blood is thick, but rivers run deeper

ft. mac

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    And we're getting sick
    of your doublethink
    We see you all
    and now the walls
    are cavin' in
    Sentì i passi ancor prima di rendersi conto d'essere sveglio. O, per meglio dire, cosciente: non si addormentava con facilità, Tvättbjörn Cömmstaj, e men che meno a terra in un corridoio dei sotterranei di Hogwarts; al contrario, quel torpore era abbastanza sicuro fosse causato da una momentanea perdita dei sensi - molto più probabile. Non si mosse, sebbene il frastuono delle scarpe sul pavimento di pietra si facesse sempre più frenetico e vicino. Costava fin troppa fatica anche soltanto aprire gli occhi in quel momento: alzare il capo verso la fonte del rumore era semplicemente inimmaginabile, e lo special di fantasia in corpo non ne aveva affatto. Non gettato lì, spalle e nuca contro la parete, gambe abbandonate davanti a sé; non dopo aver passato ore a farsi torturare.
    In non così tanto segreto, confidava che non spostandosi di un centimetro quei passi sarebbero andati oltre, trascurando la sua presenza com'era giusto che fosse: chiunque fosse stato ad avvicinarsi, nelle più rosee delle aspettative e dei reconditi sogni di Twat avrebbe pensato fosse semplicemente morto lì e per cui, seguendo fedelmente l'incuranza e l'egoismo della società contemporanea, l'avrebbe ignorato, scavalcandolo come una misera pozzanghera sul marciapiede. Che differenza poteva fare uno studente in più, o uno in meno?
    Per sua immensa sfortuna, dimenticava sempre di fare i conti con un terzo - nonché fondamentale - fattore costitutivo alla base della comunità, magica e non.
    «... Cömmstaj?»
    L'ipocrisia. Perché in fin dei conti lo sapeva che, lì dentro più che altrove, i più amavano calarsi addosso le vesti da buoni samaritani. Era ovvio che non gliene fregasse un cazzo del diciottenne, e dal canto suo non voleva che fosse il contrario - viveva benissimo così, senza nessuno a cui dover rendere davvero conto -; quel che importava realmente agli astanti, era fare una bella figura. Con il poveretto che avevano appena soccorso, o con quelli che se ne sarebbero occupati dopo, o ancora con coloro che avrebbero assistito da terzi alla scena: chiunque poteva essere il pubblico ad applaudire dall'oscurata platea, ed il talento di quei teatranti da quattro soldi, con un copione imparato a memoria, era sapere sempre il punto in cui le luci dei riflettori avrebbero illuminato il palco.
    Di certo il norvegese non voleva essere il primo ad alzarsi e fischiare di giubilo per l'egregia performance, nonostante fosse tristemente conscio del fatto che quello fosse uno spettacolo interattivo, e che il protagonista avrebbe fatto l'impossibile per farlo alzare dalla sua comoda poltrona per partecipare.
    Comunque, fece il suo: da piccolo eccelleva nel ruolo del cespuglio al bordo del palco; fingersi morto non poteva essere da meno. Con la sola differenza che ad un roveto non vai a rompere il cazzo chiedendo come stai?, mentre - a quanto pareva - ad un ragazzo collassato sì. Si appuntò mentalmente di preparare un cartello con su scritto di non disturbarlo, per la prossima volta.
    Fu il fiato sul collo, sia metaforico che letterale, e soprattutto la mano sulla propria spalla a costringerlo, quantomeno, ad aprire gli occhi, pronto com'era ad invitare chiunque fosse a toglierla, prima che lo facesse lui a morsi. Era molto selettivo per quanto riguardava il contatto fisico: non scattava come una molla al minimo tocco, ma lo tollerava solo quando proveniva da una cerchia ristretta di persone - che comunque, grazie al cielo, lo disdegnavano tanto quanto lui.
    Rise. Rise poco, e piano: un rumore secco, piatto, presto sostituito da una piega amara sulle labbra, la lingua a saggiare le metalliche perle cremisi sulle gengive - le uniche gocce che il torturatore aveva deciso di estorcergli con un pugno, prima di passare alle maledizioni e dopo aver a sue spese scoperto che cosa Tvättbjörn potesse fare con il sangue.
    «Ce la fai ad alzarti? Ti accompagno in infermeria.» una soluzione logica, razionale: probabilmente ci si sarebbe trascinato da solo, una volta riacquistate un po' di forze, anche solo per rimediare qualcosa. Ma in quel momento, si sarebbe volentieri ucciso pur di non assecondare la proposta altrui. «'fanculo» biascicò, scansando con una scrollata la mano di Jeremy Milkobitch dalla propria spalla. Era incredibile come più si cercava di ignorare determinate persone, più queste arrivavano a rompere le palle: ci mancava solo che oltre all'allenatore, dovesse sorbirsi anche lo psicomago ad affacciarsi in infermeria. Lo fissò per quel che gli parvero interminabili minuti, nella vana speranza che nello sguardo si sedimentasse quell'invito soffiato tra i denti ad andarsene, perdendo quella guerra fredda con gli occhi celesti solo quando comprese che non lo avrebbe fatto.
    Toccava a lui, dunque, levare le tende. Più veloce di quanto il proprio corpo fosse pronto a muoversi, si alzò in piedi, voltando le spalle all'altro. «Non mi serve.» sentenziò lapidario; e forse gli avrebbe anche creduto - o meglio: lo avrebbe lasciato fare -, se solo le gambe avessero collaborato con il cervello.
    Gli sarebbe piaciuto anche soltanto che quest'ultimo si rendesse collaborativo con se stesso, ma non poteva chiedergli troppi sforzi in quel momento: per questo, non riuscì a schivare subito il braccio del Milkobitch a sorreggerlo, né ad usare in alcun modo il proprio potere per levarselo di dosso - se non con le buone, con le cattive. «Levati.» non si levò. Anzi, tentò addirittura di dirgli qualcosa tipo "oh no guarda come sei ridotto devi per forza andare a farti vedere". Dio, lo odiava; voleva solo sputargli in faccia e non sapeva nemmeno perché. «Sto bene.» a denti stretti, facendo capo a tutte le energie che aveva in corpo per spingerlo via da sé. Assurdamente, ci riuscì; volle credere fosse tutta farina del suo sacco, ed ignorare il fatto che fosse impossibile spostare la massa palestrata di suo padre con la propria, a meno che non avesse arretrato lui spontaneamente. «Va bene, va bene, ma dovresti -» «Sì, sì,» non si voltò, quando prese a camminare - lentamente, poggiandosi casualmente alla parete di tanto in tanto -, ma non ne aveva davvero bisogno. Era come se potesse vederlo attraverso la nuca, come se lo avesse visto altre mille volte, con le braccia incrociate al petto e lo sguardo deluso a seguirlo mentre si allontanava.
    Odiava quella sensazione.
    Odiava sapere.
    «vado a riposare.»
    Odiava tutto.


    Di certo, non avrebbe odiato farsi i cazzi suoi. Riposare era sopravvalutato, ma confidava che un paio di pasticche potessero aiutare a qualcosa.
    A svuotare il cervello, magari. A non pensare a nulla, ad attendere semplicemente che quel giorno passasse.
    Alzò lo sguardo dalle proprie mani, ma queste non smisero di arrotolare lo spinello che si era meritato di fumare in santa pace, quando sentì la porta della sala comune di Different Lodge aprirsi.
    «Qual buon vento.» gli mancava solo Mackenzie Hale, per concludere in bellezza la giornata. Gli era impossibile evitare lui, per quanto una parte di sé ci provasse comunque. «Che ci fai qui?»
    unperson
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    22.12.2003
    TVÄTTBJÖRN CÖMMSTAJ

     
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    Chiuse gli occhi solamente quando varcò la soglia di Different Lodge. Sapeva non potesse essere vero, ma gli sembrava di non battere le palpebre da ore. Giorni. Anni. Sentiva le guance tirare, laddove sapeva – come conoscenza remota, non del tutto razionale – si fossero già asciugate le lacrime, lasciando nulla di visibile sul volto pallido dell’Hale; nulla di nuovo sul fronte occidentale. Era… era? Sicuramente qualcosa, a cui non si era permesso di dare un nome fino a quel primo respiro profondo, i polmoni a dilatarsi dopo una vita passati compressi nella gabbia toracica.
    Forse arrabbiato, in parte; deluso di certo, con un pizzico di umiliazione a pungere la gola. Aveva fatto tante, tante, cose stupide, nella sua breve-lunga vita, Mac, ma non si era mai, mai, sentito così… esposto. Vulnerabile. Ricordava quando toccando il costato riusciva a sentire le ossa; neanche allora si era sentito così friabile.
    Chissà perché. Avrebbe voluto saperlo, perché era cosciente non avesse alcun maledetto senso né fosse giustificabile, quel sentirsi spelato e asciugato all’aria. Che non avesse avuto aspettative
    (non era vero)
    speranze
    (non era vero)
    e non avesse cercato conforto
    (che cazzata)
    quando alla fine, dopo mesi, si era presentato in gelateria mettendosi in coda come un qualunque altro cliente, ingoiando l’ansia e la bile nel bisbigliato possiamo parlare? con cui, al proprio turno, aveva approcciato la persona al di là del bancone.
    Che Barnaby Jagger avesse avuto tutte le ragioni del mondo, a rispondere quel che aveva risposto. Che con il senno di poi, poteva razionalizzare e dirsi avesse avuto ragione. Non gli aveva detto nulla che Mckenzie non sapesse.
    Eppure.
    Voleva: sparire. Più del solito, il Corvonero voleva riavvolgere la giornata e ricominciarla, cancellare l’accaduto e rimandare ancora quella conversazione al mai più che entrambi si meritavano.
    (Scomodo)
    Voleva: ancora cullarsi nell’ideale ed il plausibile. Forse l’indomani l’avrebbe pensata diversamente, ma in quel momento preferiva l’angoscia dell’ignoranza a quel macigno chiamato certezza.
    Voleva: respirare. E l’unico posto in cui si sentiva al sicuro di farlo, era l’ultimo in quel di Hogwarts dove Mac aveva potuto guardare Harper senza volersi prendere a testate, masticato da questioni che le aveva sempre detto, ma che in mezzo anno avevano assunto un significato diverso.
    (Resti con me?)
    Voleva: evitare i propri amici. Non avrebbe saputo cosa dire, a Joni o Gideon; si sarebbe tagliato la lingua prima di parlarne con Willow. A Different Lodge, quando non c’era il quinto anno nei paraggi, era difficile che qualcuno gli rivolgesse parola, e non poteva dargli torto. Non solo era quello strano, ma era quello strano forte mago, quello strano mago che voleva diventare legionario. Non c’era davvero mezzo motivo al mondo per cui dovessero parlargli.
    (Grazie a Dio)
    (Non) Voleva: «Qual buon vento.» perché non era nelle condizioni psicofisiche adatte ad affrontare anche quello. Tenne gli occhi chiusi, perché magari – magari - magari si era sbagliato, e non era la voce di Twat, ed allora poteva tornare a respirare veloce fino a che il corpo non si riadattava a misure più sane. Magari poteva evitare di accasciarsi in un angolo, nascondere la testa fra le mani, e premere i palmi delle mani sugli occhi per alleviare l’emicrania da botta di adrenalina e pianto.
    Magari.
    (Plic)
    Socchiuse le palpebre, il capo già abbassato verso le proprie mani. Non sapeva neanche a che gusto fosse, il gelato che dalla coppetta si era sciolto sui polpastrelli impiastricciando le dita. Non ricordava di aver ordinato, o di aver pagato. O come fosse tornato ad Hogwarts.
    «che ci fai qui?» Non si meritava quel tono asciutto, accusatorio ed ironico. Sentì la rabbia tentare di montare soffocando tutto il resto, le sopracciglia corrugarsi in quella nuova scarica di adrenalina che lo spinse ad alzare un seccato sguardo su Twat. Non durò, perché non durava mai. La lasciò gocciolare come (crema, forse? Menta?) il gelato sul polso, prendendo nota delle condizioni in cui versava l’altro.
    Invece del meritato cazzi miei che sentiva prudere fra gli incisivi, lo osservò impassibile un paio di secondi, prima di sedersi per terra al suo fianco.
    Era troppo facile vincere con Mckenzie Leighton Hale. Ma perché la gente ci provava ancora. L’unico che riusciva sempre a perdere era Mort Rainey, che evidentemente non aveva capito il gioco né le regole – grazie a Dio; Mortino ti prego non cambiare mai lasciaci la tua follia senza senso sei la nostra unica fonte di intrattenimento. «non ti aiuterò se non mi dai il permesso» rispettava i suoi spazi e le sue scelte, Mac; il fatto che non le capisse, era un altro discorso. «ma non farlo è stupido» non sarebbe neanche morto per ferite simili, avrebbero solo fatto un male fottuto e senza senso. Se l’orgoglio gli impediva di accettare una mano, per selezione naturale meritava di lasciarci le penne.
    & that was it. Una voce forse più asciutta del necessario, distante – distaccata. Apatica.
    Offrì il gelato senza guardare l’Ivorbone, sperando lo prendesse perché non lo voleva più, non voleva pensarci, non voleva prove di quanto fosse successo.
    «perchè mi eviti?» domandò in un sussurro, ancora fissando un punto sul pavimento di Different Lodge. Visto che l’altro avrebbe potuto fare la stessa domanda, giocò d’anticipo, perché lui non era un gatekeeper. «ci ho provato a non farlo. Non me l’hai permesso.» forse non l’avrebbe ammesso così tranquillamente in un altro momento, ma in quello si sentiva… lontano, ancora incerto sulla propria forma nel piano fisico delle cose. Sembrava uno di quei momenti che esistevano solo per poco; quelli che avrebbe potuto davvero dimenticare.
    Poi, diciamocelo: era stanco di quelle cazzate. E se lo special avesse detto qualcosa di edgy come che non ci avesse provato abbastanza, Mac si sarebbe messo a gridare.
    "ok, i'm normal now"
    (lying) mckenzie hale, 19
    now playing: little talks
    You're gone, gone, gone away
    I watched you disappear
    All that's left is a ghost of you


    lo so non ha senso ma un giorno avrà senso cosa
     
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1 replies since 6/4/2022, 18:56   131 views
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