Votes given by (un)lucky

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    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    samael 'sam' moriarty
    29 | medium | cheater | canon: turo hendrickson
    Si era da poco lasciato il cameriere alle spalle (insieme alla sua copia tarocca ― anche se qualcuno avrebbe detto che l'impostore era lui, non Theo) (ma quelli erano dettagli che Sam aveva chiuso fuori dalla sua vita almeno un decennio prima e non aveva voglia di pensarci proprio in quel momento) quando lo raggiunse una voce familiare che avrebbe riconosciuto letteralmente ovunque, anche in quel caos di persone e musica. «Sam?» Non fu abbastanza svelto ad accelerare il passo e si ritrovò costretto a voltarsi ed affrontare uno dei suoi (tanti, troppi) problemi (tutti auto inflitti): Ramón Monrique.
    «Potevi dirmelo che saresti venuto.»
    A quel punto si lasciò sfuggire una risatina (nervosa? beffarda? amara? eh, c'erano infinite possibilità di scelta), abbassando lo sguardo sulla presa salda del minore intorno al proprio braccio. «ero per caso tenuto a farlo?» , per una serie molto lunga di ragioni, prima fra tutte: evitare una situazione del genere. «sono qui con mia moglie enfasi su quell'ultima parola, mentre riportava lo sguardo azzurro sul viso di Ramon. «dovresti lasciarmi andare.» poteva sempre tirare via il braccio e allontanarsi ― ma non voleva, non davvero. C'era un motivo se nei suoi momenti più bui correva a rifugiarsi tra le braccia del Monrique, ma in quel momento aveva preoccupazioni più grandi: Ake era lì da qualche parte, forse impegnata a cercare le ragazze o forse impegnata a conversare beatamente con qualcuno di sua conoscenza, ma non importava perché Sam non poteva permettersi di rischiare.
    Si ripeteva ormai da mesi che prima o poi avrebbe sistemato quella questione ma non aveva ancora deciso come: chiudendo definitivamente le cose con Ramón? Ammettendo la verità con sua moglie e accettando (il divorzio.) qualsiasi conseguenza ne sarebbe derivata? Non lo sapeva.
    E per il momento voleva continuare a non saperlo.
    Eppure, per qualche fottutissima ragione, si ritrovò ad ammetterlo ad alta voce, davanti al Monrique. Solo rendendosi conto di quello che aveva appena detto, decise infine di strattonare via il braccio e prendere le distanze dal ragazzo. «quello che ho detto, tutto quanto...» si passò entrambe le mani sul volto, cercando di darsi un minimo di contengo. «dimenticalo.» ma che gli era preso? Spiattellare così i suoi pensieri? E in mezzo a tutta quella gente? Avrebbe potuto sentire chiunque! Anche se, a conti fatti, l'aveva confessato proprio all'ultima delle persone a cui avrebbe voluto dirlo.
    O penultima, insomma.
    Uscì dalla sala in cerca di una boccata d'aria, afferrando un altro calice di bollicine da uno dei camerieri di passaggio ― questa volta innocuo, ma tanto ormai l'Eppi blu era in circolo e lui non ne aveva la minima idea.
    Dovresti lasciarmi andare, parole che sentiva spesso ripetere dai fantasmi del suo passato. Da uno, in particolare. Ma non era bravo, Sam Moriarty, a lasciare andare. Lasciarsi andare, invece, oh; quello era un altro paio di maniche.

    ***

    Alla fine, in qualche mistico modo (ovvero: uscendo da una sala non appena notava una familiare chioma bionda entrarvi; oppure nascondendosi dietro la prima pianta o colonna che gli capitava a tiro), era riuscito ad evitare Akelei per tutta la serata. Un fucking successo. La festa era ancora ben lontana dal finire ma lui era pronto a chiuderla lì ― complice qualche bicchiere di troppo che iniziava a rendere meno lucidi i suoi pensieri e meno dritta la sua camminata. Avvicinò qualcuno ― non registrò nemmeno chi, ma doveva essere qualcuno di familiare perché chiese loro di informare Ake che avrebbe preso un taxi per tornare a casa, nascondendosi dietro la scusa (non troppo lontana dalla realtà) che non si sentiva molto bene.
    Se affrontare la festa (e sua moglie. E Ramon) si era rivelato complicato, inserire la chiave nella fottuta toppa lo era stato dieci volte di più; Samael era arrivato persino a prendere a spallate l'uscio, pur di entrare in fretta e schiantarsi di faccia sul letto.
    La cosa buffa, in tutto questo, fu che tra un «vaffanculo» e una spinta, non registrò il momento esatto in cui varcò la soglia, né tanto meno quello in cui perse praticamente i sensi sul divano del salotto.

    Quando riaprì gli occhi, dopo quelli che dovevano esser stati giorni, si ritrovò a fissare il tavolino basso del soggiorno, la cui superficie era macchiata dagli aloni delle tazze di tè e caffè che in quella casa venivano consumate in quantità industriale. La guancia destra era schiacciata contro la fodera color crema del divano, e un braccio penzolava fuori dal sofà, i peli soffici del tappeto a solleticare le dita del medium. Era ormai abituato alle sbronze, e le conosceva abbastanza bene da sapere che quella non era nemmeno lontanamente vicina all'essere smaltita. Quella consapevolezza, più un paio di gambe fasciate da un vestito che riconosceva come quello indossato da sua moglie al party di quella sera, suggerirono al suo cervello inebriato dai fumi dell'alcol che forse erano passate a malapena ore, non giorni. «ciao» la tentazione di chiudere gli occhi e smaltire il resto della sbronza sul divano era molto forte, ma lo era anche il richiamo del morbido materasso della camera da letto. C'erano delle decisioni difficili da prendere, e Sam alle volte preferiva non dover scegliere.
    Per questo era stato contento di vedere tanti camerieri passare con bicchieri blu, il blu gli piaceva. Aveva perso il conto di quanti ne aveva mandati giù, tra Eppi e normale champagne; non che fosse abbastanza lucido da capirne la differenza, comunque. Un alcolico valeva l'altro.
    «ho incontrato Ramon,» ora vedeva anche parte del busto di Ake, segno che lei si era rannicchiata davanti alla sua (misera.) figura prona sul divano. Un sorriso sbilenco si allargò sulle sue labbra: per la moglie? Per l'amante? Per entrambi? «non so cosa voglio fare e non ho voglia di pensarci» era quasi del tutto convinto di star sognando, quindi che male c'era ad ammettere ad alta voce (di nuovo) quello che aveva già rivelato al ragazzo? Magari dream!Ake sarebbe stata utile e avrebbe fornito lui la giusta soluzione.
    Eh, magari.
    in a relationship with:
    alcohol and bad decisions



    tipo che la prima parte di post l'avevo già scritta mesi fa per la festa ma non ho più postato......duh. quindi l'ho tenuta. e niente, ciao ake, scusa ake.
  2. .
    arms crossed with the attitude, lips pouted
    Con espressione immutata, il Belby osservò Check sorridere senza compiacimento, un sorriso che non rassicurò lo special (perché non era stato pensato per farlo) né lo fece sperare in una punizione veloce e più che meritata ― d'altronde non sarebbe stata la prima né l'ultima volta per Hans, era un esito inevitabile e al quale aveva saputo di andare incontro già mentre si dirigeva all'interno del castello; un po' l'aveva inconsciamente desiderata. Un modo come un altro per mettere in pausa il mondo esterno, dopotutto.
    Tuttavia, quando lo vide muoversi e spingersi all'interno dello sgabuzzino adibito ad ufficio, Hans pensò per un'istante, scioccamente, di poterne approfittare per sgattaiolare via (come se avesse avuto i riflessi pronti per uno scatto del genere) (o lo sbatti necessario per farlo e darsi alla fuga) e pur realizzando che fosse un'ipotesi stupida, mosse comunque un passo in direzione della porta, ancora bloccata dlala figura del custode.
    Che entrò e chiuse l'uscio alle sue spalle.
    Il Belby si arrestò sul posto, cercando di ridurre ancora di più lo spazio occupato dalla sua esile figura per non scivolare, anche per errore, nello spazio minimo (una distanza di almeno un metro, anche di più se le circostanze lo permettevano) per sentirsi a proprio agio, senza rischiare contatti accidentali. Il fatto che fosse chiuso in quel microscopico ufficio non aiutava la sua claustrofobia, ed era la cosa che più lo preoccupava; non le conseguenze, non il fatto di essere in attesa di processo e giudizio (e possibili punizioni), non gli effetti di quella caramella sconosciuta che aveva ingerito.
    Il battito accelerato del suo cuore era da attribuire solo a quel posto troppo piccolo per i suoi gusti, tanto da farlo sentire confinato e da far schizzare la sua paranoia alle stelle: non avrebbe lasciato che gli si leggesse in faccia, ma non voleva dire che non la provasse.
    «tu sei Belby, giusto?»
    Cercò di non rispondere, stringendo le labbra tra loro e assottigliando lo sguardo vuoto, puntandolo sulla figura rilassata dell'altro, ma un istinto che non avrebbe saputo spiegare, e che non riuscì a frenare, alla fine lo spinse a balterare un altro «sì», un sussurro appena percettibile ma facile da registrare nel silenzio dell'ufficio.
    C'era qualcosa di innaturale nella schiena dritta dello special, nel mento alto e nello sguardo meno distante del solito ― una irritazione che raramente lasciava trapelare sui suoi lineamenti, e che di solito rivolgeva a Bri, o a Pentacolo. Fastidio, nulla di che, ma comunque più del solito niente.
    Era innaturale anche nelle risposte a denti stretti che rifilava all'altro, controvoglia. Dei campanelli d'allarme iniziarono a suonare nella sua testa, ancora troppo provata da notti insonni e un'astinenza forzata; pensò distrattamente che ignorarle non era saggio, che la cosa più giusta sarebbe stata tentare di convincere il custode a lasciarlo andare e così facendo istigarlo a chiamare un professore, farsi dare la punizione, e finirla lì: perdere i sensi a causa di torture gli pareva un buon compresso come rimedio ai suoi problemi.
    Ma prima di poter istigare il Vibe con uno dei suoi tipici commenti caustici e farsi spedire in sala torture, si ritrovò a drizzare ancora un po' la schiena alle parole del mago. «immagino tu fossi in cerca di droga, ma ti è andata male.» e, considerando non fosse una domanda ma una (corretta) supposizione del maggiore, Hans rimase in silenzio, limitandosi a far tornare sul suo viso un'espressione neutrale.
    Non lo ringraziò per il consiglio: era un consiglio stupido, certo che in condizioni normali non si sarebbe spinto a tanto.
    In condizioni normali avrebbe avuto la sua scorta personale da cui attingere e non avrebbe avuto la necessità di spingersi a tanto.
    «mamma non ti ha mai detto che è un buon modo per cacciarsi nei guai?» la verità? No, Freja non aveva mai dovuto rivolgere ai gemelli quel genere di avvertimenti perché aveva levato le tende quando erano dei mocciosetti di otto anni che non avevano la benché minima intenzione di rubare "pasticche random dagli sconosciuti". Indurì lo sguardo, portandolo lontano dalla figura di Check; lontano come la sua mente, improvvisamente di nuovo a Malmö e ad una vita che gli sembrava appartenere ad un'altra persona.
    «No, ma ci diceva di non rubare i giocattoli.» Suo malgrado, si ritrovò a parlare prima ancora di rendersene conto; non accadeva frequentemente ma accadeva, soprattutto quando era molto stanco o provato ― o quando era con i lost kids. Ma non ne vedeva uno nei paraggi, in quel momento, quindi attribuì di nuovo la colpa a quella stanchezza ormai radicata nelle ossa, che ironicamente era anche ciò che lo mandava ancora avanti.
    Serrò comunque la mascella, sentendo altre parole formarsi sulla punta della lingua: non voleva raccontare ad un perfetto sconosciuto che "i guai", nel suo caso, avevano le sembianze di una ragazzina dal viso angelico circondato da trecce bionde e l'indole di un demonio che non si faceva problemi a picchiare il gemello se lui le rubava il suo giocattolo preferito.
    Erano cazzi suoi.
    Per un secondo, dischiudendo le labbra, temette che non sarebbe riuscito a fermare quei ricordi che premevano contro il denti per uscire ed essere condivisi; quando parlò, invece, riuscì a mantenere un briciolo di contengo e a replicare semplicemente con un'altra verità: «ma infondo si può finire nei guai in tanti altri modi» ad Hogwarts, ad esempio, bastava frequentarla.
    Non c'era abbastanza arredamento in quel posto per concentrare le proprie attenzioni ovunque fuorché sul custode, quindi alla fine Hans optò per osservare senza interesse i coltellini appesi alle sue spalle, il respiro a farsi appena più affannato sotto lo sguardo sfacciato e indiscreto del custode ― non gli piaceva essere osservato, tanto meno visto; si nascondeva sotto divise troppo grandi per lui, sotto felpe che potevano vestire almeno altri due Hans oltre l'originale, dietro un'aria di indifferenza che vestiva con disinvolto, e non lo faceva per fare il ribelle, o con lo scopo di attirare le attenzioni per effetto di qualche fottuta e stupidissima psicologia inversa.
    Lo faceva perché voleva essere lasciato in pace.
    Per sua fortunato, almeno, era bravo a non lasciare che le (poche) emozioni (spesso negative) che gli vibravano nel petto si palesassero anche sui lineamenti di un viso apertamente vuoto: per questo riuscì a non esternare la sorpresa mista a curiosità mista a disappunto che sentì nascergli dentro quando Check parlò, informandolo senza essere troppo diretto (o specifico) in cosa si era cacciato.L'occhio cadde comunque sulle pasticche di nuovo al loro posto, e si domandò, stavolta con un pizzico di coinvolgimento, cosa avesse volontariamente accettato di calarsi. Non era la prima volta che si affidava al caso o che mandava giù qualcosa di sconosciuto ― ma nelle occasioni precedenti aveva sempre ricevuto, quanto meno, qualche consiglio dal pusher di turno o parole di (vago) incoraggiamento da conoscenti più fatti di lui.
    Alla fine non rispose al custode, ma il suo non sedersi fu una risposta più che sufficiente.
    «e se non vuoi, a me non cambia un cazzo»
    Hans: usa lo Sguardo Morto™️ dello sticker.
    Per la sua immensa gioia, il Vibe era in vena di chiacchiere. «perche sei in giro dopo il coprifuoco, Belby?» non era ovvio? Inarcò il sopracciglio come una risposta ― e fine: la pastiglia mancante nel bottino sequestrato era la sola risposta che Check avrebbe ricevuto dallo special.
    O, almeno, sarebbe andata così in un qualsiasi altro contesto.
    Di norma Hans avrebbe lasciato che il silenzio sottolineasse la scontatezza della domanda e ancor più della risposta, ma quella sera si ritrovò ad aggiungere, suo malgrado, un «non riuscivo a dormire, e ―» qualcuno, dì qualcuno, «Bri ha fatto sparire la mia scorta» what. in. the. actual. fuck.
    Che poteva essere una risposta banale (oh mio dio, Hans Belby soffre di insonnia e ha una "scorta personale" di droga, che shock) ma era più di quanto Hans avesse piacere di condividere con un perfetto sconosciuto.
    Serrò di nuovo le labbra ― e di nuovo fu troppo tardi. Non importava quanto cercasse di controllarsi, quanto si imponesse silenziosamente di tenere chiusa la bocca: quella sera non il filtro bocca-cervello non sembrava essere attivo, e tutto quello che il Belby pensava, il Belby diceva.
    Una tragedia.
    Era troppo chiedere di collassare lì, su due piedi, e mettere fine a quell'incubo? Il Vibe non aveva forse detto che l'effetto delle pasticche avrebbe potuto essere "non piacevole fisicamente"?!
    Dov'erano gli effetti collaterali promessi?
    Hans odiava chi non manteneva le promesse.
    Non si accorse di aver stretto le labbra tra i denti fino a che non assaporò il sapore metallico del sangue sulla lingua; non mollò la presa, né dischiuse i pugni stretti stretti che nascondeva nella maxi tasca della felpa, cercando di rimanere il più stoico possibile nella sua posizione.
    Ma fallì, alla fine, quando si ritrovò a chiedere, un cenno del capo in direzione delle pasticche e voce così bassa da risultare un sussurro, un «cos'è?» che sapeva di sconfitta. E di rassegnazione.
    Perché sentiva di aver capito, sapeva di aver capito, ma era un INTP e non gli bastava sapere le cose: voleva conferme, voleva la certezza di avere ragione. Anche quando sperava di sbagliare.
    sleeping at last
    nine
    But I'm just trying to find myself
    through someone else's eyes;
    so show me what to do
    to restart this heart of mine.
    How do I forgive myself
    for losing so much time?
    hans b.gifs cr.playlistaesthetic
  3. .
    Gli mancavano i bei momenti in quel di Bodie, California, in cui gli abitanti lo circondavano con torce accese cantando in latino per liberarlo dal demonio. Ah, la nostalgia dei tempi andati che lo prendeva sempre nelle giornate in cui il sole faceva capolino oltre la spessa nube britannica, costringendo moralmente gli abitanti ad uscire per prendere un gelato. Non pensava che gli sarebbero mai mancati quei piccoli bastardi, ma al peggio non c’era fine. Strinse i denti, accennando un sorriso alla bambina che continuava imperterrita a premere la faccia contro il vetro dei gelati.
    Ma che cazzo di problema aveva.
    «p-p-p-prossimo» ringhiò fra i denti, salutando la famiglia con un cordiale ed amichevole cenno con la mano; se divenne o meno un dito medio, non vi è dato saperlo. Vi basti ricordare che fosse stato impiegato del mese per tre mesi di fila.
    (Quindi sì. L’aveva fatto.)
    Era già pronto a sputare nella coppetta del cliente successivo – che non aveva fatto niente per meritarselo? Esatto, ma il karma era una puttana e Barbie peggio. - quando lo vide.
    Ora.
    Barnaby Jagger sapeva che prima o poi sarebbe arrivato quel giorno. Sperava di no? Certo: il guaritore odiava i problemi, e quello lo era. E sapete cos’altro odiava? (Tutto) Le domande. Non le capiva, né comprendeva, perché qualcuno si sentisse in dovere di fargliene. Non l’avevano visto in faccia? Chiaramente non sapeva un cazzo di niente e non aveva soluzioni ai loro problemi. Aveva partecipato alla prima guerra mondiale; vendeva gelati. Avrebbe dovuto essere una risposta da sé. E non iniziamo con - «possiamo parlare?» Ecco. Proprio quello. Il Jagger diede un’occhiata alla fila dietro Mac, mostrandogliela con un cenno della mano ed uno strano verso di gola a metà fra un eh e un duh? che fece impallidire maggiormente il fu Bodiotto di Sacramento, ma non ebbe… non poteva dirgli di no. Semplicemente, non poteva. Perchè a suo modo, l’aveva visto crescere; perché, a suo modo, sapeva cosa significasse essere dalla sua parte; perché, in qualche assurdo gioco del destino, era pur sempre stato suo fratello. In un’altra vita, gli aveva sorriso e domandato se gli insegnasse a suonare la chitarra; con un altro Barbie, l’aveva portato con sé ovunque come un cazzo di santino di ale jr nel portafoglio.
    Perchè un altro Mac, l’aveva seguito fino al secolo precedente.
    Per un battito di ciglia, desiderò essere qualcun altro. Qualcuno di più comprensivo, di più empatico, di più tutto quello che non era e non poteva essere. Barnaby Jagger non era fatto per quel tipo di responsabilità. Non era fatto per la richiesta che leggeva negli occhi grigi del Corvonero, per lo statico nervosismo con cui continuava a tirare le maniche della giacchetta. Allungando una mano di lui, avrebbe trovato solo un cinque, e solo se fosse stato fortunato.
    Avrebbe dovuto saperlo. A Bodie c’erano stati insieme, e prima ancora di sapere chi fossero l’uno per l’altro, Barbie aveva sempre fatto del proprio meglio per distruggere le speranze del ragazzino sotto il tallone della scarpa: se ne andranno senza di noi; sarai morto per quando nasceranno; magari neanche si ricorderanno di te. «ok» Mac si guardò nervosamente attorno, ma Barbie non accennò a spostarsi in un posto più intimo, rimanendo saldamente dietro la cassa a bloccare la fila. Perchè avrebbe dovuto? Sarebbe stato breve, e indolore.
    Breve, e indolore.
    «volevo...parlare di…? Cioè… se...»
    «n-n-no» chiarì subito, così, a scanso di equivoci. Sarebbe stato dannoso per entrambi farlo proseguire in un discorso che, ovviamente, nessuno dei due voleva affrontare - altrimenti perché aspettare? Gwen gliel’aveva detto subito, quando aveva rivelato loro del 2043. Settembre. Si era fatto due domande, e dato due risposte, nel non vedere nessuno dei due approcciarlo nei mesi successivi. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla, e l’espressione di Barbie sarebbe stata la stessa indossata quel giorno – annoiata; grezza – ma forse avrebbe cambiato tutto, che fossero andati a cercarlo il giorno successivo. Magari per insultarlo; per chiedere perchè non avesse detto niente; per vedere le foto dalle quali si erano cancellati.
    Niente.
    E arrivava, mesi dopo, per avere...cosa? Cosa voleva da lui? Rassicurazioni? Fare una chiacchierata fra amici? Aveva perfino smesso di andare a trovare Mads, come se la Wesley c’entrasse qualcosa. «n-n-non c’è b-b-bisogno d-d-di p-p-parlarne» fece spallucce, come se la questione non lo toccasse minimamente. Avrebbe voluto fosse così; avrebbe voluto non provare quel fastidio al petto, gemello di quello che aveva sentito quando Zac gli aveva aperto la porta del suo ufficio la prima volta non dando segno di riconoscerlo. Perchè era stupido, no? Insensato. Odiava le cose stupide e insensate, quelle troppo astratte e morbide perché potesse stringerle fra le dita e gettarle via volontariamente. «n-n-non ha importanza» lo ripetè ad entrambi, guardando annoiato un punto oltre le spalle dell’Hale. Anche se, ed era un grosso se, fosse venuto lì per… qualcosa, Barbie non avrebbe saputo come darglielo. Non era Sander; non poteva essere il cardine di cui chiaramente il ragazzo, da sempre, aveva avuto bisogno. Soprattutto, non voleva esserlo, perché era troppo faticoso e lui non ne aveva sbatti, ok? Non aveva firmato nessun foglio che lo costringesse a fare da badante a non più adolescenti con crisi d’identità. Se voleva conforto, Barbie era la persona sbagliata.
    Meglio un taglio netto e chirurgico.
    «n-n-n-non c-c-cambia un c-c-cazzo» Abbassò lo sguardo giusto in tempo per vedere l’esatto, preciso momento, in cui qualcosa si ruppe. Non avrebbe saputo dire cosa, e non era (non è?) compito suo deciderlo. E se in parte, in parte, si sentì in colpa e bugiardo, cazzi suoi: l’avrebbe aggiunto alla numerosa lista di difetti con cui conviveva da ventotto anni, e ci avrebbe dormito un’altra notte. «f-f-fai p-p-prima a d-d-dimenticarlo» nessuno poteva fargli causa, se il tono si fosse lievemente addolcito. Se un po’ si maledisse per essere stato Barnaby Jagger TM senza un minimo di filtro, nel notare come le spalle dell’altro si fossero fatte curve e pesanti, le ciglia a battere frenetiche. «p-p-pensa al tuo f-f-futuro. S-sei all’ultimo a-a-an-anno n-no?» quando Mac annuì, battè le mani fra loro, facendolo sussultare. Umettò le labbra, notando come le persone dietro l’Hale iniziassero a spazientirsi.
    Sentendo la propria risoluzione, indebolirsi.
    Era meglio per entrambi. Davvero. Magari non quel giorno, ma un giorno l’avrebbe capito.
    Avrebbe potuto dirgli cento e mille cose, in quel momento.
    «q-q-quindi il g-g-gelato l-lo v-v-vuoi?» Ma non lo fece, perché era pur sempre Barnaby Jagger. Lo guardò
    (avere un mental breakdown con la porta. Cercare di aprirla spingendo, invece di tirando com’era scritto sul cartello. Non lo aiutò solo perché pensava avrebbe peggiorato le cose, e fu molto maturo e responsabile da parte sua, grazie tante)
    andare via con il gelato stretto fra le mani come il peggior insetto immaginabile, e non fece niente.
    Sospirò.
    Gwen gli avrebbe fatto un culo epocale.

    Pensava che la cosa più strana e assurda del giorno fosse già successa.
    Invece era arrivato un cliente, trafelato e dall’aria preoccupata, che gli aveva domandato (a lui. Ma dov’era quell’infame del Tryhard quando c’era tutto quel movimento in negozio?) se sapesse cosa fosse successo nei pressi dello Spacobot, come se la questione potesse interessare il Jagger. «n-n-no.» «ma c’era il tuo collega!! quello!!!» indicò una foto di Eddie.
    Gli interessava ancora meno. «s-s-sono s-s-sconvolto.» «DOVRESTI!!! Gli hanno dato una bella botta in testa!!! Quando me ne sono andato, girava senza senso per i vicoli cercando un certo Sandro?» No, aspetta… Gli avevano dato una bella botta in testa SENZA DI LUI? Attendeva quel momento da anni, Barbie. Non si stupì del fatto che nessuno avesse prestato soccorso, e fossero invece andati nel luogo di (non.) lavoro a spargere pettegolezzi – era così che funzionava il mondo – e nessuno battè ciglio quando dichiarò il locale chiuso, e domandò un passaggio per Dark Street.
    Che amore. Tutto per aiutare il suo amichetto!
    […] «papà?» Era bellissimo. Si meritava esattamente quel genere di sollazzo, il Jagger, dopo una giornata così di merda – anche perché dubitava che la Markley gliel’avrebbe data, non le piaceva quando faceva piangere i “suoi” bambini. Duh. «t-t-t-ti p-p-piacerebbe» lo studiò di sottecchi, domandandosi quanto la situazione fosse tragica. Abbastanza da rimanere nei paraggi? Sì. Ma da fare qualcosa in merito? Eh. Magari dopo. «s-s-sai quante d-d-dita s-s-sono?» e se le sfarfallò cambiandole rapidamente davanti alla faccia di Eddie, era solo fuckin karma. «o c-c-chi s-s-sei? T-ti aiuto: fa r-r-rima c-con b-b-bronzo» sorrise, una spalla poggiata al vialetto.



    "i've been having a weird fucking time"
    - barbie jagger, 28
    now playing: haunted
    Branded honors, I can't own 'em
    I ain't fall for anyone's love
    There ain't closure to recover
    Remnants of what I once was


    un sogno. aspettavo questo momento da tutta la vita. #baddie for life
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    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    amos ryder hamilton
    1996 - special muggle - photokinesis - baby daddy
    «amioe, che succ? ti sei spento?» erano più le volte che non capiva che il contrario, ma annuì alla Zazdorovje come se avesse effettivamente compreso. Ma in che senso spegnersi, mica era una lampadina. Amos Hamilton non li avrebbe mai capiti i gen z, erano creature troppo mistiche e dalle mille forme e colori, tutti con il loro particolare quirk. La ragazza seduta davanti a lui era il perfetto modello di una generazione digitale, cresciuta a suon di crisi economiche e overdose di nintendogs ad appena nove anni, non era una sorpresa per nessuno che si esprimesse con vocaboli appartenenti ad un piano astrale fuori dalla portata del povero Hamilton. «in…che senso? non sono una lampadina» la guardò confuso, lo special, cercando di decifrare quello che intendeva. Non era mai stato troppo bravo a comprendere gli altri, sempre un po’ lento e nel suo mondo- ecco perché andava d’accordo con la maggior parte dei suoi amici, probabilmente faceva loro pena. «minchia sei proprio un vecchio, si vede che freuqneti solo pensionati» sì, con il typo verbale perché Elizaveta non era così sobria come si atteggiava. In tutta risposta, Amos sorseggiò il suo drink (analcolico, perché era un genitore responsabile) con un certo flair drammatico, guardandola con un certo disappunto «ho ventisei anni, non trenta» qualcuno doveva pur dire la verità «e poi chi devo frequentare? non ho più amici» ammise stringendosi nelle spalle, lo sguardo perso sul tavolino e le dita a mescolare il ghiaccio con la cannuccia. Era stato difficile ammetterlo persino a se stesso, ma per qualche motivo confessarlo alla Zazdorovje non era stato così terribile come pensava- c’era un certo senso di familiarità con lei, quasi la conoscesse da sei lunghi anni. In realtà, Elizaveta Zazdorovje non era altro che il frutto di una coincidenza fortuita, una compagna di viaggio durante quegli anni spesi a vagare il globo. La prima volta che l’aveva incontrata era stata in coda per imbarcarsi per un volo diretto ad Amsterdam, la russa a un passo dalle lacrime perché i suoi migliori l’avevano abbandonata per (citazione testuale) il cazzo maledette baldracche ve ne pentirete. Amos, che mai se la sarebbe sentita di abbandonare una ragazza in lacrime, le aveva fatto compagnia per tutto il viaggio. Non era colpa sua se era troppo empatico per il suo bene, e poi la ragazza era la prima che l’aveva fatto sentire a casa dopo mesi di luoghi dove si sentiva fuori posto e sbagliato. Forse era il potere dei gay, o almeno era quello che gli aveva sussurrato una sera la russa, un po’ troppo brilla e felice di aver finalmente uno spritz che non sapesse di acqua sporca. «ventisei anni? mio dio, ma sei con un piede nella fossa» ok, rude. Non aveva nemmeno le rughe e tutti gli dicevano che non dimostrava i suoi anni, un po’ voleva sotterrarsi ora che Elizaveta si stava comportando come se avessero trent’anni di differenza. Forse la russa aveva notato che il suo mood era era calato, forse si sentiva una buona samaritana in quel momento, perché ad un tratto se la ritrovò avvinghiata al suo braccio «NOOO CUCCI!!! NO BAD VIBES!! no dai, non ti deprimere che poi non so che dirti» quasi la invidiava, brilla con un mero Spritz. Invece Amos si nutriva di succhi di frutta e plasmon perché era troppo occupato a badare a Bollywood per concedersi un momento di pausa- persino in quel momento era lì con loro, con il suo faccino angelico e un leoncino di peluche stretto tra le braccia. «non devi dire niente, eliza» scosse la testa, l’Hamilton, un mezzo sorriso sulle labbra e l’espressione nostalgica di qualcuno che stava vivendo un déjà-vu «sai, mi piacerebbe tornare a casa…rivedere mia sorella, i miei amici» avrebbe potuto farlo, dopotutto si trovava a Londra già da una settimana, che cosa gli impediva di presentarsi alla loro porta? «ma ho paura mi odino, o che si siano rifatti una vita e che non ci sia più spazio per me» faceva male ammetterlo, dare voce a un sentimento così fragile che rischiava di spezzarsi in mille frammenti se affidato nelle mani sbagliate. Sapeva di meritarsi porte sbattute in faccia (metaforicamente e non) e rancore per essere sparito senza le appropriate spiegazioni. «amos hamiton, stammi a sentire» era raro che Elizaveta usasse il suo nome, figuriamoci quello completo. Immediatamente, l’Hamilton si sedette un po’ più dritto, sentendo che stava per essere rimproverato per qualcosa che aveva detto «chiunque sarebbe fortunato ad averti, e nel caso ti sbattessero la porta in faccia sai che devi fare?» «…no?» un po’ aveva paura, le idee della Zazadorovje avevano sempre un edge di pazzia che lo spaventavano.
    «entrare nella tua britney spears 2007 era»
    ma in che senso.

    Villa Hamilton non era cambiata durante i suoi anni di assenza. Si ricordava ancora la prima volta che si era presentato davanti a quella porta, una figura esile e sciupata da troppo tempo passato nei Laboratori e lo sguardo rassegnato di qualcuno che sapeva che non avrebbe mai trovato un posto a cui appartenere. Eppure, un posto lo aveva trovato. Gli Hamilton gli avevano dato una possibilità, un luogo dove esistere senza temere perla sua vita perché special- gli avevano dato una nuova famiglia. Non aveva il coraggio di ripresentarsi davanti a sua sorella come se nulla fosse successo, come se una mattina non l’avesse presa da parte e le avesse confessato che si sentiva soffocare, che non sapeva più cosa volesse essere una persona al di fuori della sua utilità per gli altri. Era un babysitter, un cuoco, una cameriera- ma cosa voleva essere? cosa voleva fare? Forse prendere una boccata d’aria l’avrebbe aiutato, o forse si sarebbe rivelato del tutto inutile, ma almeno ci avrebbe provato.
    Non pensava di stare via per così tanto tempo.
    Eppure era successo.
    Non aveva scuse per essere sparito, nonostante le sue sporadiche chiamate a tutti, e l’idea di affrontare la collera di sua sorella gli faceva venire voglia di voltare i tacchi e tornarsene in India.
    Ma non poteva farlo: aveva rimandato abbastanza quel momento.
    «Tranquilla, Bollywood, andrà tutto bene» tentò di sorridere alla bambina nella carrozzina, ma quella che venne fuori fu più una smorfia. Non era bravo a mentire, l’Hamilton, nemmeno a una bambina di pochi mesi.
    Suonò al campanello, aspettando pazientemente che qualcuno gli venisse ad aprire. Chissà se avevano assunto un inserviente ora che Amos non c’era più. La porta si aprì dopo qualche attimo, ma lo special non fece in tempo a scorgere chi fosse data la poca luce, non che importasse dato che gli fu sbattuta la porta in faccia «buongiorno, sono-» non il postino, quello era sicuro. Doveva suonare di nuovo? Aspettare un miracolo sembrava brutto, anche se avrebbe preferito quello a sfondare il campanello di Villa Hamilton. «forse mi odiano» forse lo odiavano.
    Someone should have told you
    that you'd always have a place to go
  5. .


    Sul fatto che Liz fosse perennemente fatta, non c’era alcun dubbio.
    Era una lunga storia d’amore, quella tra lei e la 2C-B, e che non sarebbe finita facilmente, l’alcol la aiutava a incrementare l’effetto di quella polverina rosa che, col passare degli anni, aveva perso il suo effetto miracoloso. “Sei davvero maggiorenne?”
    Liz lo osservò con un sopracciglio alzato «Da un paio d’anni.» almeno nel mondo magico, s’intendeva, ma sembrava davvero minorenne? boh. non aveva problemi ad entrare nei locali fin dai suoi 13 anni quindi non ci aveva mai fatto caso “Non è una festa, Liz” ah no? e allora cosa ci faceva con una bottiglia di tequila se non festa “è il primo atto di un funerale.” un principio di risata fuoriuscì dalle labbra ancora truccate «Ti è morto il canarino?» circumnavigò il tavolo dove l’italiano si stava servendo, ignorandola del tutto, e con un balzo si sedette sullo spigolo più vicino al suo interlocutore, battè un paio di volte le mani sulla giacca alla ricerca di qualcosa, e quando infilò le mani in una delle tasche tirò fuori un pacchetto di sigarette che poggiò sul tavolo in segno di condivisione, ne portò una alle labbra pronta ad accenderla quando percepì lo sguardo preoccupato di un elfo domestico su di lei «Cristo, siamo maghi, cosa vuoi ci succeda, hai paura scatti l’allarme antincendio?» ignorò completamente quell’essere accendendosi la stecca di nicotina e prendendone il primo tiro “Preferiresti ci fosse altro di lungo?” sbuffò via il fumo insieme ad una risatina «Non si disdegna mai.» gli disse cob un toni di voce divertito «Certo che per essere un grifondoro sei proprio esilarante » perché di solito erano un ammasso di muscoli senza senso dell’umorismo, quindi eccome se si sarebbe ricordata di quella conversazione mistica che stavano facendo nelle cucine fuori dall’orario consentito, se li avessero beccati probabilmente sarebbero andati direttamente entrambi in sala torture senza battere ciglio.
    “Cosa proponi di fare?” pensandoci bene, il Nott non pareva molto propenso a cederle l’alcol, ora lei avrebbe potuto semplicemente andare in camera e recuperare una delle tante bottiglie di riserva che teneva nel baule, trasfigurate in boccette d’inchiostro, ma così si sarebbe persa tutto il divertimento «Divertiamoci, no, bebé l’ultima parola pronunciata in spagnolo mentre lo osservava divertita “E, soprattutto, cosa mi dai in cambio?” accavallò le gambe nude, poi spense la sigaretta ancora a metà sul legno del tavolo infischiandosene del segno che sarebbe rimasto; prese quindi dalla tasca della giacca altre due bustine, una con delle pillole, l’altra con una polverina, entrambe le cose estremamente rosa., ed un lecca lecca a forma di cuore.
    «In cambio posso darti questa.» sorrise, poi scartò il dolciume che aveva recuperato poco prima «ma ad una condizione» portò la caramella fra le labbra, poi nella bustina, in modo da farci attaccare la polverina, poi porse il dolce al ragazzo «oppure così.» con la mano libera prese una pillola fra l’indice e il pollice, per poi poggiarsela sulla punta della lingua, la scintilla divertita nello sguardo ceruleo dimostrava solo una cosa: Liz lo stava provocando; si aspettava che la baciasse? assolutamente no, ma la Monrique poteva perdere occasione di divertirsi? chissà, magari avrebbe ottenuto una qualche reazione interessante,
    era quello il suo strambo modo di divertirsi quando non si imbottiva di sostanze chimiche, e poi dopotutto non stava parlando con un grifondoro? voleva testare il coraggio, aspetto fondamentale di chi faceva parte di quella casata: cosa avrebbe scelto, se avesse scelto, tra le due alternative? Si chiese quindi se Ciruzzo Linguini avrebbe continuato a fare lo spaccone o si sarebbe tirato indietro, al momento non aveva ancora una risposta, ma le sue aspettative erano basse: chissà se l’italiano le avrebbe superate.

    Man, I feel like Cleopatra, Joan of Arc, Queen of Hearts, yeah Tonight it’s only me that matters
    Oh, you on that feminist tip? Hell yeah, I am

    18 y.o.
    Slytherin.
    Cheerleader, maybe.
    Lissette Lizzie Monrique
    0:18
    2:34
    Wasabi, Little Mix
  6. .
    Chiuse gli occhi solamente quando varcò la soglia di Different Lodge. Sapeva non potesse essere vero, ma gli sembrava di non battere le palpebre da ore. Giorni. Anni. Sentiva le guance tirare, laddove sapeva – come conoscenza remota, non del tutto razionale – si fossero già asciugate le lacrime, lasciando nulla di visibile sul volto pallido dell’Hale; nulla di nuovo sul fronte occidentale. Era… era? Sicuramente qualcosa, a cui non si era permesso di dare un nome fino a quel primo respiro profondo, i polmoni a dilatarsi dopo una vita passati compressi nella gabbia toracica.
    Forse arrabbiato, in parte; deluso di certo, con un pizzico di umiliazione a pungere la gola. Aveva fatto tante, tante, cose stupide, nella sua breve-lunga vita, Mac, ma non si era mai, mai, sentito così… esposto. Vulnerabile. Ricordava quando toccando il costato riusciva a sentire le ossa; neanche allora si era sentito così friabile.
    Chissà perché. Avrebbe voluto saperlo, perché era cosciente non avesse alcun maledetto senso né fosse giustificabile, quel sentirsi spelato e asciugato all’aria. Che non avesse avuto aspettative
    (non era vero)
    speranze
    (non era vero)
    e non avesse cercato conforto
    (che cazzata)
    quando alla fine, dopo mesi, si era presentato in gelateria mettendosi in coda come un qualunque altro cliente, ingoiando l’ansia e la bile nel bisbigliato possiamo parlare? con cui, al proprio turno, aveva approcciato la persona al di là del bancone.
    Che Barnaby Jagger avesse avuto tutte le ragioni del mondo, a rispondere quel che aveva risposto. Che con il senno di poi, poteva razionalizzare e dirsi avesse avuto ragione. Non gli aveva detto nulla che Mckenzie non sapesse.
    Eppure.
    Voleva: sparire. Più del solito, il Corvonero voleva riavvolgere la giornata e ricominciarla, cancellare l’accaduto e rimandare ancora quella conversazione al mai più che entrambi si meritavano.
    (Scomodo)
    Voleva: ancora cullarsi nell’ideale ed il plausibile. Forse l’indomani l’avrebbe pensata diversamente, ma in quel momento preferiva l’angoscia dell’ignoranza a quel macigno chiamato certezza.
    Voleva: respirare. E l’unico posto in cui si sentiva al sicuro di farlo, era l’ultimo in quel di Hogwarts dove Mac aveva potuto guardare Harper senza volersi prendere a testate, masticato da questioni che le aveva sempre detto, ma che in mezzo anno avevano assunto un significato diverso.
    (Resti con me?)
    Voleva: evitare i propri amici. Non avrebbe saputo cosa dire, a Joni o Gideon; si sarebbe tagliato la lingua prima di parlarne con Willow. A Different Lodge, quando non c’era il quinto anno nei paraggi, era difficile che qualcuno gli rivolgesse parola, e non poteva dargli torto. Non solo era quello strano, ma era quello strano forte mago, quello strano mago che voleva diventare legionario. Non c’era davvero mezzo motivo al mondo per cui dovessero parlargli.
    (Grazie a Dio)
    (Non) Voleva: «Qual buon vento.» perché non era nelle condizioni psicofisiche adatte ad affrontare anche quello. Tenne gli occhi chiusi, perché magari – magari - magari si era sbagliato, e non era la voce di Twat, ed allora poteva tornare a respirare veloce fino a che il corpo non si riadattava a misure più sane. Magari poteva evitare di accasciarsi in un angolo, nascondere la testa fra le mani, e premere i palmi delle mani sugli occhi per alleviare l’emicrania da botta di adrenalina e pianto.
    Magari.
    (Plic)
    Socchiuse le palpebre, il capo già abbassato verso le proprie mani. Non sapeva neanche a che gusto fosse, il gelato che dalla coppetta si era sciolto sui polpastrelli impiastricciando le dita. Non ricordava di aver ordinato, o di aver pagato. O come fosse tornato ad Hogwarts.
    «che ci fai qui?» Non si meritava quel tono asciutto, accusatorio ed ironico. Sentì la rabbia tentare di montare soffocando tutto il resto, le sopracciglia corrugarsi in quella nuova scarica di adrenalina che lo spinse ad alzare un seccato sguardo su Twat. Non durò, perché non durava mai. La lasciò gocciolare come (crema, forse? Menta?) il gelato sul polso, prendendo nota delle condizioni in cui versava l’altro.
    Invece del meritato cazzi miei che sentiva prudere fra gli incisivi, lo osservò impassibile un paio di secondi, prima di sedersi per terra al suo fianco.
    Era troppo facile vincere con Mckenzie Leighton Hale. Ma perché la gente ci provava ancora. L’unico che riusciva sempre a perdere era Mort Rainey, che evidentemente non aveva capito il gioco né le regole – grazie a Dio; Mortino ti prego non cambiare mai lasciaci la tua follia senza senso sei la nostra unica fonte di intrattenimento. «non ti aiuterò se non mi dai il permesso» rispettava i suoi spazi e le sue scelte, Mac; il fatto che non le capisse, era un altro discorso. «ma non farlo è stupido» non sarebbe neanche morto per ferite simili, avrebbero solo fatto un male fottuto e senza senso. Se l’orgoglio gli impediva di accettare una mano, per selezione naturale meritava di lasciarci le penne.
    & that was it. Una voce forse più asciutta del necessario, distante – distaccata. Apatica.
    Offrì il gelato senza guardare l’Ivorbone, sperando lo prendesse perché non lo voleva più, non voleva pensarci, non voleva prove di quanto fosse successo.
    «perchè mi eviti?» domandò in un sussurro, ancora fissando un punto sul pavimento di Different Lodge. Visto che l’altro avrebbe potuto fare la stessa domanda, giocò d’anticipo, perché lui non era un gatekeeper. «ci ho provato a non farlo. Non me l’hai permesso.» forse non l’avrebbe ammesso così tranquillamente in un altro momento, ma in quello si sentiva… lontano, ancora incerto sulla propria forma nel piano fisico delle cose. Sembrava uno di quei momenti che esistevano solo per poco; quelli che avrebbe potuto davvero dimenticare.
    Poi, diciamocelo: era stanco di quelle cazzate. E se lo special avesse detto qualcosa di edgy come che non ci avesse provato abbastanza, Mac si sarebbe messo a gridare.
    "ok, i'm normal now"
    (lying) mckenzie hale, 19
    now playing: little talks
    You're gone, gone, gone away
    I watched you disappear
    All that's left is a ghost of you


    lo so non ha senso ma un giorno avrà senso cosa
  7. .
    arms crossed with the attitude, lips pouted

    gli adolescenti erano fottutamente strani.
    check lo sapeva perché era ancora uno di loro, più strano che adolescente — quelli problematici, incapaci a trovare un posto nel mondo, il Vibe li riconosceva a pelle. e non era forse Hans Belby un degno rappresentante della sopracitata categoria?
    a quel , scandito con un velo di sorpresa nella voce, check non poté fare a meno di sorridere; non c'era niente di confortante, nel modo in cui le labbra del giovane si erano piegate all'insù, solo l'amara constatazione di come tra quelle mura i ragazzini sopravvivessero per puro bucio di culo «buon per te» mise piede nell'ufficio, ma invece di scortare fuori lo special e accompagnarlo dal primo professore al quale fare rapporto, il diciannovenne si chiuse la porta alle spalle.
    avrebbe potuto chiamare direttamente la Queen, rallegrarle la serata con una bella sessione di torture fuori programma, ma lui non ci avrebbe guadagnato nulla se non una perdita di tempo e l'impossibilità di controllare se suo fratello avesse già dato fuoco alla sala comune dei Serpeverde.
    «tu sei Belby, giusto?» si sedette sulla sedia, gambe incrociate tra loro e braccia sollevate dietro la testa; non attese la risposta che sarebbe arrivata in ogni caso, volente o nolente, decidendo di proseguire con un sospiro «immagino tu fossi in cerca di droga, ma ti è andata male. la prossima volta eviterei di rubare pasticche random dagli sconosciuti» soprattutto quando c'era un cassetto pieno d'erba contro il quale check stava premendo la suola della scarpa per dondolarsi «mamma non ti ha mai detto che è un buon modo per cacciarsi nei guai? » chiese, inarcando un sopracciglio corvino, le dita affondate nei capelli altrettanto scuri.
    in verità, a check vibe non fregava un cazzo di quello che i genitori di Hans gli avevano o meno insegnato.
    stava solo prendendo tempo in attesa che la pasticca facesse effetto scatenando tutto il suo potenziale; il nome del ragazzo non era sulla sua lista nera di potenziali bambocci cui fare il culo (lista alla quale aveva aggiunto il nome di Adambert Behemoth come monito se mai gli fosse capitata occasione di rivederlo), ma già che era in ballo poteva sfruttare quel contrattempo per ottenere altre informazioni, farsi un quadro più completo. non era forse quello il suo compito principale come custode? (no.) «l'effetto di quella pasticca potrebbe non essere molto piacevole-» ci pensò su per un istante, rimettendo le quattro gambe della sedia a terra «fisicamente, intendo. fossi in te mi metterei seduto» un suggerimento che il Vibe non aveva mai dato agli altri ragazzini, ma forse perché quelli li aveva drogati volontariamente, con uno scopo ben chiaro in mente; se poi a qualcuno veniva la tremarella e piombavano culo a terra dopo aver ingerito la sua versione modificata del veritaserum erano affari loro. con Hans, d'altronde, la questione era un pochino diversa — almeno finché non avesse scoperto che anche lui bullizzava quello stronzetto di Mood, allora le cose potevano cambiare molto rapidamente.
    in meglio o in peggio dipendeva dai punti di vista.
    «e se non vuoi, a me non cambia un cazzo» cosi, molto soft, solo per mettere nero su bianco il concetto. portò entrambe le mani sotto il mento, osservando un Hans ancora più pallido del solito con iridi verde acqua che a cercare lo sguardo altrui non si erano mai fatte problemi «perche sei in giro dopo il coprifuoco, Belby?» a parte l'ovvia ricerca di sostanze stupefacenti, ma questo il custode non lo disse. anche se la pozione spingeva inconsciamente a dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, non voleva dare al ragazzo alcuno spunto per tentare di aggirare l'ostacolo omettendo i dettagli più importanti con una mezza bugia.
    quando lo sguardo di check si spostò da Hans al sacchetto con le pastiglie, non poté fare a meno di pensare a quanto sarebbe stata più complicata la sua vita, se oltre a fare schifo gli avesse donato anche il terrore di dire le cose come stavano; non avere niente da nascondere era l'unico sollievo, il rumore statico che lo teneva lontano da un richiamo più profondo, intelleggibile — quello del passato, della foresta, di un retaggio che il Vibe aveva deciso con tutte le sue forze di ignorare.
    per quanto, non era dato saperlo.

    imagine dragons
    bones
    I-I-I got this feeling,
    yeah, you know Where I'm
    losing all control
    'Cause there's
    magic in my bones
    check v.gifs cr.playlistaesthetic
  8. .
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
    edward moonarie
    34, deadeater, head empty, moon in bastard

    la botta doveva essere stata più forte del previsto.
    il sangue che gli colava denso negli occhi ne era una dimostrazione, ma non era solo quello — i passi incerti, lo sguardo smarrito, le mani a cercare tentoni un muro contro il quale appoggiarsi. il contenuto dello stomaco, rigettato sul marciapiede pochi minuti prima, era solo un lontano ricordo
    come tutto il resto.
    il giovane uomo che barcollava tra i vicoli di dark street era chiaramente Edward Moonarie, e allo stesso tempo non lo era: se gli avessero chiesto in quel momento chi fosse, non avrebbe saputo rispondere. sul come si sentisse, invece, forse qualche idea ce l'aveva, ma la confusione faceva da padrona sul dolore per il colpo subito, e bruciava certamente più del taglio che gli avevano aperto sul lato della testa; probabilmente con una bottiglia rotta, ma anche quel dettaglio era passato in secondo piano. cosi come il motivo che lo aveva spinto nella parte più infima della città, dove difficilmente avrebbe trovato aiuto — si torna sempre dove si è stati bene, dicono.
    tolse il sangue che gli si era incollato alle ciglia, passandovi sopra il dorso della mancina quasi sovrappensiero, senza risolvere assolutamente nulla; il cuore, che mai prima di quel momento lo aveva tradito, ora gli martellava nel petto frullando le sue ali di uccellino spaventato e chiuso in gabbia «sander?» fu poco più che un bisbiglio. interrogativo, sospeso, colmo di speranza e di terrore; incredibile da sentire, se prodotto dalle labbra di Eddie. persino negli occhi grigio verdi, ora troppo grandi sul viso pallido, non c'era alcuna traccia del mangiamorte.
    ma di un ragazzino dal sorriso benevolo, forse si.
    forse qualcosa c'era.
    non che lui potesse rendersene conto, ovviamente; anzi, nel pronunciare quel nome la fronte del giovane si corrugó: non aveva la più pallida idea di chi fosse Sander. eppure «sander, sei qui?» lo ripeté ancora, avvertendo il sapore metallico del sangue sulle labbra, inoltrandosi in un vicolo. uno di quelli dove Edward Moonarie girava spesso senza fregarsene il cazzo dei brutti incontri che avrebbe potuto fare, perché di solito era lui il più brutto degli incontri. non doveva nemmeno ricorrere alla violenza, perché di solito la gente si pentiva anche solo di averlo conosciuto — un potere che Julius (the 4h) Winston nella sua vita non aveva mai provato.
    lui era quello leale, che si faceva in quattro per le persone, sempre allegro qualunque incubo lo tenesse sveglio di notte, con il terrore di non essere adeguato; li dove Eddie ne faceva una scelta di vita: fuori posto, fuori luogo, una cazzo di sanguisuga che avrebbe tranquillamente lasciato morire il proprio compagno di avventure se avesse trovato qualcosa di più divertente da fare.
    e sottolineiamo divertente, non importante.
    che poi il mangiamorte avesse un concetto di divertimento tutto suo, si sapeva.
    persino prendersi una bottigliata a tradimento da un tizio che fino a poco prima stava sdraiato faccia a terra perché lui ce l'aveva sbattuto, poteva essere una deviazione interessante sulla tabella di marcia; prenderle non era mai stato un problema, per Eddie. significava solo che poteva restituirle, con il doppio della kattiveria e un sorriso stampato in faccia. non teneva mai conto delle conseguenze, il Moonarie, e quel giorno forse era giunto il suo momento di pagare pegno.
    «ehi..» cercava di fare suoi gli imput razionali che il corpo gli inviava, odore di immondizia e fumo nelle narici, il muro grezzo ad intaccare i polpastrelli, perché senza quelli era piuttosto sicuro che il suo cuore avrebbe ceduto; non c'era nient'altro al quale potesse aggrapparsi, no thoughts head empty — anche se non proprio, giusto? qualcosa c'era, barlumi di una vita passata che quella attuale aveva spazzato via seppellendoli sotto una scorza impenetrabile di follia e irrazionalità, ma che ora saltavano fuori in modo casuale approfittando di un black-out inaspettato «sei..» c'era qualcuno, nel vicolo.
    qualcuno che Eddie non poteva vedere con chiarezza, troppo sangue ad imperlargli le ciglia, troppo forte la fitta a pulsare nelle tempie.
    si fece incontro alla figura, passi incerti ma fiduciosi: lo era stato sempre, July the Fourth, fino all'ultimo istante «papà?» chiese, tentando di liberarsi dal velo cremesi che colorava il suo mondo di rosso, occhi socchiusi e schiena a premere contro la parete alle sue spalle. era più facile si trattasse di uno spacciatore, visto dove si trovavano, ma perché spezzare così le speranze di un povero ragazzino innocuo, suvvia.


    i've done nothing wrong. except for all the atrocities. besides that I'm innocent.


    CITAZIONE
    prompt: perdi la memoria per 24 ore. ti ritrovi a vagare senza una meta in un luogo che per qualche motivo ti dà delle sensazioni particolari, come se in una vita passata l'avessi percorso — e che in realtà è un posto molto importante del tuo passato (anche recente). senti i pensieri offuscarsi e l'attacchino di panico che arriva come un treno. glhf
  9. .
    Ezra Nott
    CIRUZZO
    Se Ciruzzo avesse potuto vedere il futuro, probabilmente avrebbe sperato de morì prima.
    Anzi, sicuramente lo avrebbe fatto. Fortuna voleva che non gli funzionasse il terzo occhio, perché altrimenti quella serata lo avrebbero mandato dritto in terapia, con un biglietto di sola andata verso la valle di lacrime che avrebbe lui stesso generato.
    Non voleva pensare al futuro, a quella che sarebbe stata l’ultima partita di Paolino allo Stadium, a quello che sarebbe stato il non saluto della dirigenza, di quell’amico che Paolino cercava in tribuna al numero 10 della Juve, a quello che doveva essere – e che aveva sempre voluto essere – l’erede di Del Piero. Perché il 16 maggio quel sogno definitivamente infranto sarebbe stato chiaro agli occhi di tutti.
    L’argentino, anni prima, in una diretta del compagno di squadra Danilo, aveva detto col sorriso che lui era amato dai tifosi della Juve – e non -, le stesse parole che i cronisti sportivi avevano ripetuto mentre il volto distrutto del calciatore passava davanti allo schermo. Quel volto pulito, ancora da bambino, che non riusciva più a trattenere l’emozione per quegli anni trascorsi in bianconero e il dolore per non aver avuto la possibilità di continuare il suo percorso indossando quei colori, quella fascia di capitano che gli spettava di diritto.
    Ciruzzo era cresciuto con Dybala e non avrebbe retto il colpo di quelle immagini. Non lo avrebbe retto nessuno. Tifosi e non. Appassionati di calcio o meno.
    Si sarebbe detto che almeno Dusan e Alvaro erano con lui, che neanche loro volevano abbandonare il prato verde dello Stadium, restando lì da soli, nutrendosi dei ricordi di quello che era stato e delle fantasie di un futuro che non ci sarebbe stato più.
    Certo, Vlahovic si sarebbe buttato su Chicco e sul numero 9 con i cadaveri ancora caldi di Paolino e Alvaro, MA non era questo il punto. Era che Paolino voleva bene a tutti e quel bene prima o poi ritorna sempre.
    Il Nott non ci voleva pensare, non voleva neanche provare a immaginare una Juve senza il suo numero 10, ma quello shot non aveva fatto altro che solletico a quei pensieri che continuavano a vagare senza meta, rivivendo in loop solo alcune immagini di quella ship che avevano deciso di far affondare. Eppure… eppure lui nutriva ancora la speranza che il puledro sarebbe rimasto, perché solo uomini crudeli avrebbero potuto farlo continuare a soffrire così tanto. Perché se fosse tornato Pogba, e fosse rimasto anche Paolino, avrebbero potuto davvero provare a conquistare il mondo.
    Ezra sollevò lo sguardo sulla nuova arrivata solo quando sentì la voce provenire da un punto piuttosto vicino a lui, così fastidiosamente vicino da interrompere il flusso dei suoi pensieri, da far sfumare lungo i bordi quelle immagini che non riusciva a dimenticare.
    “Sei davvero maggiorenne?” Chiese riempiendo il bicchierino che aveva davanti – il suo, non era poi così generoso – e portando il vetro della bottiglia a sfiorargli la pelle del viso, stringendola quasi con fare protettivo – così come avrebbe fatto Dusan con Paolino o, meglio, come avrebbe dovuto fare la Juve per impedire che l’argentino finisse tra le merde infami – ormai conscio che, attirando l’attenzione della serpeverde su di sé, sicuramente questa avrebbe puntato al prezioso liquido che gli faceva compagnia.
    “Non è una festa, Liz Sicuro non l’avrebbe chiamata Imperatrice di sto cazzo per quanto gli riguardava, benché meno quando la ragazza usava il proprio nome “è il primo atto di un funerale.”
    Leccò la pelle prima di prendere del sale e lo posizionò sul dorso della mano, poi scelse accuratamente la fettina di limone da sacrificare sull’altare della tequila. Un sorriso spento si formò sulle labbra del ragazzo, prima di buttare giù il liquido ambrato e concludere l’opera con gli altri due ingredienti, fissando il volto della studentessa.
    “Preferiresti ci fosse altro di lungo?” L'avrebbe capita, eh, ma lo chiese comunque, consapevole di quanto potesse essere squallida quella battuta, ma la verità era che, in quel momento, la sua vita calcistica stava andando a rotoli e il suo ultimo pensiero era quello che avrebbe potuto pensare la sua interlocutrice di lui. Senza contare che era sempre fatta e che difficilmente avrebbe potuto ricordare quella conversazione.
    “Cosa proponi di fare?” Domandò poggiando il fondo del bicchierino sul tavolo, mentre andava indietro con la schiena, poggiandosi contro il muro dietro di lui, la bottiglia ancora al sicuro tra le sue mani, ancora troppo lucido per lasciarla davanti a quella che aveva tutta l’aria di essere una predatrice di alcolici. “E, soprattutto, cosa mi dai in cambio?”
    PIZZA
    CALCIO
    Sanremo
    They ask me: “Why so hot?”
    ‘cause I’m italiano
  10. .
    arms crossed with the attitude, lips pouted
    Non aveva ancora mosso un solo muscolo, e già si pentiva di ogni cosa.
    Serrò la mascella e strinse i pugni, rotolando sulla schiena fino a ritrovarsi a fissare il soffitto dell'area comune di Different Lodge, un braccio piegato sopra la fronte matida di sudore e l'altro a ciondolare pigro oltre il bordo del sofá. Un leggero vociare a qualche passo da lui gli indicò che non era da solo, ma non gli importava: era bravo ad ignorare le persone ― e lo era ancora di più a fingere di non esistere, confondendosi spesso con l'ambiente circostante, facendosi a sua volta ignorare. Con ogni probabilità, se si fosse alzato dal divano e fosse uscito da lì correndo, gli studenti impegnati nelle loro futili chiacchiere non si sarebbero nemmeno voltati nella sua direzione.
    O forse sì, ma solo per domandarsi, confusi, da dove fosse saltato fuori.
    Li guardò solo per un secondo, il viso in direzione del gruppetto assorto e gli occhi stretti in due fessure per mettere a fuoco, inutilmente, le figure sconosciute; poi, annoiato, tornò a guardare il soffitto.
    Voleva alzarsi e andarsene, uscire a prendere una boccata d'aria o, perché no, perdersi nel bosco che circondava il castello fino a lasciarsi alle spalle tutto quanto ― ma non importava quanto lontano scappasse: gli incubi, e il cuore a martellare nel petto, e l'odore di bruciato (di legno bruciato; di tessuto bruciato; di pelle bruciata) l'avrebbero seguito ovunque. Non poteva seminarli, non davvero. Non quando se li portava da anni sulle spalle, e sul petto, come un macigno e una condanna.
    Ci provava costantemente, ma non c'era verso di liberarsene; alcuni giorni, poi, quegli incubi (no, quei ricordi) tornavano con più irruenza del solito.
    E in quei giorni, anche da sveglio, poteva sentire il crepitio delle fiamme che piano piano si allargavano sempre di più, che crescevano intorno a lui gettando sull'arredamento una luce quasi infernale, sfumature di rosso e di giallo e di nero, che creavano giochi d'ombra sinistri e inquietanti; e la voce di sua madre, nell'altra stanza, debole e lontana ma allo stesso tempo vicina, come se ce l'avesse lì accanto, o nella testa; e il fuoco sempre più indomabile, e il crepitio, e le ombre, e quell'odore, e-e-e ― con un gesto secco della mano, spense il fuoco del camino davanti al quale il gruppetto di studenti si era riunito; quelli si lasciarono sfuggire qualche verso di sorpresa, e di fastidio ― ma soprattutto la prima, notando ora per la prima volta la figura di Hans distesa sul divano.
    Qualcuno suggerì, saggiamente, di andare via e continuare il loro blaterare inutile in uno dei dormitori.
    Rimasto solo, il pirocineta provò a chiudere nuovamente gli occhi nella speranza, quella volta, di piombare in un sonno senza incubi e dal quale difficilmente sarebbe uscito riposato, ma quanto meno gli dava la scusa (ammesso che avesse davvero bisogno di trovarne una) per evitare ancora un po' il mondo reale. E le persone che lo abitavano.
    Un tentativo che però durò pochi secondi, dopo i quali, con uno sbuffo, Hans prese la coraggiosa decisione di provare a mettersi seduto; non aveva mal di testa (il che era una novità ― stava ancora decidendo se piacevole o meno, si era quasi abituato a convivere con l'emicrania, non averla era strano) ma si prese comunque la testa tra le mani, gomiti poggiati sulle ginocchia e tutto il peso del corpo (poco, c'è da dirlo) gettato in avanti.
    Non voleva essere sveglio.
    Ma non voleva nemmeno dormire.
    In tutta onestà, non lo sapeva nemmeno lui cosa voleva. Sapeva cosa non voleva, ma quello non risolveva i suoi problemi.
    Non voleva trovarsi lì ― libera interpretazione su cosa intendesse con .
    Non voleva affrontare quei ricordi che, all'improvviso, erano cambiati ― no, non cambiati: aveva solo messo a fuoco nuovi dettagli che a lungo aveva ignorato. O che aveva deliberatamente rimosso.
    (Perché ora, perché dopo tutto quel tempo, perché così all'improvviso, perché.)
    Non voleva la sobrietà a cui era stato costretto contro la sua volontà ― e a cui attribuiva, seppur in maniera incoscia, l'arrivo di quei nuovi particolari fino ad allora rimossi.
    Non voleva dover aspettare la prossima uscita ad Hogsmeade, o la prossima lezione di Controllo, per mettere mano su qualche pasticca che potesse porre un fermo (seppur momentaneo) a tutto quello.
    Strinse i pugni, tirando qualche ciocca di capelli, e serrando le labbra: odiava Bri per avergli fatto sparire le sue scorte; odiava se stesso per aver deciso di rinunciare ad un nascondiglio perfettamente perfetto solo per orgoglio; odiava essere rimasto a secco; odiava Tai per non essere più lì (fine) e non potergli rubare, in estremo, qualcuna delle sue preziosissime gocce. Odiava Pentacolo perché ― beh, perché sì, non serviva davvero un motivo.
    Non voleva aspettare altri fottuti giorni per mettere a tacere la voce di sua mamma che gli ripeteva che andava tutto bene, che non c'era bisogno di piangere, che non poteva fare nulla, che non doveva fare nulla, che andava tutto bene, tutto bene, tutto-


    Non andava bene un cazzo.
    A passo moderato (perché svelto richiedeva un livello di forze ed energia che Hans Belby non possedeva.) si diresse verso il castello, cappuccio della felpa calato sulla matassa informe e disordinata che erano i suoi capelli, entrambe le mani affondate nella maxi tasca disperatamente vuota: non era abituato a non avere niente con sé, nemmeno una mezza pastiglia d'emergenza ― si sentiva vuoto. Perso. E l'unico obiettivo nella sua mente, in quel momento, era arrivare alla meta e sperare di fare jackpot: era sicuro al novantotto percento che il custode aveva confiscato qualche tipo di droga a qualcuno... prima o poi. Nella storia di Hogwarts. O, quanto meno, nell'indefinito tempo in cui era stato custode ― dettaglio sconosciuto per il Belby, a cui non interessavano le lezioni figurarsi sapere quando veniva assunto nuovo staff scolastico. Gli andava bene anche di trovare roba confiscata dai suoi predecessori, davvero, non gli interessa nulla: voleva solo farsi qualche ora di sonno in fottuta tranquillità.
    Una volta arrivato davanti alla porta dell'ufficio del custode, bussò un paio di volte perché poteva pur essere delirante e in preda all'astinenza, ma non era uno sprovveduto: aveva ancora un briciolo di lucidità (discutibile) a suggerirgli di assicurarsi non ci fosse nessuno, per non farsi beccare, sapete, cose così.
    Attese in silenzio una risposta, ma non ricevendone alcuna tentò di girare la maniglia, non aspettandosi davvero che cedesse al primo tentativo.
    Okay.
    Infilò prima la faccia, guardandosi intorno, e dopo essersi accertato che lo sgabuzzino fosse vuoto, scivolò dentro socchiudendo la porta alle sue spalle.
    Forse Hogwarts doveva investire di più nel proprio staff, perché quello attuale lasciava alquanto a desiderare: guardie della security che fumavano canne in aule in disuso, custodi che lasciavano incustoditi i propri uffici... insomma. Ad essere del tutto onesti, stava solo facendo un favore al Ministero mettendo in luce tutte quelle negligenze.
    Abbassando il cappuccio per non limitare la visuale, si avvicinò alla scrivania, veloce (ma non troppo) a mettere le mani su qualcosa (qualsiasi cosa.) e tornare al dormitorio il più in fretta possibile; per poco non gli scappò una risata (!!) nel notare la busta di pasticche bianche ad aspettarlo sul tavolo.
    Era stato troppo facile.
    E se fosse stato un pelino meno disperato, forse, si sarebbe reso conto di quanto troppo fosse quel troppo. Ma non lo era, e la sua mente era chiusa su una sola missione che ormai era a tanto così dal completare, e non riusciva a vedere altro.
    Le dita della mancina si strinsero intorno alla busta trasparente, mentre con la mano libera andava a pescare una delle pastiglie; non aveva idea di cosa facessero, ma era disposto a scoprirlo pur di avere una notte di tregua dagli incubi e dai ricordi; avrebbe accettato qualsiasi effetto collaterale.
    Studiò quanto trovato per qualche istante, iridi così chiare da risultare quasi trasparenti, cercando di immaginare possibili effetti senza nemmeno avvicinarsi anche solo lontanamente alla realtà ― istanti che furono fatali al suo infallibile (ah sì?) piano.
    «ma sei serio»
    Purtroppo per lui: . Sempre, in tutto quello che (non) diceva e (non) faceva. Era serio anche nel modo in cui roteò gli occhi verso un nuovo piano astrale, prima di portarsi la pastiglia alle labbra e posizionarla sotto la lingua. Vaffanculo, tanto che aveva da perdere.
    (La dignità, ma per perderla avrebbe dovuto prima averla, quindi insomma.)
    Fece un respiro profondo prima di posare, con una lentezza estrema e logorante, la busta di pasticche laddove l'aveva trovata, con una precisione quasi millimetrica; poi si voltò, sempre lentamente, verso il custode.
    «Sì.» Non che non fosse vero, l'avevamo già stabilito, ma lo trovò comunque: strano. Non aveva avuto intenzione di parlare, solo di sfidare l'altro ad una gara di sguardi in attesa della decisione finale su come punire quell'infrazione. Infrazioni, multiple: il coprifuoco era passato da un pezzo, aveva fatto irruzione nell'ufficio, stava rubando droga, si era calato una pasticca davanti ad un adulto ― adulto, poi. A guardarlo poteva essere scambiato per uno studente.
    Eppure aveva risposto. Per qualche ragione (che Hans avrebbe attribuito alla stanchezza di una mente che non si concedeva un sonno decente da giorni) aveva risposto. Nulla gli impediva, a quel punto, di serrare comunque la mascella e rivolgere all'altro il suo solito sguardo impassibile e distante, il mondo a scivolargli sempre addosso senza lasciare mai traccia del suo passaggio; non lo preoccupavano le conseguenze, né tantomeno lo spaventavano ― erano altre le cose che lasciavano il segno su di lui, e raramente rientravano nella sfera delle cose tangibili come le punizioni e le torture.
    sleeping at last
    nine
    But I'm just trying to find myself
    through someone else's eyes;
    so show me what to do
    to restart this heart of mine.
    How do I forgive myself
    for losing so much time?
    hans b.gifs cr.playlistaesthetic
  11. .

    ageheight
    16
    189cm
    yearnationality
    v
    eng
    kaz
    oh
    battitore / ivorbone
    «sembri triste. sei triste?» Curvó le spalle, chinandosi per cercare di osservare il volto del battitore avversario. L'aveva cercato per due motivi: in primis, per farlo sentire in colpa («lo so che per te sono solo un lavoro, visto che sono special e tu Wannabe legionario, e non ti importa davvero di me né mi vuoi bene veramente, ma.....»), e come bonus, per dirgli di non mirare alla faccia perché ci viveva, con quella faccia, e le foto che stampava e regalava per Natale ai suoi amici non avrebbero avuto lo stesso 🍋gusto🍋 se avesse avuto cicatrici evidenti o, dio ce ne scampasse, il naso storto. Stavano per giocare!! La finale!! Per terzo e quarto posto!! Ne avevano parlato così tanto nei mesi precedenti, che Kaz aveva inventato una stretta di mano segreta ed a distanza con i suoi batti-buddies. Quel muso lungo era ... inaspettato. Allungò un dito, premendolo in mezzo alle sopracciglia corrucciate del Corvonero.
    «no», mentí.
    «vuoi un abbraccio?» Allargò le braccia, sorridendo entusiasta. OVVIAMENTE KAZ ERA FELICE!!! JONI PEETZAH AVEVA DA POCO AMMESSO FOSSERO AMICI, IL PROM SI AVVICINAVA E LE DEPARK SAREBBERO ANDATE INSIEME PERCHÉ AVEVA (aveva?) UN PIANO DI RISERVA SE FOSSERO STATE COSI BABBACHIOTTE DA NON CHIEDERSELO A VICENDA!!!! E CLAY GLI AVEVA PROMESSO CHE GLI AVREBBE FATTO UNA PROMPOSE DA PAURA (erano d'accordo sul fatto che l'avrebbe rifiutato, sapeva che volesse andare con val. Lo accettava. Semplicemente, la priorità doveva essere lui, mica chiedeva troppo) NULLA POTEVA ANDARE STORTO!!!
    «preferirei di no. se non è un problema?»
    Per chi l'aveva preso!!!
    (certo che era un problema) Boundaries, man. Rispetto.
    «vuoi un meme? un selfie! un balletto?» tutte tattiche che funzionavano con le sue compagne. Non gli offrì la stessa che donava a Joni nei momenti critici, ovverosia il suo silenzio, solo perché non gli piaceva, e non gli importava abbastanza da sacrificare il proprio benessere psicofisico per il suo. «chi ti ha fatto del male . chi devo» picchiare? Kaz Oh? Andiamo. «criticare per com'è vestito e lo stato di pelle e capelli» in quello era bravo.
    Mac si fermò, e Kaz pure.
    «h mio dio........» si chinò maggiormente, quasi premendo la faccia contro la sua. «sei...» riconosceva quell'espressione. Sospirò drammatico, mano davanti alla bocca. «aRrAbBiaTo?»

    «ma la mia scopa è sicura contro i fulmini...? Zac? KYLE?? KYLE LA MIA SCOPA È SICURA CONTRO I FULMINI -» Niente. L'avrebbe scoperto quando fosse stato troppo tardi. Gli importava? (si) No, perché i temporali erano aesthetic. Si sentiva: Zeus. Si sentiva: Scooby Doo. Si sentiva: qualcosa di epico con musica di violino in sottofondo.
    «imagine this:» bisbigliò (urlò) volando nei pressi di Dylan, lo sguardo sulle compagne in volo poco distanze.
    «la pioggia» c'era.
    «i capelli sulla fronte» c'erano.
    «le mani fredde» check.
    Piegò medio ed anulare per formare metà cuore, avvicinandole alle dita della Kane per inquadrare Thor e Sana.
    «OH»
    «oh a chi euuu ho un nome»
    Joni, deadpan: «oh. oh è il tuo nome»
    Ah già. «VEEERO. vado ciao a dopo» il gossip a dopo, prima le palle. Era pronto!! Caldissimo!!! Mazza agitata nell'aria mentre salutava i suoi amici (nessuno? esatto) Corvonero!! E mentre era lì, le mani alzate al cielo, qualcosa si appoggiò al suo palmo. Una pluffa?? «PER ME? GRAZIE!! arrossisco, lo vedi?? sto arrossendo non è blush. cutieee» oddio Barry gli aveva regalato una palla LO AMAVA?? «CHI LA VUOLE LA PRENDA» probabilmente non le Tassorosso.




    passa la pliffa!!!!183//
  12. .
    Poteva darsi al giardinaggio.
    Ci pensava più spesso di quanto sarebbe stato lecito aspettarsi da qualcuno incaricato di occuparsi della salute mentale di adolescenti nell’età dello sviluppo, ma ancora non l’avevano licenziato, quindi immaginava che andasse bene anche così – o che a nessuno importasse. Si permise di corrugare solo lievemente le sopracciglia, mantenendo l’espressione più neutra possibile; date le circostanze, immaginava che quella - confusa, principalmente – funzionasse alla grande. «e quindi perché l’hai accoltellato?» La ragazzina, un ginocchio raccolto al petto e le mani intrecciate su di esso, sbuffò sonoramente. «non l’ho “accoltellato”» Mimò le virgolette nell’aria. «io ho lanciato un coltellino. Lui c’è finito in mezzo. Come può essere colpa mia se Paul non guarda dove cammina? duh» La Corvonero roteò gli occhi al soffitto con tale sdegno ed ovvietà, che per un istante Stiles pensò che avesse ragione. Poi si ricordò che non ci fosse un buon motivo in generale per lanciare coltellini al nulla, e tornò alla sua espressione corrucciata. «potevi fargli molto male» tentò conciliante, perché - poteva darsi al giardinaggio - c’erano situazioni per la quale era piuttosto certo che non sarebbe mai stato adeguatamente preparato. Per quanto quella in particolare fosse abbastanza comune in quel di Hogwarts, per qualche motivo continuava a stupirlo. «se avessi voluto fargli male, l’avrei fatto.» E lo osservò con grandi, piatti, occhi scuri e vuoti.
    ALL TEENAGERS SCARE THE LIVIN’ SHIT OUT OF ME.
    D’improvviso, Bennett Meisner gli sorrise, tutta fossette e tenerezza.
    Forse non era troppo tardi. Poteva iniziare con qualche Ficus, la leggenda narrava fossero abbastanza resilienti.
    «sto skee, rilassati»
    «haha»
    Nessuno dei due rise.
    Chissà cosa si aspettavano facesse, in circostanze simili. Doveva incentivarla a migliorare la sua mira? Doveva dissuaderla dal ripetersi? Era difficile comprendere quale fosse il suo ruolo, considerando che la sentenza cambiava a seconda dello studente difficile in esame. Se fosse stato un altro mago a fare la stessa cosa, qualcuno dal cognome storicamente più importante ed un lignaggio di platino, non l’avrebbero mandato da lui. E se, se, il pianto del ragazzino infortunato non avesse attirato l’attenzione di Maeve Winston ma, diciamo, Anjelika Fuckin Queen, Bennett sarebbe stata spedita in sala delle torture senza passare dal via.
    Quindi.
    Stiles.
    Mh.
    «quindi è un caso che fosse paul e non qualcun altro» Almeno su quello poteva indagare. Ricordava un tempo in cui le dinamiche fra le file di Hogwarts erano state più precise e nette, e non una soap opera sudamericana senza sottotitoli, ma ahimè, bisognava adattarsi ai tempi e rendersi conto di non capire più un cazzo di quanto succedesse fra i ragazzi. Murphy ci provava ad aggiornarlo; perfino Amalie, ogni tanto, gli passava bigliettini ricordandogli chi fosse chi, di chi fosse amico, quali fossero le ship war in corso, eccetera eccetera, ma niente. Stiles era confuso come un qualunque utente appena approdato sull’oblivion. Ben era...amica...di Paul…? Avevano… precedenti….? Doveva… doveva preoccuparsi? Si annotò sul quadernetto di chiedere alle sue assistenti, magari (sicuro.) erano più informate di lui.
    «totale» La Corvonero fece spallucce.
    Stiles la osservò un paio di secondi senza battere ciglio, ma non servì ad incrinare l’ampio sorriso della ragazzina. Sembrava così…. Innocente. Pura, con quel cappellino arancio fluo che era piuttosto certo non fosse ammesso dal codice d’abbigliamento, i disegnini in penna sulle mani, e lo smalto sbeccato. Una bambina.
    Che accoltellava - «accidentalmente!!» - concasati.
    «posso andare ora?»
    No. Sì.
    Non lo so.
    «chiedi scusa a paul» che altro poteva dirle? Quella rise come se avesse detto la battuta più divertente del secolo, ed al suo cenno di congedo, fece il giro attorno alla scrivania e, malgrado Stiles temette per la sua vita ed i suoi reni, gli stampò un baciò sulla guancia salutandolo con uno sfarfallio di dita. Non dico che quando aprì la porta per andarsene tirò un sospiro di sollievo, ma non lo nego neanche.
    «CIAO COACH»
    Mission abort. MISSION ABORT. «coach?» strozzò a bassa voce, appiattendosi sulla scrivania per nascondersi dietro il portapenne come il venticinquenne maturo che era.
    (Quando vi chiederete: ma perché Barbie è così. Ma perché Zac è così. Ma perché Mac è così, ricordate questo momento.)
    «disturbo?»
    Mai.
    Sempre.
    Aveva ancora una guancia appiattita sulla scrivania, quando alzò lo sguardo su Jeremy Milkobitch. Annuì distrattamente, chiedendosi – non per la prima volta – perché non potesse essere normale, valutando mentalmente
    (dove potesse fuggire. se volesse farlo)
    quale potesse essere il motivo di quella visita. Cioè… non che avesse bisogno di un motivo, ma se ci fosse stato?
    «cioè, no» Sollevò la testa, una manciata di glitter - omaggio della brillante, in tutti i sensi, ragazzina che l’aveva appena abbandonato - appiccicati alla pelle come un qualsiasi personaggio di Euphoria. «nel senso che non disturbi. Non c’è nessuno» ma a scanso di equivoci (QUALI STILES. MA QUALI) controllò anche sotto la scrivania, perché non si sapeva mai. «solo io. Nel mio ufficio. haha» troppo divertente, chi l’avrebbe mai detto, sconvolgente. Non aveva affatto reso la situazione non necessariamente imbarazzante, STILES? QUANDO MAI! «odio i bambini.» Lui – uh. Lo squadrò interrogativo, osservandolo prendere posto di fronte a sé e non sentendo affatto il cuore perdere qualche battito perché sarebbe stato stupido e patetico. Gli occhi di Stiles scivolarono involontariamente sulla porta chiusa alle spalle di Jeremy, prima di tornare su di lui. «ti giuro, a volte vorrei prendere le loro testoline, e...» Seguì il movimento delle statuette con una certa morbosa curiosità, e corrugò le sopracciglia. «ti succede mai?» «sarò onesto con te:» forse per la prima volta dopo mesi X D «no.» Poi ci pensò un attimo, e si corresse, abbassando il tono di voce perché non credeva ci fossero cimici a spiarlo, ma poteva esserne sicuro? No. «qualche volta» un lieve sorriso ad increspare le labbra, le spalle a scuotersi. Dai, chi poteva lavorare ad Hogwarts senza voler picchiare qualcuno? Perfino Nah, ne era certo!!!, aveva i suoi momenti. «comunque...questa credo sia roba tua,» Stiles prese fra le mani il plico di lettere, battendo rapido le ciglia. Cosa – perché. IL SUO ABBONAMENTO A FOCUS!! ALLORA NON L’AVEVANO TRUFFATO!! «continuo a trovarla sotto la porta del mio ufficio, sai perché?» Spostò occhi spalancati sul suo interlocutore, bocca socchiusa in sospresa. «come faccio a sapere perché non mi arrivano lettere, che non sapevo mi dovessero arrivare, alla tua – oh.» Si bloccò di scatto, mettendo a fuoco uno dei mittenti.
    Una busta bianca.
    Senza francobollo. Senza indirizzo. Ma firmata dal mittente, con anche un cuoricino disegnato sopra. Oh. Mio. Dio. Prima impallidì, poi arrossì, poi ebbe un picco di adrenalina che gli mandò la pressione alle stelle, e temette di dover chiamare Dakota nell’altra stanza per un CENTODICIOTTO al fly. «no. Assolutamente nessuna idea. Uhuh. Zero assoluto. figurati» le infilò nel cassetto della scrivania, guardando ovunque eccetto che Jeremy. Con che coraggio poteva guardarlo in faccia, conscio che la sua ex assistente infilasse delle lettere assolutamente random sotto la sua porta in qualche assurdo e malefico metodo di matchmaking (Meh aveva una brutta influenza su Erin, ma non la peggiore: almeno non l’avevano ancora rapito.
    Che lui sapesse.
    (Losers, avete rapito Jeremy???)
    «la tua porta è più vicina della mia»MA IN CHE SENSO CHE SIGNIFICA.
    Non avrebbe elaborato.
    «come va?»
    Aprì la bocca per rispondere in automatico bene, la tua?, ma era un convenevole che dopo tutto quello che avevano passato, non si meritavano. La richiuse, interrogandosi sinceramente sul quesito. Immaginava che mi manchi e mi manchiamo non fossero carte pronte ad essere scoperte, in quel momento o mai nella vita. Anzichè rispondere a voce, riaprì il cassetto e vi frugò fino a trovare un dischetto di metallo, che fece scivolare fino al Milkobitch. «due anni qualche settimana fa» c’era un certo orgoglio, nel tono di un sobrio Andrew Stilinski, del tutto legittimo, ed una parte di vergogna che tendeva a mostrare a meno persone. Un rammarico che offriva a Jess ed Elijah, perché c’erano dentro insieme; a Dakota e Jay, perchè c’erano stati, ed a Connor, perché meritava di sapere anche quello, di lui. «sto ... sto bene» Era sincero e morbido, timido e fragile, il sorriso di Stiles, però c’era. «e tu? Infanticidi a parte» e visto che non ce la poteva fare a non fare quella domanda, perché aveva le sue fonti ma doveva sapere, e doveva fare in modo che lui sapesse che voleva sapere, ma senza renderlo ovvio perché (niente senza motivo. Solo perché era stupido) si schiarì la voce e sistemò distratto i fogli di fronte a sé. «carico per la hot BOI SUMMER?» Ammiccò perfino.
    Voleva morire.
    (Di nuovo)
    But maybe I'm the worst,
    the worst you ever had
    Tell you you're beautiful,
    then stab you in the back

    psicomago
    25 anni?!?!?
    i wish i was normal
    andrew stilinski
    0:31
    3:11
    @ my worst, blackbear
  13. .
    arms crossed with the attitude, lips pouted
    la giornata di check non era cominciata nel migliore dei modi, ma d'altronde non lo faceva mai. aveva sempre un buon motivo per alzarsi dal letto con il piede sbagliato, il Vibe, e nella maggior parte dei casi l'effetto della luna piena non c'entrava assolutamente nulla; il suo malumore era cronico, radicato in profondità, impossibile da estirpare. resistere alla trasformazione aggiungeva qualcosa di fisico — la sensazione fantasma di ossa spezzate e ricomposte, ma nulla di più.
    si sentiva costantemente fuori posto, appena sfasato rispetto alla frequenza del mondo che lo circondava; bastava quel poco a fargli accumulare quantità insopportabili di energia negativa che sin da bambino non era mai stato capace di scaricare a terra. se la portava appresso, perché era più facile, e la riversava addosso a chi gli stava sul cazzo — o a quelli che amava, perché era più semplice.
    ma era anche l'unico modo che conosceva.
    fosse stato in grado di comportarsi una persona normale, come sua madre (nemmeno tanto) segretamente aveva sempre desiderato, avrebbe potuto dire a suo fratello che gli voleva bene, invece di dimostrarlo picchiando i bulli che si prendevano gioco di lui; avvicinare gli altri, invece di spingere, spingere spingere— but we can't all be neurotypical, Karen.
    «manda giù, Rimbausen, non ho tutta la sera» anche perché mancava un'ora al coprifuoco e check non voleva certo essere la scusa dei marmocchi per fare tardi «veramente sarebbe Mausen, Thomas Ma-» check non disse nulla, ma il quattordicenne smise comunque di parlare — good for him. apprezzava sempre, il Vibe, quando quei ragazzini sudaticci capivano le cose facendosi bastare un'occhiata; a tratti mostravano barlumi di intelligenza davvero inaspettata «giú.» e quello glup, mandò giù la pillola che check gli aveva premuto proprio nel centro del palmo, non droga sintetica ma qualcosa di decisamente peggiore: veritaserum.
    la piaga degli introversi, il terrore di tutti i bugiardi, l'incubo di qualunque adolescente brufoloso (e, come check aveva avuto modo di scoprire in quei mesi a Hogwarts, ce n'erano davvero tanti).
    «ecco, bravo, visto che ce l'hai fatta?» appoggiò il mento sulle mani intrecciate, sporgendosi in avanti mentre il ragazzino gli ciondolava di fronte dritto come un'asta di bandiera; o uno che sta per farsela addosso «adesso dimmi, Rimbausen, hai presente mio fratello Mood Bigh? » quello annuí, con un'espressione vagamente ebete sul volto «ottimo. gli hai mai dato fastidio? hai intenzione di dargli fastidio in futuro? ce l'hai con lui per qualche kotivo?» gli fece una domanda dopo l'altra, senza fretta, e ogni volta che riceveva un no come risposta, check lo segnava su un quadernetto: il nome di Rimbausen finì nella colonna di destra, quelli che non doveva menare «te la sei cavata bene, continua così» non che a check fregasse qualcosa, del povero Thomas.
    se gli avesse risposto in un altro modo, se avesse ammesso di fare il bullo con Mood, il Vibe lo avrebbe capito; cavolo, gli avrebbe anche fatto i complimenti con tanto di pacca amichevole sulla spalla, prima di ficcargli la testa in un gabinetto. perché suo fratello era una gran rottura di palle, una zecca pruriginosa che non conosceva limiti di stupidità e fastidio, ma era suo fratello, e nessuno poteva osare torcergli un capelli senza che check ripagasse il conto in sospeso: la lista di quelli che ci provavano comunque, a dispetto della concreta possibilità di prendersi un sacco di botte era (come prevedibile) lunga.
    mandò via il ragazzino con gesto svogliato della mano, prima di accasciarsi sulla seggiola: gli avevano concesso un /ufficio/ che pareva più il ripostiglio delle scope (quelle babbane), ma check lo aveva reso confortevole e pratico con un piccolo tavolino, un paio di sedie, la sua collezione di coltellini esposta nella bacheca appesa alle sue spalle — un monito per chi entrava li dentro, un modo di sentirsi a casa per lui. quando si alzò, dopo un paio di minuti necessari a controllare il successivo nome nella sua lista di sospettati (lo erano tutti, praticamente), il Vibe non si diede peso di chiudere la porta dello stanzino, pur lasciando il sacchetto di plastica trasparente con le pasticche in bella vista: nessuno avrebbe messo piede li dentro sapendo di poter essere beccato.
    ma poi chi poteva essere così scemo da mettersi in bocca una pastiglia di origine sconosciuta trovata nell'ufficio del custode? eh.
    «ma sei serio» fu tutto quello che disse, al suo ritorno, trovando accanto alla scrivania un ospite non invitato e certo indesiderato, il sacchetto trasparente tra le mani — doveva averla scambiata per droga, pasticchette come quelle che di tanto in tanto Check sequestrava ai (vecchi) ragazzi piu grandi per il solo gusto di farlo: aveva già i suoi problemi senza calarsi alcun tipo di acido, il diciannovenne.
    e probabilmente valeva lo stesso anche per Hans Belby, solo che nessuno glielo aveva mai detto.

    imagine dragons
    bones
    I-I-I got this feeling,
    yeah, you know Where I'm
    losing all control
    'Cause there's
    magic in my bones
    check v.gifs cr.playlistaesthetic


    CIAO SOCC SCUSA SOCC! ❤
  14. .


    Cosa succede se abbini il malumore ad una non sana dose di ecstasy?
    Lizzie era l’evidente esperimento di quell’accoppiata.
    Spesso, sempre, le persone guardandola pensavano che il suo ossigenarsi i capelli le avesse bruciato il cervello, insomma non era da tutti andarsene in giro con infinite bustine di essenza rosa d’Ibiza in borsa come se fosse zucchero da mettere nel tè (spoiler: lo usa davvero così), ma nonostante ciò Lizzie non era affatto stupida; piuttosto nel suo caso valeva la regola ”Altissima, Biondissima, Fattissima”, infatti non ricordava un momento nelle ultime settimane, negli ultimi mesi, in cui fosse lucida, quando lo era, quelle brevissime volte, era perennemente depressa.
    Preferiva di gran lunga l’essere fatta alla depressione: vestirsi di lustrini rosa shocking non era lo stesso senza una buona dose di euforia; senza quella polverina magica che assumeva, inoltre, Lizzie diventava semplicemente… Lissette.
    Era una cosa brutta? Ovviamente si.
    Lissette non era divertente, sfrenata, colorata come Lizzie, era maledettamente normale, e non le piaceva per nulla.
    «Mierda» imprecazione sussurrata dopo aver sbattuto il fianco contro un qualcosa di non definito, la mano dalle unghie lunghe e fluorescenti andò a toccare il punto dolente, stava iniziando a girarle la testa e ciò voleva dire solo una cosa: doveva prenderne ancora.
    Si era recata in cucina perché le sue pillole non andavano mai prese da sobri (tipo le controindicazioni che dicono: non prendere a stomaco vuoto!, ecco queste non vanno prese da sobri), quindi le serviva almeno un po’ di tasso alcolemico nel sangue, si sarebbe accontentata anche del vino se proprio non avesse trovato lo champagne.
    «Senti tu…» rivolse uno sguardo ad uno degli elfi domestici che le dedicò la sua attenzione «Si, proprio tu, baby: potresti portarmi qualcosa con cui possa deglutire le mie medicine?» poggiò il sacchetto trasparente sul tavolo, all’interno tre pillole di un rosa sgargiante.
    «Qualcosa di alcolico preferibilmente, giuro che sono maggiorenne»
    Il concetto venne enfatizzato con un’espressione angelica e le mani alzate in segno di resa, ma quando l’elfo iniziò a sudare freddo e a blaterare qualcosa sul non poter dare sostanze alcoliche agli studenti, Lizzie sbuffò guardandosi finalmente intorno.
    E… Oh My God. Cosa vedevano i suoi fantastici occhi.
    «Ma guarda guarda, qualcuno fa festa senza Liz.»
    Se Maometto non va dalla montagna…
    «Che ne dici di condividere? si posizionò di fronte al grifondoro e poggiò le mani sul tavolo. «Magari ti si leva questo muso lungo che hai.»
    Cioè beveva tequila, era l’alcolico da festa per eccellenza!
    Ci voleva un po’ di allegria, Buon Dio, o quello sarebbe stato davvero tanto buon alcol sprecato per della stupida tristezza.


    Man, I feel like Cleopatra, Joan of Arc, Queen of Hearts, yeah Tonight it’s only me that matters Oh, you on that feminist tip? Hell yeah, I am

    18 y.o.
    Slytherin.
    Cheerleader, maybe.
    Lissette Lizzie Monrique
    0:18
    2:34
    Wasabi, Little Mix


    Edited by Empress. - 5/6/2022, 03:14
  15. .
    Ezra Nott
    CIRUZZO
    Non aveva sentito il triplice fischio.
    In realtà non aveva più sentito nulla dopo l’esultanza al 75esimo.
    Era rimasto con la mente lì, cristallizzata in quel momento preciso in cui Vlahovic, si è girato apposta per abbracciare Paolo, il braccio teso nella sua direzione. E Paolo non se lo fa ripetere due volte: sfruttando ancora la velocità dell’azione, corre incontro a Dusan, rallentando appena verso la fine, ma solo per prendere meglio le misure e saltargli in braccio, le gambe strette attorno alla vita del serbo, come a non volersi staccare più. Tutto sotto gli occhi di un attonito Danilo, terzo incomodo di quello che era soltanto il preludio di quanto sarebbe accaduto qualche istante dopo. Perché i compagni accorrono, accorrono tutti attorno al piccolo gigante, con Dybala ancora aggrappato a lui. Dusan esulta con la mano, il volto ormai scomparso nell’incavo del collo dell’argentino. L’abbraccio continua, sembra che il loro momento sia passato e invece… invece Vlahovic si gira e cinge con le mani il volto del maggiore, fronte contro fronte e gli dice qualcosa, quel tanto che basta a rompere Paolino, a spingerlo a stringere le mani prima attorno al busto del suo baby e poi dietro al collo. Le dita di una mano stringono la maglia del più piccolo, che continua a sussurrargli cose, mentre l’altra gli sfiora leggermente il capo.
    Continuano ad abbracciarsi, gli occhi pieni di lacrime e dolore. Lo stesso che colpisce Dusan quando ormai ha capito che questi sono gli ultimi momenti insieme, gli ultimi passaggi, gli ultimi palloni giocati insieme. Lo si vede da come porta la mano sugli occhi, dalla disperazione di quel gesto, da come continua a stringere Paolo a sé.
    C’è chi in quell’abbraccio ha visto la fine di una storia d’amore e chi mente.
    Ciruzzo era lì, gli occhi umidi incollati allo schermo del bar dello sport, ancora in piedi per quell’esultanza che aveva avuto il più amaro dei retrogusti. Non avrebbe mai dimenticato il momento in cui sentì il suo cuore spezzarsi e andare inesorabilmente in frantumi.
    Non parlò, non finì la birra che aveva ordinato pochi minuti prima, non reagì a nessuna delle provocazioni. Percepì a stento la mano di Gigio sulla schiena, quell’unico stimolo esterno che gli fece capire che stavano rientrando al Castello.
    Doveva essere felice per quella vittoria, eppure non provava nulla. Nulla che non fosse un dolore sordo che dal petto si propagava in ogni cellula del suo corpo.
    Il Grifondoro non era mai stato uno di quei tifosi alla Lollo, non sarebbe mai morto per la sua squadra del cuore; era più un estimatore di quello sport, guardava tutte le partite in compagnia dei cugini e man mano allungava la lista dei suoi protetti. Tifava i calciatori e non tanto la loro maglia di appartenenza – tranne l’Inter, l’Inter si odiava e basta – e inutile dire chi aveva, negli ultimi sette anni, occupato il primo posto.
    Una volta tornato al Castello, non sapeva cosa fare: non se la sentiva di tornare in dormitorio con Romolo e Remo, c’era ancora così tanto da metabolizzare che non avrebbe chiuso occhio per tutta la notte, benché meno si sentiva dell’umore di condividere con i due la bottiglia di tequila inconsapevolmente gentilmente offerta da Gin.
    Ciruzzo era consapevole solo di due cose: voleva ubriacarsi e gli servivano sale e limone, un po’ l’evoluzione del latte e miele corretto di nonno quando la notte non riusciva a prendere sonno.
    Una volta aperto il passaggio segreto per le cucine – prima e probabilmente unica cosa che aveva imparato a Hogwarts – si fece luce con la bacchetta verso le credenze per prendere tutto quello che gli serviva per provare a dimenticare e, magari, riuscire ad andare avanti. Spoiler: non lo avrebbe mai fatto.
    Prese posto a un tavolo, uno qualsiasi e, dopo aver affettato il limone e riempito il bicchierino, alzò il braccio verso il cielo, immaginando fosse rivolto verso Torino.
    “A Paulo.”
    E ancora non era la sua ultima partita in bianconero.
    PIZZA
    CALCIO
    Sanremo
    They ask me: “Why so hot?”
    ‘cause I’m italiano
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