia, e non sull'intero soggetto. ATTENZIONE! Esiste il rischio che possa essere irreversibile, ed il contro incantesimo non funzioni.</p>
    <h6><span>non verbale. Roteare la bacchetta in senso orario, puntarla sulla parte interessata, e piegare il polso verso di sè. Il colore del fascio si scurisce mano a mano che l'incantesimo viene mantenuto attivo, dal rosa al purpureo.</span></h6>
    </div>

    <div class="card objs master guarigione">
    <h2>Incantesimo del Giusto Tempo</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>Tempus Fugit</i>. Permette di far acquisire al soggetto od oggetto colpito dall'incanto oscuro Vita Inverso, gli anni persi. Più viene mantenuto attivo, più possibilità ci sono possa tornare allo stato originale. ATTENZIONE! Non sempre funziona, dipende dal mago e dal tempo passato dall'incanto oscuro. Non è possibile utilizzarlo ex novo per ringiovanire qualcuno: funziona solo come contro incantesimo di Vita Inverso.</p>
    <h6><span>non verbale. Portare la bacchetta verso di sè, quindi puntarla verso la parte interessata, e roteare il polso. Il colore si schiarisce mano a mano che l'incantesimo viene mantenuto attivo, dal porpora al rosa.</span></h6>
    </div>
  5. .
    oh, please
    @fr__
    @9096rola 💀ma davvero. non è scomparso nessun hotel lol il l0tus non è mai stato lì. go give us nothing girl
    22.21 - 03/03/2024 - powered by twizard
  6. .
    mood bigh
    shoould have burned
    this place down
    when i had the chance


    prefect ✧ slytherin, vi ✧ 16 y.o.
    And just one mistake
    Is all it will take
    We'll go down in history
    Remember me for centuries
    La professoressa Ramos era felice. Il Faustus, era felice. La cosa più assurda di tutte?
    Anche Mood Bigh era felice. A suo modo, certo. Quello tutto peculiare in cui la felicità era semplicemente l’opposto del sempreverde ago della bilancia ad oscillare fra suicidio ed omicidio, e non uno stato emotivo a sé - ma pur sempre qualcosa, e qualcosa d’onesto a brillare negli occhi scuri con cui osservava il Laboratorio. Incuriosito ed affascinato, quasi reverente nell’inspirare l’aria asettica del San Mungo. Poteva sentire il cuore battere quieto con l’eco di quello che se fosse stato meno Mood, un giorno, avrebbe potuto diventare. In un altro universo magari; non l’au canon, un altro ancora: così alternativo che il Bigh avrebbe potuto usare la propria conoscenza e curiosità nei confronti del mondo per salvarlo, anziché cercare sempre il modo per bruciarlo e rovinarlo.
    Il Serpeverde era tante cose, ma poche di quelle erano conosciute ai più. Sapevano fosse studioso, non necessariamente intelligente; mite, e discreto; un solitario socievole con un’ottima pagella, e prospettive di lavoro noiose ma remunerative. Certo non sapevano della sua (respiri profondi) moderata ossessione verso le piante ed i veleni che l’avevano spinto, sin da quando ne aveva avuto la possibilità, ad avere un laboratorio tutto suo dove giocare al piccolo pozionista. Possedeva un erbolario di tutto rispetto, curato negli anni ed aggiornato in maniera (altri respiri profondi) del tutto sana. Teorie empiriche e sperimentali. Linee spinte sempre un po’ oltre la normalità per il puro gusto scientifico della scoperta. Un campo di studio ampio, intrigante, e pieno di possibilità – la sua tazza di tè, insomma. Non era difficile per i suoi compagni di gruppo capire che fosse entusiasta di essere lì, ma per puro orgoglio personale, aveva perlomeno mitigato la propria euforia: troppo intimo, e personale. Erano stati loro stesso ad aiutarlo nell’impresa, considerando che Ficus non si faceva domande, ed a Roxie non interessavano le risposte.
    Gli piacevano perfino entrambi, i suoi amichetti di disavventura. Pensate un po’. Considerando la quantità di studenti che gli stavano sul cazzo, che gli avessero affibbiato due delle persone che meno desiderava affogare nelle profondità del Lago Nero, era quasi scandaloso nella sua perfezione. Niente Balt; niente Liz a sniffare ogni polvere presente nel circondario; niente ragazzini emotivi a piangere per la dipartita di un fuckin bambino. Richiedevano solo un babysitting moderato (Ficus) ed un basico istinto di sopravvivenza per giungere alla fine con tutti gli arti ancora attaccati (Roxie) e, non vi stupirà scoprirlo considerando fosse eccezionale in tutto quello che faceva, Mood Bigh era bravo in entrambe le cose. Non gli interessava neanche quanto, o se, potessero essere utili in un lavoro di gruppo – non gli dispiaceva fare tutto il lavoro, fintanto che alla fine avessero portato a casa il risultato – o se si sarebbero rivelati zavorra.
    Avevano passato la mattinata a studiare la cartella clinica del paziente, un tale Vary Cello che presentava una reazione cutanea allergica causata dall’esposizione a magia infetta. Non avevano ancora rilevato se si fosse trattato di una pianta – una delle tante che nella realtà post bellica di Abbadon, si era mutata di natura ed effetti – o di semplice vicinanza ad una zona particolarmente contaminata, motivo per cui per avvicinarsi al paziente era necessario indossare tutte le precauzioni di un caso potenzialmente infettivo. A giudicare dai segni sul paziente, e dal fatto che non presentasse effetti interni come rinite od asma, Mood reputava più probabile la prima opzione: inciampato su qualche ortica resa ancor più irritante dalla magia selvaggia del Quinto Fondatore, avrebbe detto, notando come presentasse eruzioni cutanee su varie parti del corpo, e gonfiore alle mani ed i piedi. Dubitava fosse contagioso, e sapeva che se i guaritori l’avessero pensato non li avrebbero fatti avvicinare; immaginava vigesse la politica del meglio prevenire che curare, ed andava benissimo così. Abbastanza di buon umore da aiutare Ficus a mettersi i guanti – un’impresa, con quelle lunghe dita da ragno che sembravano incastrarsi in ogni parte del lattice – e non fare una piega quando la O’Death lo spinse ad entrare nella stanza per primo. Lui, che avrebbe sacrificato i suoi stessi fratelli pur di essere nelle retrovie. Diceva davvero tante cose.
    Non si era unito alla pausa pranzo, preferendo rimanere nel Laboratorio con i medici del turno. Il pensiero di interrompere quello che stava facendo per qualcosa di banale e mondano come mangiare con altri esseri umani, era troppo all’infuori delle sue corde perché potesse spingersi a tanto – neanche per la propria immagine. Bugiardo sì, ma con dei limiti. - ed aveva approfittato di quel tempo per raggruppare gli ingredienti dalla lista ricevuta insieme la cartella clinica, studiarli. Aveva anche avuto una mezz’ora d’avanzo per importunare i Guaritori del San Mungo ad un tour del piano, conquistato dalle migliaia di boccette contenute nel magazzino e dalla descrizione dei casi più atipici che avevano avuto nell’ultimo anno. Aveva ascoltato le loro teorie, e si era morso la lingua dal fare più domande rispetto a quante un normale sedicenne avrebbe potuto formulare, ma mh. MhHhHhMhMh. Ok, ok! Ok. Un sacrificio che era stato disposto a fare, pur di non essere additato come troppo sveglio; si era perfino concesso cinque (5) domande assolutamente stupide, giusto per intenerirli. Era stato terribile.
    Aveva utilizzato quello stesso auto controllo con i compagni, quando si erano riuniti. Limato ogni angolo di sé che voleva sottolineare la loro ignoranza con lente occhiate allusive. Roxie e Ficus gli piacevano abbastanza da averlo spinto a spiegare in maniera semplice ed intuitiva, senza la terminologia tecnica che gli veniva più naturale, ogni ingrediente della loro lista, qualora non ne fossero stati a conoscenza. Era il 2024, santo cielo: lasciava il mansplaining solo ai momenti di totale umiliazione, e loro non la meritavano.
    Yet.
    Questo era prima che Roxie gli sputasse sulla mano e Ficus iniziasse a mangiare il necessario per la pozione, ma quella era una storia per qualcun altro.
    «non tutte le pozioni richiedono acqua depurata. In alcuni casi non è neanche necessario sia potabile, ma questo unguento in particolare, dovendo essere applicato su zone più propense all’infezione, non può essere contaminato da nulla.» Aveva spiegato al Tassorosso, indicando l’ingrediente sulla lista. Un tono gentile, senza troppe pretese – non era così interessato al fatto che lo ricordasse, gli bastava lo sapesse per quanto concerneva il loro compito.
    «l’aloe vera è un cicatrizzante, come la liquirizia» un’occhiata a Roxie. Sapeva manipolasse il sangue, e deduceva che potesse tornarle utile come informazione per tutte quelle volte che si fosse tagliata per poter usare il proprio potere. Ma anche per quando accoltellava qualcuno, dava l’idea di farlo spesso. «contiene» (respiri profondi) AMINOACIDI, VITAMINE C E D, MUCOPOLISACCARIDI CHE STIMOLANO I FIBROBLASTI «sostanze che aiutano a mantenere la pelle elastica, ed idratarla. Viene usata spesso negli unguenti di questo tipo, aiutano a combattere il prurito e contrastano l’arrossamento» Osservò la pelle molto chiara, e molto britannica, del Tassorosso. «puoi usarlo anche sulle scottature d’estate. È anche facile spremere il gel dalle foglie, e la pianta non richiede particolari attenzioni» Mi sono appena ricordata che a Capodanno Ficus ha strozzato Mood, quindi no, non gliene avrebbe regalata una per Natale, anche se lo stavo per scrivere. How dare you, Millepied, che sei il triplo. Bullo.
    Erano entrambi maghi, anche se Roxie non la era da un po’, quindi non scese nei dettagli riguardo l’ollavio. L’unica cosa che disse, occhi attenti a rimbalzare dalla lista alla cartella clinica del paziente, fu «questo è centrale nel tipo di unguento che serve a noi, per opporsi agli effetti magici che hanno causato la reazione allergica. Ci servono le foglie, e non serve neanche siano sminuzzate finemente»
    Indicò uno degli ingredienti ai compagni. «ne ho recuperato un po’, ma se non l’avessimo trovato, l’olio di cocco si poteva sostituire con burro di karitè. Non ha proprietà magiche, serve solo ad idratare in profondità la pelle» Non guardò nessuno dei due, ma era un commento molto specifico e che valeva per entrambi – facessero del suo consiglio quello che preferivano. «fa bene anche ai capelli, sapete? Secchi. Doppi punte. Fragili» Niente side eye, ma l’avrebbero meritato entrambi.
    «il ribes nero viene usato spesso come rimedio naturale per le allergie. Non ha un effetto antistaminico – in pratica, non… lavora a livello chimico, inibendo la produzione dell’istamina, che causa l’allergia; sì, esatto, è quello che invece fa la liquirizia – ma è un potente C23A58naturale. Sì, proprio così: ne ne contrasta gli effetti, ma non cura il male alla radice» Non si stava dando risposte da solo – forse – voglio dare per scontato che le conversazioni siano avvenute a triplo senso e con tutti i presenti.
    «l’ananas? Ha proprietà drenanti, quindi… aiuta l’organismo ad assorbire meglio l’acqua. Qui è indicato per il gonfiore, vedi? È anche contenuto in molte pozioni contro la cellulite» Non era affar suo che a Vary Cella servisse o meno anche per quello, ma male non gli avrebbe fatto – non più di essersi rotolato in piante tossiche e potenzialmente letali.
    E quella che provò di lì a poco, prima che il mondo tornasse al suo status quo e Mood a repellere il concetto stesso di esistere, fu quasi ammirazione. Stupore, che cercò di mascherare perché poco lusinghiero nei confronti del compagno. La fierezza la lasciò trasparire, un sorriso quasi orgoglioso a pungere gli angoli delle labbra quando Benjamin (che strano. Mi sembra un altro pg. Chiamare Ficus Benjamin, è un po’ come il “figliolo” della bocciofila. Non so spiegare, ma è così) fece notare quello che ormai avrebbe dovuto essere sotto gli occhi di tutti.
    La liquirizia. Quella che aveva tutte le premesse per diventare la nuova origin villain story di Mood, esattamente come il pappagallo. Coincidenze che c’entrasse sempre trasfigurazione, in qualche modo? (sì)
    Osservarono tutti i rotolini di liquirizia insieme al resto degli ingredienti. Certo non era così che si trovava in natura, e – come aveva detto accennando all’acqua depurata – gli ingredienti non potevano essere contaminati. Di conseguenza, neanche raffinati. Esisteva un incantesimo specifico che avrebbe volentieri lasciato al compagno. Trasfigurazione era una materia… difficile, che richiedeva conoscenze e competenze molto specifiche: trasformare quella liquirizia in qualcos’altro, avrebbe richiesto abilità chimiche, scientifiche e mediche che neanche lui poteva vantare – quindi, senza offesa, era escluso che il Millepied ne fosse in grado – ma il tipo di trasfigurazione necessaria in quel caso, sembrava invece proprio nelle corde di un sempliciotto (non derogatory, addirittura un po’ affectionate, come ai cani) come il compagno.
    «vai, tutto tuo»
    Photos taken before disaster.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©



    GRUPPO 4 – 2° PIANO TOSSICOLOGIA
    (ficus, trasfigurazioni + mood, erbologia + roxie, pozioni)

    CITAZIONE
    UNGUENTO

    Paziente: Vary Cello

    Sintomi ed evidenze: comparsa di puntini rossi pruriginosi a chiazze su varie parti del corpo, e gonfiori alle mani e ai piedi

    Diagnosi: eruzione cutanea dovuta a reazione allergica

    ndF: no, la professoressa Ramos NON si è dimenticata di darvi quell’erba lì

    lista ingredienti:
    1. acqua depurata (per evitare contaminazioni)
    2. aloe vera (un antinfiammatorio naturale utile per lenire il prurito)
    3. ollavio (pianta inventata, vedi sotto)
    4. liquirizia (altro anti infiammatorio naturale, oltre a calmare prurito e rossore, ha un effetto cicatrizzante)
    5. ribes nero (poco perché potrebbe avere l'effetto inverso, ma anche lui ha effetto kinda ish antistaminico)
    6. olio di cocco (per idratare la pelle)
    7. ananas (contiene bromelina, principio attivo contro gonfiore)

    ingrediente sbagliato: liquirizia raffinata; è necessaria nella sua forma originale.


    nome: Ollavio
    descrizione:
    Una pianta rampicante, adattiva a qualunque tipologia di clima e temperature, dal tronco spesso ed i rami sottili e flessibili. La sua particolarità è che, al contrario di molte altre piante, non può sopravvivere dove non sia presente magia, motivo per cui ha sempre affollato le periferie delle cittadine magiche, rendendola introvabile nel mondo babbano. Post guerra, qualcuno l'ha definita infestante, in quanto sembra avere avuto uno sviluppo ben a di sopra della media (altre piante hanno avuto la stessa evoluzione, grazie alla mancanza di inquinamento causata dagli uomini, ma non quanto l'Ollavio); gli studiosi hanno notato che, in particolare, sembra aver trovato il proprio habitat nelle zone più contaminate dalla magia. Sono inoltre un ottimo campanello d'allarme per le così dette "zone morte", dove la magia non funziona, perchè per loro è impossibile sopravvivere in quei punti.
    Le foglie, larghe e morbide, vengono usate per unguenti e pozioni generiche utili ad attenuare gli effetti causati da un evento magico: un tatuaggio incantato andato male, ingestione di troppe caramelle - esempio, voli incontrollati causati dallo zucchero volato - o esposizione a forti sbalzi di magia.
    I fiori tendono a cambiare sfumatura a seconda della quantità di magia contenuta nell'aria, rimanendo sempre sulle tonalità del rosa. Hanno un profumo dolce, ma retrogusto legnoso; il loro olio essenziale pare avere un effetto calmante, oltre sempre alla capacità di arrotondare gli angoli più affilati della magia, motivo per cui vengono spesso utilizzati in ambienti ostili e delicati come gli studi degli psicomaghi.
    Il frutto dell'ollavio, piccolo e di colore bianco, non è commestibile per gli umani, ma non sembra dare gli stessi problemi alle specie animali magiche, motivo per cui le bacche vengono impiegate a livello veterinario per tutti quei disturbi che causano una produzione eccessiva di magia dalle creature.

    proprietà:
    La proprietà magica particolare dell'Ollavio, è la sua capacità di assorbire magia. Non in quantità letali, nè per l'ambiente nè per le creature magiche che lo abitano (maghi e special compresi), ma funziona in maniera contenitiva, dando una forma al caos. Il legno dell'Ollavio non viene usato per le bacchette per ovvi motivi, ma è molto impiegato nella creazione di culle per neonati, o porte di casa solitamente usate per le camere dei bambini, quando la magia è più selvaggia ed incontrollata. Pare che per un periodo, prima che il responsabile degli special facesse ricorso, sia New Hovel che Different Lodge ne possedessero in gran quantità, non tante quanto le prigioni magiche, ma quasi.
  7. .

    LA BESTIA E LA BELLA
    (un progetto del craft's love)


    summary
    "Una storia già conosciuta, seppur riletta in chiave moderna. I nomi dei personaggi principali erano diversi, ma il filo narrativo non si discostava troppo da quello originale. Un ragazzo costretto a vivere per un anno all’interno della villa di una bestia? Dai. Un classico. Avrebbe dovuto andare tutto bene. Liscio. Tranquillo.
    Oh, boi."
    TW: demenza. tanta. sproloquio, linguaggio volgare, bestialità, atti osceni, wow ho dato davvero il meglio di me, buon natale bea!


    CONTESTO
    aka l'intro normale, e sensato. Il vero regalo è questa Ode a Thea, also un progetto reale ed esistente on gdr. Yay! Buon Natale!!
    il resto è fan service.

    Dorothea Lucretia Lovecraft era una presenza eterea all’interno – e non – del Ministero. Delicata come una firma apposta sul contratto per la propria anima, leggera come il vento gelido che d’inverno si insinuava sotto sciarpe e cappotti di lana. Meravigliosa, e terrificante nella sua dolcezza. Nessuno aveva, pubblicamente, nulla da dire su di lei, se non quanto fosse prodiga al suo lavoro ed alla causa che tutti insieme, come unità, peroravano.
    Ma c’era sempre... c’era sempre un certo senso di competizione per ricevere le attenzioni della Lovecraft, che era diversa, prestando un poco più di attenzione alle dinamiche sociali del Ministero magico, rispetto al resto dei livelli. Più personale, anche se non meno deleteria. Non era raro che i censori si fermassero oltre il loro orario di lavoro, solo per dimostrarle di essere degni dei suoi sorrisi, o della mano posata gentile sulla spalla. Gli straordinari non venivano pagati; nessun altro, fatta eccezione per la donna, sapeva quanto lavorassero, ma a loro non importava, perché ricevere un gesto d’affermazione da Dorothea, ed una delle sue intense occhiate nocciola, era più gratificante rispetto al misero denaro. Essere visti dalla donna, era l’unico pagamento di cui avessero bisogno.
    Era rispettata. Venerata. Il timore incusso dalla Capa dei Censori, aveva un sapore differente rispetto a quello di altri responsabili dei piani, ma non meno letale. Cambiava forse qualcosa, che la morte fosse fisica o morale?
    Non era così assuefacente per tutti i dipendenti, certo. Non lo era per Berenice Hillcox, ad esempio, che non aveva bisogno di dimostrare nulla alla donna, conscia che la Lovecraft sapesse già fosse un ottimo assetto per il loro piano. Un mutuo patto di rispetto ed ammirazione, seppur con scale gerarchiche diverse. Non significava che dal resto dei colleghi, Nice si aspettasse qualcosa di diverso – aveva, forse, le stesse aspettative del loro capo in merito al lavoro dei compagni di scrivania, malgrado il suo fosse un ottimismo meno roseo e più pregno di giudizio. Non erano come lei; dovevano mostrare quotidianamente di meritare un posto come censori.
    Era con quell’ideologia in mente, ed un po’ di (mal)sano sadismo, che la Hillcox, la vigilia di Natale, aveva approcciato il suo giovane tirocinante. Se davvero voleva svolgere l’alternanza al Ministero, ed avere lei come tutor, doveva dimostrarle che ne valesse la pena, e non fosse un ennesimo spreco di tempo. Di recente, dal IV livello del Ministero era stata promossa una nuova iniziativa chiamata – con poca fantasia – “Craft’s Love”, con un gioco di parole dovuto all’amore per l’artigianato, ed all’individuo che l’aveva messa in piedi, niente di meno che Dorothea Lovecraft. Si trattava di una collana di libri, destinata ai bambini, che mirasse a formarli con una coscienza sociale, ed una consapevolezza del mondo che li accompagnasse dolcemente, tenendoli per mano, all’interno della società che li avrebbe accolti in età adulta.
    Come aveva efficacemente riassunto la Hillcox, piazzando un manoscritto sotto al naso di Mood Bigh, «fiabe.»
    L’iniziativa era nata con l’intento di istituire un mercato del lavoro alla portata di tutti, incoraggiando gli artisti emergenti a farsi conoscere, o le famiglie storiche a raccontare le loro vicende in chiave fiabesca così che il nome loro diventasse leggenda. Una novità, considerando che l’ambito del controllo si era tradotto sino ad allora a mera censura storica e sociale, e non a creare qualcosa di nuovo; un esperimento che vedeva i suoi primi frutti proprio sotto le vacanze di Natale, con l’efficiente lancio sul mercato di una raccolta intitolata “Venticinque Giorni Di Regali Fai Da Te” dove un Elfo Domestico, accompagnato da una bambina (strega, purosangue; sconvolgente, uh) birichina, aggiustava tutto ciò che la strega rompeva, rendendolo qualcosa di nuovo. Nessuno, neanche i più ottimisti come la Lovecraft, aveva immaginato la piega che quell’attività avrebbe preso, o quante persone avrebbero risposto all’annuncio mandando le proprie bozze. Certamente non i censori, che si erano ritrovati fra le mani centinaia e centinaia di racconti da leggere e controllare.
    Equilibrio. Tutto puntava su quello. Le storie dovevano educare, intrattenere, e farlo avendo in mente un target specifico, quindi con riferimenti che i bambini fossero in grado di cogliere ed apprezzare. Il fatto che la mole di lavoro fosse nettamente superiore al loro numero, non aveva preoccupato nessuno del piano: pur di vedere l’entusiasmo sul volto di Dorothea Lovecraft, avrebbero corretto bozze anche durante il pranzo di Natale, ed il brindisi di Capodanno.
    Non Nice, certo.
    Ma(h) Mood? Non siamo qui per scendere nei dettagli su come i tirocinanti fossero il frutto di una società improntata sullo sfruttamento («formazione, grazie tante») e le deleghe, quindi non lo faremo. No: siamo qui riuniti oggi, 25 Dicembre 2023, per leggere il manoscritto corretto e lasciato sulla scrivania della Lovecraft, così che al rientro dalle vacanze potesse scegliere se inserirlo o meno nel Progetto. Una bozza ricevuta da tal Sara Sr, un nome nuovo – ma familiare, per il sedicenne: leggendo il nome sulla pergamena, Mood aveva alzato lo sguardo verso la quarta parete, con la densa consapevolezza sulla punta della lingua che qualunque cosa fosse contenuta dentro quel manoscritto, sarebbe stata… impegnativa. - nel loro campo.
    Con il senno di poi, una prima ed ultima volta.
    Si trattava di una storia già conosciuta, seppur riletta in chiave moderna. I nomi dei personaggi principali erano diversi – un altro sospiro; leggenda narrava che ogni riferimento fosse puramente non casuale, malgrado la statistica avesse qualcosa da ridire in merito. I nomi, erano nomi comuni, quindi non necessariamente persone esistenti…. Eppure, Mood sapeva che quelle non fossero coincidenze, sempre per il suo legame personale ed intimo con la scrittrice. Aveva molti rimpianti – ma la narrazione non si discostava da quella originale.
    Un ragazzo costretto a vivere per un anno all’interno della villa di una bestia? Dai. Un classico. Avrebbe dovuto andare tutto bene. Liscio. Tranquillo.
    Oh, boi.

    (di seguito il testo redatto con le apposite correzioni)
    (sotto spoiler trovate l’originale non censurato, per una lettura facilitata. so che sembra non avere senso, ma lo ha. in qualche modo. non so più nulla. forse vi consiglio di leggere prima quello non censurato. è molto caotico, lo so.)

    LA BESTIA E LA ALTRETTANTO POCO BELLA
    Sara Sr

    NDA: I nomi sono stati tutti estratti casualmente, quindi non mi prendo nessuna responsabilità. Nessuna. Neanche quando arriverete al mio preferito in assoluto. So che saprete chi. Il contenuto di questa narrazione è fittizio, ed ogni riferimento a personaggi o luoghi esistenti, non è intenzionale nè voluta.

    Tanto tempo fa, in un magnifico loft in quel della Gran Bretagna, viveva un principe dall’aspetto… eh. Un aspetto di sicuro. austero.
    Aveva capelli fini, dello stesso biondo pallido dei primi raggi di luna, ed una pelle così chiara da risultare talvolta tendente al grigio perla. Occhiaie abbastanza pronunciate da denotare uno storico di utilizzo perdurante di sostanze stupefacenti; a giudicare dallo spento sguardo azzurro, probabilmente cocaina notti insonni. Il suo nome era Renèe, ma tutti lo chiamavano Renny, perché faceva rima con “penny” ed era quanto offriva per le prestazioni sessuali delle escort di Londra – braccino corto, quel principe lì. Una notte d’inverno, arrivò alle porte del suo loft una vecchia anziana signora, chiedendo riparo dal freddo in cambio di una rosa.
    «non sono mica della caritas un benefattore», le ha risposto il Principe, studiandola dalla punta delle scarpe rotte, a quella dei capelli pregni di doppie punte. E sì, le vedeva anche al buio. Arricciò il naso, sospirando piano. I poveri non facevano per lui in generale, ma quando «non sei neanche una milf?» era davvero troppo.
    La vecchia vecchietta lo guardò intensamente. «la vera bellezza si trova nel cuore»
    Renny sorrise. Amabile, affascinante, perfino con quella sua perenne espressione più morta che viva; era facile vedere quel sorriso, e non avere dubbi sul suo lignaggio. «non direbbe lo stesso, se le tette non le cascassero fino all’ombelico fosse piacevole a vedersi»
    La vecchia signora si sentì punta sul vivo nella sua femminilità. «allora. A parte che questa invecchiare è la naturale evoluzione del corpo umano, pezzo di merda signorotto. Vorresti arrivarci alla mia età»
    «non particolarmente, no»
    «vuoi vedere che ora ti inculo frego
    «signora, con tutto il rispetto – che equivale a zero – preferirei di no. Non è il mio tipo»
    «IN SENSO FIGURATO. UNA METAFORA! TI INCULO NEL SENSO – guarda, non te lo spiego neanche. Attaccati a sto capezzolo penzolante la tua opinione non mi interessa» e così dicendo, la vecchia attempata donnina iniziò a piroettare su se stessa, illuminandosi così intensamente da costringere il principe a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, di fronte a lui c’era -
    «…bloom fata
    «dark bloom* fata oscura» Un movimento della bacchetta dopo, e Renny era diventato un mostro.
    … Più di prima.
    Il Principe si guardò riflesso nel pomo della porta. Portò le mani al viso, le dita a scivolare sul folto pelo biondo. Non gridò, ma solo per pudore personale.
    «oh, cristo dio cucù. Sono un furry»
    «mega godo è quello che ti meriti» Dark Bloom la Fata Oscura sparì, abbandonando Renny ed il resto della servitù con un’ultima profezia: se avesse imparato ad amare, ed a farsi amare nonostante il suo aspetto, fino a quando la rosa avesse mantenuto i suoi petali, l’incantesimo si sarebbe spezzato. Altrimenti, «cazzi tuoi» sarebbe rimasto una Bestia per sempre.
    Renny aveva sospirato, affondando il viso nei palmi delle mani. Lui, un furry mostro? Nel ventunesimo secolo? Sarebbe stato un miracolo non trovare qualcuno che lo amasse. Ma conosceva i gusti dei giovani, dark bloom? Il furry era di moda quasi quanto i daddy. Era già stanco di essere un mero strumento sessuale, e la sua vita da dildo peloso era appena iniziata.
    Ecco perché si ritrasse nel suo loft.
    Aveva la connessione wifi. Deliverowl. Non aveva bisogno d’altro.

    Nella periferia di Londra, viveva Bertie, il figlio del misantropo misterioso Liam. Bertie amava leggere; i gatti; vomitarefare ginnastica a giorni alterni. Tutti motivi per cui era considerato strange forte peculiare dagli abitanti del paese. Leggenda narrava che avesse un problema con l’alcool il proprio corpo; il padre, non l’aveva mai smentita («anche perché… non ho un figlio?» Mh, okay boomer, l’alcolismo sarà stata una cosa di famiglia - senza contare che a quanto pareva nessuno sapesse rispettare le regole date dalla licenza poetica di un’artista come la creatrice di quella storia. Zitto Liam, e prenditi il figlio) credendo che il figlio si allenasse per piacere personale.
    Bertie combatteva ogni giorno con le avances di Ficus, il pasticcere più famoso di Londra. I loro incontri, si svolgevano all’incirca così:
    «smettila di seguirmi, davvero non puoi fare a meno di me? E non – non toccarmi, pervertito!»
    «ma…. Signore, sta tenendo lei la mia mano sul suo … uhm, pistillo? Vorrei… se potesse...lasciarmi? un appuntamento con lei»
    «sei davvero ossessionato da me, eh? testardo»
    «io…? No, signore, veramente - »
    «non ti biasimo, ho visto anche io il mio culo, però abbi della decenza. voglio un appuntamento con te»
    «ma è lei che viene qui tutti i giorni…? Però è vero, ha un bel sedere! Credo? Lo vorrebbe avere?»
    «vuoi avermi, eh? Possedermi? Qui, magari. Su questo bancone. Sbottonarmi i pantaloni, schiacciarmi contro il marmo, prepararmi al tuo cazzo con quel mattarellone - »
    «signore...uhm, non è molto igienico se si stende sul...bancone, io qua cucino? E penso dovrebbe tenersi – ok niente, ha già sbottonato tutto…?»

    Solitamente a quel punto arrivava il miglior amico di Ficus, il corriere del suo negozio di dolci, tal Giacomino, che alzava il pugno verso il ragazzo per incitarlo alla sua avventura. «L’AMORE VINCE SEMPRE!»
    Comunque.
    Un giorno, Liam partì per una fiera sugli animali zombie, una sua grande passione. Una scusa come un’altra per abbandonare viaggiare, e portare ninnoli a suo figlio, perché c’era un limite a quante volte si potessero sopportare i conati di qualcuno Bertie amava i souvenir. Durante il tragitto, però, venne attaccato da un branco di lupi mannari. Riuscì ad ucciderne un paio, ma era in netta minoranza, e si vide costretto a cercare riparo presso il loft di Renny.
    Suonò il campanello.
    Gli aprì la porta un orologio digitale. I numeri continuavano a saltare, risultando perennemente nell’ora sbagliata. Sembrava fatto di eroina; gli chiese se avesse una dose il suo nome. «ODDIO, CIAO, BELLO, NON VIENE MAI NESSUNO QUI?» come se fosse del tutto normale, l’orologio si presentò a Liam – si chiamava Iris – e lo invitò ad accomodarsi lasciando la giacca . Li dove, vi domandate?
    «no» Sancì l’armadio senziente. Iris aveva detto si chiamasse Amaranth.
    «col cazzo proprio piffero» replicò, tenendo serrate le proprie porte, impedendo al padre di Bertie di posare la giacca. Liam però certe cose le sentiva, e con l’aria di un uomo vissuto, commentò «ah, love language bresciano è tutto occupato» ma la giacca se la tenne comunque fra le braccia, perché Amaranth non sembrava avere alcuna intenzione di mollare il colpo posto.
    «OGNI TANTO FA COSì, MA è BRAVA SPAZIOSA EH! E HA DEGLI SCAFFALI BELLISSIMI! Dovresti vederli! Certo, non puoi perché non si apre, ma se si aprisse! Lo sapresti!» L’Orologio attorcigliò il proprio filo della corrente attorno al polso di Liam, trascinandolo verso la cucina.
    Gli offrì del tè.
    Liam non accettò.
    «ai miei tempi… bubu gaga» iniziò a criticarlo lamentarsi, la tazzina. Era una tazzina adorabile, a primo acchito. Piccola, lucida. Poi si notavano i minuscoli occhietti seri e solenni, ed i baffetti. Quei maledetti baffetti. «javi, bimbo mio, non giudicarlo. Non tutti possono avere buon gusto» Lo sgridò la teiera in tono materno, schioccando però il tappo con disappunto verso l’ospite.
    Ma la Tazzina non voleva sentire ragioni. Con uno sguardo scuro, e buio, che sembrava leggere dentro l’anima del suo interlocutore, continuò. «ho visto la guerra, io. bubu. Gaga»
    «ah, javi, devi proprio fare i capricci
    «Ho fatto dei sacrifici. Ho fatto… cose di cui non vado fiero, ma che erano necessarie BUBU. GAGA»
    «JAVI SMETTILA, <s>SPAVENTERAI OFFENDERAI IL NOSTRO OSPITE» L’orologio – da brava zia, perché la teiera era Myrtille - diede una testata alla tazzina, facendola ricadere nel lavandino. Continuò a parlare borbottare – qualcuno avrebbe potuto giurare di aver sentito le parole “Siberia” e “bambini morti” – ma il suo vociare venne messo a soffocare dall’arrivo di una lampada da parete.
    In tutto questo, l’autore ci tiene a farvi notare che il buon Liam non fece una piega, limitandosi a sorridere. Non una.
    La lampada lo studiò con affamati occhietti brillanti. Liam si sentì un po’ violato in soggezione.
    «sei un padre, vero? Queste cose le sento»
    «queste, cose? E no, l’ho già detto, non sono un padre» Sì che sei un padre. «ah, vero. Si, sono un padre. Oh, il mio bertie. Eccetera eccetera»
    «cose. La vibrazione daddy paterna. Protettiva» La lampada sorrise. Dolce, e morbida.
    «LAWWWWW NON PUOI FARE COSì CON TUTTIII POI NON VIENE Più NESSUNOOO»
    «così come?» domandò innocentemente Law, la Lampada.
    «così!!! SEDURLI E POI GHOSTARLI. SPAVENTARLI CON LE TUE ILLUMINAZIONI! LASCIAMI UN AMICO»
    «sedurli spaventato? Non so se… mi sento… sedotto spaventato da una...lampada?» Ma c’era del dubbio, nel tono di Liam. Non l’avrebbe ammesso, ma ve lo dico io aveva timore di aver sbagliato, entrando in quel Loft, e che a pagarne il pegno sarebbe stato Bertie.
    «hai mai provato ad accendere una lampada?»
    «non posso dire mi sia capitato, no. dopotutto, sono un mago»
    «magari è il momento di farlo, mh?»
    «LAAAAAWWWWWWWWW»
    La Lampada sbuffò, alzando le luci al soffitto. Quando sorrise a Liam, fu più gentile e meno predatorio canzonatorio – dopotutto, sapeva che se avesse continuato, quella spiona bastarda di Iris avrebbe detto tutto a Diaz, lo Spolverino. Non sarebbe stato un gran problema, se quello spolverino non avesse scopato spolverato così bene; aveva sacrificato la propria poligamia in favore di una chiavata come Dio comandasse era allergico alla polvere, e non voleva si offendesse smettendo di pulire. Non se ne trovavano tante di scope e swiffer, in quel loft.
    Un boato. Un forte, boato. Un grugnito, passi pesanti lungo la dimora. Il padre di Bertie strinse la giacca al petto, occhi spalancati quando la creatura si palesò nella cucina. La servitù tacque, sguardo posato sul pavimento.
    «oh mio Dio… un furry»
    Renny mostrò i denti. «almeno io non parlo con gli elettrodomestici. Vattene Sei entrato nella mia dimora… ora sei mio prigioniero»
    «cioè… non posso tornare a casa?»
    «certo che no»
    «e ne sei… proprio sicuro?»
    La Bestia battè le palpebre, spostando l’attenzione sull’orologio, che alla sua domanda scosse il quadrante. «iris. Gli hai dato la scossa?»
    «non puoi tenermi in ostaggio? Almeno per un po’»
    «e… perché non dovrei»
    «perchè te lo sto chiedendo è immorale
    L’enorme furry mostro studiò l’uomo, soffermandosi sull’orlo dei pantaloni. C’era ancora del vomito, sulla stoffa. Erano sgualciti La disperazione nel tono di voce, non gli passò inosservata. «dammi un buon motivo per non farti restare»
    L’orologio portò entrambe le lancette alla bocca. «oddio… oddio?! Ho le farfalle alle stomaco? LETTERALMENTE gli ingranaggi tutti SMOSSI? CHE SMOOTH, SIGNOR BESTIA. SONO CONQUISTATA» a cui si aggiunse Law, con un sospiro. «può ripeterlo di nuovo? Ma più lentamente»
    «non sapevo di esserepadre, e ora ho scoperto che non solo ho un figlio, ma che soffra di frequenti attacchi di vomito e sia un predatore sessuale» Una pausa.
    Due pause. Tre pause. Renny era: perplesso.
    «ma è mica mio fratello?»
    Non hai un fratello, Principe. Also, FUCK YOU

    «skerzo. ok. Non fare troppo rumore. Puoi restare. Sentiti libero di andartene quando vuoi»

    Quando Bertie non vide tornare il padre a casa, sentì subito che qualcosa non funzionava, lì dove sentiva sempre titillare i suoi sensi quando le vibrazioni erano negative: i testicoli il cuore. Li strinse fra le dita, usandoli come un bastone da rabdomante Uscì di casa per seguire la scia scura lasciata dal padre, trovandosi ai piedi del Loft. Aveva sentito parlare, di quel Loft. Giravano storie, leggende che lo facevano arrossire e scalciare rifugiare sotto le coperte. Si morse il labbro, dondolando sullo zerbino, prima di decidersi a suonare il campanello.
    Un ringhio.
    La porta si aprì, e Bertie abbassò lo sguardo su un… poggiapiedi? Poggiapiedi cane? Ce l’aveva con lui? «chi è un bravo ragazzo?» tentò in tono morbido, porgendo il palmo ed affacciandosi all’interno dell’appartamento.
    «non tu. Puzzi di squallore»
    Bertie arricciò il naso. Valutò quanto fosse poco gradevole da parte sua prendere a calci la creatura, e realizzò che non avrebbe fatto una buona impressione.
    «dov’è il tuo padrone?»

    «non ti risponderei neanche se un padrone lo avessi davvero. E comunque. Non parlo. Quindi. Woof woof» Gli sembrò di scorgere la scritta “RAIN” sul… collare, o filigrana del tessuto che fosse. Lo osservò perplesso un altro istante, prima di farsi strada all’interno del loft.
    «c’è nessuno?»
    Non udì risposta, ma sentì del vociare dalla stanza adiacente. Quando, cauto ed a bacchetta spianata, avanzò verso la camera illuminata, riconobbe il timbro del padre. Si fiondò al suo interno, stringendo entrambe le mani al petto.
    «PADRE!»
    Liam, che aveva infine ceduto alla proposta del tè – con immenso disappunto della tazzina baffuta, se lo sguardo truce poteva significare qualcosa – stava cercando di contrattare con la Bestia la propria libertà, sussultò. Gli occhi lucidi del padre, gli strinsero il cuore.
    «padre»
    «ma come minchia mi hai trovato? Non è possibile.»
    «ho seguito sto cazzo? Il cuore. Volevo dire cuore. Padr-»

    Ancora un tremolio alle spalle. Un brivido lungo la schiena. La bandiera – vedete? Sempre il caso di diffidare dalle bandiere – morale dritta e fiera ad indicare l’oggetto del timore.
    Peli. Tanti, peli.
    «un bear orso» sospirò, battendo le ciglia.
    No, no… Il cuore schizzò nel petto, perdendo per strada qualche battito.
    «UN FURRY MOSTRO
    Le dita scattarono alla bocca, dischiusa in sorpresa. Credeva di conoscerli tutti, quelli di Londra. Era uno nuovo?
    «no. No -» il furry principe guardò suo padre, un artigliato indice alzato. «no. Non mi dire. Ho detto che non volevo problemi»
    Liam sorrise felice di vedere suo figlio. Per la prima volta, forse, da quando era lì dentro, sorrise.
    Infilò una mano in tasca, lentamente.
    «papà! Non ucciderlo!»
    Tutti sembrarono trattenere il fiato. Liam corrugò le sopracciglia, stringendo fra le dita un cartoncino sottile. «ucciderlo? No. Uno scambio» Girò l’oggetto.
    Una carta di credito.
    «uno reverse bancomat card»
    Le leggi del gioco imponevano delle regole ferree. Renny aprì la bocca e la richiuse, legato da quelle stesse catene disegnate dalla Mattel una vita prima. Non importava neanche che non stessero giocando a Uno: ma non fu lui a parlare, bensì Bertie: il figlio ricordò al padre quanto fossero poveri, e che non potessero permetterselo. potè solo rimanere a guardare, mentre Liam lentamente in lacrime spariva dalla via come il meme del segno della pace, ed al suo posto rimaneva...Bertie.
    «e quindi...sei qui tutto vuoi rimanere solo?»
    La lampada espirò fra i led. «boss… che dire. Divertiti. Noi ce ne andiamo» con un lampeggìo divertito, trascinò con sé l’allegra compagnia, afferrando al volo la tazzina intestardita a voler proteggere l’onore della Bestia. Al manico, gli bisbigliò che avesse bisogno di spazio per una sana scopata, perché il celibato di Renny durava da che la Vecchia era passata a maledirli. Doveva avere delle balle così blu, che neanche i cieli in Primavera.
    «sì. Per scelta ora» ringhiò, minaccioso
    «le scelte i tempi cambiano»
    «non le i miei


    Bertie venne trattato con estrema durezza da Renny, nei mesi a seguire. Poco importava che avesse conquistato Iris («boss. BOSS! Mi ha attaccato uno sticker a forma di fungo sul quadrante!»), Law («boss. Lo faccio per te»), Diaz (« (emoji con i cuoricini e lo smile)»), Rain («per forza, quando minacciavo di morderlo mi ammiccava. Ew?»), Myrtille e Javi («si, beh… zero sbatti di portare rancore. Javi non ha voce in capitolo, crede ancora di essere un soldato al fronte. Io l’avevo detto di non regalargli modellini, ma figurarsi. Ok allora. Che sia un problema di tutti») con la sua frizzante, e gentile, personalità. non c’era alcun modo per giungere al cuore di Renny.
    Un giorno, vagando senza meta per il Loft, si imbattè in una stanza che non aveva mai visto prima.
    Entrò convinto che fosse la stanza, finalmente. Quella dei costumi, e dei frustini, plug anali con la coda baffuta con le chiavi, per potersi liberare e portare con sé il resto della servitù. Quel che ci trovò invece, con la stessa tristezza drammatica della canzone di Cristicchi dove l’uomo la regalava, fu una… rosa. Molto anti climatico.
    Sobbalzò quando il Furry Renny gli chiuse la porta sul naso.
    «cos’è?»
    «una rosa»
    «perchè è sotto una teca?»
    «perchè è preziosa, ok?»
    Gli occhi di Bertie si riempirono di un’emozione nuda, e vulnerabile. Battè le ciglia, sentendo sulla lingua il sapore del rimpianto.
    «ed io? perchè non sono sotto una teca, in questa prigione che chiami casa? Non sono prezioso?»
    Renny lo guardò. Lo guardò davvero, studiandolo a pelose palpebre socchiuse. «come ti ho venuto in mente? no. Pensavo fosse ovvio»
    Se pensava di allontanarlo così, aveva sbagliato tattica. Bertie era un ragazzo semplice: meno lo volevano, e più i suoi desideri sessuali di redenzione venivano fomentati, scaricandolo in un mare di delirante piacere mai raggiungibile speranza. Gli piaceva soffrire, più di quanto gli piacesse la sua vita a Londra, e voleva che anche la Bestia la provasse.
    «non vomito mi alleno da tre mesi. L’hai notato?»
    «no, perché non me ne frega niente sei sempre in forma

    Una pausa. Quello era il momento in cui avrebbe dovuto andarsene, lo sapeva. Sentiva che ci fosse una storia da seguire, una che lo spingesse a scappare dal Loft, farsi inseguire dai lupi, farsi difendere dalla Bestia, un lento nella sala dalla ballo, il riconoscimento dei sentimenti gli uni per gli altri, un paio di rapimenti, forconi, morte. Amore. Ma la morale di questa favola, non è l’amore. La morale, bambini, è che bisogna provare. Sempre. Anche quando la situazione sembra disperata e sfavorevole. Arrendersi, non è un opzione: non lo è per voi, giovani lettori.
    Non lo era per Bertie.
    «prendimi, furry. Solo una volta. Sbattimi come un uovo in padella. Rovesciami come l’ultimo goccio di latte. Piegami come una t-shirt sui banconi di un negozio in sposa»
    E non lo era per Renny. Furry Principe. La Bestia. Qualunque nome gli si volesse dare.
    «poi non te ne vai?»
    «poi non me ne vado»

    Un passo verso di lui.
    «e non torni mi lasci da solo mai più?»
    «magari mi vorrai ancora, dopo avermi assaggiato no»
    Lo studiò, la lingua a saettare sulle zanne.
    «nah, non credo sposami, allora»
    Quel che accadde in quella stanza, non è racconto per bambini. C’erano peli, saliva, artigli, peli fra i denti, ringhi di varia natura, e la riprova che il corpo fosse in grado di adattarsi ad ogni necessità. seguito, è ciò che accade sempre quando la speranza non lascia mai il nostro cuore, e l’amore guida ogni gesto.
    La rosa vibrò.
    Tutto si immobilizzò.
    La magia pervase l’intero loft; in un battito di ciglia, la bestia era tornata il principe, mostro uguale ma con meno peluria, e la servitù era rientrata nelle proprie forme umane.
    La maledizione trasfigurante era stata vinta.
    «ah. Era così… facile ci hai salvati»
    E per dimostrare di essere cambiato, prima che Bertie sistemando le vesti tornasse a casa, non gli diede un penny.
    Gliene diede due.
    pianse di gioia, perché anche i Principi piangevano.
    E vissero tutti felici e contenti.

    Tanto tempo fa, in un magnifico loft in quel della Gran Bretagna, viveva un principe dall’aspetto… eh. Un aspetto di sicuro.
    Aveva capelli fini, dello stesso biondo pallido dei primi raggi di luna, ed una pelle così chiara da risultare talvolta tendente al grigio. Occhiaie abbastanza pronunciate da denotare uno storico di utilizzo perdurante di sostanze stupefacenti; a giudicare dallo spento sguardo azzurro, probabilmente cocaina. Il suo nome era Renèe, ma tutti lo chiamavano Renny, perché faceva rima con “penny” ed era quanto offriva per le prestazioni sessuali delle escort di Londra – braccino corto, quel principe lì. Una notte d’inverno, arrivò alle porte del suo loft una vecchia, chiedendo riparo dal freddo in cambio di una rosa.
    «non sono mica della caritas», le ha risposto il Principe, studiandola dalla punta delle scarpe rotte, a quella dei capelli pregni di doppie punte. E sì, le vedeva anche al buio. Arricciò il naso, sospirando piano. I poveri non facevano per lui in generale, ma quando «non sei neanche una milf?» era davvero troppo.
    La vecchia lo guardò intensamente. «la vera bellezza si trova nel cuore»
    Renny sorrise. Amabile, affascinante, perfino con quella sua perenne espressione più morta che viva; era facile vedere quel sorriso, e non avere dubbi sul suo lignaggio. «non direbbe lo stesso, se le tette non le cascassero fino all’ombelico»
    La vecchia si sentì punta sul vivo nella sua femminilità. «allora. A parte che questa è la naturale evoluzione del corpo umano, pezzo di merda. Vorresti arrivarci alla mia età»
    «non particolarmente, no»
    «vuoi vedere che ora ti inculo?»
    «signora, con tutto il rispetto – che equivale a zero – preferirei di no. Non è il mio tipo»
    «IN SENSO FIGURATO. UNA METAFORA! TI INCULO NEL SENSO – guarda, non te lo spiego neanche. Attaccati a sto capezzolo penzolante» e così dicendo, la vecchia iniziò a piroettare su se stessa, illuminandosi così intensamente da costringere il principe a chiudere gli occhi. Quando li riaprì, di fronte a lui c’era -
    «...bloom?»
    «dark bloom*» Un movimento della bacchetta dopo, e Renny era diventato un mostro.
    … Più di prima.
    Il Principe si guardò riflesso nel pomo della porta. Portò le mani al viso, le dita a scivolare sul folto pelo biondo. Non gridò, ma solo per pudore personale.
    «oh, cristo dio. Sono un furry»
    «mega godo» Dark Bloom sparì, abbandonando Renny ed il resto della servitù con un’ultima profezia: se avesse imparato ad amare, ed a farsi amare nonostante il suo aspetto, fino a quando la rosa avesse mantenuto i suoi petali, l’incantesimo si sarebbe spezzato. Altrimenti, «cazzi tuoi»
    Renny aveva sospirato, affondando il viso nei palmi delle mani. Lui, un furry? Nel ventunesimo secolo? Sarebbe stato un miracolo non trovare qualcuno che lo amasse. Ma conosceva i gusti dei giovani, dark bloom? Il furry era di moda quasi quanto i daddy. Era già stanco di essere un mero strumento sessuale, e la sua vita da dildo peloso era appena iniziata.
    Ecco perché si ritrasse nel suo loft.
    Aveva la connessione wifi. Deliverowl. Non aveva bisogno d’altro.

    Nella periferia di Londra, viveva Bertie, il figlio del misantropo Liam. Bertie amava leggere; i gatti; vomitare a giorni alterni. Tutti motivi per cui era considerato strange forte dagli abitanti del paese. Leggenda narrava che avesse un problema con l’alcool; il padre, non l’aveva mai smentita («anche perché… non ho un figlio?» Mh, okay boomer, l’alcolismo sarà stata una cosa di famiglia - senza contare che a quanto pareva nessuno sapesse rispettare le regole date dalla licenza poetica di un’artista come la creatrice di quella storia. Zitto Liam, e prenditi il figlio). Bertie combatteva ogni giorno con le avances di Ficus, il pasticcere più famoso di Londra. I loro incontri, si svolgevano all’incirca così:
    «smettila di seguirmi, davvero non puoi fare a meno di me? E non – non toccarmi, pervertito!»
    «ma…. Signore, sta tenendo lei la mia mano sul suo … uhm, pistillo? Vorrei… se potesse...lasciarmi?»
    «sei davvero ossessionato da me, eh?»
    «io…? No, signore, veramente - »
    «non ti biasimo, ho visto anche io il mio culo, però abbi della decenza.»
    «ma è lei che viene qui tutti i giorni…? Però è vero, ha un bel sedere! Credo? Lo vorrebbe avere?»
    «vuoi avermi, eh? Possedermi? Qui, magari. Su questo bancone. Sbottonarmi i pantaloni, schiacciarmi contro il marmo, prepararmi al tuo cazzo con quel mattarellone - »
    «signore...uhm, non è molto igienico se si stende sul...bancone, io qua cucino? E penso dovrebbe tenersi – ok niente, ha già sbottonato tutto…?»
    Solitamente a quel punto arrivava il miglior amico di Ficus, il corriere del suo negozio di dolci, tal Giacomino, che alzava il pugno verso il ragazzo per incitarlo alla sua avventura. «L’AMORE VINCE SEMPRE!»
    Comunque.
    Un giorno, Liam partì per una fiera sugli animali zombie, una sua grande passione. Una scusa come un’altra per abbandonare suo figlio, perché c’era un limite a quante volte si potessero sopportare i conati di qualcuno. Durante il tragitto, però, venne attaccato da un branco di lupi mannari. Riuscì ad ucciderne un paio, ma era in netta minoranza, e si vide costretto a cercare riparo presso il loft di Renny.
    Suonò il campanello.
    Gli aprì la porta un orologio digitale. I numeri continuavano a saltare, risultando perennemente nell’ora sbagliata. Sembrava fatto di eroina; gli chiese se avesse una dose. «ODDIO, CIAO, BELLO, NON VIENE MAI NESSUNO QUI?» come se fosse del tutto normale, l’orologio si presentò a Liam – si chiamava Iris – e lo invitò ad accomodarsi lasciando la giacca . Li dove, vi domandate?
    «no» Sancì l’armadio senziente. Iris aveva detto si chiamasse Amaranth.
    «col cazzo proprio» replicò, tenendo serrate le proprie porte, impedendo al padre di Bertie di posare la giacca. Liam però certe cose le sentiva, e con l’aria di un uomo vissuto, commentò «ah, love language bresciano» ma la giacca se la tenne comunque fra le braccia, perché Amaranth non sembrava avere alcuna intenzione di mollare il colpo.
    «OGNI TANTO FA COSì, MA è BRAVA EH! E HA DEGLI SCAFFALI BELLISSIMI! Dovresti vederli! Certo, non puoi perché non si apre, ma se si aprisse! Lo sapresti!» L’Orologio attorcigliò il proprio filo della corrente attorno al polso di Liam, trascinandolo verso la cucina.
    Gli offrì del tè.
    Liam non accettò.
    «ai miei tempi...» iniziò a criticarlo, la tazzina. Era una tazzina adorabile, a primo acchito. Piccola, lucida. Poi si notavano i minuscoli occhietti seri e solenni, ed i baffetti. Quei maledetti baffetti. «javi, bimbo mio, non giudicarlo. Non tutti possono avere buon gusto» Lo sgridò la teiera in tono materno, schioccando però il tappo con disappunto verso l’ospite.
    Ma la Tazzina non voleva sentire ragioni. Con uno sguardo scuro, e buio, che sembrava leggere dentro l’anima del suo interlocutore, continuò. «ho visto la guerra, io. »
    «ah, javi, devi proprio?»
    «Ho fatto dei sacrifici. Ho fatto… cose di cui non vado fiero, ma che erano necessarie»
    «JAVI SMETTILA, SPAVENTERAI IL NOSTRO OSPITE» L’orologio – da brava zia, perché la teiera era Myrtille - diede una testata alla tazzina, facendola ricadere nel lavandino. Continuò a parlare – qualcuno avrebbe potuto giurare di aver sentito le parole “Siberia” e “bambini morti” – ma il suo vociare venne messo a soffocare dall’arrivo di una lampada da parete.
    In tutto questo, l’autore ci tiene a farvi notare che il buon Liam non fece una piega. Non una.
    La lampada lo studiò con affamati occhietti brillanti. Liam si sentì un po’ violato.
    «sei un padre, vero? Queste cose le sento»
    «queste, cose? E no, l’ho già detto, non sono un padre» Sì che sei un padre. «ah, vero. Si, sono un padre. Oh, il mio bertie. Eccetera eccetera»
    «cose. La vibrazione daddy» La lampada sorrise. Dolce, e morbida.
    «LAWWWWW NON PUOI FARE COSì CON TUTTIII POI NON VIENE Più NESSUNOOO»
    «così come?» domandò innocentemente Law, la Lampada.
    «così!!! SEDURLI E POI GHOSTARLI. LASCIAMI UN AMICO»
    «sedurli? Non so se… mi sento… sedotto da una...lampada?» Ma c’era del dubbio, nel tono di Liam. Non l’avrebbe ammesso, ma ve lo dico io.
    «hai mai provato una lampada?»
    «non posso dire mi sia capitato, no»
    «magari è il momento di farlo, mh?»
    «LAAAAAWWWWWWWWW»
    La Lampada sbuffò, alzando le luci al soffitto. Quando sorrise a Liam, fu più gentile e meno predatorio – dopotutto, sapeva che se avesse continuato, quella spiona bastarda di Iris avrebbe detto tutto a Diaz, lo Spolverino. Non sarebbe stato un gran problema, se quello spolverino non avesse scopato così bene; aveva sacrificato la propria poligamia in favore di una chiavata come Dio comandasse. Non se ne trovavano tante, in quel loft.
    Un boato. Un forte, boato. Un grugnito, passi pesanti lungo la dimora. Il padre di Bertie strinse la giacca al petto, occhi spalancati quando la creatura si palesò nella cucina. La servitù tacque, sguardo posato sul pavimento.
    «oh mio Dio… un furry»
    Renny mostrò i denti. «almeno io non parlo con gli elettrodomestici. Vattene»
    «cioè… posso tornare a casa?»
    «certo»
    «e ne sei… proprio sicuro?»
    La Bestia battè le palpebre, spostando l’attenzione sull’orologio, che alla sua domanda scosse il quadrante. «iris. Gli hai dato la scossa?»
    «non puoi tenermi in ostaggio? Almeno per un po’»
    «e… perché dovrei»
    «perchè te lo sto chiedendo?»
    L’enorme furry studiò l’uomo, soffermandosi sull’orlo dei pantaloni. C’era ancora del vomito, sulla stoffa. La disperazione nel tono di voce, non gli passò inosservata. «dammi un buon motivo per farti restare»
    L’orologio portò entrambe le lancette alla bocca. «oddio… oddio?! Ho le farfalle alle stomaco? LETTERALMENTE gli ingranaggi tutti SMOSSI? CHE SMOOTH, SIGNOR BESTIA. SONO CONQUISTATA» a cui si aggiunse Law, con un sospiro. «può ripeterlo di nuovo? Ma più lentamente»
    «non sapevo di essere padre, e ora ho scoperto che non solo ho un figlio, ma che soffra di frequenti attacchi di vomito e sia un predatore sessuale» Una pausa.
    Due pause. Tre pause. Renny era: perplesso.
    «ma è mica mio fratello?»
    Non hai un fratello, Principe. Also, FUCK YOU
    «skerzo. ok. Non fare troppo rumore. Puoi restare. Sentiti libero di andartene quando vuoi»

    Quando Bertie non vide tornare il padre a casa, sentì subito che qualcosa non funzionava, lì dove sentiva sempre titillare i suoi sensi quando le vibrazioni erano negative: i testicoli. Li strinse fra le dita, usandoli come un bastone da rabdomante per seguire la scia scura lasciata dal padre, trovandosi ai piedi del Loft. Aveva sentito parlare, di quel Loft. Giravano storie, leggende che lo facevano arrossire e scalciare sotto le coperte. Si morse il labbro, dondolando sullo zerbino, prima di decidersi a suonare il campanello.
    Un ringhio.
    La porta si aprì, e Bertie abbassò lo sguardo su un… poggiapiedi? Poggiapiedi cane? Ce l’aveva con lui? «chi è un bravo ragazzo?» tentò in tono morbido, porgendo il palmo ed affacciandosi all’interno dell’appartamento.
    «non tu. Puzzi di squallore»
    Bertie arricciò il naso. Valutò quanto fosse poco gradevole da parte sua prendere a calci la creatura, e realizzò che non avrebbe fatto una buona impressione.
    «dov’è il tuo padrone?»
    «non ti risponderei neanche se un padrone lo avessi davvero. E comunque. Non parlo. Quindi. Woof woof» Gli sembrò di scorgere la scritta “RAIN” sul… collare, o filigrana del tessuto che fosse. Lo osservò perplesso un altro istante, prima di farsi strada all’interno del loft.
    «c’è nessuno?»
    Non udì risposta, ma sentì del vociare dalla stanza adiacente. Quando, cauto ed a bacchetta spianata, avanzò verso la camera illuminata, riconobbe il timbro del padre. Si fiondò al suo interno, stringendo entrambe le mani al petto.
    «PADRE!»
    Liam, che aveva infine ceduto alla proposta del tè – con immenso disappunto della tazzina baffuta, se lo sguardo truce poteva significare qualcosa – sussultò. Gli occhi lucidi del padre, gli strinsero il cuore.
    «padre»
    «ma come minchia mi hai trovato? Non è possibile.»
    «ho seguito sto cazzo? Cuore. Volevo dire cuore. Padr-»

    Ancora un tremolio alle palle. Un brivido lungo la schiena. La bandiera – vedete? Sempre il caso di diffidare dalle bandiere – dritta e fiera ad indicare l’oggetto del timore.
    Peli. Tanti, peli.
    «un bear» sospirò, battendo le ciglia.
    No, no… Il cuore schizzò nel petto, perdendo per strada qualche battito.
    «UN FURRY!»
    Le dita scattarono alla bocca, dischiusa in sorpresa. Credeva di conoscerli tutti, quelli di Londra. Era uno nuovo?
    «no. No -» il furry guardò suo padre, un artigliato indice alzato. «no. Non mi dire. Ho detto che non volevo problemi»
    Liam sorrise. Per la prima volta, forse, da quando era lì dentro, sorrise.
    Infilò una mano in tasca, lentamente.
    «papà! Non ucciderlo!»
    Tutti sembrarono trattenere il fiato. Liam corrugò le sopracciglia, stringendo fra le dita un cartoncino sottile. «ucciderlo? No. Uno scambio» Girò l’oggetto.
    Una carta.
    «uno reverse card»
    Le leggi del gioco imponevano delle regole ferree. Renny aprì la bocca e la richiusa, legato da quelle stesse catene disegnate dalla Mattel una vita prima. Non importava neanche che non stessero giocando a Uno: potè solo rimanere a guardare, mentre Liam lentamente spariva come il meme del segno della pace, ed al suo posto rimaneva...Bertie.
    «e quindi...sei qui tutto solo?»
    La lampada espirò fra i led. «boss… che dire. Divertiti. Noi ce ne andiamo» con un lampeggìo divertito, trascinò con sé l’allegra compagnia, afferrando al volo la tazzina intestardita a voler proteggere l’onore della Bestia. Al manico, gli bisbigliò che avesse bisogno di spazio per una sana scopata, perché il celibato di Renny durava da che la Vecchia era passata a maledirli. Doveva avere delle balle così blu, che neanche i cieli in Primavera.
    «sì. Per scelta»
    «le scelte cambiano»
    «non le mie.»


    Bertie venne trattato con estrema durezza da Renny, nei mesi a seguire. Poco importava che avesse conquistato Iris («boss. BOSS! Mi ha attaccato uno sticker a forma di fungo sul quadrante!»), Law («boss. Lo faccio per te»), Diaz (« (emoji con i cuoricini e lo smile)»), Rain («per forza, quando minacciavo di morderlo mi ammiccava. Ew?») Myrtille e Javi («si, beh… zero sbatti di portare rancore. Javi non ha voce in capitolo, crede ancora di essere un soldato al fronte. Io l’avevo detto di non regalargli modellini, ma figurarsi. Ok allora. Che sia un problema di tutti») non c’era alcun modo per giungere al cuore di Renny.
    Un giorno, vagando senza meta per il Loft, si imbattè in una stanza che non aveva mai visto prima.
    Entrò convinto che fosse la stanza, finalmente. Quella dei costumi, e dei frustini, plug anali con la coda baffuta. Quel che ci trovò invece, con la stessa tristezza drammatica della canzone di Cristicchi dove l’uomo la regalava, fu una… rosa. Molto anti climatico.
    Sobbalzò quando il Furry gli chiuse la porta sul naso.
    «cos’è?»
    «una rosa»
    «perchè è sotto una teca?»
    «perchè è preziosa, ok?»
    Gli occhi di Bertie si riempirono di un’emozione nuda, e vulnerabile. Battè le ciglia, sentendo sulla lingua il sapore del rimpianto.
    «ed io? perchè non sono sotto una teca? Non sono prezioso?»
    Renny lo guardò. Lo guardò davvero, studiandolo a pelose palpebre socchiuse. «come ti ho venuto in mente? no. Pensavo fosse ovvio»
    Se pensava di allontanarlo così, aveva sbagliato tattica. Bertie era un ragazzo semplice: meno lo volevano, e più i suoi desideri sessuali venivano fomentati, scaricandolo in un mare di delirante piacere mai raggiungibile. Gli piaceva soffrire, più di quanto gli piacesse la sua vita a Londra.
    «non vomito da tre mesi. L’hai notato?»
    «no, perché non me ne frega niente?»

    Una pausa. Quello era il momento in cui avrebbe dovuto andarsene, lo sapeva. Sentiva che ci fosse una storia da seguire, una che lo spingesse a scappare dal Loft, farsi inseguire dai lupi, farsi difendere dalla Bestia, un lento nella sala dalla ballo, il riconoscimento dei sentimenti gli uni per gli altri, un paio di rapimenti, forconi, morte. Amore. Ma la morale di questa favola, non è l’amore. La morale, bambini, è che bisogna provare. sempre. Anche quando la situazione sembra disperata e sfavorevole. Arrendersi, non è un opzione: non lo è per voi, giovani lettori.
    Non lo era per Bertie.
    «prendimi, furry. Solo una volta. Sbattimi come un uovo in padella. Rovesciami come l’ultimo goccio di latte. Piegami come una t-shirt sui banconi di un negozio»
    E non lo era per Renny. Furry. La Bestia. Qualunque nome gli si volesse dare.
    «poi te ne vai?»
    «poi me ne vado»

    Un passo verso di lui.
    «e non torni mai più?»
    «magari mi vorrai ancora, dopo avermi assaggiato»
    Lo studiò, la lingua a saettare sulle zanne.
    «nah, non credo»
    Quel che accadde in quella stanza, non è racconto per bambini. C’erano peli, saliva, artigli, peli fra i denti, ringhi di varia natura, e la riprova che il corpo fosse in grado di adattarsi ad ogni necessità.
    La rosa vibrò.
    Tutto si immobilizzò.
    La magia pervase l’intero loft; in un battito di ciglia, la bestia era tornata il principe, mostro uguale ma con meno peluria, e la servitù era rientrata nelle proprie forme umane.
    La maledizione trasfigurante era stata vinta.
    «ah. Era così… facile»
    E per dimostrare di essere cambiato, prima che Bertie sistemando le vesti tornasse a casa, non gli diede un penny.
    Gliene diede due.
    E vissero tutti felici e contenti.

  8. .

    when
    oct. 2023
    where
    quo vadis
    who
    not your business

    haunted
    Il pensiero che avrebbe dovuto andarsene prima, lo sfiorò appena. Non ebbe neanche il tempo di fermarsi, quell’idea lì; farsi concreta nel fargli girare i talloni, e proseguire la sua strada nell’ennesimo giorno uguale a tanti altri, di mesi come tanti e una vita sempre uguale. Evaporò come neve al sole nel momento esatto in cui sollevò lo sguardo cercando intenzionalmente gli occhi del fu capitano, perché aveva bisogno di vedere. Capire. In parte, perchè voleva e basta, come quei pensieri intrusivi che spingevano i ricercatori a calcare linee moralmente invalicabili. Non così differente dal grattarsi una ferita sapendo che avrebbe solo tolto la crosta, resettando il processo di guarigione; perfino il sangue spalmato sulla pelle, era gradito e familiare.
    Non aveva avuto dubbi prima, e certo non li ebbe in quel momento. Un rapido sfarfallio nello sterno fu l'unico cambiamento nel Prefetto Serpeverde, una scossa di riconoscimento brutale e calda e sincera, ma rimase una confessione fra lui e Dio: dopotutto, gli era sempre piaciuto mantenere segreti; cos'era, uno in più.
    Li trovò ancora trasparenti, quegli occhi lì. Pieni di onde, e tempeste, e respiri che poteva sentire caldi sulla pelle come se entrambi fossero ancora su quella cazzo di nave. Il verde, la precisa sfumatura dei suoi incubi migliori. Li odiò come la prima volta, la rabbia ad inghiottire brevemente noia e cortesia, prima di essere appiattita come una piega fastidiosa. Fu in grado di cogliere l’istante di esitazione, e per la durata di un battito di ciglia, valutò l’ipotesi che nonostante tutto potesse davvero riconoscerlo, e quella fosse stata una pessima idea; non abbassò comunque lo sguardo. Equo, perlomeno, malgrado non ci fosse nulla di pari nel lanciare una sfida a qualcuno che non ne conoscesse le regole: gli offrì lo stesso margine di dubbio che aveva vissuto lui nel riconoscere qualcosa d’impossibile, assurdo ed inspiegabile; quando l'altro scelse di lasciarne andare i bordi, curvò le labbra nel fantasma di un sorriso. Uno personale, e solo per sé; si domandò cosa si provasse a perdere ad un gioco a cui neanche si sapeva di star giocando. Se fosse lo stesso quesito del rumore di un albero che cadesse in solitaria. Immaginava non fosse diverso dall'aver vinto, ed essere l'unico a tintinnare il bicchiere.
    Un sospiro di sollievo. Lo rotolò sul palato, piuttosto che soffiarlo; se avesse potuto tenere per sé tutta l’aria contenuta nei polmoni per l’intera durata di quell’incontro, Mood l’avrebbe fatto.
    «è stato divertente?»
    Oh, Cory.
    Non era la prima volta che Mood partecipava ad una conversazione a doppio senso ed unico di marcia, e non sarebbe stata l'ultima. Rispondeva sempre nel modo giusto, con le parole corrette ed il tono adatto, eppure lo faceva sempre a qualcos'altro. Compresse una risata fra le labbra serrate, strizzandola fino a lampeggiare un sorriso complicato. Prevedibile, nella sua ottica. E quella risposta che Cory sapeva non sarebbe arrivata, Mood la tenne infatti fra i denti. Una bozza nello sguardo, contenuta con la punta delle dita dal prendere forma definita. C'è sempre margine di miglioramento avrebbe funzionato anche per la misera rapina a cui aveva tristemente assistito, ma quel che offrì fu solo una scrollata di spalle ed un'occhiata interrogativa. Canzonatoria, con il cifrario giusto, ma bisognava prima sapere fosse un codice, e Cory non sapeva un cazzo.
    Come piaceva a lui.
    Lo guardò perché poteva; cercò le somiglianze per abitudine. Ora che era certo esistesse, voleva ricordarlo, ed imprimersi a caldo ogni dettaglio per non rischiare di perderlo. Sentimentale? Dipendeva dai punti di vista: un romantico al contrario, nel preferire avere memoria di non averlo sopportato. Aggrapparsi a quello, piuttosto che al resto. Voleva fosse l'unica cosa reale, perché era la più sua che avesse. La sola cosa onesta che potesse concedere, in quella vita - e l'età c'entrava poco quando non c'erano anima, morale o principi; dettagli che sembravano sempre di poco spessore per i lettori, ma che dovevano pur contare qualcosa nel grande piano della vita.
    Non aveva tempo per le complicazioni.
    Neanche quando lo osservavano con quel quasi che non era né nulla né qualcosa.
    Il rumore lo sentì anche lui, ed ebbe una parentesi davvero infinitesimale per intuire cosa sarebbe successo. Percepì la tensione dei muscoli un attimo prima del movimento, il tempo di pensare ah shit here we go again ed accennare un'occhiata di monito al cielo, e chiunque fosse disposto ad ascoltare. L'ultimo avviso, perché da quel momento in poi, era puro effetto domino: azione, reazione; conseguenze, eccetera eccetera. Non lo sorprendeva neanche che fra tutte le opzioni, l’altro avesse scelto quella sbagliata. Per mero istinto, cercò un appiglio stringendo le dita sul braccio dell’altro, sopracciglia corrugate ed un espressione torva alla porta del locale. Fu puro, sincero, ed illibato odio quello riflesso nelle iridi scure posate su un assolutamente ignaro – nella vita, come scelta; beato lui – Edward Moonarie. Denti serrati, ed una promessa di violenza crudele che sarebbe sempre rimasta , contenuta nelle pozze nere, perché al contrario di altri, Mood non era un animale. Avrebbe voluto, e per un paio di pressanti secondi, si diede il permesso di farlo, stringendo con più forza le dita sul braccio di Cory. Senza provare a scrollarselo di dosso, solo per far male. Non lasciando segni, se non un vago ricordo. L’ennesimo. Così strinse, e serrò la mascella, ed inspirò piano cercando di quantomeno rallentare l’andatura altalenante del proprio battito. Una tachicardia giustificata, considerando che un perfetto sconosciuto gli stava fottutamente puntando una pistola addosso, ed anche una che con quel ferro vecchio aveva poco a che fare. Più personale, ed intima; complicata da tanti fattori destinati a consumarsi ed alimentarsi fra loro. Tipo il poterne riconoscere la forma contro le spalle, diverso ma non del tutto, e decisamente non abbastanza da renderlo estraneo malgrado lo fosse. Tipo che senza spazio personale, potesse sentire l’eco dell’adrenalina nella cassa toracica dell’altro premere un ritmo sconosciuto contro la schiena,
    (“A me sembra abbastanza reale”)
    e soprattutto, la questione più grave e tragica di tutte, non potersi tenere per sé il proprio. Dire che odiasse potesse percepirlo, sarebbe stato un eufemismo ed una barzelletta, e non gliene fregava neanche un cazzo che il biondo fosse all'oscuro dei motivi. Era già più di quanto fosse disposto, ancora, a concedere.
    Solido. Concreto. Impossibile. Non cercò di spostarsi. A quel punto, perchè avrebbe dovuto. Attese solo che il proprio corpo recepisse il messaggio dalle sinapsi di non abituarcisi, e che il disprezzo offerto senza filtri ad un marinaretto che non c’entrava un cazzo, diventasse qualcosa di più gestibile. Solo marginalmente prese nota del simpatico siparietto, certamente non aspettandosi di essere salvato da un gelataio – e quello nello specifico. - preferendo usare quel tempo per riflettere. Rincorrere i pensieri fino a renderli qualcosa di sensato, e separato rispetto a tutto il resto che sentiva volersi invischiare nell’asettico raziocinio. Lentamente, molto lentamente, rilassò le dita lasciando che rimanessero semplicemente appoggiate sul braccio del simpatico ladro di quartiere. Lentamente, molto lentamente, controllò il respiro fino a darsi una parvenza di normalità. Quella posizione specifica, gli permetteva di poter pensare lucidamente, senza invasivi occhi verdi a domandare sempre più di quanto volesse rispondere. Si sentiva più se stesso, Mood, se poteva convincersi che avesse esagerato la propria reazione, e fosse tutto sotto controllo. Una passeggiata. Una favola di cui avrebbe deciso il sadico lieto fine.
    Ai Mood Bigh del mondo, non bisognava mai dare tempo. Per pensare; muovere la prima pedina. Di nuovo, Cory avrebbe dovuto sparargli subito, prima che il Serpeverde decidesse che rovinargli la giornata non fosse abbastanza, e prendesse a cuore l’idea a lungo termine di distruggerlo. Non imparava mai dai propri errori.
    «hm— dejavù»
    [screaming internally] i’m gonna murder you and your entire family
    .
    Deglutì, irrigidendosi appena. Sorridendo appena, come se trovasse l’essere preso in ostaggio da qualcuno che ne avesse già memoria, fosse terribilmente divertente. Una smorfia al vicolo, che l’altro non poteva vedere. Non aveva dimenticato di avere la canna di una pistola puntata contro la schiena, ma aveva delle teorie in merito che portavano quella specifica minaccia, sui gradini più bassi delle sue priorità – e poi, morire era così banale da non aver mai interessato abbastanza il Bigh. Si schiarì la voce, giusto per ricordare la propria presenza. Sollevò le dita quanto bastava a poter sottrarre il colletto della camicia dalla stretta, rassettando il tessuto dalle pieghe; bastò a farlo sentire improvvisamente meglio, e considerando le circostanze, scelse fosse una vittoria. Voleva dirgli che quella storia non la ricordasse proprio così; voleva dargli corda, così che potessero fingere entrambi parlasse della vecchia. Fra un battito strizzato fra i denti e l’altro, però, Mood aveva scelto il caos e la violenza. Un compromesso con quella parte di sé che avrebbe voluto solo mordere. «capita spesso?» scandì in tono cauto e colloquiale, come avrebbe fatto con un paziente fuggito dal reparto salute mentale del San Mungo. Avrebbe potuto correggerlo, dirgli non fosse deja vu il termine adatto quando ce n’erano di più opportuni, ma non era lì per una lezione di retorica, o per educarlo sulla linguistica francese. «non è un buon segno. Uno studio li collega ad episodi di epilessia. Hai altri sintomi? Vuoti di memoria... sogni strani... sensazioni di estraneità….» (pump pump pump) Non era d’indole loquace, ma poteva diventarlo. Facilmente. Era vero quello che stava dicendo, o lo stava inventando di sana pianta? Mah. «perchè nel caso, è molto pericoloso. Dovresti farti visitare da qualcuno,» Una pausa. Occhi alzati al cielo. Quello che andava contro la sua religione, ma non era mai stato un bravo cristiano. Quindi, appellandosi ad una delle più mediocri personalità che conosceva (Balt), chiese scusa a se stesso e pronunciò: «bro con appena una curva divertita delle labbra, ed un tono serio e preoccupato. Arricciò appena il naso, sospirando piano prima di reclinare la testa per poterlo osservare di sottecchi. Soffiò un veloce ed audace «ma è vera la pistola?» perché pensava lo fosse; credeva anche fosse troppo povero per permettersi di sprecare pallottole con un ragazzino incrociato per caso in un vicolo, ma anche che potesse essere disposto a rischiarsi la giocata, ed allora non avrebbe fatto altro che indicare la sua posizione ai cacciatori che (manifesting) sperava stessero arrivando, o allarmando qualcuno nei dintorni che non volesse fare la stessa fine. Cos’era la morte, in fondo. Offrì il suo miglior sorriso - ed era un gran sorriso - battendo candido le ciglia, perchè era un gen z ed i gen z non avevano un senso di auto conservazione - o così si diceva.
    Quasi voleva lo premesse, quel grilletto di merda. Sollevò piano le mani, mostrandosi disarmato ed innocuo. Aprì la bocca per suggerire che hey, he was just a little guy, ma venne interrotto da un movimento nel suo campo visivo.
    Un basso mormorio. La vecchia si stava svegliando: bene. Sarebbe stata furiosa quando fossero arrivati i Cacciatori, e gli avrebbe rotto il cazzo finché non avessero fatto qualcosa in merito.
    Abbassò il tono di voce lasciando fosse poco più di un sospiro. Una confessione, fintanto che fossero stati solo loro due.
    Ah, le cose che avrebbe voluto dire e tenne tutte per sé, spremendole contro i denti fino a farle evaporare. Dire che qualcuna sfuggì comunque, sarebbe stato incorretto: non c’era nulla che non fosse intenzionale e calcolato, in quel Mood. Perfino quel vago senso di bisogno era voluto, senza contesto se non misera concessione a se stesso. «penso che ora dovresti» valutò la locuzione abbandonare la nave, ma era troppo presto per il senso dell’umorismo. C’era sempre tempo per essere divertenti. In tribunale, ad esempio. «andartene.» un caldo suggerimento; e non avrebbe detto dove, perché era un signore. «capitano bro.» Punto.
    bigh
    mood
    It's what you do
    It's what you see
    I know if I'm haunting you,
    you must be haunting me
    gif: ppkritts.tumblr.com
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it
  9. .
    bella sei. lo rimpiangerò per principio una sia. do it for the pe
  10. .
    mood bighvi, prefect(sospiro) tifo
    A scanso di equivoci, Mood non voleva essere lì. Così, caso mai qualcuno si fosse distratto nel suo character development e credesse che ora fosse interessato al Quidditch: non lo era. Lo trovava barbaro e senza senso; non lo tollerava, perché nel suo essere brutale, contava comunque un numero davvero infimo di morti sul campo, ma dannatamente tanti infortuni. Era l’assistente in infermeria, e neanche le lezioni impegnavano i lettini, e di conseguenza il suo tempo, quanto le partite. Seguendo la logica, il Bigh non voleva che i bolidi colpissero i compagni. Voleva, com’era suo sacrosanto diritto, che li uccidesse sul colpo. Era tanto da chiedere? Non gli sembrava. Ogni giorno passato fra le mura del castello, la vita del Prefetto Serpeverde oscillava come il pendolo di Schopenhauer, dove i suoi estremi non erano noia e morte ma do i kill myself or do i kill anybody else; una scissione che sentiva spesso, reale e concreta, ma che raramente premeva sui polmoni come quando sedeva fra gli spalti. E lo faceva sorridendo, per inciso.
    Perchè era suo dovere, essere lì. Come Prefetto, e come perfetto concasato, a vestire i colori dei Serpeverde come se ci fosse stato un solo universo in cui gli importasse. Aveva almeno dieci posti in cui avrebbe preferito essere piuttosto che fra il pubblico, ed uno di quelli era l’inferno. La sua unica luce in quel costante incubo che era lo spirito studentesco, era Mini. Sentiva di doverle essere lì - per condividere parte di quel fardello, e per scusarsi di non avere alcuna anima di cui potesse essere gemella.
    Certo, le partite di Quidditch avevano i loro momenti. Non casuali – fosse mai: chi aveva il genere di tempo per aspettare fosse il Fato a tirare i fili? - e sempre calcolati, ma comunque interessanti e di intrattenimento. «sul serio?» Mood non aveva guardato neanche un minuto di quella giocata; non mezzo. Non un paio di secondi. Non che avesse bisogno di alzare lo sguardo, per vederla: leggeva le espressioni del pubblico, e tanto gli bastava. Nello specifico, quel giorno aveva scelto di sedersi al fianco di Shawn Sharp, un Tassorosso del suo anno, che era tante cose tranne qualcuno che fosse all’altezza del suo cognome. L’unica cosa affilata che avesse, era la precisione con cui stava improntando il suo futuro verso una carriera mediocre, con una moglie che immancabilmente l’avrebbe tradito, ed un paio di figli che l’avrebbero deluso. Riusciva quasi a vederlo. Lo percepiva nella disperazione con cui viveva ogni azione in campo; era in grado di sentirne l’eco da lì a qualche anno, con una radio in sottofondo a raccontare gesta di altre partite, ed un pugno serrato furioso sul tavolo a far traballare il boccale di birra. Quello era un genere di entusiasmo che non scemava con l’età.
    Perchè l’avesse scelto come compagno di giochi, era molto semplice: Mood Bigh si era svegliato quella mattina scegliendo il caos e la violenza. Dov’era la novità. «non ne avevo idea» sincero (quando mai), trasparente (come medicina spacciata per acqua), ed interessato a quanto l’altro avesse da dire. Quello sul serio. Ne aveva ascoltato ogni parola - ed erano state tante. - senza mai distrarsi, distogliendo lo sguardo dal volto del Sharp solo per battere le ciglia. Aveva deciso che se doveva sputtanare il proprio tempo, perlomeno poteva farlo divertendosi, e quindi aveva chiesto ad un tifoso accanito di spiegargli le regole del gioco. Oh, bubi. Ovviamente Mood sapeva come funzionasse il Quidditch, sarebbe stato pretenzioso odiare qualcosa che non conosceva, ma c’era sempre un je ne sais quoi nel permettere un po’ di (in)sano mansplain. Adorava come continuasse a distrarsi lasciando a metà le frasi per seguire l’azione in campo, e come quando tornasse a guardarlo, a lui che non aveva mai smesso di farlo, rivolgesse l’espressione più sorpresa ed imbarazzata di tutte. Il Bigh era così magnanimo da fargli recap di modo che riprendesse il filo.
    Gli aveva ripetuto cosa fossero le pluffe almeno cinque volte. Era uno studio sociale, il suo.
    Ogni tanto, per spice things up, indicava il cielo e faceva domande tipo «ma perché il bolide non è di gomma?» o «ma perché non ci sono più anelli?» però non era ancora arrivato alla sua preferita. Aveva atteso che perlomeno i cercatori iniziassero ad inseguire il boccino, perché non voleva davvero un altro pippotto.
    «e quindi, se ho capito bene» batting his eyelashes con innocenza. «i giocatori si lanciano una palla fra loro e corrono molto veloce per prenderla» picchiettò l’indice contro il mento, la testa reclinata sulla spalla. «e altri giocatori cercano di impedirglielo, giusto?» l’altro annuì, lo sguardo a dividersi fra lui e la partita. «e l’azione si ferma quando l’arbitro fischia?» la guancia posata sul palmo della mano, il più morbido dei sorrisi delle labbra. «aw. come cani al riporto. quantomeno addestrati» Pausa. Alzò un pugno in aria, ampliando il sorriso verso il suo compagno così che non fraintendesse le parole e pensasse fosse un insulto. Lui che offendeva qualcuno? Mai. Come avrebbe potuto pensare una cosa del genere.
    Sperava che il bolide colpisse molto, molto forte il compagno verso cui lo stadio stava sibilando il proprio supporto - e davvero nulla di personale.
    «forza serpeverde!&!» punto.
    devil may care
    fae
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    nel mio cuore vale come il terzo post che non ho scritto così posso dire di aver vinto la bet.
  11. .

    when
    oct. 2023
    where
    quo vadis
    who
    not your business

    haunted
    Non era che non sapesse essere paziente, era che non volesse esserlo quand'era superfluo. Mood Bigh era perfettamente in grado di aspettare; la sua intera vita era una costante attesa: il momento giusto, la persona giusta, il contesto più adatto. Le coincidenze non si creavano da sole, e gente come il Prefetto doveva basare immagine e conseguente futuro su quello che altri avrebbero biasimato al fato ed al destino. Senza esporsi troppo, un lento divenire a passo d'uomo; spinte le prime pedine, era solo questione di gravità e pazienza. Situazioni specifiche a cui concedeva il proprio tempo, perché serviva lo avessero. Sul rimanente, tendeva ad essere inflessibile: il poco margine di manovra derivava unicamente dall'imprevedibilità del vivere all'interno di una società dove gli altri rappresentavano incognite su cui non aveva controllo.
    Tipo.
    Fece scattare l’orologio da taschino, battendo con deliberata lentezza le palpebre al cambio del minuto. Sarebbe anche stato disposto a soprassedere il ritardo sulla propria tabella di marcia, se la signora di fronte a lui non l’avesse tentato nell’unico modo a cui Mood, pur sapendo dire no, raramente sceglieva di farlo: seminare discordia. Ad ognuno, i propri passatempi. Il primo sbuffo attirò la sua attenzione solo marginalmente; al secondo, lo sguardo del Serpeverde scattò verso l’alto, studiando il linguaggio corporeo dell’anziana. Strinse le labbra fra loro. Un fatto su cui i lettori saranno unanimemente d’accordo, e sul quale nessuno che pensasse di conoscere Mood avrebbe scommesso dei soldi, era che il sedicenne sapesse essere estremamente fastidioso. Non il seccante di qualcuno che continuasse a parlare a voce troppo alta, e neanche quello che attirava bieche occhiate da sconosciuti, ma quello che logorava i nervi. Lentamente. Trovato il primo punto d’appoggio su cui pressare, spingeva fino a spalancare la porta, e raramente le persone si rendevano conto di avergli permesso d’entrare, o di essere state invitate ad uscire. Si affacciò oltre la cliente, prendendo nota della nuca bionda alla cassa che stava rallentando la fila. Forse avrebbe dovuto capire in quel momento che ci fosse qualcosa di familiare nello sconosciuto, e forse, se non avesse passato gli ultimi mesi a fingere che non fosse mai successo, l’avrebbe anche fatto. Era sempre stato più analitico che sentimentale, leale al proprio giudizio fino al midollo, ma c’erano – evidentemente. - questioni su cui non aveva il controllo che pensava di avere. Questioni che Mood Bigh, da persona matura qual era, sceglieva di ignorare.
    Non era la prima volta che gli occhi di Mood indugiavano su sconosciuti vedendo qualcosa che non c’era. L’aveva catalogato come normale, solo legittima curiosità. Una lieve impressione di nostalgia, se si voleva essere ottimisti ed ancora offrire il beneficio del dubbio che il Serpeverde avesse un’anima – argomento molto dibattuto. - scegliendo di non darci peso, perché quantificare avrebbe significato dare importanza. Non ne aveva, e per inciso, non doveva averne. Non era neanche previsto ne avesse, ed il moro avrebbe continuato volentieri a vivere la propria vita di beata ignoranza se Lissette Monrique, come usuale alla sua personalità, non avesse portato alla sua attenzione informazioni non richieste, che avevano a loro volta creato una moltitudine di problematiche a catena a cui Mood aveva deciso di concedere una (1) sola emozione, scelta con cura in mezzo ad un ventaglio di possibilità: noia. Un prurito al palato incostante, ma sempre presente. Lasciare questioni in sospeso (respiro profondo in background) non faceva parte della sua indole - i fili li annodava e chiudeva sempre - ma era statp disposto a fare un eccezione, se significava non doverci pensare più dello stretto necessario - dove con stretto necessario s’intendeva quando non aveva potere decisionale sui propri pensieri; i momenti peggiori. Il vero fulcro del problema, era anche quello che aveva usato come giustificazione: magia. Sapeva fosse una maledetta, stupida, inconsistente questione di magia, e non poteva farci niente. Aspettare, forse.
    Di nuovo: sapeva essere paziente, quando serviva.
    Si ritrasse dietro la signora, sospirando abbastanza forte perché lei potesse sentirlo. Comprovare il comportamento delle persone, soprattutto se sbagliato, funzionava come benzina sul fuoco: si facevano forti dell’appoggio esterno, gonfiando il petto nel farsi portavoce e prenderne una per la squadra. Si scambiarono un’occhiata complice da sopra la spalla; Mood, con ancora indosso la divisa di Hogwarts (senza cravatta, perché i pregiudizi nei confronti della sua casata non gli erano sfuggiti; il prossimo passo, sarebbe stato chiedere in prestito quella di Balt, ed uscire in pubblico con la sua.) le sorrise innocuo, stringendosi piano nelle spalle.
    E poi iniziò a far scattare l’orologio. Lo apriva e lo chiudeva con una cadenza ben precisa, e quando fu certo che l’anziana avesse colto il suono, ed inconsciamente assorbito come scandire del tempo, accelerò di poco il ritmo. Non era passato così tanto da che si trovavano lì, forse solo una manciata di minuti, ma il Bigh era riuscito nell’intento di manipolarne la percezione della signora. Sfibrata, la vide agire.
    Oh, come adorava i litigi.
    Al resto della conversazione, offrì solo un orecchio. Stava già pensando a cosa avrebbe fatto una volta uscito da lì, quando fosse riuscito a prendere i gelati per Hold e Kieran. Sapeva le due facessero pausa pranzo insieme – totally platonic, sia mai! -, e visto che entrambe vedevano la inesistente bontà del suo cuore, Mood aveva deciso come scopo di vita, di dar loro motivo di continuare a crederci; era anche la sua “congratulazione” per il nuovo lavoro della sua adorata sorellina, perché era un caro e bravo ragazzo. Un puro caso che passare al Ministero gli desse la possibilità di incrociare Nice Hillcox, scambiarci due parole, e convincerla fosse il tirocinante adatto a cui fare da tutor nel – uh.
    Il flusso di pensieri di Mood si fermò d’improvviso, schiantandosi contro una barriera fisica.
    Reale.
    Impossibile.
    Una breve occhiata bastò a fargli chinare d’istinto il capo, corrugando le sopracciglia contro il pavimento del BDE. Nascose la propria espressione alle piastrelle, perché c’era qualcosa di intimo ed un po’ troppo personale nella noia di Mood Bigh. Sembrava quasi qualcos’altro; se si fosse concesso il tempo di odiare, forse lo sarebbe stato davvero. Non che dovesse davvero celare la propria presenza: Mood era esattamente quel che voleva e doveva essere per lui. Una faccia come tante.
    Come avrebbe detto un saggio, mannaggia la puttana.
    Avrebbe potuto convincersi fosse chiunque altro – i biondi erano tutti uguali, risaputo - ma purtroppo aveva abbastanza dignità personale da riconoscersi di essere sveglio, più di quanto gli facesse bene esserlo, ed avrebbe riconosciuto ovunque quella sensazione di deja-vu. E di prurito. Fastidio. Noia. Rabbia. Tutte emozioni che compresse nell’improvviso battito accelerato, la lingua stretta fra i molari ed il pugno serrato sull’orologio ancora nel palmo. Tutti gli stadi del lutto – a se stesso, ed alle sue scelte di vita – che aveva superato nei mesi, tornarono alla ribalta con ogni tassello scardinato con cura.
    Ma fottuto pappagallo di merda.
    Inspirò dalle narici, ora perfettamente consapevole che quella voce l’avesse già sentita - e sentita, e risentita. Si ricompose in fretta, una maschera d’impassibile cortesia. Quella era una situazione... come definirla in modo gentile? Scomoda.
    Si permise un solo istante per guardare il suo personale incubo puntare una pistola alla testa della signora. Una frazione di secondo per curvare infinitesimale un angolo delle labbra verso l’alto, ed ancor meno per concedersi qualcosa che era diverso da tutto il resto. Morbido, ma non per scelta. Mai, per scelta.
    Era già rimasto una volta.
    E quando uscì dal locale, non si guardò indietro.
    Dopotutto, aveva una questione da concludere lasciata irrisolta troppo a lungo. Gli aveva perfino concesso la possibilità di sparire, capito? Poteva esistere da qualunque parte del mondo, considerando che era pure un cazzo di ricercato - ma no, perché avrebbe dovuto. Sempre quello che non doveva fare.
    E allora vaffanculo, Cory.
    «kieran? ehi» sorrise nel sentire la voce della Sargent al telefono, scivolando nel vicolo vicino al locale.
    (Che poi, con tutti i locali che c’erano, era andato a derubare quello del suo professore? E perché mai, signore, andava in giro a rapinare pubblici esercizi quando già era su ghiaccio sottile. Doveva rimanere pappagallo, ed evitare a tutti, aka lui, quelle emicranie.)
    «sono mood. scusa se ti disturbo, sei con hold?» sapeva la risposta fosse sì, e l’aveva chiamata unicamente per quello. Hold aveva la tendenza a non rispondere mai al telefono, convinta fossero tutti call center – anche i numeri salvati in rubrica. Kieran Sargent aveva parole gentili anche per gli operatori, quindi chiamando lei, il Bigh era andato sul sicuro. «Sì!! PERCHè SIAMO AMICHE EH!!!» O...k. Rimase in silenzio un istante, abbozzando poi una risata leggera. «uhuh. Me la passi, per favore?» Sentì rumore in sottofondo, ed immaginò fosse Kieran che inciampava su se stessa nell’affrettarsi a porgere il cellulare a Hold; dal silenzio che ne seguì, dedusse che la mimetica fosse caduta esattamente in braccio alla Beer, e che ora si stessero guardando con l’usuale gay panic.
    Mood sospirò. Tutto molto bello, ma non aveva tempo per i riti di accoppiamento delle kold. «è un’emergenza» specificò, schiarendosi la voce. «MOOD?» Allontanò l’apparecchio dall’orecchio. Boomer core, Hold May Beer, con quel suo gridare come se fossero in parti differenti della stanza. «sorellina» Appoggiò una spalla alla parete, controllando ancora l’orologio. Lasciò che il proprio tono si facesse delicato ed esitante, tinto di paura e preoccupazione. «non… sapevo chi altro chiamare. Sono alla gelateria preferita di kieran» specificò, perché sapeva che quello, Hold, l’avrebbe ascoltato. «e c’è un tizio con una pistola…?» deglutì, forzando un sospiro spezzato. «barbie era impaurito, anche se non lo dimostrava» Barbie: vuoi anche i soldi dell’altra cassa? «ho paura possa fargli del male» Barbie: sparami. «e… sì, io sono uscito, ma...» Esitò, ancora, alzando annoiato lo sguardo al cielo. La voce impastata di qualcosa che non provava, ma che suonò egualmente sincera. «non mi sento sicuro» un mormorio. «puoi… contattare i cacciatori? So che hanno una sede qui» Sentì Hold riferire la situazione – nel suo modo, con diversi headcanon – a Kieran, ed il sospiro della ragazza. Loro avevano più possibilità di lui di contattare i Cacciatori in tempo. Mood non sapeva se sarebbero arrivati per fermare il capitano, ma era certo che potesse rintracciare la vecchina, e convincerla ad obbligare le forze dell’ordine a istituire un onesto sistema di sicurezza che funzionasse. Insomma, in un modo o nell’altro, era una vittoria.
    Snip snip snip.
    «per favore» aggiunse al vivavoce della sorella, sottile.
    Le sentì muoversi. «grazie» e sentì la porta sul vicolo aprirsi. Quella chiamata avrebbe potuto farla ovunque, Mood – evitarsi altre emicranie, prendere le distanze – ma non l’aveva fatto, scegliendo la strada su cui si affacciava il retro della gelateria. Perchè? Perchè poteva. «ci vediamo fra poco?» domandò al telefono, distratto. Tenne lo sguardo su un punto imprecisato dei ciottoli, perché era un giorno come tanti, di una strada come tante, e di persone come tante. Lo spostò solamente quando se lo trovò davanti, alzandolo appena verso il suo viso. Ne cercò gli occhi con l’assente premura di uno sconosciuto. Perchè? Perchè poteva.
    Perchè non era nessuno, pur sapendo con estrema e stupida precisione che sapore avesse il suo sangue sulla propria lingua. Un’occhiata fugace che sapeva di niente, perché Mood era un ottimo bugiardo. Offrì perfino un sorriso di cortesia, quello che avrebbe rivolto a qualunque individuo con cui avesse avuto la sfortuna di condividere il tragitto ma in direzione opposte, nel chiudere la chiamata, infilare il telefono in tasca, ed indicare con un ampio cenno del braccio potesse proseguire per primo. E vorrei dire, vorrei dire, che le sopracciglia lievemente corrugate non fossero state intenzionali – un errore del sistema – ma il diavolo era nei dettagli, e con quella micro espressione, concesse all’eventualità che l’altro lo trovasse familiare un briciolo di credibilità. Magari non ne avrebbe avuto bisogno, ma meglio prevenire che curare.
    Già detto fottuto pappagallo di merda? Repetita iuvant.
    bigh
    mood
    It's what you do
    It's what you see
    I know if I'm haunting you,
    you must be haunting me
    gif: ppkritts.tumblr.com
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it


    è il momento giusto per riportare :

    CITAZIONE
    Pappagallo: attacca tutti
    Sara: ma che è sta bestia di satana […] facciamogli un anello
    Fato: vuoi chiedere al pappagallo di sposarti?
    Sara: se vuole
    (nda: fa già ridere così)
    Sara: pensavo più all’anellino che hanno i pappagalletti pirata alla zampina
    (nda: e l’inizio di quella che non sapevo essere la fine)
    Sara: però se devo sedurlo lo faccio, meglio di molto altro lì in mezzo. Sembra già intelligente. Platonic love great again. Soulmates even

    e

    CITAZIONE
    il nostro capitano è stato maledetto, per uscire di qui dovete riportarlo alla sua forma umana. //Off: dovete trasfigurare il capitano della nave in forma umana — l'avete capito chi è il capitano, vero? VERO?? 🌚

    SARA: devo ancora leggere e già spero siaa bandiera e non CORY
    SARA: NO DAI CORY NO!!!
    SARA: NO È LA BANDIERA LASCIAMI STARE
    SARA: LO SAPEVO CHE MI AVRESTE TRADITO
    SARA: MI HAI SPEZZATO UN CUORE CHE NON SAPEVO DI AVERE. VI ODIO

    perchè fa riflettere.
  12. .
    «Sì», e la conversazione avrebbe tranquillamente potuto finire con quell'ammissione di colpe e responsabilità, perché Mood Bigh non aveva nulla da aggiungere: pensava che quella replica rispondesse di suo a tutte le domande precedenti, ed a qualunque possibile quesito successivo. A giudicare dall'espressione del Prefetto, non era la risposta giusta, ma neanche una che lo stupisse. Valutò Dara con una lunga occhiata impassibile, tinta appena di qualcosa che avrebbe potuto apparire come altro solo se si fosse voluto vederlo - cercarlo, dargli un nome. Una libera interpretazione, perché Mood non aveva bisogno di parlare per svolgere una funzione: era solo uno strumento con limitato numero di usi; mostrava fatti, e lasciava che la natura umana completasse gli spazi bianchi nel modo che preferiva. «Sul momento, crederei a cosa voglio, solo per rendermi conto domani che era tutto nella mia testa - senza smettere di crederci un po' lo stesso. E mi odierei un po' chiedendomi come posso essere-... così. Realista eppure illuso.» Realista? Non trattenne il sorriso scettico a sollevare un angolo delle labbra, né gli occhi scuri puntati brevemente sul soffitto. Domandò silente a Dio, o chi per esso, se avessero appena sentito la stessa cosa, perché trovava ingiusto essere l'unico testimone di quanto le persone meritassero violenza. A Mood Bigh le dipendenze non piacevano, fossero quelle tossiche ed allucinogene o emotive faceva poca differenza. Le capiva, e comprendeva come fossero in grado di premere sulle parti più vulnerabili delle persone, ma non le condivideva, e trovava patetico e triste chiunque non fosse in grado di vivere con sé stesso. Un fastidio che lo spinse a distogliere lo sguardo e stringere la lingua fra i denti, perché nulla di quanto avesse da dire avrebbe cambiato quelle circostanze. Si lasciava usare volentieri, Mood - non era che avesse di meglio da fare, d'altronde - ma doveva costringersi a mettere paletti e limiti. Non farsi coinvolgere, perché era lì che andava tutto a puttane: non era un problema suo, e non voleva lo diventasse. «in generale essere qualcosa per te che non sia... indifferente» Ruotò gli occhi al cielo, le dita intrecciate sul ginocchio ed il mento sul dorso della mano. Una parte di lui trovava alquanto offensivo il paragone, un colpo basso che non meritava, ma immaginava che nel contesto quella fosse la soluzione migliore. Dispregiativa, ma glielo avrebbe permesso. Chiuse gli occhi, inspirando stanco. Sapeva non fosse così, ma gli sembrava di aver affrontato quella conversazione centinaia di volte, e che rimbalzasse sempre su muri di gomma. Che fosse una malattia, e peggiorasse sempre - peggio ancora, contagiasse altre persone. Picchiettò la testa contro il legno del letto a baldacchino, graffiando la lingua fra i canini; rimase in silenzio qualche istante, certo che quello fosse il momento in cui sceglieva quale parte interpretare. Il carnefice? Il redentore? Poteva essere entrambi, facilmente, ma Dara lo stava supplicando di essere l'uno e l'altro. Di scegliere per lui.
    Voleva chiedergli se ne valesse la pena.
    Non lo fece, perché la risposta era no. Platealmente ed unicamente no, senza margine di manovra. Optò quindi per una domanda diversa, le dita a scivolare distratte sul bordo dei calzini seguendone la texture. «sai qual è il concetto di base della teoria evolutiva di darwin?» Uno sguardo di sottecchi al concasato, ed un lento sorriso che diceva di indulgerlo, perché glielo avrebbe detto comunque. «il caso detta le mutazioni, e la natura sceglie quale sia la più adatta a sopravvivere. sai come si decreta un vincitore?» accarezzò distrattamente le gambe, posando una guancia sul ginocchio e distogliendo lo sguardo dall'altro. Era qualcosa a cui pensava spesso, Mood, e che teneva per sé come un inside joke perché reputava fosse ovvio ed in troppi lo dimenticassero. «quando rende la vita più facile, permettendo alla specie di diventare la versione migliore di se stessa» Scandì piano, lasciando tempo alla mente annebbiata del Sunwoo di capire perché, apparentemente dal nulla, stesse offrendo una non richiesta lezione di genetica. Mood sapeva che quel discorso mancasse di tanti parti da tenere in considerazione per completare lo schema, ma credeva anche che il principio fosse sempre lo stesso. «la genetica lo rende semplice. più complesso nell'ambito sociale, ma l'essere umano resta una specie in continua evoluzione» agitó vago le dita nell'aria liquidando la questione, trovando superfluo scendere nei dettagli. Lasciando solo briciole. «essere e divenire, sai. darwin ha reso pragmatico un pensiero su cui i greci hanno discusso per secoli, fondando i pilastri della filosofia antica e moderna: eraclito, platone -» Arcuó un sopracciglio, lanciando a Dara un'occhiata a suggerire che se fosse uno degli studenti migliori ci fossero dei motivi. Presuntuoso, arrogante - e vulnerabile, perché quello era il mondo di Mood, e di finestre ne lasciava poche ed oscurate. Concluse con una scrollata di spalle un pensiero che avrebbe potuto esternare molto prima, ma che credeva meritasse un contesto perché diventasse reale. Concreto. «se una persona non ti rende una versione migliore di te stesso, non fa per te.» spogliato di tante altre ramificazioni, ma il sunto era quello. Non credeva comunque che Dara Sunwoo fosse dell'umore per affrontare la strumentalizzazione delle relazioni sociali nei contesti antropologici.
    «oh, mi conosci così bene. non è che un po' ti piaccio davvero?» Aveva tante risposte per quella domanda, qualcuna - ignorarlo - più matura di altre - il dito medio - ma scelse di ricambiare con un sorriso a metà, poggiando languido le spalle al muro. Sapeva scherzasse; sapeva che meritasse una verità bisbigliata in un soffio.
    «non vuoi piacermi, dara sunwoo» Un monito ed un consiglio, nel tono più morbido che possedesse. Fu anche così magnanimo da non sottolineare quanto poco ci volesse a conoscerlo così bene: nessuno voleva sentirsi dire di essere vetro e plastica. «io li so i miei problemi, ma non sono in grado di- superarli» Mood umettò le labbra, pensando che forse il problema di Dara fosse non essersi preso qualche pugno in faccia in più. Se non avesse temuto un colpo di coda, con le sette non si sapeva mai, avrebbe chiesto alla Benshaw di sopperire quella mancanza - no, lui non avrebbe alzato le mani. Non solo non gli importava abbastanza, ma era un ragazzo di classe, e lasciava i metodi barbari agli altri.
    La tentazione la ebbe, però. Istintiva, tanto da fargli premere il pollice sull'incavo della caviglia, giusto per fare qualcosa che non fosse lanciare oggetti al Serpeverde. «fa male. Fisicamente, dico» su quello, Mood non poteva dire nulla: una competenza che gli mancava, perché i suoi dolori - fisici, ed emotivi - tendeva a cercarseli quando necessari, ed estirparli quando non gli servivano più. Seguì i movimenti della mano del Sunwoo, chiedendosi come funzionasse. Una punta di rimpianto nel rendersi conto che quello non potesse prevederlo, e non potesse chiedere a Dara di mostrarglielo. Se ne fosse stato in grado, e chi dei due non lo fosse non aveva importanza, avrebbe lasciato che gli spezzasse il cuore, così da sapere cosa si provasse. «non è così assurdo voler essere il preferito di qualcuno, no? Restarci male.» Assurdo? No. Stupido? Eh. Mood Bigh era la parte tossica di ogni rapporto, e faticava a relazionarsi con l'essere dall'altra parte. Uno studio interessante, bisognava dirlo; sperava che al mondo ci fosse qualcuno a lamentarsi di lui allo stesso disperato, patetico modo.
    «è ridicolo aspettarsi di esserlo, se non riesci neanche ad essere la tua persona preferita» Spolveró la spalla con un gesto secco, inarcando entrambe le sopracciglia.
    Odiarlo abbastanza da fargli dimenticare che esistesse. Rise asciutto, perché la trovò un'uscita pretenziosa e terribile. Dara Sunwoo viveva davvero in un mondo diverso da quello del Bigh, uno del quale Mood era affascinato ed inquietato in egual misura. Dara non sembrava il tipo di persona in grado di apprezzare o gestire i suoi metodi di distrazione in condizioni normali, figurarsi con l'alcool ad appesantire i pensieri.
    Magari avrebbe dovuto avvelenarlo e basta. Avrebbe risolto entrambi i loro problemi.
    «o puoi consigliarmi cosa stai leggendo. Penso funzionerebbe, per un po'» Abbassò lo sguardo sul libro in grembo, battendo lento le palpebre. Forse avrebbe dovuto insistere di più, far notare che quell'atteggiamento non lo aiutasse - neanche per quel po' - e che se quella fosse la tattica che usava ordinariamente, spiegava tante cose. Morse pensoso il labbro inferiore, trattenendone l'interno fra i denti. Si rese conto, in una di quelle rare epifanie che gli piacevano molto poco, di essere arrabbiato. Più di prima, si intendeva. C'era sempre un filo di astio nel Bigh, ma quello era più specifico, pur non riguardando Dara Sunwoo in prima persona. Trovava inspiegabile come si potesse scegliere di rovinare la propria vita per una persona. Quando - perché? - valesse la pena compromettere i rapporti con altri solo perché incapaci di rinunciare. Era egoismo, e sabotaggio, ed un comportamento così tragicamente umano che Mood ebbe bisogno di un minuto di silenzio per sistemare i propri pensieri, i polpastrelli a sfiorare la carta del libro.
    Ma posso sempre fare finta.
    Era come mettere un cerotto su una gabbia toracica aperta, e chiunque fosse nella situazione lo sapeva. Stavano solo ... aspettando, senza neanche sapere cosa. Se ci fosse qualcosa da aspettare, che era forse la parte peggiore. Il tempo raramente risolveva qualcosa, tendeva solo a prolungare l'agonia.
    Alzò lo sguardo su Dara, accarezzando distratto la copertina. Avrebbe voluto gli importasse di meno, così da poter fingere di essere un amico sincero e preoccupato, ma la verità era che il concasato gli piacesse abbastanza da rientrare in quella piccola categoria di persone che talvolta si ritrovasse fra le dita piccole dosi di un Mood onesto e ruvido.
    Sospirò. «che gusti di merda.» qualcuno doveva dirlo, nudo e crudo. Il sunto più vero di tutti. Lo reputava allo stesso livello di quelli che scrivevano lettere d'amore ai carcerati per omicidio e violenza sessuale, altro che delulu era - e valeva per tutti. Citando il nickname di Theo (ma anche il suo nome, pronunciato ad alta voce), iykyk. Fun fact: mi consigliava Thero invece di Theo, e cimitero funziona uguale in effetti.
    Back on crack.
    Il fatto che il compagno si fosse metaforicamente spogliato di tutti i suoi averi, non significava che Mood volesse fare lo stesso. Aveva già mostrato troppo di sé, e quando aprì il libro su una pagina casuale, sorrise appena, scegliendo con cura quali linee non leggere, e quale storia inventare. Non avrebbe detto a Dara che stesse leggendo poesie in francese per imparare la lingua; che trovasse Baudelaire, per quanto basico ed a tratti ridicolo, affascinante, con quel suo misto di romanticismo e decadentismo così paradossale. Uno dei suoi saggi preferiti era Les Paradis artificiels, perché trovava ironico che un tossico scrivesse degli effetti delle droghe in maniera così dispregiativa, ed un argomento interessante considerando che Mood fosse astemio e sempre lucido.
    Ma non erano cazzi di Dara. E non era di quello che aveva bisogno. Scrollò le spalle, agitando vago il libro di fronte a sé, prima di incastrarlo sotto le gambe.
    «questo? oh, il solito. un patto, una strega, ed il suo kraken stalker personale» Sorrise, mostrando tutti i denti e qualcuno in più, adorabili fossette e sguardo languido. Dara tendeva a credere a tutto quello che dicesse, e Mood era disposto a offrirgli quello - il sollievo di una bugia vellutata e stupida. «consigliato? mah, non so. non conosco molti Kraken, ma trovo che la narrazione sia superficiale e poco realistica. strega o non strega, immagino che respirare sia importante» evidentemente l'autrice non aveva alle spalle la cultura oblivion sulle ricerche. «hai letture migliori da consigliare?» Così, toccando piano che sapesse della cultura di Dara in merito al monster porn - perché è così, canon.

    "the word gaslight
    doesn't even exist lmao"

    mood, or wasn't him?, bigh, 16 y.o.
    now playing: broken hearts
    Tell me those things you want to
    Think you can trust me
    Guess you are wrong
    Watching hearts break,
    still makes me laugh


    toh ti ho anche cambiato gif. solo per te guarda, considerando che ha una cerchia di tipo cinque gif dove non limona.
  13. .
    mood bigh
    I'd sell my soul if it means I'll never die
    The loser's still the loser even if the winner lied
    Al contrario di quanto l’opinione popolare credesse, Mood Bigh non cercava problemi. Tendeva a causarli come effetti collaterali di scelte moralmente discutibili, vero, ma erano reazioni corrispondenti ad azioni di cui non avesse attivamente né merito né colpa. Al naturale, quando di grazia divina il genere umano (e non.) glielo concedeva, si faceva i cazzi propri: le vite altrui non lo interessavano nè toccavano particolarmente. Faticava perfino a considerare persone gli esseri viventi con cui divideva lo spazio in quello specifico lasso temporale: per Mood, erano mezzi. Strumenti per arrivare ad un fine. Matasse di filo colorato che si divertisse a districare per noia, quando non strettamente utili alle circostanze, togliendo tutto il disegno per arrivare allo scheletro del telaio. Un passatempo. Aveva poche eccezioni in merito: concessioni e compromessi avevano la terribile abitudine di essere imprevedibili, ed a Mood il mondo piaceva solo quando poteva prevederlo e comprenderlo. Le anomalie, malgrado il loro nome, propendevano a ripetersi nel tempo finché non diventavano la norma, rendendo una strada piatta piena di dossi e salti; Mood Bigh sarebbe morto prima di diventare quel tipo di persona.
    Ma.
    Ma.
    Aveva un difetto di fabbrica di una certa importanza, forse l’unico tratto della sua personalità che fosse sincero in ogni forma, da ogni tempo. Lo stesso che chiunque altro avrebbe additato come pregio, ma non lui: Mood riconosceva una debolezza, quando la vedeva. D’altronde, tutto risultava esserlo quando eccedeva dalla norma uscendo dall’ordinario.
    Mood Bigh era straordinariamente curioso. Gli unici momenti in cui sopprimesse il raziocinio, era quando tentato da qualcosa di assurdo ed inspiegabile, ed allora esitava sulla linea invisibile di concessione. Compromesso. Eccezione.
    Mordicchiò la cannuccia senza mai distogliere lo sguardo dal palchetto improvvisato, la testa mollemente abbandonata sul tronco di un albero. Stringeva i denti sulla plastica finché non ticchettavano fra loro, ed allora ricominciava. Un indolente sorriso a pungere l’angolo della bocca, l’unico indizio che essere fosse all’infuori della sua norma, uno strappo ad un tempo che contava al secondo. Fece guizzare gli occhi sulle sedie di plastica dei presenti, afferrando assente la cannuccia fra le labbra; si fermò prima di cedere al pensiero intrusivo di aspirare una pallina di tapioca e sputarla sulla nuca dei proseliti.
    Era quasi felice, Mood.
    «LA FINE È GIUNTA!»
    Il mondo era andato incredibilmente e drasticamente a puttane, e Mood Bigh era quasi felice. Non sembrava un gran trionfo nel grande disegno delle cose, ed il Serpeverde non era solito accontentarsi, ma per una volta si sarebbe permesso anche quello: di recente, non c’era molto a portare gioia nella sua vita. Era già tanto che non la peggiorassero ulteriormente, e non era neanche un lusso che gli dispensassero su base giornaliera. Faticava ancora a comprendere quale fosse il suo posto nel nuovo mondo, chi volesse e potesse essere. Prima di Abbadon, aveva avuto dei progetti; aveva fatto sacrifici, per i suoi cazzo di progetti. Aveva una vita prevedibile, e gli piaceva. Ora? Eh. Aveva deciso di dedicare due mesi lontano dalle persone – non era stato difficile convincere i suoi genitori che andare a Praga fosse la scelta migliore, malgrado loro fossero sparsi sul resto della cartina mondiale; non che l’avesse creduto complesso: erano umani. Banalmente umani, perfino. Proni all’errore, gonfi di punti deboli sui quali il minore della famiglia aveva spinto con pazienza finché non si erano abituati a lui, prendendo la sua forma – con la sola, e saltuaria anche se non aveva idea di dove andasse il resto del tempo, presenza di Check, per capirlo. Trovare un punto fisso, e ricominciare da zero.
    Studiava. Leggeva poesie cercando il proprio battito fra l’inchiostro d’altri. Pensava.
    Era uscito di casa per ricordarsi che l’ispirazione arrivasse dal reale, e le macerie tendessero a fare quell’effetto. Quasi due mesi dalla conclusione della guerra, ed era ancora tutto lasciato a metà, incompleto. Era arrivato a credere che quello fosse quanto voluto dai superstiti.
    Per ricordare, forse. Mood aveva comprato un boba e scelto che ricordare fosse superfluo.
    Ignorava sogni ed incubi. Prendeva appunti e teorizzava. Girava il telefono quando gli arrivava una notifica da Hold o Justin, perché fanculo Hold e Justin, e rispondeva dopo ore perché anche se fanculo Hold e Justin non voleva si mettessero in testa l’idea che dovessero ricucire i rapporti. Preferiva lasciarli così, incompleti e a metà, come la città che l’aveva visto nascere e l’aveva perso per strada. Far credere che fosse tutto okay, e fosse semplicemente felice di sapere che stessero bene, perché il resto avrebbe implicato ammettere che quando si fossero imposti nella sua vita, gli avesse fatto spazio. Era intollerabile. Maledettamente inconcepibile, che avesse commesso un errore così convenzionale e stupido. Era stato - si era - cresciuto meglio di così: avrebbe dovuto fidarsi di più della propria reticenza, stringere gli occhi e sorridere e basta. Invece no: era un mostro, ed era crudele, un manipolatore, un bugiardo, un’opportunista ed un sadico bastardo, ma gli aveva fatto spazio comunque, e loro avevano fatto quello che alle persone veniva meglio.
    L’avevano deluso. Se n’era andati senza sapere quando, se, sarebbero tornati, ed anche se razionalmente poteva comprendere, li odiava per averlo fatto. Avrebbero potuto non sprecarsi a tornare nella sua vita, se quello era quanto valesse. Perchè fingere non fosse cambiato nulla? Poteva escluderli e basta, certo, ma non voleva spingessero sulla porta cercando di entrare: voleva credessero di essere ancora dentro. Gli piacevano i suoi lucchetti chiusi, ed a doppia mandata; voleva evitarsi almeno quell’emicrania, e poteva farlo, perché per quanto a loro fosse piaciuto credere il contrario, non lo conoscevano.
    «DIO HA PARLATO»
    Non era stato il salmo ad averlo trattenuto, figurarsi. La religione era stato il primo appiglio dei babbani in seguito alla Guerra Magica, e capannelli come quello si trovavano in ogni angolo della città. Però...Le foto. E i biglietti da visita. Provò qualcosa di onesto, e crudo e ferale, che se non si fosse conosciuto meglio avrebbe potuto scambiare per affetto, nel tornare a posare gli occhi sull’uomo con il microfono. La stupidità, quando portata a quegli estremi, tendeva a fargli quell’effetto. Due battiti in più nel petto, le spalle alleggerite dal pensiero che il genere umano fosse destinato ad estinguersi, e tutti sarebbero tornati alla cenere – qualcuno prima di altri, a giudicare dalle locandine.
    «E L’HA FATTO CON I SUOI PROFETI!»
    Avete capito, ora, perché Mood Bigh si fosse fermato?
    Era una setta. Una maledetta setta, con tanto di tour guidati e la foto pixellata di Justin Case in terza pagina del dépliant. Avevano paragonato i sette profeti a Gesù Cristo, morti per salvarli; la loro furia, a quella della volontà del signore. Non riusciva neanche a ridere, era tutto… troppo. Sorrise attorno alla cannuccia, pensando che forse lo sfarfallio al petto fosse un po’ amore, quel tipo di tenerezza priva di filtri che solo gli animali meritavano.
    (Non per Mood. Aveva smesso anche con loro. Fool me once that’s one too many. Ma quello era un altro discorso)
    Poi lo vide. Era stato lì, davanti ai suoi occhi, tutto quel tempo. Non ci aveva fatto caso, distratto dall’oratore che predicava la venuta di suo fratello come profeta di Nostro Dio Signore, ma alla fine lo vide, e tutto ebbe senso. I pezzi che cercava di incastrare da mesi trovando loro una nuova sistemazione, il mezzo attraverso cui farlo. Fra i mille e più pensieri nei quali si era dilettato, dei quali solo la metà implicavano violenza e morte più o meno di massa, ce n’erano stati alcuni puramente accademici. Teorie empiriche, perché non possedeva gli strumenti per sperimentare, ma cosa sarebbe successo, aveva annotato sul suo taccuino, se avessero usato piante contaminate per creare pozioni? Un dubbio che lo torturava da Hashima, e che aveva lasciato incompiuto. Uno che aveva relegato distante, perché implicava andare in luoghi pericolosi, e Mood Bigh non solo non era schiavo dell’adrenalina – anzi; sentirsi vivo, era sopravvalutato. - ma non aveva neanche i mezzi per sopravvivere.
    Fuori dalla sua portata.
    Però.
    «pellegrinaggi» mormorò secco, a nessuno in particolare. Giusto per renderlo reale, sentirne l’assurdità prudere sulla lingua.
    C’era anche un sito.
    Una storia già scritta.

    Era un infame.
    Lo sapeva, e non rimpiangeva nulla. Aveva comprato due biglietti per il tour in Cina, ed a gambe incrociate sulla panchina, stava attendendo pigramente che Justin si presentasse al punto d’incontro previsto per la partenza. Perchè? Perchè era divertente. Perchè non poteva biasimarlo per essersi preso qualcosa che Mood gli aveva offerto volontariamente, ma lo faceva comunque. Perchè chi meglio del suo fratellone poteva accompagnarlo in una missione così pericolosa?
    Il Serpeverde voleva vedesse cosa avessero fatto, e non perché lo ritenesse colpevole – non di quello, almeno – ma solo perché conscio gli avrebbe fatto male. Non aveva una giustificazione concreta, solo… ripicca. Capriccio. Sadismo. A scanso d’equivoci, Mood Bigh un cuore lo aveva; il fatto che funzionasse al contrario, non era interesse di nessuno finché non lo facevano diventare un loro problema, e lì cessava di averne colpe. Non era vero e proprio odio quello che provava per Just e Hold, ma solo per principio di non concedergli anche quello.
    Avrebbe potuto. Facilmente.
    Non gli aveva detto dove sarebbero andati, solo mandato l’invito e la posizione. Sapeva che un modo per arrivare in Repubblica Ceca l’avrebbe trovato, perché “troverò sempre un modo per arrivare, se hai bisogno di me” ed era una promessa che il minore aveva, ovviamente, usato a proprio vantaggio. Aprì la chat – l’unica che avesse: all’ennesimo video di pappagalli di Liz, aveva scelto di amarsi abbastanza e bloccarla; continuasse pure a deprimersi e fare la emo, tanto chi cazzo l’avrebbe mai rivista – con Check. Vuota anche quella, come la sua anima, ma loro due funzionavano così.
    Mood: Se muoio è colpa di Justin
    Check: ?
    Mood: Dustin*
    Check: 👍

    E quanto c’era da dire, era stato detto.
    slytherin
    16 y.o.
    1400 bb
    the hills
    aidan alexander


    Edited by #epicWin - 29/7/2023, 04:10
  14. .
    mood bigh
    liz monrique
    Go be a stranger at a party
    Reading lips across a room of empty space
    With a secret you keep guarded
    Like a funeral buries all our past mistakes
    Di desideri non ne aveva molti, ma qualcuno sì. Con il brusio del ballo di fine anno a pochi metri di distanza, fu ad uno specifico a cui si appellò, la testa reclinata all’indietro e lo sguardo bruno sulle stelle appese al soffitto. Il toxic trait (uno dei tanti, avrebbe detto qualcuno: l’invidia era una brutta bestia) di Mood Bigh era credere che se avesse davvero voluto, avrebbe potuto avere tutto. Quelli li chiamava obiettivi, però; il sorriso a lampeggiare sulle labbra del Serpeverde rivolto alla stella che si spense poco più avanti, per quanto raggiungibile e già raggiunto, poteva solo rientrare nella sfera dei desideri. Irrealizzabili per natura; li sapeva riconoscere e scindere.
    La musica non si spense. I compagni continuarono a superarlo per entrare. La ragazza del terzo anno persistette nell’attendere anche l’altra mano su cui mettere lo smalto.
    A quanto pareva, anche quella sera il suo sarebbe rimasto un desiderio e non un obiettivo, e non sarebbero morti tutti. Tragico. Non perché non lo volesse davvero, gli incidenti capitavano in ogni dove, ma non ne aveva bisogno, ed allora non aveva mai sprecato la propria scaletta di priorità per trovarci un posto fra un appunto e l’altro. Un po’, sulle soglie del prom, non potè che rimpiangerlo. Di stelle da spegnere con quei sogni bisbigliati in sospiri, ne aveva almeno una tasca piena. La seconda occhiata intrinseca di significato, quelle dense e che raramente riservava alle persone, la offrì ad un’intera costellazione sopra la propria testa. Quello più derogatory di tutti, perché chi era causa del proprio mal poteva piangere solo se stesso, e Mood lo sapeva. Ci sperò comunque, un inguaribile ottimista, ma quando anche una di quelle stelle si spense ed il Prefetto ruotò lo sguardo al proprio fianco, Lissette Monrique era ancora lì.
    Tragico alla seconda.
    Affidò comunque quei pensieri alla notte, un segreto custodito solo fra loro. Nella peggiore delle ipotesi, ed era già assurdo così, in quell’anno qualcuno poteva aver dedotto che Mood non fosse una brava persona, ma dubitava che perfino il più complottista fra loro potesse arrivare a comprenderne la portata. Come spesso, quand’era circondato da tante persone, l’unico conforto che trovasse fosse ricordarsi che prima o poi sarebbero morti tutti, cenere alla cenere eccetera eccetera. C’era solo una persona al mondo a cui lasciasse intendere il senso dei propri silenzi, ma Check non c’era e Liz poteva fare di quei soffi a fior di labbra quello che preferiva: qualunque opzione scelta dalla concasata sarebbe stata preferibile alla realtà. Le avrebbe volentieri lasciato scegliere la causa del proprio dolore, una gentile concessione a cui, almeno per quella sera, poteva aggiungerne quante preferiva. Era un ragazzo dedicato, il Prefetto; si adattava alle circostanze come l’interno della stanza delle necessità, e la Monrique poteva avere il Mood Bigh che preferiva.
    Tranne quello vero, certo – ed era farle un regalo.
    Piegò le dita per soffiare sullo smalto ancora fresco. Puntellò i polpastrelli sull’asola, strizzando il tessuto per liberare il primo bottone. Aveva valutato di indossare uno slip dress ma l’aveva trovata in conclusione un’idea un po’ banale - sguardo sollevato oltre la quarta parete, ammiccando brevemente – ed aveva optato per l’alternativa più sicura. La camicia non era ancora aperta, ma immaginava di avere tempo da lì alla conclusione della festa per trovare buoni motivi per farlo. Tipo avere qualcosa da fare con le proprie mani che non fosse stringerle alla gola di qualcuno: non era un ragazzo abbastanza violento per quello, e voleva rimanerlo – ma la tentazione c’era, inutile negarlo. Aveva lasciato completa libertà a Liz su tutto il resto, perfino invitandola a fare di lui quello che preferiva, ma l’outfit se l’era tenuto semplice e modesto.
    Forse. Magari sotto la camicia c’era una canotta a rete. Magari aveva un baby doll anche lui. Magari, alla fine, all’abitino di seta aveva ceduto. Non lo saprete certo voi.
    Sorrise a Liz, offrendole un mezzo inchino e porgendole il braccio. «dobbiamo aspettare qualcuno?» oltre alla Morte, ma per quella era ancora lunga.
    Tragico alla terza.
    slytherin
    v year
    prefect
    nothing personal
    des rocs


    anche lui all'entrata, parla solo con liz e le chiede se devono aspettare qualcuno
  15. .
    Reclinò il capo poggiandolo sulla porta socchiusa, osservando il compagno di sottecchi. L'espressione di Mood era confusa ma gentile, sopracciglia lievemente corrugate e labbra dischiuse; una appena accennata curva della bocca suggeriva però che forse così confuso non lo fosse, e che gentile non volesse esserlo.
    Oh, Dara. Quello era uno dei principali motivi per cui Mood non toccava alcool. Non era il in vino veritas ad intimorirlo, perché il Prefetto la verità la conosceva e selezionava; era semplicemente una creatura troppo logica per lasciare che qualcosa annebbiasse il proprio raziocinio. Le distrazioni con conseguenze a lungo termine, non facevano per lui. «bigh» Un tremolio delle labbra, che il moro strinse fra loro, fu l'unico indizio di quanto trovasse divertente quella situazione. That's what she said sfiorò la punta della lingua del Serpeverde, ma la puntellò sotto il canino arcuando invece le sopracciglia. Assottigliò le palpebre, battendole poi piano nel mormorare un «sicuro?» liquido ed innocente, il sorriso ad enfatizzare le fossette. Avevano già visto quella storia, ed il finale, al Prefetto, piaceva abbastanza da riportarla a galla ogni qual volta non ci fosse nessun altro a sentirla.
    Al suo quesito sul domandare per favore, perché lui era un ragazzo educato ed a modo, l'altro replicò con un «a te? mai» che gli fece sollevare mentalmente gli occhi al cielo, ma a cui rispose osservandolo un po' di più. Più clinico e distaccato; non necessariamente meno divertito. Quindi sapeva fosse la sua porta? Le nocche le aveva battute volontariamente, e con semi coscienza di causa? Perché quella era l'implicazione del Sunwoo. Inarcò un sopracciglio, evitando a se stesso di sprecare ossigeno, ed a Dara di rispondere. Un favore personale, poteva metterlo sul suo conto.
    Sollevava diverse questioni.
    Non cambiava comunque il gioco.
    Che aveva già vinto, per inciso. Perfino senza la conferma a pochi passi da lui, gli occhi scuri a sfuggire nascondendosi dietro la cortina dei capelli. Non che ci fosse mai stata competizione, ma era sempre bello quando i pianeti si allineavano dandoti ragione. Tamburellò distratto le dita sul legno, seguendolo in ogni movimento impacciato con il solo sguardo. Incuriosito. Di quel prevedibile scenario, ne aveva immaginati almeno quindici leggermente diversi fra loro, e non poteva che domandarsi quale dei suoi script l'anglocoreano avesse scelto per entrambi. C'era stata la guerra certamente non precludeva alcune delle possibilità già prese in esame, ma andava a toccare nervi fragili che lo spinsero ad ammorbidire il sorriso, e scendere fluido su altro. Forse, ed era un grande forse, un Dara più lucido avrebbe colto fosse infastidito ed avrebbe mollato il tiro andando ad importunare qualcun altro, ma quello aveva scelto il caos. Aveva tenuto la testa bassa per mesi, Mood; un po' di stretching amorale non gli avrebbe fatto male. «fottiti» A quanto pareva, neanche l'alcool riusciva a rendere il compagno creativo nelle sue risposte: scioccante. Poteva toglierlo dalla lista di eventuali miracoli con cui Dio avrebbe potuto essergli testimone che li attendesse un futuro migliore, e le persone meritassero di sopravvivere abbastanza da vederlo. Avrebbe trovato altri modi in cui palesarsi, immaginava; magari prima che Mood scoprisse come pullare una Just e schiacciarli tutti come cicche sotto la suola, ma era solo un'idea. Si limitò ad una mezza scrollata di spalle, evitando ad entrambi le battute spicce e spinte del caso. «ero testurbante, tutte le casate. no, grifo no, perché scegli di essere coraggioso e io non volevo esserlo, non lo sono. Le altre tre.» Ah, quindi aveva scelto la modalità vittima incompresa. Lo studió, abbassando lo sguardo sulla punta delle scarpe di Dara sul suo metaforico zerbino, e risalendo con lenta intenzione fino alla smorfia sulle labbra dell'altro. Sorrise, gli occhi a brillare appena ed il tono a farsi, se possibile, ancora più asciutto. «quindi sei solo stupido?» Perché se non era stato il coraggio a portarlo lì, qualcosa doveva pur essere stato. Arricciò il naso, poggiando la guancia contro la porta. «scherzo» non scherzava per niente, e lo sapevano entrambi. «tutti mi vogliono» Una conversazione su più livelli, quella lì. Una in cui era richiesto sentire, ma farlo tra le righe; rispondere, ma farlo sopra. Ricambiò lo sguardo del concasato senza domandarsi dove volesse andare a parare, solo quale narrazione avrebbe scelto. Gliela lasciò pizzicare con le dita, e sollevarla esitante tra loro, perché l'una o l'altra non avrebbero comunque cambiato niente.
    «nessuno abbastanza»
    Dara Sunwoo non era un ragazzo complicato. Era solo qualcuno a cui piacesse complicarsi, che preferisse farsi volontariamente del male con qualcosa a sua scelta piuttosto che permettere ad altri di decidere in quale punto colpire. Lo capiva. Si somigliavano sotto tanti aspetti, più di quanti fosse lusinghiero riconoscere, ma non allo stesso modo. Cambiare un dettaglio causava un considerevole effetto farfalla, e lì di dettagli ne cambiavano parecchi. Lo sguardo del Bigh si fece serio, anche se il sorriso persistette ad indugiare all'angolo della bocca. Riflessivo, nello smontare ogni pezzo e domandarsi se meritasse di incastrarli al contrario, o dar loro un ordine per ricominciare quel sadico gioco il giorno dopo. Questione di equilibri; di noia, soprattutto. Di quella punta di rabbia ormai sempre presente nei sorrisi di Mood, il cui odio nei confronti dell'umanità, negli ultimi mesi, si era fatto se possibile più accentuato.
    Perché non tollerava gli imprevisti, e lui ci aveva lavorato tutta una vita su se stesso. Aveva fatto sacrifici, calcoli, disegni; arrotolato fili e tagliato ponti. Poi c'era stata la guerra, come aveva brillantemente osservato Dara.
    E Mood aveva perso tutto.
    Giorno dopo giorno dopo giorno.
    Avrebbe ricominciato, perché lo faceva sempre.
    Però che cazzo.
    Scosse il capo, una volta. Una sola, e avrebbe dovuto bastare. Non farlo, e per una volta, seppur soffiato da labbra bugiarde, era stato un invito sincero. Perché? Per lo stesso motivo per cui non voleva sapere dell'esistenza di Hans nella vita di Check: lo avrebbe usato contro di lui, perché nella vita di Mood Bigh non esistevano occasioni perse o prezzi troppo alti. Aveva un perverso senso della giustizia, però, e quella situazione non era equa, perché Dara non era realmente lì per lui. Se quello stato pietoso fosse stato - merito e - causa di Mood, il Prefetto avrebbe accettato di buon grado di prendere tutte le sue verità ed arrotolarsele pigramente sul dito per un secondo momento. Così? Poteva almeno provare ad avvisarlo. Un monito ed un consiglio. «è un po' tardi per quello» Chiuse gli occhi, concedendo a quella confessione di fingersi un segreto. Non era il suo, da mantenere o capire. Aspirò l'aria dal naso, riconoscendo l'odore pungente dell'alcool nel fiato di Dara. Patetico, pensò. Ridicolo. Ma rimase comunque, perché se il Sunwoo non aveva abbastanza dignità per se stesso, significava che a lui toccasse averla per entrambi. Era divertente confonderlo ed umiliarlo, certo, ma quand'era se stesso, non quel pallidume fragile ed esposto di cui scorgeva ogni respiro rantolante. Quando si incupiva tutto perché aveva ragione, e Mood sapeva avesse ragione, ma nessuno gli concedeva di averla (neanche Dara stesso, per inciso).
    Non se ne faceva niente, Mood, di giocattoli che non aveva rotto con le sue mani.
    Non gli domandò chi fosse stato, perché la risposta era di fronte a lui.
    «ma posso sempre» chissà se Dara lo sapeva perché il suo subconscio l'avesse portato a quella porta, e non a quella di uno dei suoi amici; Mood si, e quella consapevolezza bastò a farlo sorridere alle spalle dell'altro, senza che vedesse o dovesse capire.
    Era facile odiarsi, con Mood. Perché lo lasciava fare; lo motivava. Perché quando si voleva soffrire, era la persona giusta.
    «fare finta» Poteva? Perché non sembrava. Per chi, poi: Dara Sunwoo ingannava soltanto se stesso, ed anche male. Fu un po' fiero, dispregiativo, della capacità delirante del Serpeverde (come crescevano, non aveva più bisogno di lui.) ma non disse ancora nulla, soppesando la propria reazione fra i denti prima di scegliere quale offrire. La gentilezza sarebbe stata la più crudele fra le opzioni a sua disposizione, perché Dara avrebbe voluto crederci ed avrebbe saputo di non poterlo fare.
    Ma poteva sempre fare finta, ed avvolgere le dita attorno al vetro sapendo di tagliarsi; non sarebbe più stato un problema del Bigh. Lo stesso Mood che abbassò lo sguardo sulle dita di Dara strette al braccio, e che rimase immobile quando l'altro accasciò la fronte sulla sua spalla. Socchiuse gli occhi solo un istante, respirando piano. Gli permise di tenere quella domanda premuta nell'esiguo spazio fra loro; reale, tangibile, e sincera.
    Come ci riusciva? Come fingeva così bene.
    Sorrise, poggiando pigro la guancia sulla testa del compagno, e sollevando infine la mano libera per lasciarla sui suoi capelli. Una carezza gentile, le dita fra i fili scuri. Un sospiro soffiato sulla cute, ed uno sguardo assolutamente, inevitabilmente, piatto e distaccato sul nulla oltre la schiena del concasato. Non lo stupiva neanche più che avesse fatto la domanda sbagliata. Scosse cauto il braccio sotto la presa di Dara, facendo scivolare le sue dita dall'avambraccio al proprio palmo, che offrí per prenderlo per mano. Indietreggiò, tirandolo insieme a sé, cercando di controllarne i passi perché non buttasse a terra nulla - se colpiva i mobili, invece, poco male. Solo qualche passo all'interno della stanza, abbastanza da chiudere la porta alle loro spalle e costringerlo a sollevare il viso prendendolo a coppa con una mano. Un gesto apparentemente tenero, quello di Mood; meno tenero il pollice premuto sotto l'arcata sopraccigliare a sollevare la palpebra, e lo sguardo severo a studiare la dilatazione della pupilla. Voleva evitare che avesse ingollato alcool e droga, ed avesse deciso di andare a morire in camera sua: non voleva problemi, e Dara ne portava con sé almeno nove. Come gli mancavano i bei tempi in cui l'unico ben nella sua quotidianità era Paris Tipton; con il senno di poi, e non credeva l'avrebbe mai pensato, perfino l'unico normale: non aveva mai fatto domande scomode, avevano avuto un solo interesse comune con cui fare uno scambio equo, e nei corridoi a malapena si salutavano. Semplice e funzionale, il tipo di rapporto che a Mood piaceva avere con il genere umano. Bruh where you at come pick this fucker up. «devi essere più specifico» mormorò, lampeggiando i denti in un mezzo sorriso e mantenendo il tocco delicato. Non lo negò. Perché avrebbe dovuto? Qualunque risposta avesse dato, l'altro l'avrebbe interpretata come una cazzata: che lo facesse, allora; libera interpretazione. Pensò che se ne sarebbe pentito, Dara; che la sua coscienza invece era a posto, perché ci aveva provato ad avvisarlo; che da bravo sadico, non potesse che accontentare umilmente un povero masochista. Per lui, sapete. Era altruista e magnanimo.
    Gli diede una pacchetta sulla guancia, regalando un ghigno sbilenco. «ti aiuto volentieri» (threat). Batté le ciglia, allontanandosi ed indicando con un vago cenno del braccio tutta la stanza, invitandolo silente a fare come fosse a casa propria. Di certo non era la sua: più passavano i giorni, più rimpiangeva di non essersi iscritto a Castelobruxo. Ci avrebbe pensato per gli anni successivi. Recuperò dal cuscino il libro che stava leggendo prima di essere interrotto, e nello stesso movimento prese posto sopra il comodino. Opinione impopolare, ma era il posto più confortevole dove abbarbicarsi: una gamba piegata sotto di sé, l'altra a penzolare o poggiarsi sul letto, schiena contro il muro e tempia contro il legno del baldacchino. «da cosa vogliamo cominciare?» chiuse l'indice fra le pagine del libro, ora abbandonato in grembo. Con il mento sul ginocchio, il Prefetto sorrise come stessero parlando dei compiti e delle vacanze che li attendevano da lì a pochi giorni: entusiasta, leggero; cattivo ed affilato. Voleva quello da lui, no? «la parte in cui tutti ti desiderano, nessuno abbastanza dove non hai mai avuto il coraggio di volere qualcosa abbastanza da fare qualcosa Ciglia languide, labbra curvate verso l'alto. Aspettava sempre, Dara - e guarda come andava a finire. «quella in cui sei così insicuro da pensare che i tuoi amici ti odierebbero se chiedessi loro aiuto?» Piegò il capo, osservandolo incuriosito. «quella in cui basta che qualcuno ti dia attenzioni perché tu perda la testa, perché ti senti in debito di qualcosa quando vieni considerato più del solito nulla? oppure.»
    Ed abbassò la voce, ancora. Un sussurro pigro ed indolente. «oppure. quella in cui fingiamo, sunwoo. posso leggerti una storia. puoi disegnare qualcosa. dirti che andrà tutto bene, e accarezzarti i capelli fino a che non ti addormenti» era sincero nelle sue proposte, Mood; tutte quante.
    Perché non gliene fregava un cazzo di Dara Sunwoo, e se voleva la sua bolla di finzione, poteva avere anche quello.
    «mi crederesti?» Sollevò entrambi gli angoli delle labbra, osservandolo di sottecchi.
    Forse non l'aveva fatto Mood, ma qualcuno doveva avergli detto che il mondo non funzionasse così. Che non fosse necessario renderlo più difficile di quanto non fosse. Che talvolta, quando qualcuno sembrava falso e bugiardo, lo era e basta. Che le persone cambiassero; che lo facessero i rapporti. Che sarebbe cambiato anche lui. Che dovesse solo vedere il mondo e crederci un po' di più, che ci fosse qualcuno ad accettarlo e meritarlo. Che fosse una brava persona, ed una interessante, e che non dovesse recuperare tempo, perché quello gli era stato concesso, ed aveva il sacrosanto diritto di usarlo come preferiva senza sentirsi in colpa. Che avesse degli amici perché l'avevano voluto nella loro vita, non perché fossero finite le opzioni. Che non dovesse guadagnarsi l'affetto di nessuno, perché quello sincero arrivava gratuitamente.
    Qualcuno che il cuore glielo avrebbe spezzato con cognizione di causa, frantumandolo, sarebbe sempre stato meglio rispetto al romperselo da sé solo per avere un taglio netto. Non guariva prima; non aveva mai la possibilità di cicatrizzarsi. «vuoi che ti dica che il problema sia tu? è così, sai» scandí guardandosi le unghie, tornando alla role situazione principale, cercando di capire se avesse compreso il punto della questione (Più discorsi tutti insieme, ma tanto non era per tutti. Era per chi voleva intenderla, e gli altri capissero quel che preferivano).
    Un mormorio distratto. Anche di quello, poteva farsene quello che voleva - perfino non sentirlo.
    «magari non per i motivi che credi»
    oh, my...aveva forse un cuore? Prendeva in considerazione i sentimenti feriti del compagno...? Voleva aiutarlo con intenti puri, e senza nulla in cambio........?
    Sorrise, Mood Bigh.
    «o magari sì»
    ah, ecco.

    "the word gaslight
    doesn't even exist lmao"

    mood, or wasn't him?, bigh, 16 y.o.
    now playing: broken hearts
    Tell me those things you want to
    Think you can trust me
    Guess you are wrong
    Watching hearts break,
    still makes me laugh
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