don't ask me no questions and I won't tell you no lies

[ @hogwarts | ft. check + hans ]

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    la giornata di check non era cominciata nel migliore dei modi, ma d'altronde non lo faceva mai. aveva sempre un buon motivo per alzarsi dal letto con il piede sbagliato, il Vibe, e nella maggior parte dei casi l'effetto della luna piena non c'entrava assolutamente nulla; il suo malumore era cronico, radicato in profondità, impossibile da estirpare. resistere alla trasformazione aggiungeva qualcosa di fisico — la sensazione fantasma di ossa spezzate e ricomposte, ma nulla di più.
    si sentiva costantemente fuori posto, appena sfasato rispetto alla frequenza del mondo che lo circondava; bastava quel poco a fargli accumulare quantità insopportabili di energia negativa che sin da bambino non era mai stato capace di scaricare a terra. se la portava appresso, perché era più facile, e la riversava addosso a chi gli stava sul cazzo — o a quelli che amava, perché era più semplice.
    ma era anche l'unico modo che conosceva.
    fosse stato in grado di comportarsi una persona normale, come sua madre (nemmeno tanto) segretamente aveva sempre desiderato, avrebbe potuto dire a suo fratello che gli voleva bene, invece di dimostrarlo picchiando i bulli che si prendevano gioco di lui; avvicinare gli altri, invece di spingere, spingere spingere— but we can't all be neurotypical, Karen.
    «manda giù, Rimbausen, non ho tutta la sera» anche perché mancava un'ora al coprifuoco e check non voleva certo essere la scusa dei marmocchi per fare tardi «veramente sarebbe Mausen, Thomas Ma-» check non disse nulla, ma il quattordicenne smise comunque di parlare — good for him. apprezzava sempre, il Vibe, quando quei ragazzini sudaticci capivano le cose facendosi bastare un'occhiata; a tratti mostravano barlumi di intelligenza davvero inaspettata «giú.» e quello glup, mandò giù la pillola che check gli aveva premuto proprio nel centro del palmo, non droga sintetica ma qualcosa di decisamente peggiore: veritaserum.
    la piaga degli introversi, il terrore di tutti i bugiardi, l'incubo di qualunque adolescente brufoloso (e, come check aveva avuto modo di scoprire in quei mesi a Hogwarts, ce n'erano davvero tanti).
    «ecco, bravo, visto che ce l'hai fatta?» appoggiò il mento sulle mani intrecciate, sporgendosi in avanti mentre il ragazzino gli ciondolava di fronte dritto come un'asta di bandiera; o uno che sta per farsela addosso «adesso dimmi, Rimbausen, hai presente mio fratello Mood Bigh? » quello annuí, con un'espressione vagamente ebete sul volto «ottimo. gli hai mai dato fastidio? hai intenzione di dargli fastidio in futuro? ce l'hai con lui per qualche kotivo?» gli fece una domanda dopo l'altra, senza fretta, e ogni volta che riceveva un no come risposta, check lo segnava su un quadernetto: il nome di Rimbausen finì nella colonna di destra, quelli che non doveva menare «te la sei cavata bene, continua così» non che a check fregasse qualcosa, del povero Thomas.
    se gli avesse risposto in un altro modo, se avesse ammesso di fare il bullo con Mood, il Vibe lo avrebbe capito; cavolo, gli avrebbe anche fatto i complimenti con tanto di pacca amichevole sulla spalla, prima di ficcargli la testa in un gabinetto. perché suo fratello era una gran rottura di palle, una zecca pruriginosa che non conosceva limiti di stupidità e fastidio, ma era suo fratello, e nessuno poteva osare torcergli un capelli senza che check ripagasse il conto in sospeso: la lista di quelli che ci provavano comunque, a dispetto della concreta possibilità di prendersi un sacco di botte era (come prevedibile) lunga.
    mandò via il ragazzino con gesto svogliato della mano, prima di accasciarsi sulla seggiola: gli avevano concesso un /ufficio/ che pareva più il ripostiglio delle scope (quelle babbane), ma check lo aveva reso confortevole e pratico con un piccolo tavolino, un paio di sedie, la sua collezione di coltellini esposta nella bacheca appesa alle sue spalle — un monito per chi entrava li dentro, un modo di sentirsi a casa per lui. quando si alzò, dopo un paio di minuti necessari a controllare il successivo nome nella sua lista di sospettati (lo erano tutti, praticamente), il Vibe non si diede peso di chiudere la porta dello stanzino, pur lasciando il sacchetto di plastica trasparente con le pasticche in bella vista: nessuno avrebbe messo piede li dentro sapendo di poter essere beccato.
    ma poi chi poteva essere così scemo da mettersi in bocca una pastiglia di origine sconosciuta trovata nell'ufficio del custode? eh.
    «ma sei serio» fu tutto quello che disse, al suo ritorno, trovando accanto alla scrivania un ospite non invitato e certo indesiderato, il sacchetto trasparente tra le mani — doveva averla scambiata per droga, pasticchette come quelle che di tanto in tanto Check sequestrava ai (vecchi) ragazzi piu grandi per il solo gusto di farlo: aveva già i suoi problemi senza calarsi alcun tipo di acido, il diciannovenne.
    e probabilmente valeva lo stesso anche per Hans Belby, solo che nessuno glielo aveva mai detto.

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    Non aveva ancora mosso un solo muscolo, e già si pentiva di ogni cosa.
    Serrò la mascella e strinse i pugni, rotolando sulla schiena fino a ritrovarsi a fissare il soffitto dell'area comune di Different Lodge, un braccio piegato sopra la fronte matida di sudore e l'altro a ciondolare pigro oltre il bordo del sofá. Un leggero vociare a qualche passo da lui gli indicò che non era da solo, ma non gli importava: era bravo ad ignorare le persone ― e lo era ancora di più a fingere di non esistere, confondendosi spesso con l'ambiente circostante, facendosi a sua volta ignorare. Con ogni probabilità, se si fosse alzato dal divano e fosse uscito da lì correndo, gli studenti impegnati nelle loro futili chiacchiere non si sarebbero nemmeno voltati nella sua direzione.
    O forse sì, ma solo per domandarsi, confusi, da dove fosse saltato fuori.
    Li guardò solo per un secondo, il viso in direzione del gruppetto assorto e gli occhi stretti in due fessure per mettere a fuoco, inutilmente, le figure sconosciute; poi, annoiato, tornò a guardare il soffitto.
    Voleva alzarsi e andarsene, uscire a prendere una boccata d'aria o, perché no, perdersi nel bosco che circondava il castello fino a lasciarsi alle spalle tutto quanto ― ma non importava quanto lontano scappasse: gli incubi, e il cuore a martellare nel petto, e l'odore di bruciato (di legno bruciato; di tessuto bruciato; di pelle bruciata) l'avrebbero seguito ovunque. Non poteva seminarli, non davvero. Non quando se li portava da anni sulle spalle, e sul petto, come un macigno e una condanna.
    Ci provava costantemente, ma non c'era verso di liberarsene; alcuni giorni, poi, quegli incubi (no, quei ricordi) tornavano con più irruenza del solito.
    E in quei giorni, anche da sveglio, poteva sentire il crepitio delle fiamme che piano piano si allargavano sempre di più, che crescevano intorno a lui gettando sull'arredamento una luce quasi infernale, sfumature di rosso e di giallo e di nero, che creavano giochi d'ombra sinistri e inquietanti; e la voce di sua madre, nell'altra stanza, debole e lontana ma allo stesso tempo vicina, come se ce l'avesse lì accanto, o nella testa; e il fuoco sempre più indomabile, e il crepitio, e le ombre, e quell'odore, e-e-e ― con un gesto secco della mano, spense il fuoco del camino davanti al quale il gruppetto di studenti si era riunito; quelli si lasciarono sfuggire qualche verso di sorpresa, e di fastidio ― ma soprattutto la prima, notando ora per la prima volta la figura di Hans distesa sul divano.
    Qualcuno suggerì, saggiamente, di andare via e continuare il loro blaterare inutile in uno dei dormitori.
    Rimasto solo, il pirocineta provò a chiudere nuovamente gli occhi nella speranza, quella volta, di piombare in un sonno senza incubi e dal quale difficilmente sarebbe uscito riposato, ma quanto meno gli dava la scusa (ammesso che avesse davvero bisogno di trovarne una) per evitare ancora un po' il mondo reale. E le persone che lo abitavano.
    Un tentativo che però durò pochi secondi, dopo i quali, con uno sbuffo, Hans prese la coraggiosa decisione di provare a mettersi seduto; non aveva mal di testa (il che era una novità ― stava ancora decidendo se piacevole o meno, si era quasi abituato a convivere con l'emicrania, non averla era strano) ma si prese comunque la testa tra le mani, gomiti poggiati sulle ginocchia e tutto il peso del corpo (poco, c'è da dirlo) gettato in avanti.
    Non voleva essere sveglio.
    Ma non voleva nemmeno dormire.
    In tutta onestà, non lo sapeva nemmeno lui cosa voleva. Sapeva cosa non voleva, ma quello non risolveva i suoi problemi.
    Non voleva trovarsi lì ― libera interpretazione su cosa intendesse con .
    Non voleva affrontare quei ricordi che, all'improvviso, erano cambiati ― no, non cambiati: aveva solo messo a fuoco nuovi dettagli che a lungo aveva ignorato. O che aveva deliberatamente rimosso.
    (Perché ora, perché dopo tutto quel tempo, perché così all'improvviso, perché.)
    Non voleva la sobrietà a cui era stato costretto contro la sua volontà ― e a cui attribuiva, seppur in maniera incoscia, l'arrivo di quei nuovi particolari fino ad allora rimossi.
    Non voleva dover aspettare la prossima uscita ad Hogsmeade, o la prossima lezione di Controllo, per mettere mano su qualche pasticca che potesse porre un fermo (seppur momentaneo) a tutto quello.
    Strinse i pugni, tirando qualche ciocca di capelli, e serrando le labbra: odiava Bri per avergli fatto sparire le sue scorte; odiava se stesso per aver deciso di rinunciare ad un nascondiglio perfettamente perfetto solo per orgoglio; odiava essere rimasto a secco; odiava Tai per non essere più lì (fine) e non potergli rubare, in estremo, qualcuna delle sue preziosissime gocce. Odiava Pentacolo perché ― beh, perché sì, non serviva davvero un motivo.
    Non voleva aspettare altri fottuti giorni per mettere a tacere la voce di sua mamma che gli ripeteva che andava tutto bene, che non c'era bisogno di piangere, che non poteva fare nulla, che non doveva fare nulla, che andava tutto bene, tutto bene, tutto-


    Non andava bene un cazzo.
    A passo moderato (perché svelto richiedeva un livello di forze ed energia che Hans Belby non possedeva.) si diresse verso il castello, cappuccio della felpa calato sulla matassa informe e disordinata che erano i suoi capelli, entrambe le mani affondate nella maxi tasca disperatamente vuota: non era abituato a non avere niente con sé, nemmeno una mezza pastiglia d'emergenza ― si sentiva vuoto. Perso. E l'unico obiettivo nella sua mente, in quel momento, era arrivare alla meta e sperare di fare jackpot: era sicuro al novantotto percento che il custode aveva confiscato qualche tipo di droga a qualcuno... prima o poi. Nella storia di Hogwarts. O, quanto meno, nell'indefinito tempo in cui era stato custode ― dettaglio sconosciuto per il Belby, a cui non interessavano le lezioni figurarsi sapere quando veniva assunto nuovo staff scolastico. Gli andava bene anche di trovare roba confiscata dai suoi predecessori, davvero, non gli interessa nulla: voleva solo farsi qualche ora di sonno in fottuta tranquillità.
    Una volta arrivato davanti alla porta dell'ufficio del custode, bussò un paio di volte perché poteva pur essere delirante e in preda all'astinenza, ma non era uno sprovveduto: aveva ancora un briciolo di lucidità (discutibile) a suggerirgli di assicurarsi non ci fosse nessuno, per non farsi beccare, sapete, cose così.
    Attese in silenzio una risposta, ma non ricevendone alcuna tentò di girare la maniglia, non aspettandosi davvero che cedesse al primo tentativo.
    Okay.
    Infilò prima la faccia, guardandosi intorno, e dopo essersi accertato che lo sgabuzzino fosse vuoto, scivolò dentro socchiudendo la porta alle sue spalle.
    Forse Hogwarts doveva investire di più nel proprio staff, perché quello attuale lasciava alquanto a desiderare: guardie della security che fumavano canne in aule in disuso, custodi che lasciavano incustoditi i propri uffici... insomma. Ad essere del tutto onesti, stava solo facendo un favore al Ministero mettendo in luce tutte quelle negligenze.
    Abbassando il cappuccio per non limitare la visuale, si avvicinò alla scrivania, veloce (ma non troppo) a mettere le mani su qualcosa (qualsiasi cosa.) e tornare al dormitorio il più in fretta possibile; per poco non gli scappò una risata (!!) nel notare la busta di pasticche bianche ad aspettarlo sul tavolo.
    Era stato troppo facile.
    E se fosse stato un pelino meno disperato, forse, si sarebbe reso conto di quanto troppo fosse quel troppo. Ma non lo era, e la sua mente era chiusa su una sola missione che ormai era a tanto così dal completare, e non riusciva a vedere altro.
    Le dita della mancina si strinsero intorno alla busta trasparente, mentre con la mano libera andava a pescare una delle pastiglie; non aveva idea di cosa facessero, ma era disposto a scoprirlo pur di avere una notte di tregua dagli incubi e dai ricordi; avrebbe accettato qualsiasi effetto collaterale.
    Studiò quanto trovato per qualche istante, iridi così chiare da risultare quasi trasparenti, cercando di immaginare possibili effetti senza nemmeno avvicinarsi anche solo lontanamente alla realtà ― istanti che furono fatali al suo infallibile (ah sì?) piano.
    «ma sei serio»
    Purtroppo per lui: . Sempre, in tutto quello che (non) diceva e (non) faceva. Era serio anche nel modo in cui roteò gli occhi verso un nuovo piano astrale, prima di portarsi la pastiglia alle labbra e posizionarla sotto la lingua. Vaffanculo, tanto che aveva da perdere.
    (La dignità, ma per perderla avrebbe dovuto prima averla, quindi insomma.)
    Fece un respiro profondo prima di posare, con una lentezza estrema e logorante, la busta di pasticche laddove l'aveva trovata, con una precisione quasi millimetrica; poi si voltò, sempre lentamente, verso il custode.
    «Sì.» Non che non fosse vero, l'avevamo già stabilito, ma lo trovò comunque: strano. Non aveva avuto intenzione di parlare, solo di sfidare l'altro ad una gara di sguardi in attesa della decisione finale su come punire quell'infrazione. Infrazioni, multiple: il coprifuoco era passato da un pezzo, aveva fatto irruzione nell'ufficio, stava rubando droga, si era calato una pasticca davanti ad un adulto ― adulto, poi. A guardarlo poteva essere scambiato per uno studente.
    Eppure aveva risposto. Per qualche ragione (che Hans avrebbe attribuito alla stanchezza di una mente che non si concedeva un sonno decente da giorni) aveva risposto. Nulla gli impediva, a quel punto, di serrare comunque la mascella e rivolgere all'altro il suo solito sguardo impassibile e distante, il mondo a scivolargli sempre addosso senza lasciare mai traccia del suo passaggio; non lo preoccupavano le conseguenze, né tantomeno lo spaventavano ― erano altre le cose che lasciavano il segno su di lui, e raramente rientravano nella sfera delle cose tangibili come le punizioni e le torture.
    sleeping at last
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    But I'm just trying to find myself
    through someone else's eyes;
    so show me what to do
    to restart this heart of mine.
    How do I forgive myself
    for losing so much time?
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    gli adolescenti erano fottutamente strani.
    check lo sapeva perché era ancora uno di loro, più strano che adolescente — quelli problematici, incapaci a trovare un posto nel mondo, il Vibe li riconosceva a pelle. e non era forse Hans Belby un degno rappresentante della sopracitata categoria?
    a quel , scandito con un velo di sorpresa nella voce, check non poté fare a meno di sorridere; non c'era niente di confortante, nel modo in cui le labbra del giovane si erano piegate all'insù, solo l'amara constatazione di come tra quelle mura i ragazzini sopravvivessero per puro bucio di culo «buon per te» mise piede nell'ufficio, ma invece di scortare fuori lo special e accompagnarlo dal primo professore al quale fare rapporto, il diciannovenne si chiuse la porta alle spalle.
    avrebbe potuto chiamare direttamente la Queen, rallegrarle la serata con una bella sessione di torture fuori programma, ma lui non ci avrebbe guadagnato nulla se non una perdita di tempo e l'impossibilità di controllare se suo fratello avesse già dato fuoco alla sala comune dei Serpeverde.
    «tu sei Belby, giusto?» si sedette sulla sedia, gambe incrociate tra loro e braccia sollevate dietro la testa; non attese la risposta che sarebbe arrivata in ogni caso, volente o nolente, decidendo di proseguire con un sospiro «immagino tu fossi in cerca di droga, ma ti è andata male. la prossima volta eviterei di rubare pasticche random dagli sconosciuti» soprattutto quando c'era un cassetto pieno d'erba contro il quale check stava premendo la suola della scarpa per dondolarsi «mamma non ti ha mai detto che è un buon modo per cacciarsi nei guai? » chiese, inarcando un sopracciglio corvino, le dita affondate nei capelli altrettanto scuri.
    in verità, a check vibe non fregava un cazzo di quello che i genitori di Hans gli avevano o meno insegnato.
    stava solo prendendo tempo in attesa che la pasticca facesse effetto scatenando tutto il suo potenziale; il nome del ragazzo non era sulla sua lista nera di potenziali bambocci cui fare il culo (lista alla quale aveva aggiunto il nome di Adambert Behemoth come monito se mai gli fosse capitata occasione di rivederlo), ma già che era in ballo poteva sfruttare quel contrattempo per ottenere altre informazioni, farsi un quadro più completo. non era forse quello il suo compito principale come custode? (no.) «l'effetto di quella pasticca potrebbe non essere molto piacevole-» ci pensò su per un istante, rimettendo le quattro gambe della sedia a terra «fisicamente, intendo. fossi in te mi metterei seduto» un suggerimento che il Vibe non aveva mai dato agli altri ragazzini, ma forse perché quelli li aveva drogati volontariamente, con uno scopo ben chiaro in mente; se poi a qualcuno veniva la tremarella e piombavano culo a terra dopo aver ingerito la sua versione modificata del veritaserum erano affari loro. con Hans, d'altronde, la questione era un pochino diversa — almeno finché non avesse scoperto che anche lui bullizzava quello stronzetto di Mood, allora le cose potevano cambiare molto rapidamente.
    in meglio o in peggio dipendeva dai punti di vista.
    «e se non vuoi, a me non cambia un cazzo» cosi, molto soft, solo per mettere nero su bianco il concetto. portò entrambe le mani sotto il mento, osservando un Hans ancora più pallido del solito con iridi verde acqua che a cercare lo sguardo altrui non si erano mai fatte problemi «perche sei in giro dopo il coprifuoco, Belby?» a parte l'ovvia ricerca di sostanze stupefacenti, ma questo il custode non lo disse. anche se la pozione spingeva inconsciamente a dire la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità, non voleva dare al ragazzo alcuno spunto per tentare di aggirare l'ostacolo omettendo i dettagli più importanti con una mezza bugia.
    quando lo sguardo di check si spostò da Hans al sacchetto con le pastiglie, non poté fare a meno di pensare a quanto sarebbe stata più complicata la sua vita, se oltre a fare schifo gli avesse donato anche il terrore di dire le cose come stavano; non avere niente da nascondere era l'unico sollievo, il rumore statico che lo teneva lontano da un richiamo più profondo, intelleggibile — quello del passato, della foresta, di un retaggio che il Vibe aveva deciso con tutte le sue forze di ignorare.
    per quanto, non era dato saperlo.

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    Con espressione immutata, il Belby osservò Check sorridere senza compiacimento, un sorriso che non rassicurò lo special (perché non era stato pensato per farlo) né lo fece sperare in una punizione veloce e più che meritata ― d'altronde non sarebbe stata la prima né l'ultima volta per Hans, era un esito inevitabile e al quale aveva saputo di andare incontro già mentre si dirigeva all'interno del castello; un po' l'aveva inconsciamente desiderata. Un modo come un altro per mettere in pausa il mondo esterno, dopotutto.
    Tuttavia, quando lo vide muoversi e spingersi all'interno dello sgabuzzino adibito ad ufficio, Hans pensò per un'istante, scioccamente, di poterne approfittare per sgattaiolare via (come se avesse avuto i riflessi pronti per uno scatto del genere) (o lo sbatti necessario per farlo e darsi alla fuga) e pur realizzando che fosse un'ipotesi stupida, mosse comunque un passo in direzione della porta, ancora bloccata dlala figura del custode.
    Che entrò e chiuse l'uscio alle sue spalle.
    Il Belby si arrestò sul posto, cercando di ridurre ancora di più lo spazio occupato dalla sua esile figura per non scivolare, anche per errore, nello spazio minimo (una distanza di almeno un metro, anche di più se le circostanze lo permettevano) per sentirsi a proprio agio, senza rischiare contatti accidentali. Il fatto che fosse chiuso in quel microscopico ufficio non aiutava la sua claustrofobia, ed era la cosa che più lo preoccupava; non le conseguenze, non il fatto di essere in attesa di processo e giudizio (e possibili punizioni), non gli effetti di quella caramella sconosciuta che aveva ingerito.
    Il battito accelerato del suo cuore era da attribuire solo a quel posto troppo piccolo per i suoi gusti, tanto da farlo sentire confinato e da far schizzare la sua paranoia alle stelle: non avrebbe lasciato che gli si leggesse in faccia, ma non voleva dire che non la provasse.
    «tu sei Belby, giusto?»
    Cercò di non rispondere, stringendo le labbra tra loro e assottigliando lo sguardo vuoto, puntandolo sulla figura rilassata dell'altro, ma un istinto che non avrebbe saputo spiegare, e che non riuscì a frenare, alla fine lo spinse a balterare un altro «sì», un sussurro appena percettibile ma facile da registrare nel silenzio dell'ufficio.
    C'era qualcosa di innaturale nella schiena dritta dello special, nel mento alto e nello sguardo meno distante del solito ― una irritazione che raramente lasciava trapelare sui suoi lineamenti, e che di solito rivolgeva a Bri, o a Pentacolo. Fastidio, nulla di che, ma comunque più del solito niente.
    Era innaturale anche nelle risposte a denti stretti che rifilava all'altro, controvoglia. Dei campanelli d'allarme iniziarono a suonare nella sua testa, ancora troppo provata da notti insonni e un'astinenza forzata; pensò distrattamente che ignorarle non era saggio, che la cosa più giusta sarebbe stata tentare di convincere il custode a lasciarlo andare e così facendo istigarlo a chiamare un professore, farsi dare la punizione, e finirla lì: perdere i sensi a causa di torture gli pareva un buon compresso come rimedio ai suoi problemi.
    Ma prima di poter istigare il Vibe con uno dei suoi tipici commenti caustici e farsi spedire in sala torture, si ritrovò a drizzare ancora un po' la schiena alle parole del mago. «immagino tu fossi in cerca di droga, ma ti è andata male.» e, considerando non fosse una domanda ma una (corretta) supposizione del maggiore, Hans rimase in silenzio, limitandosi a far tornare sul suo viso un'espressione neutrale.
    Non lo ringraziò per il consiglio: era un consiglio stupido, certo che in condizioni normali non si sarebbe spinto a tanto.
    In condizioni normali avrebbe avuto la sua scorta personale da cui attingere e non avrebbe avuto la necessità di spingersi a tanto.
    «mamma non ti ha mai detto che è un buon modo per cacciarsi nei guai?» la verità? No, Freja non aveva mai dovuto rivolgere ai gemelli quel genere di avvertimenti perché aveva levato le tende quando erano dei mocciosetti di otto anni che non avevano la benché minima intenzione di rubare "pasticche random dagli sconosciuti". Indurì lo sguardo, portandolo lontano dalla figura di Check; lontano come la sua mente, improvvisamente di nuovo a Malmö e ad una vita che gli sembrava appartenere ad un'altra persona.
    «No, ma ci diceva di non rubare i giocattoli.» Suo malgrado, si ritrovò a parlare prima ancora di rendersene conto; non accadeva frequentemente ma accadeva, soprattutto quando era molto stanco o provato ― o quando era con i lost kids. Ma non ne vedeva uno nei paraggi, in quel momento, quindi attribuì di nuovo la colpa a quella stanchezza ormai radicata nelle ossa, che ironicamente era anche ciò che lo mandava ancora avanti.
    Serrò comunque la mascella, sentendo altre parole formarsi sulla punta della lingua: non voleva raccontare ad un perfetto sconosciuto che "i guai", nel suo caso, avevano le sembianze di una ragazzina dal viso angelico circondato da trecce bionde e l'indole di un demonio che non si faceva problemi a picchiare il gemello se lui le rubava il suo giocattolo preferito.
    Erano cazzi suoi.
    Per un secondo, dischiudendo le labbra, temette che non sarebbe riuscito a fermare quei ricordi che premevano contro il denti per uscire ed essere condivisi; quando parlò, invece, riuscì a mantenere un briciolo di contengo e a replicare semplicemente con un'altra verità: «ma infondo si può finire nei guai in tanti altri modi» ad Hogwarts, ad esempio, bastava frequentarla.
    Non c'era abbastanza arredamento in quel posto per concentrare le proprie attenzioni ovunque fuorché sul custode, quindi alla fine Hans optò per osservare senza interesse i coltellini appesi alle sue spalle, il respiro a farsi appena più affannato sotto lo sguardo sfacciato e indiscreto del custode ― non gli piaceva essere osservato, tanto meno visto; si nascondeva sotto divise troppo grandi per lui, sotto felpe che potevano vestire almeno altri due Hans oltre l'originale, dietro un'aria di indifferenza che vestiva con disinvolto, e non lo faceva per fare il ribelle, o con lo scopo di attirare le attenzioni per effetto di qualche fottuta e stupidissima psicologia inversa.
    Lo faceva perché voleva essere lasciato in pace.
    Per sua fortunato, almeno, era bravo a non lasciare che le (poche) emozioni (spesso negative) che gli vibravano nel petto si palesassero anche sui lineamenti di un viso apertamente vuoto: per questo riuscì a non esternare la sorpresa mista a curiosità mista a disappunto che sentì nascergli dentro quando Check parlò, informandolo senza essere troppo diretto (o specifico) in cosa si era cacciato.L'occhio cadde comunque sulle pasticche di nuovo al loro posto, e si domandò, stavolta con un pizzico di coinvolgimento, cosa avesse volontariamente accettato di calarsi. Non era la prima volta che si affidava al caso o che mandava giù qualcosa di sconosciuto ― ma nelle occasioni precedenti aveva sempre ricevuto, quanto meno, qualche consiglio dal pusher di turno o parole di (vago) incoraggiamento da conoscenti più fatti di lui.
    Alla fine non rispose al custode, ma il suo non sedersi fu una risposta più che sufficiente.
    «e se non vuoi, a me non cambia un cazzo»
    Hans: usa lo Sguardo Morto™️ dello sticker.
    Per la sua immensa gioia, il Vibe era in vena di chiacchiere. «perche sei in giro dopo il coprifuoco, Belby?» non era ovvio? Inarcò il sopracciglio come una risposta ― e fine: la pastiglia mancante nel bottino sequestrato era la sola risposta che Check avrebbe ricevuto dallo special.
    O, almeno, sarebbe andata così in un qualsiasi altro contesto.
    Di norma Hans avrebbe lasciato che il silenzio sottolineasse la scontatezza della domanda e ancor più della risposta, ma quella sera si ritrovò ad aggiungere, suo malgrado, un «non riuscivo a dormire, e ―» qualcuno, dì qualcuno, «Bri ha fatto sparire la mia scorta» what. in. the. actual. fuck.
    Che poteva essere una risposta banale (oh mio dio, Hans Belby soffre di insonnia e ha una "scorta personale" di droga, che shock) ma era più di quanto Hans avesse piacere di condividere con un perfetto sconosciuto.
    Serrò di nuovo le labbra ― e di nuovo fu troppo tardi. Non importava quanto cercasse di controllarsi, quanto si imponesse silenziosamente di tenere chiusa la bocca: quella sera non il filtro bocca-cervello non sembrava essere attivo, e tutto quello che il Belby pensava, il Belby diceva.
    Una tragedia.
    Era troppo chiedere di collassare lì, su due piedi, e mettere fine a quell'incubo? Il Vibe non aveva forse detto che l'effetto delle pasticche avrebbe potuto essere "non piacevole fisicamente"?!
    Dov'erano gli effetti collaterali promessi?
    Hans odiava chi non manteneva le promesse.
    Non si accorse di aver stretto le labbra tra i denti fino a che non assaporò il sapore metallico del sangue sulla lingua; non mollò la presa, né dischiuse i pugni stretti stretti che nascondeva nella maxi tasca della felpa, cercando di rimanere il più stoico possibile nella sua posizione.
    Ma fallì, alla fine, quando si ritrovò a chiedere, un cenno del capo in direzione delle pasticche e voce così bassa da risultare un sussurro, un «cos'è?» che sapeva di sconfitta. E di rassegnazione.
    Perché sentiva di aver capito, sapeva di aver capito, ma era un INTP e non gli bastava sapere le cose: voleva conferme, voleva la certezza di avere ragione. Anche quando sperava di sbagliare.
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    se Hans gliel'avesse chiesto, non si sarebbe fatto problemi ad ammettere che, , trovava quella parte del suo lavoro stranamente divertente; che si annoiava a morte, tra quelle mura, e torturare un po i ragazzini gli procurava quel tot di distrazione necessaria al suo cervello per non focalizzarsi su quel rumore pulsante in sottofondo.
    lo sentiva di continuo, il vibe, come un cuore estraneo che gli battesse nelle orecchie ad un ritmo lento ma incalzante, cercando di attirarlo a sé — di continuo, tranne che in quei momenti. nel riconoscere lo stupore nelle pieghe sottili del volto pallido che aveva di fronte, il sorriso conciliante di Check si fece più ampio: per chi era abituato a mentire, nascondersi, omettere, il veritaserum poteva essere la peggiore delle torture. non esisteva modo di impedire alla propria voce di uscire, alla verità di abbandonare le labbra e farsi finalmente sentire «tua madre dovrebbe rivedere le sue priorità» commentó, semplicemente, senza aggiungere domande per le quali non gli importava ricevere risposta «e anche tu» si diede una lieve spinta con il piede destro contro la scrivania, allontanando la sedia di qualche centimetro.
    aveva appena detto che non gliene fregava un cazzo se Hans avesse deciso di sedersi o meno, ed era vero, ma se al ragazzo fossero cedute improvvisamente le ginocchia e avesse finito per battere quella sua testina di vitello sul pavimento, allora qualche problema al Vibe l'avrebbe creato — drogare gli studenti pareva pratica comune in quel di Hogwarts, ma ucciderli? solo a lezione «se ti senti svenire cerca almeno di cadere in avanti, non all'indietro» mimó addirittura il gesto, come si fa parlando con i bambini, perché in fondo era quello che credeva di avere davanti a sé: non importava che avessero solo un anno e pochi mesi di differenza, non in quella stanza e certo non in quella specifica situazione.
    l'adulto tra i due era quello che non prendeva pasticche dagli sconosciuti.
    «ma infondo si può finire nei guai in tanti altri modi» check inarcó un sopracciglio; aprì le braccia — ma dai? «pare che tu sia deciso a scoprirli tutti» nemmeno quella era una domanda. ascoltare Hans che sottolineava l'ovvio, a sera inoltrata, non rientrava negli interessi del Vibe, ma le motivazioni che avevano spinto il ragazzino ad andarsene in giro come uno zombie dopo il coprifuoco, . quelli che avevano qualcosa da nascondere erano sempre i più interessanti, anche se per esperienza il diciannovenne sapeva quanto raramente quei segreti si rivelassero davvero degni di attenzione «non riuscivo a dormire, e ―Bri ha fatto sparire la mia scorta»
    scandaloso. sconvolgente.
    check non batté ciglio, entrambe le mani poggiate sulle gambe, sprofondato nella sua sedia con i braccioli; quelli come il pirocineta lo facevano uscire scemo: bisognava cavargli le parole di bocca con una pinza, come tirare via un dente marcio dalla gengiva che ancora non vuole saperne di accettare l'inevitabile. al belby andava di lusso che check avesse una pazienza pressoché infinita, quando si trattava di torturare le persone «ma pensa» un commento senza inflessioni, il suo, uscito dalla bocca quasi per caso mentre si chinava finalmente in avanti aprendo un cassetto della scrivania; sbirció dentro con aria disinteressata, non riuscendo però a trattenere un sorriso luminoso quando finalmente Hans gli fece la domanda che avrebbe dovuto fare dal principio.
    prima di inghiottire la pasticca, magari.
    «lo sai cos'è. essere costretti a dire la verità ogni tanto fa bene all'anima, ti purifica dentro» ok, qui gli scappò anche una risata — la verità era sopravvalutata, temuta senza alcun motivo apparente. ma considerata l'espressione dello special, doveva essere di altro avviso «vuoi fumare?» chiese, mettendo sulla scrivania un sacchetto di plastica molto più piccolo del precedente, all'interno palline di erba compatta facilmente riconoscibili «magari ti calma un po il tremito» lui aveva già la sua cannetta pronta, ma ancora non l'accese. appoggiò invece la schiena all'indietro contro la sedia, una mano ad accarezzare i capelli corvini «come mai non riuscivi a dormire? cattivi pensieri?» dondolandosi leggermente spostò lo sguardo dall'erba ad Hans — e già non sorrideva più «i consigli della mamma ti tengono sveglio la notte? » stava ancora testando il suo prodotto, check vibe-bigh, ma non solo: se considerava la verità al livello di una mosca fastidiosa della quale poteva tranquillamente ignorare l'esistenza, sapeva anche che non tutti la pensavano allo stesso modo. quelli come suo fratello, le merdine™, la plasmavano a loro piacimento, limando bordi e angoli finche non diventava accettabile — per la società, più che per loro; la verità era un compromesso, la merce di scambio grazie alla quale tiravano a campare.
    poi c'erano gli Hans belby di questo mondo, terrorizzati al punto da non riconoscerne il potenziale; gente per cui nascondere qualcosa di cui non fregava niente a nessuno era più importante che ingannare il prossimo.
    il che per check era una novità: frequentava solo Mood, e per mood ingannare il prossimo era una fottuta ragione di vita «e siediti, cazzo» aggiunse, accomodante ma anche deciso, giocherellando con la canna tra le dita.


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    Se non fosse stato per i leggerei pizzichi che si dava alle mani nascoste nella maxi tasca della felpa, Hans avrebbe potuto credere di essere in un sogno. O, meglio, un incubo ma non cambiava di molto; erano mesi (forse anni) che non faceva più sogni, ma solo incubi. Per di più, non era una novità per lui perdere del tutto il contatto con la realtà e domandarsi, più volte nell'arco della stessa giornata, se fosse sveglio o meno ― quel momento idiota di debolezza che l'aveva spinto nell'ufficio del custode alla ricerca di sollievo, e di conseguenza costretto in quella ridicola situazione, non avrebbe potuto costituire un'eccezione.
    Non era nemmeno raro che Hans si ritrovasse a vivere attimi da spettatore esterno, ma non era quello il caso: era molto più che conscio di essere lì, di essere presente seppur poco lucido o vigile, e non gli sembrava una vita che appartenesse a qualcun altro. Era la sua, con i suoi problemi e tutto il resto.
    Si ritrovò a pensare che, nell'ipotetico caso in cui gli fosse importato qualcosa dell'opinione di Check Vibe, gliel'avrebbe chiesta; il commento disinteressato su Freja aveva colpito un po' troppo vicino casa, ma Hans non lo diede a vedere, preferendo fingere di non aver sentito e scegliendo - forse saggiamente, forse stupidamente; forse ostinatamente – di non commentare. Se ne avesse avuta la forza, o la voglia!, avrebbe roteato gli occhi verso una nuova dimensione astrale ma no: rimase impassibile ad osservare un custode troppo giovane, e troppo ficcanaso.
    Quelle non erano domande ― e per questo Hans riuscì a mantenere una parvenza di controllo sulle proprie risposte. O, per meglio dire, non risposte. Non erano certo cazzi di Check, sapere che Freja era morta prima che potesse avere il modo di "rivedere le sue priorità"; o che quelle di Hans fossero ormai andate a puttane da troppo tempo, per pensare di rimetterle in ordine.
    Con maestria, e anni di pratica, sorvolò anche il consiglio non così di cuore del Vibe, al quale rispose con un'espressione sempre più indecifrabile, sempre più spenta. Una parte di lui, quella infantile che solo raramente usciva fuori, vibrava per fare esattamente quello: collassare lì, sul posto, e spaccarsi la testa sul pavimento dell'ufficio angusto solo per dargli il disturbo di dover poi ripulire.
    O per farlo finire nei casini.
    Ma, ancora, poteva non essere la poca maturità da parte dello special il motivo dietro quella sensazione di sfinimento, quanto più i primi sintomi dell'astinenza che iniziavano a bussare ― chi lo sa, sarebbero rimasti col dubbio.
    Non era un cretino (o, almeno, cercava di non reputarsi tale) quindi evitò di abboccare al «pare che tu sia deciso a scoprirli tutti» e di dirgli che ehy, che ne sapeva, prima o poi qualcuno avrebbe funzionato. D'altronde, non era una domanda quella di Check, perciò le labbra del pirocineta rimasero stoicamente serrate e non un fiato sfuggì al suo controllo: trasse dell'inutile (ed effimero) sollievo nel rendersi conto che, seppur in situazioni limitate, aveva ancora un po' di dominio sul proprio corpo traditore.
    Per il resto... beh. «ma pensa» a quel punto tentò persino l'inizio di una smorfia, che forse doveva essere un sorriso compiaciuto, o forse uno di malcelata noia nei confronti di un Check che non batté ciglio a quella risposta banale: ma se fai domande banali, ti becchi risposte banali ― veritaserum o meno. Mantenne per qualche istante lo sguardo fisso in quello verde del maggiore, fino a che non lo vide chinarsi verso i cassetti.
    Approfittò del momento e della distrazione per tirare fuori una mano dalla tasca, e studiarne con distacco il tremolio frenetico senza dare nell'occhio: doveva (voleva) andarsene di lì prima di rispondere involontariamente a qualche domanda scomoda o vomitare i resti della cena (o qualsiasi fosse stato l'ultimo pasto ingerito) ai piedi del Vibe. Astinenza is a bitch, uh. Tutti quei mesi di lucidità forzata e ― no, aspettate. Non era mai stato lucido, non davvero, nonostante i valorosi sforzi di Bri. E se possibile, il suo stracazzo di organismo peggiorava sempre un po' di più la situazione.
    «essere costretti a dire la verità ogni tanto fa bene all'anima, ti purifica dentro»
    Si era dimenticato del fottuto custode.
    Lo guardò, strabuzzando gli occhi come se lo vedesse ora per la prima volta.
    Ah, sì, vero: la pasticca e tutto il resto.
    Il veritaserum.
    Ma quello lì si divertiva davvero a drogare gli studenti, o quel sacchetto era capitato nel suo ufficio per sbaglio, merce confiscata a qualche mercato clandestino di sostanze magiche che aveva luogo nei corridoi del castello? Chissà ― di certo non Hans, che non chiese. C'era un confine sottile ma resistente tra la sua curiosità morbosa e lo sbatti necessario per porre domande. Raramente lo superava.
    Strinse invece i pugni, ora nuovamente nascosti nella felpa, fino a sentire le unghie rovinate graffiare la pelle e spillare minuscole goccioline di sangue. Odiava tutto.
    Se Check aveva intenzione di trattenerlo lì ancora a lungo Hans avrebbe.... avrebbe... urlato.
    No, okay, non è vero, non sarebbe accaduto in nessun universo, ma era per dire.
    La propria frustrazione, Hans Belby, la mostrava in altre maniere ― di solito, non mostrandola. Nel caso del custode, poi, con le sue domande e i suoi sorrisi da predatore, ne provava ancora di più: era incredibile quanta ce ne stesse, compattata in un corpo così piccolo e all'apparenza così distaccato. Non era abituato a provare qualcosa di così intenso, nel bene o nel male.
    E lo faceva di proposito, perché un temperamento volatile o fuori controllo non si sposava bene con un potere come il suo, specialmente se non sapeva come domarlo; inutile dire che Henderson era stato deluso più e più volte dagli scarsi progressi del Belby, ma a lui quella consapevolezza scivolava addosso e non lo turbava.
    «vuoi fumare?»
    Okay.
    Si era dimenticato di nuovo del custode ― cioè, non davvero; una parte di lui continuava a registrare la presenza del Vibe ma in maniera periferica, non reale: non gli dava la giusta importanza o il giusto spessore. Solo parlando, il custode riacquistò colore e forma agli occhi stanchi di Hans. «Sì.» Aggrottò le sopracciglia, colto alla sprovvista ma, ahilui, ormai non più sorpreso da quelle uscite traditrici. Abbassò lo sguardo sul sacchetto, ignorando il commento di Check sul tremolio: non aveva idea, il maggiore, che quello, così come il pallore, non dipendessero minimamente dal veritaserum. La pozione non poteva essere considerata una vera droga (o una droga e basta, in effetti), e i segni che mostrava Hans non avevano nulla a che vedere con essa.
    Erano di un altro genere, i problemi del Belby.
    Si morse un labbro, combattuto, perché se da una parte aveva imparato la lezione del giorno, dall'altra aveva una seria (e problematica) dipendenza da droghe, di qualsiasi forma e natura, perciò gli risultava molto difficile rifiutare un invito del genere; specialmente quando sentiva le prime goccioline di sudore imperlare la fronte ― cosa paradossale e ridicola per un pirocineta, ma tant'è.
    Non poteva (non voleva) rifiutare; qualsiasi cosa riuscisse nell'intento di farlo staccare totalmente, o quasi, dalla realtà era molto ben accetto da Hans, ed era arrivato ad un punto di disperazione tale che non gli fregava nemmeno più un cazzo delle circostanze. Avrebbe offerto una mezza pasticca di LSD a Leslie Chow in persona, pur di farsi, nelle condizioni (pietose) in cui verteva.
    «Offri spesso droga agli studenti?» La voce calma, del tutto priva di inflessioni o dell'urgenza che sentiva pizzicare ogni singolo fottuto nervo del suo corpo, affinché si muovesse per prendere un po' d'erba e fumare. «È un modo per metterli alla prova e denunciare i trasgressori ai professori? I deboli Non lo faceva il tipo. «Non ti facevo il tipo.» Quello non avrebbe voluto aggiungerlo, ma ormai l'aveva detto.
    Vedi a parlare troppo? Poi ti ritrovi a dire le cazzate.
    Gli occhi azzurri ancora incollati sull'erba, le mani a premere l'una contro l'altra nel vano tentativo di tenerle ferme.
    Anche volendo (e voleva davvero.) approfittare di quel gentile invito (e sticazzi se lo avessero sbattuto fuori dalla scuola a calci nel culo, non vedeva l'ora) non era certo di essere in grado di rollare un bel niente, in quel momento.
    Solo dopo un po', in un breve istante di lucidità ed esitazione, li fece scivolare sul maggiore. «Devi essere proprio annoiato.» Per avere quegli hobby discutibili, e per rompere così tanto il cazzo.
    Fece un respiro profondo, immagazzinando quanta più aria e forza di volontà riuscisse, e trattenendo poi (un vaffanculo) quell'aria nei polmoni il più a lungo possibile. Tecniche innovative per resistere al Veritaserum.
    Tecniche che non funzionavano nemmeno per sbaglio.
    «e siediti, cazzo» Inclinò di poco la testa, ancora osservando il Vibe ― poi piegò le labbra in un'imitazione distorta e, francamente, un po' inquietante, di un sorriso. «No.» Poteva costringerlo a dire la verità anche senza il suo consenso, ma non poteva obbligarlo a fare altro.
    Non era un ribelle, Hans Belby, figuriamoci: ribellarsi a qualcosa richiedeva troppa energia e troppo sbattimento, due cose che lui non possedeva.
    Ma era una canaglia, una testa di minchia, quando c'era da contrastare il volere, o l'autorità, di qualcuno solo per dispetto; per di più, non gli piaceva accontentare, né tanto meno cedere.
    «come mai non riuscivi a dormire? cattivi pensieri?» E poi, già doveva accettare il fatto di non poter niente contro una pozione che, francamente, detestava (così come tre quarti di tutto quello che ruotava intorno alla magia, special inclusi); poteva almeno fare il diciottenne irritante e rifiutare il caldo consiglio del Vibe con strafottenza.
    «i consigli della mamma ti tengono sveglio la notte?» Serrò la mascella, dandosi il tempo e il modo di trovare una versione della verità che valesse la pena raccontare.
    In piedi, dietro alla sedia su cui era stato invitato ad accomodarsi, a pochi passi da una porta che avrebbe voluto raggiungere con tutto se stesso, Hans fece schioccare la lingua contro il palato e incrociò le braccia al petto &#8213 un abbraccio intorno al corpo minuto per chiedergli, per favore, grazie e vaffanculo, di darsi un contegno e abbassare di qualche tacca il tremolio. «Consigli? No, non direi.» E non erano nemmeno le urla, a tenerlo sveglio; semmai, era la calma inquietante della voce di Freja che gli ripeteva che andasse tutto bene, che non dovesse piangere, che dovesse lasciarsi andare. Rabbrividì involontariamente a quel pensiero.
    Fu un solo istante; poi si ricompose. «Non riesco mai a dormire,» detto in modo diretto, senza troppi giri di parole o senza nascondersi: infondo il suo aspetto tutt'altro che in salute descriveva un quadro abbastanza accurato. «Non senza piccoli aiuti. Oppure, quando succede, è nei momenti meno opportuni - quando finalmente lo sfinimento sopraggiunge.» Non molto salutare, ma eh: ci si faceva l'abitudine. Si strinse nelle spalle: Check voleva qualcosa di cui chiacchierare? Lo avrebbe rincoglionito di cose noiose ed esasperanti, così magari ci pensava due volte prima di fare domande scomode.
    Avrebbe detto la verità perché non poteva rifiutarsi, ma l'avrebbe resa un'esperienza spiacevole per entrambi.
    Ciò che non aveva messo in conto era il modo infido in cui il veritaserum sarebbe sgusciato nelle sue parole, nei suoi pensieri, giocando brutti scherzi ad una mente già provata, già esausta.
    Non era così in controllo come credeva, il Belby.
    Nemmeno lontanamente.
    «Sai, se non avessi ascoltato i consigli di mia mamma quand'era ancora in vita-» socchiuse gli occhi, infastidito da quell'aggiunta fuori programma, «oggi non sarei qui. Letteralmente Sarebbero ancora tutti a Malmö, e Freja sarebbe ancora viva. Elizabeth non sarebbe dispersa. «Ironico, no? Solitamente è non dando retta ai propri genitori che si finisce nei casini.» Ma sua madre... sua madre sapeva essere persuasiva, a modo suo. E Hans, che per anni era stato convinto di essere solo molto legato a lei, solo adesso vedeva la verità. «Era difficile non fare come voleva lei, dopotutto. Sapeva cosa dirti, come farlo, affinché non potessi contraddirla. Od opporti.»
    Voleva bene a Freja, continuava a mancarle ogni giorno anche a distanza di dieci anni; sapeva che quelle parole non le rendevano giustizia, che mostravano un lato di lei che non era vero. Freja Dahlberg era una donna buona, compassionevole, premurosa; amava i suoi figli, e amava la sua famgilia. Di quello, Hans era certo. Aveva amato con tutta se stessa persino quell'ubriacone buono a nulla che si era sposata.
    Ma c'era una parte di lei che Hans non conosceva, che la donna aveva tenuto celata a tutti: una donna fragile, rotta, disperata.
    E ultimamente il ricordo della madre era appannato, e distorto, da nuovi ricordi.
    E da infiniti dubbi.
    Da quel cazzo di novembre, dalla stupida pandemia che l'aveva messo k.o. e gli aveva fatto vivere deliri onirici di dubbia origine, qualcosa era switchato; aveva sbloccato nuovi ricordi tenuti rinchiusi in cassetti che la malattia aveva aperto per lui con facilità, nei vaneggiamenti febbrili di un corpo che ne sarebbe uscito provato non solo a livello fisico. Inoltre, adesso, dopo aver vissuto a stretto contatto con altri special per tutti quegli anni, Hans iniziava a supporre che sua madre potesse esser stata una telepate, o un'empatica, o qualcosa di simile.
    E quella consapevolezza rimetteva in luce ogni loro momento passato insieme, ogni giornata spesa ad insegnare al piccolo Jöns come controllare il proprio potere: non gli stava insegnando nulla ― lo teneva calmo, a bada, e lo convinceva di essere in grado di gestirlo.
    Non era vero.
    Troppo tardi si rese conto di aver pronunciato parte di quei pensieri a voce alta.
    Quanto?
    Non ne aveva idea.
    Rivolse a Check uno sguardo troppo onesto, troppo aperto, per un secondo di troppo, prima di distoglierlo e di schiarirsi la gola, ormai secca per le troppe parole, a cui Hans non era abituato. Ci mise spaventosamente poco a recuperare l'aria di noncuranza e distacco che vestiva ogni giorno. «Posso andare adesso, sei annoiato a sufficienza?» O forse doveva dire: intrattenuto e incuriosito dallo shit-show che era la sua vita?
    Chissà perché, ma Hans temeva fosse la seconda ipotesi.

    E direi che qui mettiamo un taglio.
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    check non faceva abitualmente uso di droghe, ma conosceva la dipendenza; per anni ne aveva assaporato ogni sfaccettatura, provato gli effetti sulla propria pelle, fatto di tutto per allontanarsene ottenendo in cambio solo l'effetto contrario. agognava la libertà, il vibe, come un qualunque tossico che si rispetti, ma continuava a guardarla da lontano — non ci aveva mai provato davvero, capite? odiava sua madre eppure insisteva a gravitarle attorno come uno stupido satellite mal programmato, provocando e spingendo e tirando e azzannando l'aria come se questo potesse in qualche modo farlo sentire meglio.
    non lo faceva.
    ciò di cui non sapeva assolutamente nulla, in effetti, era l'astinenza.
    forse hans avrebbe potuto insegnargli qualcosa in proposito, se solo l'avesse lasciata emergere in superficie, ma non sembrava quello il loro caso «certo che parli davvero un sacco» le iridi grigio verdi guizzarono dal sacchetto di erba sulla scrivania al buon belby ancora in piedi dritto come un fuso, un breve calcolo a mente di quanto rimaneva al ragazzino prima di crollare culo a terra. a giudicare dal volto pallido e dalla fronte sudata, poco «se solo facessi questo effetto anche a mio fratello» poteva sembrare ironico, il tono del vibe, ma non lo era — non del tutto almeno. zittire mood (per sempre) era un sogno ad occhi aperti che la dipendenza non gli avrebbe mai permesso di rendere reale: non poteva vivere con lui, e non poteva vivere senza di lui kind of thing.
    si strinse leggermente nelle spalle alla domanda dell'altro, sfilandosi la canna da dietro l'orecchio per rigirarla tra le dita «solo a chi sembra averne un disperato bisogno» poteva darsi che questo non fosse del tutto vero. forse nei confronti del pirocineta si sentiva un po' più committed che in quelli di altri studentelli con i nervi a fior di pelle, ma i motivi non gli interessavano; raramente check si soffermava su dettagli tanto insignificanti, soprattutto quando chi aveva di fronte richiedeva la sua completa attenzione con certi commenti «quindi adesso sai anche che tipo sono» aveva sollevato entrambe le sopracciglia, il custode, la schiena nuovamente curata all'indietro contro la sedia.
    questi ragazzini moderni (check, hai 19 anni.), già convinti di aver capito tutto della vita.
    «e ci conosciamo da dieci minuti. un record» questa volta non sorrise, il vibe, in parte perché Hans ci aveva visto giusto — non glie ne fregava un cazzo di denunciare ragazzini fattoni ai professori —, e in parte perché quella era solo l'ennesima volta in cui qualcuno lo guardava negli occhi e credeva di aver capito. ma non potevano «sono un libro aperto» commentò, allargando le braccia, poi prese la sigaretta tra le mani e, con tutta la calma del mondo, la strinse nel palmo. la cartina si ruppe all'istante, da tanto era tirata, una pioggerella di tabacco e erba secca a cadere sulla scrivania; spostò tutto verso il bordo con l'altra mano, facendo cadere i frammenti nel cestino sottostante «Devi essere proprio annoiato.» tra tutti gli studenti, non aveva beccato esattamente il più sveglio del gruppo «minchia, sì» cosa si aspettava? un tentativo di negare l'evidenza?
    «questo è un lavoro del cazzo, belby. bisogna sempre inventarsi modi nuovi per tirarsi su il morale» non divertirsi, attenzione. era probabile che il vibe non si fosse mai divertito in vita sua: aveva già dato durante quella precedente. a quel punto Hans avrebbe potuto chiedergli perche allora lo facesse, e il diciannovenne non si sarebbe fatto problemi a dirgli la verità — era sempre la stessa risposta per ogni cosa. quella piccola merdina di suo fratello, che non meritava le attenzioni ricevute ma le riceveva lo stesso; buffo, come funzionano male i sentimenti a volte. sorvolò sul racconto delle sue problematiche notturne con l'ennesima alzata di spalle, decidendo finalmente di alzarsi dalla sedia, spinta indietro con uno stridio di legno contro il pavimento grezzo. solo quando fu davanti allo special, mani affondate nelle tasche dei jeans quasi a volerne imitare i movimenti, fermò i propri passi «in effetti non sembri messo benissimo» gli diede solo una rapida occhiata, da capo a piedi, senza scomparsi più di tanto quando dalle labbra di Hans uscì un'informazione di troppo: tutti i genitori morivano, prima o poi, non ci vedeva questa gran tragedia.
    «Ironico, no? Solitamente è non dando retta ai propri genitori che si finisce nei casini.» non avendo necessità di mantenere per forza di cose un certo aplomb, check vibe scoppiò a ridere. così, de botto, come se Hans avesse appena fatto la battuta del secolo — e in un certo senso il pirocineta lo aveva fatto. solo che check non avrebbe saputo spiegargli esattamente cosa avesse suscitato in lui tanta ilarità, un suono quasi gutturale a nascergli nel petto: forse era stato il pensiero delle migliaia di volte in cui aveva ignorato le direttive dei suoi vecchi, sputato sopra i loro consigli, calpestato gli ordini impartiti dalla madre, mandato giù disappunto e bile a bruciare in gola... senza finire in nessun cazzo di casino «eppure ti sei opposto. o hai solo aspettato che morisse?» chiese, passando le dita sotto entrambi gli occhi, un'ombra di risata ancora incollata nella trachea; era difficile immaginare un mondo dove i figli cedevano ai propri genitori senza un secondo fine; non era con quel principio che check era cresciuto, e mai gli era passato per la mente che forse, forse, era la sua famiglia ad essere sbagliata.
    «ti sei sentito sollevato, quand'è successo?» era di nuovo curioso, il vibe, e invece di allontanarsi dal ragazzino si limitò a piegare la testa verso la spalla, osservandolo da un'altra angolazione; poi gli sorrise, senza sarcasmo, quasi con compassione: conosceva già la risposta, il belby, eppure chiedeva comunque «oh no. è proprio adesso che diventa interessante» il suo nuovo caso (umano) scientifico da studiare, ma che scherzi?! ci pensò su un attimo, senza distogliere lo sguardo dalle iridi chiare dello special che, al contrario, cercavano disperatamente un punto nascosto sul pavimento, poi aggiunse «se mia madre morisse, mi sentirei meglio. farla incazzare di continuo è davvero estenuante a volte» come già detto, check vibe non aveva bisogno di veritaserum, o droghe varie: era come una stringa di codice che tutti potevano leggere in piena libertà — tanto non erano in grado di decifrarlo.


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    «certo che parli davvero un sacco» said no one, ever.
    Hans Belby era, contrariamente a quanto dimostrava e dava a vedere, molto sveglio; aveva, tuttavia, un'ironia tutta sua e spesso faticava a coglierla nella voce, o nelle parole, delle altre persone.
    Non voleva capirla, forse.
    Per questo, quando il Vibe offrì quel commento non richiesto, Hans piegò leggermente il capo verso la spalla osservandolo accigliato: non era assolutamente vero, chiunque avrebbe potuto confermarlo. Hans Belby parlava lo stretto indispensabile, e spesso nemmeno quello. Giusto per dimostrare la veridicità di quella frase, rimase in silenzio a studiare il maggiore e solo rimanendo in silenzio si rese conto che, ebbene sì, l'altro era stato ironico.
    Ok, così aveva già più senso quel commento.
    Non entrò in merito a questioni fraterne e non perché a ruoli inversi avrebbe preferito che altri non entrassero in merito alle sue, ma perché: non gliene importava nulla. Ognuno si portava le proprie croci, e quel fratello, chiunque fosse, era la croce del Vibe.
    Ok, moving on.
    Check era solo un intoppo momentaneo, un ostacolo, un incidente di percorso; se Hans era ancora nel suo ufficio era solo perché non si fidava abbastanza delle proprie gambe per girare i tacchi e raggiungere la porta; aveva bisogno del tempo per riprendersi un attimo (e magari fumare qualcosa) e poi se ne sarebbe andato.
    Un piano solido, geniale, partorito da una mente stanca — e che a fatica riusciva a valutare correttamente ogni variabile; ma non per questo meno perfetto.
    Mh mh, come no.
    A quel «solo a chi sembra averne un disperato bisogno» avrebbe dovuto offendersi, ma a conti fatti lo era: disperato, intendo.
    E non poteva (non riusciva a) nasconderlo.
    Il fatto che Check lo riconoscesse, non lo preoccupava. Fin tanto che lo lasciava in pace, per Hans andava tutto bene: era abituato a convivere con la sua croce.
    Che poi, “in pace” era un'esagerazione: il custode sembrava proprio in vena di non farsi i cazzi suoi chiacchiere e aveva beccato la persona meno loquace dell'intero castello. Che culo.
    «quindi adesso sai anche che tipo sono» evitò di commentare perché non gli interessava sapere che tipo fosse — ancora una volta: gli interessava solo andarsene di lì.
    E poi, il tono di Check non gli piaceva, così come non tollerava l'espressione compiaciuta che gli riservò il maggiore, ma non aveva abbastanza (sbatti) forza per rispondere e allo stesso tempo impedire al suo corpo di cedere al tremolio che, dalle mani, stava velocemente risalendo su fino, alle braccia e al torso.
    Non era la prima volta che si trovava costretto a trattenere i sintomi, a nasconderli e ricacciarli indietro, perché sotto lo sguardo preoccupato e giudicante di qualcuno (ciao Bri), ma non era certo di poter resistere ancora a lungo, non quella sera; a differenza di quanto poteva sembrare, conosceva bene il suo corpo e sapeva giudicare la gravità dei sintomi a seconda della situazione. E quella era stata una settimana infernale, notti insonni popolate da incubi e giorni insofferenti popolati di persone: Hans Belby voleva una fucking tregua. Mandò giù saliva che non aveva, la gola secca e le labbra tirate. Sì, se la meritava.
    E invece era lì, con Check Vibe che continuava a parlare e parlare e parlare.
    «sono un libro aperto» «scritto in una lingua che in pochi conoscono» Non seppe perché lo disse, ma se ne pentì subito: ogni parola detta era una parola in più in risposta da parte di Check, e una frase in più che lo teneva in quel posto.
    Spostò lo sguardo che aveva appena poggiato con noncuranza sull'altro, e lo lasciò vagare, ancora una volta, sui coltelli esposti dietro la scrivania: magari se si dimostrava sufficientemente annoiato, l'altro avrebbe smesso di parlare ― non doveva nemmeno fingere, pensate un po'.
    Eppure i movimenti di Check lo catturarono di nuovo, e un sospiro pesante gli sfuggì dalle narici quando vide l'altro distruggere la canna, un dolore cieco a premere contro la gabbia toracica perché, fanculo, se non la voleva poteva almeno offrirla. E okay, d'accordo, gli aveva offerto l'intero sacchetto di erba ma non tutti qui sono in grado di compiere gesti banali come (respirare) rollare uno spinello, scusa tanto.
    Serrò la mascella, seguendo con attenzione la scia di tabacco ed erba che finiva nel cestino: quanto spreco.
    Nemmeno quando rispose, perché lo fece, riuscì a staccare le iridi ghiaccio dai resti di quella canna ormai in frantumi. «Sembra un tuo problema» e, inoltre, «niente e nessuno ti obbliga a farlo.» Che ne poteva sapere lui delle motivazioni che avevano spinto Check a scegliere proprio quel posto di lavoro? Nulla, infatti. Ma non era una domanda, la sua: ad alcuni perché era meglio non dare delle risposte.
    Col senno di poi, comunque, avrebbe dovuto capirlo subito che non era così in controllo di se stesso come credeva: già quelle frasi sfuggite al suo rigido (e spesso ingiustificato) stoico silenzio dovevano essere un campanello d'allarme. Si concesse di osservarlo ancora pochi istanti, prima di soccombere all'istinto di distogliere ancora lo sguardo, quella frenesia incontenibile che di tanto in tanto rendeva la sua astinenza un pizzico più rompicoglioni: come se non avesse già la sua buona dose di problemi, doveva pure fare i conti con i fremiti involontari e gli spasmi. Grandioso.
    Fu il rumore sordo sul pavimento, alla fine, a far di nuovo presa sull'attenzione (o mancanza di essa) del pirocineta.
    Vide Check alzarsi, muoversi, incamminarsi verso di lui — e detestò il fatto di dover reclinare appena la testa per continuare a mantenere il contatto visivo, ma ci era tristemente abituato: tutte le persone che lo circondavano erano più alte di lui.
    «in effetti non sembri messo benissimo» Ebbe l'istinto di fare un passo indietro quando Check gli si piazzò davanti, nel sentirsi osservato e visto, ma non era sicuro che le gambe avrebbero retto anche il più stupido dei movimenti: non gli piaceva che qualcuno entrasse nel suo spazio (che misurava più o meno due metri da ogni lato.), e in quel posto non c'era sufficiente spazio per i gusti di Hans.
    Rimase immobile, una corda di violino tesa e a tanto così dallo spezzarsi, mani nelle tasche ed espressione morta, l'immagine speculare del moro di fronte a lui ― tolta la tensione, che non irrigidiva le spalle del maggiore, né ne serrava la mascella pronunciata.
    Per un riflesso involontario, lo sguardo già severo di Hans si indurì ancora di più.
    Poi iniziò, suo malgrado, a raccontare.
    Odiò ogni singola parola che accarezzava la lingua e fuggiva dalle sue labbra.
    Tutte.
    Ma non riusciva a fermarsi, più parlava e più sentiva di avere qualcosa da dire; strano, una novità, qualcosa che non aveva mai dovuto affrontare contro la propria volontà.
    Un fiume in piena che esondava, superava gli argini e abbatteva ciò che trovava sul suo cammino ― in questo caso si trattava dellee difese e dei muri che Hans aveva sollevato con il tempo, a volte inconsciamente, messi lì con l'intento di proteggere se stesso dai ricordi di una vita che avrebbe potuto andare in qualsiasi altra maniera, e invece aveva deciso di andare a puttane.
    Quei segreti su Freja, quelle piccole indiscrezioni che facevano parte di un Hans che nessuno, nemmeno i lost kids, avevano mai conosciuto; quei ricordi che dovevano rimanere chiusi sotto chiave e che invece ora si riversavano nella realtà con tutta la forza, l'urgenza, accumulata in anni e anni di prigionia.
    Gli venne in mente tutte le volte che gli era stato detto che “non puoi tenerti tutto dentro, prima o poi esploderai” e vaffanculo, non doveva essere quello il giorno. O nessuno, tanto per la cronaca.
    Serrò i pugni dentro la tasca, e morse ferocemente l'interno della guancia, e la lingua, quando finalmente riuscì a mettere fine a quella violenza psicologica nei propri confronti. Non guardò Check, non era certo di poterci riuscire in quel momento, e non lo fece nemmeno quando lui commentò. Ancora.
    «eppure ti sei opposto. o hai solo aspettato che morisse?» la risata prima e quelle parole poi, strapparono finalmente (un'emozione) un'espressione reale (e feroce) allo special: ma chi cazzo credeva di essere. Con risolutezza, tenne lo sguardo basso perché lo sentiva bruciare, e non era sicuro al cento percento che le iridi azzurre non fossero ora di un fiammante rosso: non era mai successo che lo diventassero davvero, solo quando era in botta e immaginava di perdere il controllo, ma non voleva scoprire in quella circostanza se funzionasse così anche per loro o se fosse solo un pessimo effetto speciale da serie Netflix di dubbio gusto.
    «ti sei sentito sollevato, quand'è successo?»
    «No.» Che cazzo di domande erano? No, e no. Non aveva aspettato che Freja morisse, e non si era sentito meglio quando era successo.
    Aveva sentito tanto in quegli anni, troppo; e poi aveva scelto di non sentire più nulla.
    Ma mai aveva provato sollievo.
    «Non capisci proprio -» un cazzo. Scosse la testa, sguardo ancora basso e labbra serrate nel futile tentativo di non parlare di nuovo.
    Spoiler: non ci sarebbe riuscito.
    «Non mi sono opposto. Non abbastanza. È questo il problema.» Per lui, comunque.
    Dubitava che Check avesse letto fra le righe di quel discorso sconclusionato, e francamente era meglio così; Hans non aveva assolutamente idea di quante cose avesse effettivamente detto e quante ne avesse solo pensate, ma lo disturbava l'idea di aver reso partecipe di quel ricordo un perfetto estraneo. Ora che ricordava, più o meno chiaramente, cosa fosse successo quel giorno di quasi dieci anni fa, era impossibile per lui non incolparsi seriamente per tutto quello che avrebbe potuto provare a fare e che, invece, non aveva fatto.
    «Ci ho provato, ma non ha voluto.» Ed era stato troppo piccolo, e troppo debole, per opporsi alla volontà di sua madre.
    Scuse, tutte scuse che rifilava a se stesso per costringersi a crederci.
    Non funzionavano. «Non me l'ha permesso Con la sua voce delicata, Freja, ripetendogli che andava tutto bene nonostante la tende avessero preso a bruciare e la casa si stesse riempiendo piano di fumo, l'aria a farsi sempre più irrespirabile. Non aveva avuto il coraggio di farlo da sola, e aveva utilizzato lui.
    Inconsciamente? Una parte di Hans voleva credere che fosse così.
    Doveva crederci.
    Ricordava anche stralci di conversazione, qualche “non è colpa tua” e “un brutto sogno”, che aveva ipotizzato fossero un modo come un altro per Freja di rassicurarlo: non avrebbe ricordato nulla.
    Hans non era stupido, e aveva un'amica telepate: sapeva come funzionava il loro potere. Ma sua mamma era difettosa (come lui) e aveva fatto un lavoro di merda. A pagarne il prezzo ora era lui.
    Serrò la mascella, chiuse gli occhi: voleva dimenticare tutto, per davvero quella volta, e invece si era ritrovato a fare esattamente l'opposto di quello per cui aveva osato lasciare Different Lodge.
    Quando per errore riaprì gli occhi e incontrò il sorriso compassionevole di Check, gli venne istintivo rispondere con un altro sguardo pieno di rabbia, di risentimento, per il modo in cui commentava sprezzante qualcosa che per Hans era persino difficile contemplare, figurarsi raccontare.
    o accettare.
    Odiava tutto di quella situazione, non lo stava facendo sentire meglio: se possibile, in quel momento desiderava come mai prima un cazzo di Oblivion per dimenticarsi di tutto; riteneva che la vita sarebbe stata decisamente meglio se avesse potuto fare reset e ricominciare da capo.
    Non poteva immaginare che l'avesse già fatto una volta, e non fosse andato esattamente come sperato.
    «Smettila di fare domande» perché sono stanco di dare risposte — e lo era ancor di più per cercare di agirare la verità con risposte sincere abbastanza ma anche sapientemente evasive.
    Era stanco, punto.
    «Non dovevamo fumare?» chiese infine, dopo una manciata di secondi di silenzio da parte sua (che siamo certi Check avrà occupato parlando fino allo sfinimento) tirando fuori entrambe le mani e posandole sullo schienale della sedia più vicina — come supporto, come sfogo, come appiglio. Non lo sapeva nemmeno lui di cosa avesse bisogno, a parte qualcosa che lo rendesse morto al mondo per qualche fottutissima ora.
    sleeping at last
    nine
    But I'm just trying to find myself
    through someone else's eyes;
    so show me what to do
    to restart this heart of mine.
    How do I forgive myself
    for losing so much time?
    hans b.gifs cr.playlistaesthetic


    scusa socc, non rileggo. è già tanto sia scritto in italiano.
     
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    «Non capisci proprio -» check inarcó volutamente un sopracciglio, invitando Hans a proseguire.
    sfidandolo, a proseguire.
    una scommessa che sapeva di aver vinto prima ancora di vedere le labbra sottili del ragazzo scomparire in una linea sottile di frustrazione e impotenza. c'era anche qualcos'altro sotto la superficie, una spossatezza palpabile che per il momento check decise di ignorare — non aveva ancora ottenuto quello che voleva, ma quasi.
    «Non mi sono opposto. Non abbastanza. È questo il problema.» il vibe non conosceva Hans belby. lo aveva intravisto solo un paio di volte nei corridoi della scuola, un'ombra pallida che tentava con successo di confondersi con le pietre grezze delle spesse mura, sguardo perso e cuore chiuso. poteva anche darsi che avesse attirato la sua attenzione, anche solo per un attimo, perché gli occhi verdi di check avevano la malsana abitudine di soffermarsi su tutto e tutti; immagazzinava informazioni, fotografava volti ed espressioni e emozioni cui poi non pensava più. ma rimanevano li, in attesa.
    quindi no, non conosceva Hans belby, eppure in quel preciso momento ebbe l'assoluta certezza che una frase del genere lo special non l'avesse mai pronunciata ad alta voce — forse nemmeno a se stesso, la parte più difficile. soprattutto, sopra ogni cosa, check vibe-bigh sapeva riconoscere il senso di colpa: somigliava ad un profumo dolciastro, abbastanza forte da nascondere un altro odore al di sotto. qualcosa di marcio e corrosivo, da maneggiare con estrema cura.
    o forse se lo stava solo immaginando.
    fece comunque un passo indietro, senza distogliere lo sguardo dal ragazzo, finché non sentì il bordo della scrivania contro cui andare ad appoggiarsi «non ne avrei comunque altre da fare» e quella, signori e signore, era la sua prima e ultima bugia della serata. sulla punta della lingua già si formavano decine di interrogativi, uno più destabilizzante dell'altro: il tatto, come per Marta, non rientrava nei pregi del giovane custode, il che forse spiegava perché non avesse amici e frequentasse l'unica persona il cui cuore non richiedeva un rivestimento dorato per ogni fottuta pillola di verità che a check usciva dalla bocca.
    eppure decise comunque di staccare — momentaneamente — la spina della propria curiosità, inghiottendo domande come una medicina amara che non si può far altro se non mandare giù. il perché avesse deciso, così di punto in bianco, di concedere ad Hans un tale atto di misericordia, non è dato sapersi; forse non lo sapeva nemmeno lui. check vibe-bigh era abituato ad affondare i denti, quando trovava una parte esposta e vulnerabile: l'ego smisurato di sua madre, per esempio. la codardia di certi ragazzini. i muri invalicabili eretti da altri. era raro che facesse passi indietro quando la ferita era ormai aperta, e forse quella era l'eccezione che confermava la regola «puoi fumare tu» non sentì il bisogno di spiegare al ragazzo perché non si sarebbe unito a lui: dopotutto, quelli non erano cazzi del belby «e poi tornatene a letto» disse, mentre già girava attorno alla scrivania, aprendo l'infame cassetto per recuperare la bustina con l'erba. non ci voleva un genio superiore per capire che, con quei tremori e il sudore freddo, Hans non sarebbe stato in grado di girarsi nemmeno una fettina panata.
    «e smettila di rubare pasticche agli sconosciuti» concluse, muovendo rapido le dita per confezionare la canna promessa allo special, quasi un premio per essere rimasto li fermo come uno stoccafisso a farsi torturare nel peggior modo possibile — perché la verità aveva i denti, e masticava tutto quello che le capitava a tiro.

    imagine dragons
    bones
    I-I-I got this feeling,
    yeah, you know Where I'm
    losing all control
    'Cause there's
    magic in my bones
    check v.gifs cr.playlistaesthetic
     
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