Votes given by ambitchous

  1. .
    I don’t give a f**k
    uno scricchiolio, un suono ovattato che accompagnava le notti al dormitorio serpeverde, mura sommerse dalle oscure acque del lago simbolo della scuola.
    un malessere che le impregnava le membra da giorni, un malessere che non c’entrava nulla con le ferite che squarciavano la pelle candida della Parker.
    avrebbe lasciato correre, se quel malessere le si fosse presentato mentre era avvolta tra le morbide lenzuola del suo letto scolastico. ma non si trovava a scuola.
    si trovava in un letto asettico d’ospedale, dopo essere stata colpita da dei detriti, molti detriti di un edificio che era lì vicino, tornava tutto in effetti, ma perché si sentiva come se le mancasse un pezzo?
    era già la terza volta in quella notte che sognava cose che al suo risveglio, cruento e immotivato, non riusciva a ricordare, ed era strano, lei non aveva mai sofferto di insonnia, nemmeno quando le suore per punirla la facevano dormire in uno scantinato putrido nel quale la sua unica compagnia erano i topi; si sentiva strana, quasi triste, forse… di quei sogni riusciva a ricordare unicamente il viso di Paris, distrutto, e lei che gli carezzava il capo consolandolo, ed ogni volta si svegliava con una sensazione terribile allo stomaco.
    sospirò, spostando le gambe dal materasso al pavimento, quest’ultimo poteva sentirlo, freddo e tagliente sotto le piante dei piedi, con fatica si tirò su, una mano sullo stomaco, dove poche ore prima aveva scoperto di avere tanti… fori. avrebbe proprio voluto sapere che tipo di detriti le avevano lasciato quelle strane ferite.
    aprì la porta e iniziò a trascinarsi lungo il corridoio buio e quasi inquietante, erano pur sempre le tre di notte ed era quasi certa che non avrebbe trovato nessuno lì fuori a farle compagnia, beh in effetti quasi certa «…Paris» lo chiamò con tono piatto, fermandosi sul posto, pigiama a quadroni, capelli neri sciolti sulle spalle fino ad arrivarle ai fianchi, una faccia stanca e piedi scalzi «non riesci a dormire?» lui, che era stato coinvolto nel suo stesso incidente, lui che occupava i suoi sogni, unica cosa che rammentava di quei probabili incubi «come ti senti? sei ancora ammaccato?»
    si poggiò al muro, stanca di tenersi in piedi, quel maledetto dolore al torace a ricordarle che era lì per un motivo
    «sappi che…» «sappi che qualsiasi cosa sono lì» «qualsiasi cosa sono lì » disse, indicando con un cenno della testa la camera in cui l’avevano sistemata, com’era crudele il destino, le prime parole che rivolgeva a Paris erano come le ultime che gli aveva rivolto sul campo di battaglia.
    ma questo lei, non poteva saperlo

    Delilah
    Parker


    It takes my breath away
    Soft hearts, electric souls
    hothead
    “what are you looking at?”
    amnesia — 17 y.o, slyterin, confusedTake my picture now, shake it 'til you see it
    And when your fantasies become your legacy
    Promise me a place
    in your house of memories
    house of memories
    panic! at the disco
    moonmaiden, guide us
  2. .
    A little bad luck has taught me how to stand
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Avrebbe potuto farlo per ogni presunta frequentazione che portava a casa dai genitori, soltanto per far loro un dispetto o per reclamarne l’attenzione, quando non per trasformare la rabbia celata dietro il trucco sempre impeccabile in divertimento fine a sé stesso. Non lo aveva mai fatto: non era un suo diritto tanto quanto non lo era di nessun altro; si limitava ad essere un buon fratello nel terrorizzare tutte le compagnie che sapeva non essere opportune per Liz, stringendo i ranghi attorno alla maggiore per proteggerla dalle sue stesse scelte – sempre che questo significasse esserlo, un buon fratello. Aveva sempre sperato di sì – aveva sempre creduto che esserlo volesse dire prendersi cura di lei, e non soltanto amarla per com’era; rispettare ogni decisione che la facesse stare bene e anche quelle che facevano il contrario, fintanto che fossero state prese da lei e non dai demoni nella sua testa. Ma non c’era mai stato giudizio negli occhi cioccolato, né nelle mani a sfiorarle le ciocche dorate ad ogni rottura.
    Avrebbe potuto giudicarla quando era caduta in una spirale senza fine, vorticando attorno ad un buco nero dal quale solo ultimamente era riuscita a tirarsi fuori, aggrappandosi al primo fascio di luce disponibile. Chi in un modo e chi nell’altro, tutti lo facevano – tutti, gli dicevano che avrebbe dovuto farlo anche lui. Non ci era mai riuscito, non ci aveva nemmeno mai provato: si era lasciato trascinare sul fondo con lei, piuttosto, sciogliendo una pasticca dietro l’altra sotto la lingua e non potendo fare altro che capirla, e sentirglisi un po’ più vicino. Perché non c’era mai stato nulla di capriccioso o vizioso nei gesti della ragazza – piuttosto un bisogno, ed il modo più semplice per soddisfarlo; e tutte le volte che aveva potuto, l’avevano condiviso. Non c’era mai stato giudizio nei sorrisi poco lucidi, né nei glitter appiccicati tra un abbraccio e l’altro.
    Avrebbe potuto farlo quando era partita per la guerra. Avrebbe voluto farlo, nel momento in cui si era ritrovato con un semplice biglietto – un messaggio, niente più, per comunicargli fosse andata dove non poteva raggiungerla, e dal quale forse nemmeno sarebbe tornata. Ma anche allora, non ci era riuscito: si fidava di Liz più di quanto il buonsenso potesse suggerire di fare, e se l’aveva reputato necessario lo accettava. L’aveva odiata, forse; l’aveva voluta odiare perché non gli aveva detto niente, perché se aveva pensato alle conseguenze aveva ponderato anche l’ipotesi di rimanere nel fuoco incrociato e non aveva reputato opportuno salutarlo come si doveva, ma non era certo di essere stato in grado di fare nemmeno quello. Ed aveva fatto l’offeso, ovviamente aveva fatto l’offeso, perché era suo fratello ed era suo obbligo morale farle pagare in qualche modo il fatto di non avergliene parlato: era la sua vita, poteva fare quello che più riteneva giusto per sé; Balt voleva soltanto essere avvertito, finché poteva. Ma non c’era stato giudizio nel broncio appuntato sul viso del diciassettenne, né tantomeno nel silenzio che le aveva riservato per quei pochi giorni.
    Non avrebbe iniziato ad esserci, quel sentore di giudizio che chiunque poneva con tanta superficialità su Lissette Monrique, nemmeno in quel momento. Aveva pensato di sì, ed avrebbe voluto che fosse vero. Sarebbe stato più facile stare lì, davanti a lei, con i pugni affondati nei jeans e la visiera di un cappellino da baseball a coprire lo sguardo puntato sui fili d’erba ai propri piedi, se solo avesse deciso di riservarle tutto il proprio sdegno – perché avrebbe significato l’essere andati oltre all’odio, ed aver sublimato tutto il proprio rancore nell’indifferenza: non aveva mai creduto d’essere capace di una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta.
    Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire ogni singola, e fottuta, cosa provata tre giorni prima.
    La felicità di aver ritrovato Wren, ed il non aver reputato importante il fatto che fosse stato messo a dormire per due mesi interi: stava bene, glielo avevano assicurato, e tanto gli bastava per portarlo fuori di lì tirandoselo sulla spalla – malgrado non ce la facesse, e la magia fosse più semplice in una situazione del genere; voleva stringerlo, e sentirlo vivo contro di sé, e tenerselo lì perché magari si sarebbe svegliato mentre lo trascinavano fuori ed avrebbe avuto lui al suo fianco.
    Lo sbigottimento, quando aveva visto Kaz e Clay impugnare le armi in favore dell’uomo che li aveva rapiti due mesi prima – un sentimento prettamente egoista, e superficiale: era andato lì anche per loro, il tassorosso; era andato lì per riportarli a casa, e non sarebbe successo.
    Il sollievo, perché tutti i suoi amici (i tibiavorio compresi) erano sani e salvi.
    La paura ad ogni battito troppo potente o troppo debole contro lo sterno, perché non voleva morire, e non aveva un singolo muscolo nel proprio corpo che lo aiutasse a tenersi in piedi come avrebbe dovuto.
    Il dolore di quelle mani premute sulle spalle, di quelle parole a fare più male di ogni colpo ricevuto – persino della pugnalata al petto. La sofferenza della propria voce a rompersi contro le pareti della gola, e ad uscire come singhiozzi privi di forma e senza lacrime a solcare tracciati tra il sangue.
    Cosa stai dicendo, Liz. Non potrei mai dimenticarti. Perché dovrei farlo? Cosa vuoi fare? Non mi lasci da solo, vero? Non puoi lasciarmi da solo, ti prego.
    Ricordava ancora il momento in cui gli era stata tolta la magia, la libertà, la sua scelta; quello in cui era caduto a terra, e di non essere riuscito a provare niente che valesse la pena di essere ricordato – confusione, vuoto, abbandono.
    Ma faceva più male sollevare gli angoli delle labbra, ed il capo per cercare le iridi chiare di Liz. Non perché fosse forzato, ma perché piuttosto era l’unica cosa che volesse fare: voleva che se lo ricordasse così, suo fratello. Voleva non sentirsi abbandonato, per quanto partendo per lo Sri Lanka avesse perso più di quanto avrebbe mai potuto immaginare; voleva rimanere stoico, con i denti stretti ed i nervi tesi per bloccare il prurito agli angoli degli occhi.
    Annullò quella poca distanza che c’era tra loro, e non le diede modo di allontanarsi per qualche stupido motivo che poteva funzionare solo e soltanto nella sua testa: le strinse le braccia attorno alle spalle prima che potesse opporsi, e nascose la testa nell’incavo del collo per qualche istante.
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Non avrebbe iniziato a farlo per una scelta del genere; non se sarebbe stata bene, in pace con le proprie decisioni. Si era sempre preso cura di lei, ma mai quanto il contrario – non l’avrebbe potuta lasciare in altro modo, se non in quello.
    «te quiero, noona.» soffiò sulla pelle della bionda, occhi strizzati per impedire che uscisse anche solo una singola lacrima. Non le disse che non l’avrebbe mai dimenticata, né che non gli sarebbe mancata: non faceva promesse che non poteva mantenere, il Monrique. «vedi di diventare l’imperatrice di questo stupido posto. fatti valere.» deglutì, lasciando che il suo profumo gli si imprimesse addosso quanto più possibile prima di staccarsi da lei. «ci vediamo presto, va bene?» quelle parole uscirono un po’ più secche, ma non poté controllarlo: sapeva sarebbe tornato lì, e che non dipendesse da lui.
    Posò lo sguardo su Kaz, arretrando fino ad essere ad un passo dall’uscita della Bolla, due dita premute sulla fronte ed il sorriso stampato sulle labbra: non gli interessava cosa avessero scelto, era felice fintanto lo fossero anche loro; sperava soltanto che il lumocineta tenesse fede alla promessa, e che si prendesse cura della sorella al posto suo.
    Quando la Città scomparve alle sue spalle, dovette passare il palmo contro il viso e spingere sugli occhi: a quanto pareva, le lacrime non avevano più motivo di stare al loro posto.

    La cosa peggiore, fu credere fino all’ultimo che salutare Liz e gli amici rimasti al fianco di Lancaster sarebbe stata la cosa più difficile.
    Si era sbagliato, e se ne era reso conto quando la realtà che aveva deciso di ignorare gli si era abbattuta addosso con tutta la forza che il golem che avevano combattuto nel teocalli poteva soltanto sognare di possedere.
    Aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, quando lo aveva accolto in un’aula del Castello. Lo conosceva per la nomea che si era fatto nel corso degli anni all’interno della scuola, e perché non c’era una singola persona che il Monrique non conoscesse, ma dopo essere stato tra quelli che avevano contribuito a portarli fuori dalla piramide mesoamericana trovava terribilmente ironico – giusto, eppure così sbagliato – che fosse proprio lui a dirgli che non potesse più rimanere lì. Che non avrebbe più frequentato le lezioni di Hogwarts, che non si sarebbe mai diplomato, che non poteva più passare ogni istante della sua vita con i propri amici.
    Che doveva tornare a casa, parlarne con i suoi genitori, spiegare cosa fosse successo.
    Che era il loro unico figlio, che erano sicuramente preoccupati per lui.
    Allora aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, e di scoppiare in lacrime senza riuscire a fermarsi. Non voleva sembrare un pazzo nel dirgli che non fosse figlio unico – che sua sorella era lì dove il legionario aveva passato gli ultimi due mesi della sua vita, dove era andato per riprendersi un fratello che nessuno sapeva avesse tranne lui –, né disperato nel tranquillizzarlo – era più facile che i suoi genitori lo lasciassero in mezzo ad una strada, piuttosto che preoccuparsi di quel che gli era successo. Aveva chinato il capo perché non voleva che lo vedesse piangere, ma da qualche parte doveva aver fallito – forse nella superficialità con cui aveva creduto che all’ex battitore dei Corvonero non potesse fregare di meno: il suo era un copione, in fin dei conti, frasi fatte e di circostanza da riadattare in base alle esigenze; aveva sentito il sentimento con cui aveva condito quelle parole, ed aveva voluto che fosse per lui, ma crederci era un altro discorso. «non è la fine, balt.» annuì, ma senza alzare lo sguardo sul maggiore. «non sarà facile, ma non sei da solo. hai un gran bel gruppo di amici, no?» a quello assentì con più convinzione, felice al solo sentir nominare i Ben – ma.
    «è stato bello quello che avete fatto in bangladesh.» furono forse le prime, sicuramente le ultime, parole che rivolse al Hale, alzandosi dalla sedia sulla quale si era affossato sempre di più con un sorriso caldo sul volto tirato e stanco. «grazie.»
    Quello aveva fatto male, sì.
    Ma non quanto andare nel dormitorio mentre tutti gli altri erano a lezione di Incantesimi e fare davvero le valigie. Non quanto aspettarli laddove si erano incontrati prima di partire, senza voler guardare fuori dalla grande finestra oltre al pendolo, rimanendo con la testa affossata nelle ginocchia strette al petto – meno guardavano un volto che non riconosceva più nemmeno lui, e meglio era. Non doveva dir loro addio: avrebbe semplicemente vissuto fuori dal Castello, non lo avrebbero dimenticato una volta oltrepassato il cancello – «venite da me quest’estate? ad ibiza.» caso mai pensassero volesse tornare a Barcellona dai suoi –; allora perché lo sembrava? Un anticipazione di quello che Michael aveva profetizzato, che sentiva vibrare nel petto – torna a casa.
    Parlare con Mac non aveva fatto nemmeno male quanto far cadere tutte le valigie nel scontro, chiedere quello «scusa!» prima di rendersi conto a chi lo stava rivolgendo, e che questo lo guardava come se fosse uno studente qualunque? Alla fine quello era Balt, per il guardiacaccia: cosa ne poteva sapere Galen Acharya del fatto che in un giorno, un solo fottutissimo giorno, si fosse fidato più di lui che di quanto avesse mai fatto con Adam Monrique.
    Né aveva fatto male quanto passare davanti all’Aconitea, e sentire sulla bocca dello stomaco e nel petto che ci fosse qualcosa di sbagliato – come se poi se ne sarebbe sbattuto più di tanto le palle, il diciassettenne, che qualsiasi cosa fosse Wren facesse a pugni con qualsiasi cosa fosse lui ora: non avrebbe perso l’unica cosa che era riuscito a riportarsi a casa.
    Non aveva fatto minimamente male quanto lo aveva fatto tornate nella casa che aveva preso con Liz quando si erano trasferiti a Londra, e trovare tutte le sue cose ancora lì: a quel punto, non aveva potuto evitare di cadere a terra e piangere – e piangere, e piangere, fino a quando non ebbe più fiato in corpo per singhiozzare o acqua nei dotti lacrimali per irrigargli il volto.
    Trasse un profondo respiro, ed iniziò a raccogliere quello che aveva lasciato in giro sua sorella. Svuotò il proprio baule, e mise tutto quanto lì dentro, scrivendoci sopra il nome di lei: poteva pur finire per dimenticarla, ma prima o poi quegli averi avrebbero significato qualcosa. Così come avrebbe significato qualcosa quel diario di viaggio, tutte le informazioni e i vari Kaz è pompatissimo e Paris + Theo = </3 ma andrà meglio.
    Avrebbe significato qualcosa anche il ciondolo infilato nella collana – e anche non lo avesse fatto, l’importante era che in quel momento sapesse che la stellina appuntata al collo voleva dire che la avrebbe sempre avuta con sé.
    Fu nel sistemarsela, che posò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Non lo aveva fatto davvero da quando si era risvegliato nella bolla; avrebbe preferito non farlo nemmeno lì. C’era... qualcosa di sbagliato. Fece scivolare le dita sulla pelle del viso, sulle labbra, sul naso, sugli occhi – forse non era nemmeno così sbagliato, soltanto tremendamente diverso; eppure uguale a com’era prima di partire, se non si consideravano le occhiaie e il colore meno acceso dell’incarnato. Chiuse con prepotenza gli occhi fino a sentire il dolore alla radice del naso, e quando li riaprì non guardavano più la propria immagine riflessa, ma una piccola scatolina abbandonata sul mobile.

    Ricordava la prima pasticca che aveva fatto sciogliere sotto la lingua, ma non se ce n’erano state delle successive. Supponeva di sì, perché non era ben certo di come fosse arrivato seduto sul prato dell’Aetas sotto il cielo stellato di Maggio.
    Aveva pianto? Ancora? Anche lì, poteva darsi una risposta soltanto premendo il polso sul viso: sentendolo umido, immaginava di sì – immaginava di aver solo creduto avesse finito, in casa, e che ne avesse ancora bisogno.
    Ma soprattutto: aveva chiamato lui Mimmo? O era stato l’italiano a chiamarlo? Oppure era lì di passaggio anche lui, a vagare senza alcuna meta? Battendo il palmo sull’erba accanto a sé per invitarlo a fargli compagnia, occhi liquidi e sorriso ebbro sul viso, decretò che non gli interessasse affatto.
    «sgodiamo?»
    baltasar
    monrique

    mom, dad
    i failed again
    chosen
    sacrifice
    what did
    you expect?
    nothing but an angel — hufflepuff — 2006It's taken my spirit
    It's taken the words out of my mouth
    I feel like I'm disappearing
    And all I ever seem to say is-
    down with my demons
    Lø spirit
    moonmaiden, guide us
  3. .
    I'm ao sexy and funny and fucking doomed.
    Wren non si era mai sentito così riposato come in quel periodo. Mai. E pure, non era estraneo alle giornate passate ad oziare, o direttamente a dormire, per più ore di quanto fosse lecito o necessario.
    Certo, sentiva i muscoli stanchi, e faceva fatica a compiere anche i più banali e abitudinari dei movimenti, ma tutto sommato si sentiva… sì, ok, un po' spossato, ma riposato. Una cosa abbastanza normale, pensava, di ritorno da un viaggio importante come quello fatto in Bangladesh.
    L'idea di costruire qualcosa, dopo averne distrutte fin troppe nell'ultimo anno, non era stata così male: aveva accettato l'invito di Lapo (o era stato lui a coinvolgere l'italiano?! Non lo ricordava nemmeno più, ma non era importante) e aveva preparato una borsa con solo il necessario per rimanere in Asia il tempo sufficiente e necessario a portare avanti quel progetto, e aveva lasciato tutto il resto dietro la porta serrata del suo appartamento. Voleva ricominciare, voleva andare avanti; sentiva di non averne il diritto, ma ne aveva il bisogno. Aveva passato fin troppo tempo a darsi colpe che non aveva — ci avevano provati in molti a farlo ragionare, e non era servito a molto, perché fino a che fosse rimasto convinto della propria colpevolezza, non avrebbe potuto fare nulla per passare oltre.
    Sapeva, (ir)razionalmente, che una colpa ce l'avesse lo stesso; erano pur sempre sue le mani che distribuivano distruzione, e suo il potere che abbatteva anziché creare, ma non era… lui. Javi glielo aveva detto, Sin glielo aveva ripetuto, persino Lapo stesso aveva provato a fargli quegli stessi discorsi: non poteva mettere uno stop alla sua vita, non se lo meritava.
    Non era propriamente convito che fosse così, Wren, ma poteva iniziare ad uscire dal suo bozzolo fatto di autocertificazione e apatia e… provarci. Sapeva di non essere più soltanto suo, e sapeva che nemmeno tutto il volontariato del mondo avrebbe mai ripagato il male fatto, così come era cosciente del fatto che bastasse nulla per renderlo una marionetta in mano a Seth, ma poteva, per quanto possibile, tornare a rendere il resto dei momenti solo suoi.
    Poteva tornare alla sua vita, interrotta un anno prima e lasciata a prendere polvere per tutto quel tempo, reputandosi indegno di avere qualcosa quando a molti altri aveva strappato via tutto; sotto certi aspetti, era lui stesso una vittima.
    Non gli piaceva pensarsi così, perché non era una gara a chi avesse sofferto di più (e sapeva di essere molto lontano dal raggiungere il podio, in questo senso) e non si trattava di guardare chi avesse la vita peggiore, o la mano di carte più sfavorevole. Era una questione di prendere quel poco che si avesse, e averne cura; custodirlo, farlo crescere, maneggiarlo con abbastanza amore da farlo valere qualcosa.
    Per ogni singola cosa che aveva perso all'alba del primo giugno dell'anno prima, Wren ne aveva ancora così tante che faceva quasi male sapere di averle date per scontate tutto quel tempo, di averle quasi del tutto distrutte solo perché convinto di non meritare più nulla. In quel caso, se avesse rovinato per sempre le cose con Lapo, o se avesse distrutto il rapporto con sua mamma, solo perché troppo debole per affrontare le conseguenze come un uomo, allora sarebbe stata solo ed esclusivamente colpa sua.
    Non di Seth, non di Belphegor.
    Sua.
    Niente da fare: quei due mesi a costruire case per i poveri in Bangladesh (farà sempre ridere, stupido staff) gli avevano proprio dato una prospettiva nuova su tutto, e tornato a casa si sentiva… una persona. Non diversa, non migliore; solo una persona.
    Che era più di quanto si fosse sentito nell'ultimo anno.
    Aveva ancora molta strada da fare prima di tornare ad essere una versione abbastanza fedele a ciò che era stato prima, ma poteva iniziare a mettersi in marcia e… ricominciare, pian piano.
    Sapeva già da dove iniziare, e perché proprio (sua mamma; sempre da sua mamma — ma anche) Lapo.
    Il Linguini gli era stato vicino con testardaggine anche quando Wren aveva provato a tenerlo lontano in tutti i modi che conosceva (pochi, perché era fatto per amare e non per allontanare, l'Hastings, ma tutti uno più disfunzionale dell'altro) e non lo aveva mai lasciato da solo; si era fatto carico dei suoi momenti peggiori, dei suoi bassi ancora più dei suoi alti, aveva fatto muro alle parole dure e non aveva fatto passi indietro anche quando Wren aveva esagerato. Il solo fatto che fosse ancora lì, al suo fianco, sempre al suo fianco, la diceva lunga su Vittorio Emanuele Linguini. E su quello che, oramai, significava per Wren.
    Sapeva di non meritarlo, e una parte di lui che era impossibile da ignorare per lo special, gli ricordava quotidianamente che non avesse alcun diritto di essere felice e di avere accanto qualcuno da amare, che quelle mani con cui accarezzava il minore avessero ucciso e dilaniato e causato più dolore di quanto fosse umanamente possibile, ma non gli interessava. Non più. Aveva pagato le conseguenze delle sue azioni, della sua stupidità, e avrebbe continuato a farlo probabilmente per sempre, ma non perdendo Lapo. E poteva non fidarsi di se stesso, poteva non avere controllo sulle proprie azioni nei momenti meno propensi, ma si fidava di Lapo: e sapeva che non sarebbe mai stato così stupido da lasciare che gli facesse del male cercando di farlo ragionare. Gliel'aveva promesso. Si fidava di Lapo, se non poteva fidarsi di se stesso.
    Ed era proprio da lui (da loro) che Wren avrebbe ricominciato.
    Sapeva già come.
    Beh, più o meno.
    Gli serviva giusto un complice interno, qualcuno che lo facesse entrare nel locale senza chiedere se fosse lì come cliente o come lavoratore — duh, come se non sapessero perfettamente che fosse il ragazzo del Boss. Che simpatici.
    Qualcuno, alla fine, lo aveva trovato; allo stesso qualcuno aveva chiesto anche di attirare Lapo in quella stanza con la scusa di un letto rotto, o qualsiasi altra cosa attivasse il proprietario di un bordello con una certa urgenza pur rimanendo nel limite dell'accettabile. Sì, lo sapeva che un appuntamento nelle stanze del Mr Worldwide non era dei più romantici, ma Lapo lavorava così tanto in quel periodo che non c'era altro posto dove Wren potesse raggiungerlo.
    Che poi lo special avesse anche la strana e inspiegabile sensazione che il minore lo stesse evitando (e senza motivo, tra l'altro!!!) era un altro paio di maniche; certe cose le sentiva nelle ossa, l'Hastings, ma preferiva non ascoltarle.
    Si mise comodo sul grande letto al centro della stanza (wow, era comodo davvero), gambe incrociate e peso reclinato all'indietro, gettato su un braccio piegato che sosteneva anche la testa. Tamburellava con le dita dell'altra mano un ritmo che aveva in testa sa quando aveva aperto gli occhi quella mattina, ed attendeva che il signore di quel rispettabile locale arrivasse per "verificare" la situazione… c'erano un po' di cose di cui dovevano parlare.
    Il ti amo gate non era una di quelle.
    wren
    hastings

    my gender
    is loverboy
    love shack
    where the sign says love rules at
    spcial wizard
    geokinesis
    the pariah — 1997, baker, shadownever really said that I loved you,
    lucky, lucky you, 'cause I'm fortune's fool
    such small words
    but they hit so huge
    creatures im heaven
    glass animals
    moonmaiden, guide us
  4. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    irish
    slut
    un-holy
    aidan kenneth gallagher-lestrange
    «stai perdendo tempo.»
    Batté le palpebre, Aidan, e alzò lo sguardo sulla donna. Non le chiese cosa ci facesse sul ciglio della porta, le braccia conserte e le iridi scure a cogliere le sue nello specchio. Nel breve periodo di convalescenza che aveva passato al suo fianco, d’altronde, aveva imparato due cose su di lei: era un medico, primo, e il suo livello di considerazione per la privacy altrui rasentava lo zero, secondo.
    Fece un passo indietro, e roteò il busto così da poterla guardare davvero. Stava facendo un favore a se stesso, realisticamente, a dare le spalle a quello spettacolo perturbante. Rimandato all’ultimo secondo per quel motivo esatto: aveva odiato tutto dello sconosciuto che gli si era presentato davanti. Lo spettro di Aidan Gallagher, tornato storto e sbagliato.
    Poggiò la schiena contro l’estremità del lavandino, e imitò la sua posa. Due spicchi della stessa luna; conuctio. Ironico come non mai. «prima mi trascinate nella vostra merda e poi mi scacciate come se non mi voleste tra i piedi.» piegò il volto contro la spalla, e non sorrise. «ferite il mio orgoglio, così.»
    Non glie lo disse che Jeanine Lafayette poteva smettere di rompergli il cazzo e tornare a sacrificare vergini per il bene dell’universo, o qualunque cosa facesse nel suo tempo libero. Sperava fosse ovvio nelle linee spigolose che lo componevano, per quanto macchinose gli risultassero in quel momento: si sarebbe preso tutto il tempo che lo aggradava, e loro se ne sarebbero fatti una ragione.
    In egual maniera, la ragazza non gli disse che non era lì in veste ufficiale; né tantomeno che la cara Jeanine era già tanto se si ricordava della sua esistenza. Abbassò il mento, fissandolo con un pigro disinteresse, e piuttosto scelse la violenza. «non cambierà niente.»
    Il gelo non attese la fine di quell’affermazione, prima di espandersi nel suo petto; già sapeva, Aidan, dove volesse andare a parare. «dimenticherai lo stesso.»
    E sapeva anche quello. Sapeva di star rubando qualcosa che era destinato a perdere in ogni caso; che l’unico modo che aveva di tenersi strette quelle briciole era rimanere. Ma era Aidan, purtroppo. Aidan Gallagher, Lestrange, e non aveva mai smesso di scegliere se stesso. Neanche di fronte a quella particolare creatura eldritch — neanche quando scegliere se stesso imponeva una certa condizionalità all’amore che era disposto a condividere. Quando farlo mangiava le sue interiora e avvelenava la sua gola.
    Glie lo aveva chiesto di nuovo. Una volta sola, perché non gli piaceva ripetersi, né tantomeno apprezzava la sensazione di quelle lame a scivolargli a pioggia nella carne. Toothless aveva abbassato lo sguardo sulle Converse, e non aveva detto niente. Se n’era andato un po’ prima del solito, dopo minuti di silenzio teso più dolorosi di quel rifiuto implicito, e tanto era bastato.
    Non rispose a quella chiara provocazione. Anche se sospettava che non fosse quello il suo intento; e non capiva come, o perché, ma non era importante. Si rese conto di aver abbassato lo sguardo — lo ripose su di lei. «non mi hai mai detto come ti chiami.»
    «dimenticherai anche questo.» schioccò la lingua contro il palato, la Crain. Ma lo indugiò lo stesso. «Isobel.» studiò Aidan mentre tastava il nome sulla lingua, circospetto. E sorrise per entrambi, allora; un ghigno divertito che non raggiunse i suoi occhi. «strano, vero? non hai idea di quanto lo sia per me. ma — com’era, quella storia. quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente. eccetera, eccetera.»
    La guardò ancora. Spostando le sue attenzioni il giusto necessario da vederla pescare una carta dalla tasca della giacca, tendere il giudizio verso di lui. Avrebbe riso, Aidan, se solo ne fosse stato in grado.
    «salutamele.»
    Si strinse nelle spalle, e non accennò a voler prendere la sua carta. Fanculo i tarocchi. Fanculo Toothless, e fanculo Isobel. Avrebbe voluto urlarle di non essere un fottuto gufo; che se proprio avevano cose da dire ad altri che non fossero Aidan stesso, potevano uscire da quel posto di merda e farlo da soli. Ma di nuovo, si tenne per sé le parti peggiori del suo astio. «non so di chi parli.»
    «lasci davvero che ogni evento della tua vita venga attribuito al caso?» eliminò la distanza, allora; e posò Il Giudizio sulla porcellana. «è proprio vero che non bisognerebbe mai conoscere i propri idoli. vattene» gli rivolse un ultimo sguardo, Isobel Crain. E quella volta, Aidan si concesse di notare la familiarità di quel volto – le linee che marcavano la sua faccia, quella particolare tonalità di nocciola che aveva studiato e studiato; che amava così tanto, in ogni universo. Le onde ordinate a scivolarle sulle spalle; quel tono nella sua voce che sembrava tagliarlo a metà, in un modo così intimo da poter provenire facilmente dalle sue stesse corde. «mi occuperò io di lui.»
    Non era forse per quello, che l’avevano rispedita vent’anni nel passato? Recuperare i cocci, e aggiustare gli errori dei suoi genitori in un kintsugi che non aveva mai smesso di lasciarle l’amaro in bocca.
    Rimase lì, a fissare quella porta spalancata, anche quando ormai se n’era andata da tempo.
    Finalmente riposò le iridi smeraldo sulla carta; la bocca stretta in una linea retta, e un’accusa affatto velata a studiarne i contorni.
    La intascò, perché che altro avrebbe potuto fare, e uscì da quel bagno. L’aria si era fatta un po’ troppo pesante, un po’ troppo rapidamente.


    Quindi. Aveva un copione.
    L’aveva ripetuto per tutta la strada di ritorno; in un taxi, ignorando le occhiate frequenti dell’uomo al volante e i suoi tentativi fallimentari di portare avanti una conversazione che mettesse entrambi a loro agio. Non aveva la pazienza per lui o per la sua curiosità fuoriluogo — quella con cui aveva continuato a fissare le sue mani guantate, incrociate elegantemente sulle gambe, e le ferite nella poca pelle rimasta scoperta. Aveva ingoiato così tanto, Aidan. E non era ancora successo un cazzo. Il tempo di sussultare sulla barella, mettere a fuoco i dintorni; cercare la bacchetta, e non sentirla più sua. Non sentire più la magia scorrergli nel palmo e ricordare che quel vuoto percepito non era solo stordimento, era… una mutilazione, nel senso più crudo. Un voltare alle spalle a tutto ciò che conosceva – di nuovo. La stessa che aveva avvertito a tredici anni, quando aveva alzato il polso nel letto di ospedale e visto gli squarci ricoperti di unguento. A sedici, quando aveva nascosto il braccio rotto dietro la schiena e accettato a denti stretti un nome e un cognome che non avevano mai smesso di essere estranei. Obbligato a conoscersi per l’ennesima fottuta volta. Ad abituarsi a un organismo alieno, a respingere il tremore che minacciava di scuoterlo da testa a piedi. Quella familiare disperazione; la stanchezza, la voglia di tornare a casa. Una costante.
    Posò il palmo aperto contro il legno della porta, poi la fronte. E chiuse gli occhi. Respiri lenti a regolarizzare il battito del cuore, e a riabituare i polmoni al profumo, di casa. Uno che aveva ben poco a che vedere con muri e mobili e finestre. Che era dall’altro lato della toppa, se solo avesse trovato la forza di spingerci la chiave dentro.
    Forse sarebbe stato meglio andarsene.
    Era ancora in tempo.
    Strinse la mandibola, e percepì il solletichio sullo zigomo prima ancora di vedere la lacrima spaccarsi sullo zerbino. E sussultò perché quello — non era calcolato. Così come non era calcolato il rumore dietro la porta; l’improvvisa mancanza di un corpo solido a separarlo dall’appartamento. Avrebbe davvero voluto scacciare quella debolezza; strofinare le mani sul volto e alzare la testa per incontrare lo sguardo di Archibald. Dire qualcosa. Ciao, sono tornato, sto bene, sono graffi di poco conto. Cristo, ci era riuscito fino a quel momento. E invece lo colpì tutto insieme, un fiume in piena. La realizzazione di dover entrare in quell’appartamento e superare una stanza vuota; di dover fingere che andasse tutto bene. Di trattenere il peso di quei mi dispiace che non avrebbe mai potuto pronunciare ad alta voce; a quale scopo, quando Arci e Jay e Gwen neanche ricordavano il motivo dietro quelle scuse. La persona che gli doveva quelle scuse. Ci provò davvero, a fare quel passo in avanti — crollò a terra. Ancorò le mani alle pareti, e non riuscì a fare proprio un cazzo; pianse, patetico e distrutto in modi che non era ancora del tutto in grado di comprendere, e alla fine glie lo disse lo stesso.
    Tra respiri rotti, ciascuna parola a dislocarsi dalla gola come gomma sciolta: «mi dispiace.»
    Mi dispiace mi dispiace mi dispiace mi dispiace.
    «arci» e quello. Quello fece così male. Grattò sulla laringe, spinse nella cassa toracica fino a spezzare le ossa. «perdonami.»
    Sapeva, logicamente, che se solo avesse saputo – se solo il Leroy-Baudelaire avesse avuto una minima idea di cosa significassero davvero quelle parole – non lo avrebbe fatto. Non se lo sarebbe meritato. Egoisticamente, perché quella era l’unica cosa in cui eccelleva, lo chiese lo stesso. Ancora e ancora e ancora. Conscio di non poter ricevere davvero una risposta negativa, senza il contesto necessario. Ma ne aveva così bisogno.
    Who made you like this? Who encrypted your dark gospel in body language?
    Synapses snap back in blissful anguish
    Tell me you met me in past lives, past life
    Past what might be eating me from the inside, darling
    Half algorithm, half deity, Glitches in the code or gaps in a strange dream
    Tell me you guessed my future and it mapped onto your fantasy
  5. .
    they hate to see a boytoy win.
    Doveva aver battuto violentemente la testa, non c'erano altre spiegazioni per il comportamento di Lawrence.
    Battè le palpebre un paio di volte, scacciando il ronzio nelle orecchie con un gesto della mano, come se fosse una zanzara, il problema, e non i ripetuti colpi alla testa ricevuti.

    Continuò a camminare verso Cherry, o meglio, a trascinarsi verso la bionda, incurante del fatto che incespicasse sui propri piedi un passo sì e l'altro pure, o che la vista fosse appannata dal sangue che colava sugli occhi.
    Batté le palpebre, e le trovò coperte da un liquido denso, appiccicoso, e cremisi.
    Sangue?
    Beh, Lawrence, cos’altro poteva essere.

    Quando la raggiunse, le prese il viso tra le mani tremanti e le chiese, con un moto di apprensione che solo la Benshaw poteva suscitare in lui «stai bene?»
    Non si era nemmeno reso conto di essersi effettivamente mosso, ma la presenza di Cherry fra le proprie braccia era solida e tangibile, un chiaro segno che non stesse immaginando tutto.

    Le spostò i capelli dal viso, poggiando la fronte contro la sua, e respirando piano — cristo santissimo, sembrava che i polmoni stessero andando a fuoco, ogni cosa gli faceva male, e voleva solo tornare a casa sua e dormire sei giorni di fila.
    Vero, incredibilmente vero.
    Delle voci della gente intorno a loro non gli interessava nulla; non era nemmeno sicuro di riuscire a percepirli, gli altri esseri umani. C’era solo la sua migliore amica accovacciata di fronte a lui, pezzi di piombo — no, di metallo, conficcati nella gamba, parte di qualsiasi ordigno avessero fatto esplodere, chiaramente.
    «sembra il foro di un proiettile, ah ah» lo sfirò piano, prima di rendersi conto che fosse davvero una pessima idea.
    Uh.
    Beh, le idee – e i pensieri – arrivavano tutti ovattati, in quel momento. AH!
    Era molto stanco, Lawrence. Voleva solo dormire.
    Aveva davvero un solo desiderio in quel frangente e, stranamente, non era rotolarsi tra le lenzuola di uno sconosciuto e dare alle stanche membra un motivo per essere davvero stanche.
    Il suo desiderio era uno.
    Era—

    «andiamo a casa» così, di punto in bianco, nel bel mezzo della battaglia si.
    Era la prima e l'ultima volta che andava a morire per Moka. O per il vecchio bastardo.

    «andiamo a casa.»
    Potevano? Ma si che potevano.
    E in che senso qualcuno ha fatto esplodere una bomba, australiana stai zitta, tu e il tuo stupido accento, vai via, lasciaci stare, lascia in pace Cherry, lascia—
    Oh Dio, ma certo, qualcuno aveva fatto esplodere una bomba.
    Aveva sentito l’onda d’urto (le onde d’urto, plurale! AH!) scaraventarlo via prima di realizzare davvero cosa stesse succedendo; era finito contro il bancone del gate, Lance, sbattendo con violenza la testa. Era finito a terra, senza essere in grado di ripararsi dalla caduta, ed impattando con il pavimento freddo dell’aereoporto con la fronte, tanto perché non aveva già preso abbastanza botte.
    E non il genere che piaceva a lui, poi!
    «qualcuno ha fatto esplodere una bomba» ripeté a Cherry, a sua – non dirlo. Non dirlo Lawrence, «mamma, stai bene?»
    Batté le palpebre, senza preoccuparsi di togliere il sangue dallo sguardo castano che faticava più del necessario a mettere a fuoco la figura della strega.
    Mamma?
    Scoppiò a ridere, e poi si rifece serio.
    Poi rise di nuovo.
    «devo vomitare.»
    Si sentiva un Hugo Cox qualunque prima di qualsiasi esame — e si, certo che conosceva Hugo Cox, avevano fatto tutte le scuole insieme.
    Ed in effetti, vomitò.
    Ma tra detriti, sangue, gente che perdeva braccia e gambe come pezzi dei lego, il panico generale e le condizioni di quel dannato terminal, dubitava qualcuno se ne sarebbe accorto.
    Sperava almeno di aver vomitato sulle scarpe di Claudia, che era ancora lì, e voleva rubargli la mamma la sua migliore amica.
    Protestò con quanta più veemenza gli fosse concessa dal fisico provato, ma alla fine perse la presa su Cherry, e fu costretto a lasciarla alle cure di una decisamente più funzionale Moor. Le vide sparire entrambe, una bionda appena un po’ più viva dell’altra, e mise il broncio.
    «stronze!» Nemmeno lo avevano aspettato.
    Si rimise in piedi, usando le sedie – divelte da terra e scaraventate via dall’esplosione – come supporto; impresa davvero complicata, si rese tristemente conto, se non tanto per le gambe cedevoli e tremanti, per il continuo senso di vertigini che non ne voleva sapere di lasciarlo stare. Si rese conto dell’essere ad un passo dal perdere conoscenza – di nuovo?! – solo quando la presa scivolò lungo il metallo freddo, e quasi finì nuovamente a terra.
    Intorno a lui la gente si muoveva in maniera sempre più concitata, e la sola idea di dover alzare lo sguardo per osservare lo fece rimettere di nuovo. Il terminal danzava in immagini confusi davanti alla sua visione sfocata, e il ronzio nelle orecchie non ne voleva sapere di scemare.
    Non era un dottore, ma poteva arrivarci anche lui a capire che non vertesse nelle migliori delle condizioni.
    Oh, ma! Un dottore, certo. Aveva bisogno di un medico. Qualcuno che si prendesse cura di lui. Dottore.
    Doc.
    Doc?
    Smaterializzarsi senza un’idea precisa di dove si voleva finire era sconsigliato da qualsiasi istruttore di Smaterializzazione, e da qualsiasi mago con un pizzico di buon senso.
    Evidentemente non era il caso di Lawrence Matheson che, senza nemmeno pensarci due volte, chiamò a sé la magia necessaria per allontanarsi dalla scena del crimine, e finire il più lontano possibile da lì.
    No, non lontano.
    Bastava che fosse da qualche parte con un dottore.
    L’ospedale!
    Si, beh, certo — per una persona normale e senza una commozione cerebrale in corso sì. L’ospedale.
    Per Lance?
    Beh. Lui lo conosceva, un dottore.
    «busso.»
    Bussò.
    Accasciato alla porta di casa di Sinclair, ma lo fece.
    lawrence
    matheson

    Hangover, no closure, turn over; there you are.
    Bad choices, loud noises, && taking it way too far
    spaceboy
    “a young, pretty, homosexual”
    wizard
    not a perfect soldier (nor a good man)
    the victim — 2000, entrepreneur, pretty boyI waste all my time walking sacred lines
    with you on my mind;
    && now that we've said goodbye, there's no more
    "one more time"s; I start to wonder why
    Why I ever wanted to let go, yeah
    regrets
    steve howie
    moonmaiden, guide us
  6. .
    *still uses pinky promises as a legitimate foundation of trust*
    C’era un no ancora incastrato in gola, un urlo strozzato e che risaliva direttamente dalla pancia, cresceva nel petto, e moriva sulle labbra.
    C’erano occhi colmi di lacrime, occhi che avevano visto più morte e sangue in quelle ultime quarantotto terribili ore che in meno di diciannove anni di vita.
    C’erano braccia allungate per stringersi un’ultima volta attorno a corpi familiare, e altre braccia a tenere fermo un corpo che si muoveva col pilota automato.
    C’erano mani alla disperata ricerca di un pezzo di stoffa fa tirare, stringere, strappare. Tenere con sé.
    C’era un cuore che batteva troppo forte, ad un ritmo impazzito e insopportabile, a tanto così dallo spezzarsi — no, che dico, si era già spezzato.
    Si era spezzato quando gli occhi verdi di Dylan avevano trovato nell’esercito alle spalle di Jeanine il viso per cui era arrivata fino a lì, quelle fossette morbide di cui in quel momento non c’era traccia, gli occhi neri e meno vispi di come li ricordava, e i capelli sempre lucenti e perfetti.
    Kaz? Cosa… cosa stai facendo. Clay??? Kaz… Kazzino, no. No. Nonono.
    Si era definitivamente rotto quando si era voltata, e aveva trovato Gaylord pronto a scavallare quella barriera invisibile, a schierarsi con le stesse divise che fino a quel momento avevano combattuto; pronto a difendere la Bolla dalle creature oscure che si avvicinavano.
    Gay… Gay torna qui. Gaylord non lasciarmi.
    Per un attimo, Dylan Kane non aveva sentito più nulla. Il suo mondo si era ridotto a–
    Kaz con la divisa del Nuovo Ordine.
    Gaylord che sceglieva la Bola.
    Thor che spariva oltre la faglia nella barriera.

    Voleva tornare a casa.
    Voleva tornare alla Villa che i suoi genitori avevano tirato su senza amore e con molti soldi, voleva tornare alle sgridate di sua mamma e ai vizi concessi da suo papà. Voleva tornare a rompere le palle a Kiel, a saltare sul letto di Joni, a giocare nel parco con Thor, a intrecciare i capelli di Sana, a spiare le coppiette con Kaz, a imparare i nuovi passi delle coreografie di Clay, a fare il tifo per Aracoeli, a lavorare per Ake, a fare l’amore con Gaylord.
    Non voleva più trovarsi lì.
    Non voleva combattere i suoi amici, o altri sconosciuti, in nome di qualcosa che non poteva sostenere; che non poteva credere fosse alla base di quell’impossibile e incolmabile divario fra lei, e le migliori parti di se stessa.
    Le era impossibile concentrarsi sulla battaglia – non voleva più combattere, era arrivata fin lì per trovare Kaz, e l’aveva trovato, ti prego Kaz torniamo a casa, torniamo a casa, torniamoacasatipregotiprego ti prego – eppure era costretta a farlo, se non altro per proteggersi dai loro attacchi. Non aveva la testa, non quando il suo sguardo continuava a cercare Gaylord, e Joni,e Kaz, e Clay, e dov’è finita Thor, Joni dov’è Thor, dov’è dov’è dovedovedovedove.

    C’era un urlo incastrato nella gola, al tremare improvviso della terra.
    Un urlo, e un cuore a perdere due, tre, mille battiti mentre gli occhi arrossati, grandi e disperati, si appoggiavano un’ultima volta sul viso di Kaz, e poi su quello di Gaylor, e poi di nuovo su Kaz. Una promessa stretta fra le labbra dello special; le lacrime a lavare via sangue e terra e fatica e delusione dalle guance della rossa. Le braccia di Joni a stringerla all’altezza della vita, per impedirle di correre da loro — avevano fatto una scelta, tutti quanti. Tutti.
    Un’altra scossa, la luce argentea della bolla, quella forza invisibile ad allontanarla per sempre dai ragazzi che amava, in modi totalmente diversa ma ugualmente, fottutamente, disperata.
    Era fatta per quel genere di emozioni, Dylan Kane, sapete? L’amore incondizionato. La devozione. La complicità. L’adorazione. La gioia. La sciocchezza immatura di un cuore che vedeva sempre e solo le cose belle nella vita.
    Non per il dolore, non per la perdita.
    Non lo voleva il sapore amaro di un ti amo che non riusciva a lasciare libero, perché non voleva fosse l’ultimo. Poteva solo urlare i loro nomi, urlare a Joni di lasciarla andare, urlare che non poteva finire così, no no no. No.

    C’era ancora un no incastrato in gola, quando Dylan aprì gli occhi.
    Un cuore che batteva lento e placido, ma che mancava di qualcosa.
    Occhi rossi che bruciavano, il sapore di terra a premere sulla lingua, la fatica a far cedere i muscoli, e rendere ogni movimento pesante e difficile. C’era la consapevolezza di aver perso qualcosa, di aver sofferto, di stare male.
    Joni?
    (Thor?)
    E qualcos’altro.
    Che aveva un nome, ma Dylan non lo ricordava.
    Batté le palpebre, e una singola lacrima rimasta incastrata scivolò lateralmente, bagnando il cuscino. Sorpresa, la ragazza cercò la scia umida lasciata dalla perla salata, e la pulì via con la punta del dito. Non si era resa conto di aver pianto.
    Quello non era il suo letto.
    Con estrema fatica, ruotò la testa verso la finestra; la luce a filtrare dalle tapparelle alzate bruciava gli occhi già stanchi, ma la fissò lo stesso, cercando di ricordare. C’erano solo —
    (un urlo incastrato in gola, un battito del cuore a mancare, un no strozzato tra labbra screpolate)
    — il sapore del sangue incollato al palato, e l’odore di fumo che rimaneva sui capelli, e nel naso, e sulla pelle.
    «è stato un attentato?»
    Uscirono un po’ rauche, le parole, e molto basse. C’era qualcuno lì con lei, lo sentiva agitarsi nel letto accanto. Alzò di poco la testa, distogliendo lo sguardo dal paesaggio fuori dalla finestra, e si aspettò di trovare… beh, non Irisi Roux. «cos’è successo?» Ricordava di essere seduta su una panchina, Joni che la stringeva a sé per evitarle di correre dietro a qualcuno… uh, dietro a chi? Beh, sicuramente qualcuno di non così importante se non ricordava nemmeno il loro nome. O il viso.
    Alla studentessa rivolse un’espressione preoccupata. «devo avvisare Akelei… il ministero…» giusto? Lo sapevano già? Ma si, dovevano saperlo per forza.
    Cadde all’indietro sul letto, tra i cuscini scomodi, e sospirò.
    (Pianse.)
    «hai visto joni, per caso?»
    Voleva la sua migliore amica, voleva—
    Voleva qualcosa.
    Voleva qualcuno.
    Voleva Joni.
    Voleva Joni?
    Voleva—
    dylan
    kane

    kind heart, fierce mind,
    brave spirit
    phantom pain
    “it’s no longer there,
    but it still hurts”
    witch
    little broken-hearted girl
    the good — 2005, huntress, red furythey say bad things happen for a reason
    but no wise words gonna stop the bleedin'
    (&& what am I going to do when
    the best part of me was always you?)
    breakeven
    the script
    moonmaiden, guide us
  7. .
    mort + golem (mckenfffie's version)
  8. .
    Io: "No ma dai, va bene, tre e poi basta."
    Sempre io: "vabbè almeno con 4avrò un gruppo completo"👁👄👁


    CODICE
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    </tr>

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    <td>pv: Lily Collins</td>
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    <td>profilo: [URL=https://top.forumcommunity.net/?act=Profile&MID=12714377]Riven Ripley[/URL]</td>
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    </tr>


    Edited by Kerfuffle™ - 2/5/2024, 17:50
  9. .
    If the wind turns, if I hit a squallAllow the ground to find its brutal way to me
    may 4th, 2024
    È la luce, ad attirare la vostra attenzione. State seguendo le indicazioni sulla mappa, procedendo per quelle che continuano a sembrarvi le stesse, maledette strade impervie, stanchi e sporchi di sangue - vostro, ed altri - quando il segnale luminoso vi interrompe. La cartina fra le vostre mani si scalda, intiepidendo i polpastrelli.
    C'è un punto, ora. Preciso. Specifico.
    Nel tragitto, John, Adrian e Corvina si fermano spesso. Liam e Amaranth, si lanciano sguardi d'intesa. L'hanno già vista, quella strada. La conoscono. Malgrado a voi paia sempre identica, loro insistano sia familiare, anche se non saprebbero dirvi dove porti.
    A cosa, porti.
    Armi alla mano, bacchette pronte. Ogni sibilo è un sobbalzo, il cuore in gola a premere con urgenza - ma alzando pistole e lame ai nemici, vi accorgete non lo siano affatto.
    I Sowelo trovano i Berkana. I Perth si scontrano con i Raido, incrociando poi i Laguz. Othila e Uruz raggiungono i piedi della montagna dai frangenti opposti, ma nello stesso momento.
    Alcuni compagni che avevate lasciato all'accampamento sono già lì, ed indossano tutti la stessa espressione (stanca. provata) perplessa, nel guardarsi attorno.
    Chi prima e chi dopo, arrivate tutti.
    Il vice ministro è lì con parte dell'esercito. Anche loro si guardano attorno, attendendo cosa abbia spinto la mappa ad indicarvi quella destinazione. Mentre vengono prestati i primi soccorsi, loro si dividono per esplorare la zona, allontanandosi sotto la copertura degli alberi.
    Ed è quando anche l'ultimo fra loro lascia il circolo, che un silenzio innaturale avvolge la radura. Lo sentite schiacciare fra i denti come qualcosa di fisico e concreto, ma non potete fare nulla: non emettete alcun suono; i vostri passi, non producono rumore.
    Qualcuno si schiarisce la voce.
    Dalla base della montagna, spunta… buffo.
    Una bandiera bianca.

    «troppo tardi per dire che vengo in pace?»

    Familiare, per alcuni. Non per tutti.
    Dalla roccia, la stramaledetta roccia, esce il volto di un uomo che gioviale sventola la bandiera e vi sorride.
    William Lancaster non è invecchiato di una virgola.

    «precauzioni necessarie»

    Fa un cenno alla foresta, e non sapete se si riferisce all'aver esiliato il Ministero, o alle misure di sicurezza che siete stati costretti a superare per arrivare a quel punto.
    Potete provare ad affrontarlo, se volete. È da solo, dopotutto. E se lo farete, scoprirete che nulla pare essere in grado di toccarlo: la magia sembra non percepirlo, come se non fosse davvero li. Ma lo è, ed è lui. Chi ha avuto l'onore di conoscere il fu preside di Salem, non ha dubbi in proposito: uno dei Grandi Tre, i maghi più famosi e potenti del mondo magico. William Lancaster, preside di Salem; Jeanine Lafayette, direttrice di Beauxbatons; il fu Dragomir Vasilov, morto all'avvento di Abbadon.
    Nessuno aveva più avuto notizie di Lancaster, né di Jeanine, dalla Guerra di Primavera, ma chi aveva partecipato schierandosi contro Abbadon, li conosce bene: sono stati loro a guidare l'esercito della rivolta.
    Loro, a perdere. La voce di William Lancaster quella a vibrare nei walkie talkie, annunciando che gli dispiacesse. Che fosse troppo tardi.
    Sparisce alla visuale, solo per rispuntare poco dopo. Vi guarda divertito, spingendo gli occhiali da sole alla radice del naso.

    «siete arrivati fin qui. non volete vedere perché? su, su!»

    Vi fa un ampio cenno con il braccio invitandovi a seguirlo oltre il muro, e voi … voi, potreste non farlo, sapete. Potreste rimanere nella radura, attendere che l'incanto svanisca e il Ministero possa tornare a raccogliere i pezzi.
    Ma non lo fate, perché Lancaster ha ragione: siete arrivati fin lì, vi meritate di sapere per chi. O per cosa. Quali memorie sono state cancellate, quali segreti persi fra un punto e l'altro della burocrazia. Se stanno davvero bene, tutti quanti. Di quale casa avessero parlato gli informatori, prima di perdere la vita sotto le cure dei responsabili dell'accampamento.
    Chi più reticente di altri, seguite l'americano oltre il Portale. L'aria è sottile, li. Vi sembra di attraversare il nulla per un istante, di non avere gravità né baricentro. Chi fra voi è in grado di manipolare le ombre, potrebbe trovarlo simile ai vostri passaggi oscuri.
    Non lo è. Non del tutto, perlomeno.
    Il paesaggio di fronte a voi, non è differente da quello che vi siete lasciati alle spalle. Vi sembra, se possibile, ancora più umido, e guardando le piante, vi rendete conto siano…diverse, rispetto alle precedenti.
    Non siete più in Sri Lanka.
    Messico, forse. Il terreno sotto i piedi è soffice, gli alberi alti e fitti. Scimmie vi osservano dai rami più bassi con occhi curiosi, e lo sfrullare d'ali degli uccelli tropicali vi accompagna mentre vi addentrate nella vegetazione.

    William Lancaster non parla, limitandosi a guidarvi nel dedalo verde. Vi indica una pianta, ogni tanto; vi offre curiosità sulla fauna con il tono paziente di chi ha passato tutta la propria vita ad insegnare, e lo trova ancora stimolante come il primo giorno.
    Non risponde alle vostre domande.
    Non è ancora il momento. O forse, semplicemente, non gli importa. Difficile dirlo, con l'uomo.
    All'inizio neanche ci fate caso. Sembra il solito Lancaster quello che si avvicina all'uno o l'altro dei vostri compagni, e date per scontato stia raccontando anche a loro quali specie sono a rischio estinzione. Non è quello, però, che bisbiglia con mani allacciate dietro la schiena ai Cinque. È impermeabile alla loro rabbia. Alla disperazione, risponde con i toni piatti e cordiali di chi nella vita ha preoccupazioni maggiori.
    E vi chiede, Adrian e Corvina. Liam e Amaranth. John. Vi chiede: li rivolete? Si sfiora il petto con il pollice, ed istintivamente fate lo stesso. Sapete di averlo ancora, il chip. Le altre cariche ministeriali si sono trattenute a a stento dall'estrarlo, supponendo avrebbe portato alla vostra morte. Gli servivate più da vivi, che da morti.
    Non siete obbligati ad accettare. Vi lascia un po' di tempo per pensarci, prendendo nuovamente le distanze.
    Svolta in una strada che non avevate notato, e non avreste notato, da soli. Vi rendete conto che l'ambiente sembra reagire alla presenza di Lancaster in modo subdolo. Sottile. Sembra adattarsi. O forse è il contrario, vi suggerisce divertita la vostra mente; forse è William Lancaster, il Portatore dell'Equilibrio, conoscitore di ogni zolla di terra. Ogni foglia.
    È divertente, fintanto che una parte di voi, immancabilmente, non finisce per crederlo possibile. Allora potete solo limitarvi a seguirlo.
    Quando parla, infine, la sua voce sembra giungere da ogni germoglio e tronco. Da alberi e frutti che non avete mai visto. Se non pensate al perché siate li, non potete fare a meno di trovarlo favoloso. Devastante, nella sua meraviglia.

    «voglio raccontarvi una storia»

    Un tono greve. Distante. Pesante. Perfino gli animali sembrano acquietarsi per ascoltarla.
    E come in tutte le storie, c'era una volta.
    C'era una volta un tempo lontano fatto di scelte e sacrifici. C'era una volta una leggenda, vi dice. C'era una volta una magia così potente in grado di riscrivere la storia.
    E c'era stata una volta che non era d'inizio ma di fine. Un'alba rosso sangue su un mondo al contrario. Non c'era stata davvero, vi specifica, ma sarebbe stata. Forse.
    La vegetazione si dirada, ma l'aria si ispessisce, scavando pesante una strada verso i polmoni. Magia. Così tanta, che vi sembra di sentirne il sapore sulla punta della lingua.
    Si ferma, William Lancaster. Apparentemente senza motivo. Piega il capo sulla spalla, ascoltando qualcosa.
    Qualcuno.
    Sospira.

    E sospira il mondo. Sospira ogni filo d'erba.
    Sospirate anche voi, quando la vedete: una costruzione monumentale, gradoni di pietra ad arrampicarsi gli uni sugli altri fino a giungere ad una cinta. Proseguire ancora. Rampicanti verde smeraldo sulle mura. Cancelli spessi.
    Un battito di ciglia.
    Vi sembra quasi di vedere -
    di vedere…? Il contorno del Lotus. Quello che ne è rimasto. Parte di quella… Città.
    Casa, mormora la voce di chi, per quel posto, c'era morto. Di chi, per poterci arrivare, avete ucciso.
    Lo sapevano loro. Lo sapevate anche voi.
    Il prezzo da pagare.
    Un tuffo al cuore vi mostra persone, dietro le Mura. Vi sembra vi stiano guardando. Vi sembra di riconoscerli.
    Non ne siete certi.

    «non tutto è perduto. La guerra non è stata vinta. Respiriamo; esistiamo; resistiamo. E vi stiamo aspettando.
    Il prezzo da pagare è un debito ancora aperto: potete scegliere la moneta.
    O lo faremo noi»


    Ripete, guardando i Cinque.
    È stato lui a darvi il messaggio.
    È stato lui, a farvi uscire.
    È stato lui, a -

    «ne ho un'altra, di storia. e penso che ora siate pronti per sentirla»
    to be continued
    &&. off gdr
    La prima, non ultima, scelta. Chi ha partecipato alla Quest con lo switch, ha tempo fino alle 23:59 per scegliere chi parteciperà all'ultima settimana - per gli altri, beh, questa scelta è obbligata, ma vi chiediamo comunque di postare in questo topic. ATTENZIONE! Non siete legati alle scelte fatte ad iscrizione: non dev'essere necessariamente uno per blocco. Se vorrete entrambi i personaggi della stessa classe, basterà che uno dei due prenda il posto del personaggio mancante (ad esempio, il mio switch era Poor in prima settimana, e Stan nella seconda; se volessi portare entrambi, potrei, ma uno dei due prenderà livello PE e classe di un altro dei miei gruppi dove in ultima settimana non avrei nessuno). Il loot ed i premi degli armadietti, verranno ereditati dai successori (🙏) quindi potrete portarveli dietro anche in questa ultima avventura.
    &&. modulo
    nome pg: NOME e COGNOME
    classe: PALADINO CAVALIERE / ROGUE LAME MORTALI / ecc
    (solo se special) potere:
    arma: se ne avete rubata qualcuna in giro, potete tenere quella
    punti salute a fine settimana: i suoi, o quelli del pg di cui prende il posto nel caso dello switch
    punti attacco / punti difesa: i suoi, o quelli del pg di cui prende il posto nel caso dello switch
    (se switch) partecipa per: qui scrivere i due pg del gruppo E il livello (matricola, leader, ecc)
    CODICE
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i> <b> nome pg:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i>  <b>classe:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i>  <b>(solo se special) potere:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i>  <b>arma:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i> <b>punti salute a fine settimana:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i> <b>punti attacco / punti difesa:</b>
    <i class="fas fa-arrow-right" style="font-size:8px"></i>  <b>(se switch) partecipa per:</b>
  10. .
    gli anatemi hanno la resistenza e la capacità adatti per attutire l'offensiva avversaria, dando una possibilità in più per sferrare attacchi decisivi contro i nemici.
    «è proprio quello che vuole, è terribile»
    Claudia non poteva giudicare proprio nessuno riguardo nulla, dal momento che era la prima a fare, dire, indossare o comportarsi in maniera controversa, e di certo non era estranea alle compagnie particolari — ma doveva ammettere che Cherry andava molto vicina a raggiungere gli standard discutibili dell'australiana, con le proprie amicizie.
    Le rivolse quindi un'occhiata solo in parte giudicante, ma perlopiù comprensiva, quando si strinse nelle spalle al commento dell'altra bionda. Certe persone, Clod, non le avrebbe mai capite, pur volendo tantissimo farlo; per natura, non le piaceva non indagare e non avere risposte, e più in generale, non provare a capire. Un misto tra testardaggine e curiosità, il suo; un mix spesso letale. Ma che, appunto, non le permetteva di essere troppo severa riguardo alle scelte discutibili di Cherry in fatto di amici.
    «oh no, non vuoi. è meglio che certi segreti restino nella tomba»
    Anche su quello avrebbe avuto da ridire, quantomeno per la dubbia natura di quella risposta; se solo non avesse saputo, proprio dalla stessa Benshaw, di (quasi) tutte le (dis)avventure di Law, e se non avesse visso il ragazzo con i propri occhi, avrebbe potuto persino finire col pensare male. Non lo avrebbe fatto, anche perché conosceva abbastanza bene Cherry e voleva credere nel suo buonsenso *manine*
    Piuttosto, invece, lasciò perdere le mutande orribili del Matheson e si rimise in piedi, passeggiando senza meta nella camera da letto di Cherry; non era la prima volta che aveva il piacere di trovarcisi, e aveva una passione peculiare, Clod, per le camere altrui: le piaceva vagare senza meta e posare lo sguardo curioso su ogni foto e cianfrusaglia possibile, ancora di più se accompagnata da aneddoti più o meno recenti riguardo ciascuna cosa che sfiorava dolcemente sotto le punte dei polpastrelli. Cosa poteva farci, dopotutto era una ragazza che da sempre, persino in una vita che non ricordava, aveva macinato parole e raccontato storie, e non c'era cosa al mondo che le piacesse di più (o le venisse meglio) di mettere insieme racconti, o immagini evocate dai racconti di qualcun altro.
    A Cherry rivolse uno sguardo solo dopo qualche istante, poggiandosi distrattamente con la schiena contro la poltroncina della toeletta, le mani posate sullo schienale soffice.
    «non la mia prima volta, lo sai. sicuramente nemmeno l’ultima» Piegò leggermente gli angoli delle labbra verso il basso, a quelle parole, consapevole tanto quanto la Benshy che era proprio così: sicuramente non sarebbe stato quello il suo ultimo rodeo. Sospirò, ma non interruppe il discorso dell'amica. «ma non è la missione che mi preoccupa»
    Faceva male sentire quella minuscola, ma inconfondibile, nota di preoccupazione nel tono di voce di Cherry, e riconoscere nel suo sguardo un'emozione messa a nudo, quasi una paura che raramente si palesava negli occhi verdi e fieri della pavor. A Claudia si stringeva il cuore nel saperla così.
    «è ipocrita da parte mia dirle di non partecipare, ma mona ha– cosa? diciassette anni? non ha idea di cosa la aspetta» avendo già compreso dove sarebbe finito il discorso, Clod si avvicinò al letto della ragazza e vi prese posto, sedendosi a gambe incrociate a pochi centesimi da lei; voleva darle il suo supporto, non solo morale, e minacciare di incastrarla in un abbraccio se avesse reputato necessario farlo. Been there, done that, eccetera eccetera. «ho già perso un amico, perché tentare la sorte due volte?» Non ribadì che, se proprio volevano essere precise, tale amico era poi tornato (per poi sparire di nuovo, ok, notava persino lei un certo pattern…), e si limitò a posare i gomiti sulle ginocchia, e a sostenere il mento con le mani unite. Anche lei avrebbe preferito incatenare Taichi al letto piuttosto che saperlo da qualche parte chissà dove in quella missione potenzialmente suicida, ma capiva anche il cosa muovesse loro, tutti loro, a partire senza guardarsi indietro.
    L'amore.
    Se per quelli spariti che speravano di ritrovare, o nei confronti di chi aveva deciso di rischiare la propria vita e partire alla ricerca, non faceva differenza; era quello il sentimento che mandava avanti il mondo, ancora più dell'odio.
    «è vero, ha diciassette anni.» annuì con convinzione, senza distogliere lo sguardo dal viso di Cherry, «ma per come la vedo io, ha avuto anche un esempio di vita impossibile da rinnegare» aggiunse, sollevando entrambe le sopracciglia con fare allusivo: sapevano benissimo entrambe a chi si riferiva, «e credo che abbia fatto tesoro di tutti gli insegnamenti, anche quelli che non sai di averle impartito. Certe cose, le sorelle minori le imparano e basta.» e lo sapeva bene anche lei, in qualche modo; non aveva mai avuto sorelle, o perlomeno non ricordava di averne avute, ma quando aveva conosciuto Melvin qualcosa era tornato come al proprio posto, e tutte quelle convinzioni, pur non essendole ormai appartenute, ormai erano diventate parte di lei. «non puoi fermarla, ma puoi darle il tuo supporto e qualche consiglio last minute» accarezzò una gamba della bionda con la mano, sorridendole in maniera dolce, «visto che non è la tua prima volta, cit.»
    g. claudia
    Moor

    e mentre il tempo scade, e il mondo si sta armando,
    In un monolocale, noi, ci stiamo amando.
    difensore anatema
    [rimuove 5-10 pa da attacco avversario]
    strega
    Lvl mago
    2001 — australiana — bloggerma che rivoluzione che tutti qui vorrebbero,
    ma nessuno ha mai il coraggio di prendere il bastone
    E darlo in bocca a chi ci vende le illusioni.
    il peggio è passato
    fabrizio moro
    Mother of Night, darken my step
  11. .
    le lame mortali non hanno clemenza nè compassione per i nemici, e la loro furia va a discapito di loro stessi.
    Si sentì vulnerabile ed esposto sotto lo sguardo di Ficus, tanto che, seppur inconsciamente, si rannicchiò maggiormente in se stesso, studiandolo con mai abbastanza cauti occhi blu.
    Diversi da quelli di tutta la sua famiglia, senza dubbio – con loro, non condivideva neanche un grammo di DNA. Non una predisposizione genetica all’essere mancino, o malattie ereditarie da passare di figlio in figlio come una silente condanna. L’unica cosa che aveva condiviso con loro era stata la sua vita, e Toast era riuscito a perdere anche quella.
    «oh. Lloyd è in infermeria. gli altri hanno detto che sono stato io a cominciare, e volevano solo difendersi» Inarcò le sopracciglia, continuando ad osservarlo incuriosito. Che strana specie umana era, Benjamin Millepied, con quella testa oblunga e gli arti troppo dilatati per essere reali. Quello sguardo così sincero che Fake fu lì lì per confessare tutti i propri crimini.
    Non quelli veri. Non li riteneva tali, il Cheena. Tutti gli altri, quelli per cui perdeva fondamentali minuti di sonno, tipo aver mangiato l’ultimo pacchetto di cracker o aver accidentalmente allagato il bagno, od i vari appuntamenti al buio con cui aveva incastrato Ty fingendo sempre di esserne ignaro. Credeva di aver incolpato il Linguini per cui lavorava almeno un paio di volte. «che è vero, in realtà. stavano parlando male dei miei amici, e non mi sembrava giusto considerando che Theo non può difendersi da solo» Theo…. E chi cazzo era, Theo. Non c’era un bentheo. Li aveva studiati, ok? Piegò il capo sulla spalla, strofinando la guancia contro il tessuto liscio della maglia. Lungi da Fake connettere i puntini e capire parlasse di quel Theo – the one and only! - considerando avesse scoperto, dopo un accurato studio con mappe concettuali e decine di post it colorati, che per quanto Ficus andasse d’accordo con tutti, non avesse… altri amici all’infuori della sua setta.
    Gli piacevano tutti i ben, eh. Tutti tutti. Un grande fan.
    E si domandava se anche loro si sarebbero persi com’era successo ai Golden. Chi fossero i loro Ryan e Jack, e Godric – chi sarebbe rimasto a stringerne i cocci e ricordare come fosse stato far parte di qualcosa.
    «ma tanto ce lo andiamo a riprendere. lui e anche il fratello di balt. non voglio che siano tristi»
    Molto da valutare, ed una mente semplice con cui farlo. Corrugò le sopracciglia, battendo lento le palpebre verso il Tassorosso. Aprì la bocca per dire qualcosa di stupido ed incoerente tipo ma è pericoloso, perché non era mai stato quel tipo di persona. Atterrò in scivolata su uno strizzato «già» esitante, la lingua stretta fra i canini.
    Non era quello responsabile in famiglia. Non lo era stato neanche per Kadabra. E che avrebbe dovuto dirgli, poi? Ma neanche ci conosciamo, come un piagnucoloso bambino di tre anni che implorasse un altro po’ di tempo? La vita era fatta anche di quello: occasioni trovate, e perse. «già» ribadì, più deciso, schiarendosi la voce e spostando la propria attenzione su un imprecisato punto del muro. «vado anche io. Con i miei amici» quelli che erano rimasti; gli avanzavano dita su una mano. «non voglio più -» sentì l’eco del proprio tremore a rimbalzare fra le piastrelle del PP, le dita di Claudia a carezzargli i capelli. «essere triste» provò a sorridere. Non era la sua qualità migliore. Ogni volta che ci provava - sempre, quindi - mostrava denti piccoli ed affilati, tirando la pelle del viso ed evidenziando di conseguenza la cicatrice ad occupare la parte superiore della faccia. Un taglio preciso, dalla fronte alla guancia, passando per l’occhio salvo per un pelo. Spostò la bocca di lato, mordicchiandone distratto l’interno.
    Un po’ voleva tenerselo, lì con lui. Non per tantissimo, ma quanto aveva aspettato e sarebbe mai ricapitato e ma chi sei, e chi sono, e siamo qualcosa?. Si rendeva conto di non avere un cazzo da dire, però. Lingua appiccicata al palato, ed occhi incollati al soffitto. Così inspirò, solo in parte tremulo. «dovevi dargliele più forte» gli indicò la porta con un cenno del capo. Poteva non sembrare, ma aveva un codice d’onore. Non irremovibile, ma abbastanza resistente da potercisi aggrappare ed usarlo come scusa prima di mettersi a piangere di fronte ad un ragazzino che neanche lo conosceva.
    «la prossima volta se ti serve una mano, chiamami» poggiò il gomito sul ginocchio, ed il mento sul palmo aperto. «sei un ficus libero»
    Ma non ti aveva mai detto il suo nome.
    «l’albero» era un albero, almeno? Era sempre stato ua pippa in erbologia.
    madein
    cheena

    diluite me, i tell them
    make me easier to love
    rogue lame mortali
    [ 15-20 PA - PA/PD DIMEZZATI PER 2 TURNI ]
    MAGO
    LEADER
    22 y.o. — former gryff— chineseSweating all your sins out
    Putting all your thoughts back together
    Oh,
    we just don't blend now
    cringe
    matt maeson
    Mother of Night, darken my step
  12. .
    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    «ti sembro uno che fuma?»
    Il commento di Paris non turbò il maggiore, che non perse il sorriso e seguì invece il movimento lento della mano che indicava l'outfit sportivo dalla testa ai piedi. Dovette sforzarsi per tenere sotto controllo la propria espressione e non lasciare il disgusto per quanto stava osservando si palesasse troppo sui suoi lineamenti: come già detto, non era mai stato fan dello sport e di tutto ciò che lo riguardava — abbigliamento compreso.
    Piuttosto che esternare i propri sentimenti a riguardo, però, preferì glissare sopra l'intera questione e lasciare che il sorriso educato vincesse sopra qualsiasi altra smorfia, chinando solo appena il capo come per fingersi colpito (quando in realtà era solo molto divertito) dalle parole del corvonero.
    «la risposta è: assolutamente sì»
    Avrebbe fatto commenti sulla vena drammatica del suo fratellino, se avesse potuto; l'avrebbe fatto di sicuro, una volta tornato da Mikkel per raccontare ogni dettaglio di quell'incontro, ma gli sembrava un po' prematuro farlo già lì con Paris. Dopotutto, l'altro non aveva la minima idea di chi egli fosse.
    Non ancora.
    Tempo al tempo!! C'era un piano quinquennale dietro quel progetto di rivelazione, supportato anche dalle frasi dei biscottini della fortuna che erano chiaramente dalla sua parte.
    L'unica cosa che disse al Tipton, invece, fu: «valeva la pena fare un tentativo, l'alternativa era andare a disturbare quella coppia laggiù» e, così facendo, dopo aver lasciato che Paris accendesse la sigaretta che stringeva tra le labbra con un colpo di bacchetta, gli indico con un cenno del mento due piccioncini seduti qualche panchina più avanti, intenti a divorarsi la faccia a vicenda. Era presto, e come quell'orario disumano chiedeva, molte persone erano ancora in casa a farsi gli affari propri, o magari a dormire — wish that was him, e invece doveva fare il babysitter del suo fratellino neo maggiorenne.
    Riportò lo sguardo castano su di lui, a quel punto. «grazie mille, e–»
    «questo è il momento in cui mi dici che sei un ex carcerato che sta raccogliendo soldi per i bambini in zimbabwe, o qualcosa del genere?»
    E come avrebbe potuto mai non allargare il sorriso, colmo di adorazione e divertimento nei confronti di quell'incredibile cretino con cui condivideva parte del DNA?! Lo adorava, Elias, così come adorava anche tutti gli altri e non vedeva l'ora di metterli sotto lo stesso tetto e assistere a qualsiasi catastrofe avrebbe portato con sé quell'incontro.
    «ho davvero un'aria così poco raccomandabile?!» chiese, con il più innocente degli sguardi e le labbra appena dischiuse, fingendosi davvero colpito dalle velate accuse del più piccolo. Ed era vero che Elias avrebbe potuto essere considerato un (ex) carcerato o un criminale — ma mai nessuno era riuscito a mettere le mani su di lui, neppure quando metà delle sue personalissime vendette erano compiute nell'ombra e senza la finta protezione del ministero.
    C'erano così tanti motivi per cui avrebbero potuto sbatterlo in una cella e perdere la chiave, e invece era ancora a piede libero perché era troppo furbo, scaltro, bello e intelligente per essere acciuffato. Si sarebbe paragonato a Lupin se non si fosse amato così tanto da sapere di essere più simile a una del trio Occhi di gatto *nail polish emoji* «in realtà lavoro al ministero,» che motivo aveva di non condividere quella nozione con lui? Dopotutto, infondo, era lì perché voleva iniziare ad instaurare un rapporto con il resto della banda, tanto valeva cominciare già a dire qualcosa di sé! «mi dispiace per averti messo a disagio, non era mia intenzione! Non sono un maniaco, giuro.» disse, spegnendo di qualche watt la luminosità del sorriso per non sembrarlo davvero, un maniaco. «anche se immagino sia estremamente quello che un maniaco direbbe.» eh già. E lui lo sapeva benissimo, perché aveva studiato e imparato gli atteggiamenti di un sacco di categorie di persone, per imitarli poi al meglio nel momento più opportuno; quello lì, per la precisione, era quello in cui si fingeva un po' impacciato e a disagio, mano passata tra i capelli biondissimi e l'altra a stringere la sigaretta come se ne dipendesse della sua vita. «ti– ti offrirei una sigaretta per farmi perdonare ma ti stai allenando, forse è meglio che vada.» con l'intenzione di tornare a breve — dove con “a breve” intendeva un momento non meglio precisato che andava dal giorno dopo al dopo missione. Perciò insomma: non era molto bravo con le tempistiche, il Raikkonen, e non era mai stato puntuale una sola volta in vita sua.
    elias
    raikkonen

    making love with the devil hurts;
    times are changing
    sentinella seguace di arda
    [dimezza attacco O difesa del nemico]
    special
    lvl leader
    1991 — chiaroveggente — pavor spiaIn the end, the choice was clear:
    take a shot in the face of fear,
    do you believe that you can walk on water?
    do you believe that you can win this fight tonight?
    walk on water
    30 seconds to mars
    Mother of Night, darken my step
  13. .
    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati.
    L’Hilton era un personaggio pubblico, non lo stupiva che il biondino sapesse il suo nome; sperava non la prendesse sul personale, se non era in grado di ricambiare il favore. Si erano mai presentati? Ricordava quel 14 Febbraio come un'allucinazione, e per quanto lo riguardava, non era nemmeno una rarità: passava più tempo in stato alterato che non, Yale, ed aveva imparato ad adattarsi all’assurdo senza farsi domande. Non vedere la faccia delle persone presenti nella stanza? Il sogno di ogni cena di Natale in famiglia. Essere rapito? Era ricco, famoso, e sconsiderato: come avrebbe detto il suo caro nonnino, non il suo primo rodeo. Sedurre sconosciuti era parte della sua quotidianità, quindi, in linea generale, non si era trattato di un evento particolarmente memorabile. Non significava che non l'avesse trovato piacevole, né rendeva meno sincero il sorriso a graffiare le labbra. «non dirmi che ora spunta nelia dal bagno» Non domandó chi fosse solo perché, in barba a quel che si diceva di lui, non era un'idiota quando non aveva bisogno d'esserlo, e supponeva Nelia fosse il nome a completare il loro alquanto particolare triangolo. Concluso il teatrino di San Valentino, Yale non aveva più visto nessuno dei due - frequentavano compagnie diverse, evidentemente - e non li aveva neanche mai incrociati a lavoro, unico altro posto in cui non incontrasse depravati, alcolisti, tossici e ninfomani. Dichiarati, si intendeva. E si, quello era il suo tipo di pomeriggio ideale, con compagni di gioco perfetti. «non mi stupirebbe, sai? se il mondo è così piccolo da fare incontrare noi, perché no» scrollò le spalle, un braccio poggiato sul sedile del ragazzo. «vieni spesso qui?» curioso, perché non vedeva un quarto di motivo al mondo, ad eccezione del caso, per cui qualcuno avrebbe dovuto volontariamente scegliere di passare il proprio tempo libero in quel posto. Non giudicava, fosse mai, ma sarebbe stato interessante sentire un punto di vista differente. Magari aveva un fascino tutto da scoprire, quel finto loft li. «cosa mi racconta la mia anima gemella preferita?» Batté le palpebre, un sorriso distratto al cameriere arrivato con il suo ordine. Lo rimandó indietro con i bicchieri che aveva portato con sé: non ne avrebbe avuto bisogno. Trovava l'alcool avesse un sapore migliore, direttamente dalla bottiglia.
    Cosa poteva raccontargli?
    Con il pollice, svitó il tappo del liquore più scadente, scegliendo di iniziare con il botto. «potresti essere l'ultima persona a vedermi vivo, quindi cerca di ricordare solo cose belle di questa serata» Ammiccò, come se l'alternativa fosse contemplabile: era adorabile, di ottima compagnia, e perfino di bella presenza, cosa poteva desiderare di più? «anche se…il dramma vende di più, quindi capirei se scegliessi di non farlo» Portó la bottiglia alle narici. Il solo odore bastò a fare sorgere diversi rimpianti, ma non a farlo desistere dal berlo comunque.
    La storia della sua vita.
    «tu? se hai segreti o altarini, è l'occasione perfetta» curvó solo un angolo della bocca, osservandolo da sotto ciglia dorate. Indicò il proprio petto con l'indice, bisbigliando «una tomba» perché oltre ad essere affascinante, era anche troppo divertente. Un problema dei Bellissimi.

    yale
    hilton

    i may be sad but did you see my outfit
    sentinella seguace di arda
    [ dimezza attacco O difesa del nemico ]
    MAGO
    LEADER
    28 y.o. — once rebel — daddy (yale's version)Babe you can't hate mе more than me
    I got you hanging by my teeth
    Don't call me a mеss
    Cause I'm a mess & a half
    And you don't know half of it
    MESS & A HALF
    KINGS
    moonmaiden, guide us
  14. .
    i luminari offrono le proprie conoscenze e abilità in favore del bene comune. ottimi guaritori, mirano a proteggere i compagni contro le intemperie del campo da guerra
    non era facile essere un bimbo 2043.
    e questa è l'unica frase che sono riuscita a mettere per iscritto dopo venti minuti di attenta riflessione fissando il vuoto? woah.
    woah.
    che poi, non occorreva essere un filosofo per arrivare alla stessa conclusione in meno tempo — come avrebbe mai potuto essere facile? vivevano in un mondo che non era il loro, ma lo stesso ci avevano conficcato le unghie fino a spillare sangue; scavando, sotto la superficie e dentro le persone che entravano a fare parte del loro microcosmo personale, alla ricerca di qualcosa ormai dimenticato. cancellato, come un colpo di spugna dato male: esistevano differenti gradazioni di incuria, nella pulizia di quei ricordi che nessuno era riuscito ad eliminare del tutto.
    macchie difficili, da grattare con insistenza e olio di gomito.
    la full experience nel tunnel dell'orrore riservata ai vigilanti la lasceremo momentaneamente da parte per questioni personali, colpisce ancora un po troppo vicino a casa. per gli altri sfigati ignari di star vivendo una seconda possibilità - quando il desiderio di molti era fermarsi a metà del viaggio originale e sperare de morí prima -, rimaneva la sottile e fumosa consapevolezza di trovarsi nel posto sbagliato al fottuto momento giusto — un must have: quel pizzicore cronico in fondo alla gola, una lettera scritta a mano e un vaffanculo intradimensionale.
    per quanto riguardava rob, ovviamente lo sfigato era barry.
    sullo spettro delle reazioni alla notizia, barrow skylinski si piazzava in una zona di pericolo che l'emergenza l'aveva solo sfiorata: vomitino come rito obbligato di passaggio, fase emo con tocchi edgy ed evidenti soft spot, inconsolabile e inutile tentativo di sfuggire ad un destino che sembrava già scritto (e lo era, cazzo. nero su bianco, con una calligrafia piccola e frettolosa che gli apparteneva tanto quanto l'incapacità di Lynch a tenersi strette le persone importanti).
    qualche fortunello invece era ancora all'oscuro di tutto. una categoria a parte, anche questa suddivisibile in un milione di sfumature, ciascuna ad aggiungere qualcosa alle altre — o a togliere: c'erano gli Eddie di questo mondo, ai quali nessuno si sarebbe sognato di raccontare la verità. ma ve lo immaginate? rob no ed è meglio cosi, non diteglielo mai. certi ricordi, grattati via dalla superficie come sporco incrostato, era meglio rimanessero sepolti più a lungo possibile.
    sapete cosa, ho dimenticato cosa volessi dire a inizio post.
    forse il punto era che se fake avesse deciso di raccontare tutto a ficus in quel preciso momento, la reazione del Tassorosso sarebbe rientrata in una categoria a parte. forte della visione entusiastica del mondo e i suoi misteri, pronto ad accettare qualunque assurda stranezza come possibile e reale; curioso, si sarebbe avvicinato al cheena andando contro qualunque istinto di sopravvivenza, mani sulle ginocchia e sguardo critico — però non ci somigliamo così tanto, il primo pensiero. mille domande, ma nessun dubbio nemmeno mezzo: era nato per credere in qualunque cosa, Benjamin Millepied, e mai così profondamente come nelle cose che sperava fossero vere.
    viaggi temporali e realtà alternative? un sogno, forse una favola.
    «perchè sei qui?» ficus seguì lo sguardo di fake e si diede un'occhiata alle spalle, trovando solo la porta chiusa. hm, ok: magari il maggiore era un medium e con loro nella stanza si trovava anche il fantasma di uno studente testa calda morto da chissà quanti anni. aveva già tutta la storia in mente, il Tassorosso, come rob con i post; il problema, lo stesso per entrambi, era mettere le parole per iscritto «da solo? Dove sono gli altri» ci mise forse qualche secondo di troppo, ma alla fine capì — non era quella la prima domanda che si aspettava.
    forse perché su madeen cheena giravano troppe voci, esclusivamente sussurrate negli angoli bui, che lo dipingevano come un individuo inquietante e sadico, il tipo alla Hannibal Lecter che amava cucinare le proprie vittime e servirle in tavola agli ospiti con un buon vino e contorno di fave. sotto le sopracciglia bionde aggrottate, ficus lo osservò con attenzione; non vide denti aguzzi a fare capolino da labbra rosse di sangue, o occhi spiritati da pazzo furioso.
    sembrava solo stanco.
    il motivo forse avrebbe potuto immaginarlo. nel dubbio non lo fece: non si spingeva tanto oltre, la mente del diciottenne. prendeva per buono quello che riusciva a captare, empatia funzionale solo per metà «oh. Lloyd è in infermeria» il volo contro la parete di pietra non gli aveva giovato «gli altri hanno detto che sono stato io a cominciare, e volevano solo difendersi» sollevò le spalle, spostando l'attenzione da fake all'arredamento peculiare della sala, chiedendosi distrattamente quale dei molti attrezzi sparsi qui e là sarebbe stato il primo riservato per la sua punizione. sempre questione di curiosità, mai a valutare le conseguenze «che è vero, in realtà. stavano parlando male dei miei amici, e non mi sembrava giusto considerando che Theo non può difendersi da solo» un sorriso, morbido nonostante il grumo di sangue rappreso, gli spuntò prontamente sulle labbra: se qualcuno gli avesse chiesto perché stava raccontando i fatti suoi ad uno sconosciuto con il compito di strappargli via le unghie (non funzionava così la tortura????), non avrebbe saputo rispondere — sembrava la cosa giusta da fare «ma tanto ce lo andiamo a riprendere. lui e anche il fratello di balt» fake: ?????? che poi, ficus mica l'aveva capito chi fosse il fratello di balt «non voglio che siano tristi» si riferiva al monrique e a Paris, ma per qualche ragione non sentì il bisogno di specificare. chi vuole intendere intenda, probabilmente non il cheena.

    benjamin ficus
    millepied

    And you feel like falling down
    I'll carry you home
    sentinella luminare
    (tentativo cura 10-15 PS)
    MAGO
    MASTER (fa ridere già così)
    17 — ben10 — sin's legacyTonight We are young
    So let's set the world on fire
    We can burn brighter than the sun
    we are young
    fun.
    moonmaiden, guide us
  15. .
    deadly blades have no mercy or compassion for their enemies,
    and their fury is to their own detriment
    Quando Shiloh era tornata a casa dal suo breve soggiorno a Montrose, l’aveva accolta con un sospiro. Non di sollievo – perché mai avrebbe dovuto sentirsi rincuorato: la prima domanda che il Gallagher le aveva rivolto, quando senza nemmeno chiedergli il permesso si era introdotta in casa sua come fosse la propria, era stato un recapito del resort in cui aveva alloggiato fino ad allora così che potesse avvertirli si fossero persi una persona; qualcuno era riuscito a togliere dall’equazione della sua esistenza uno dei monomi più rumorosi e fastidiosi che avesse mai conosciuto, poteva andare meglio solo e soltanto se anche Yale si fosse preso quella settimana e mezzo di vacanza senza dare tracce di sé al mondo intero –, ma pesante e grave, il capo biondo chino sul pavimento in chiaro segno di sconfitta.
    Quando aveva iniziato a blaterare storie prive di senso su gente che l’aveva drogata, rapita, fatta vestire in maniera assurda e rinchiusa con una bambina in una sorta di appuntamento al buio, e su un hotel che spariva nel nulla come se non fosse mai esistito, trascinando con sé decine di persone, le aveva aperto un portale sotto i piedi per spedirla il quanto più lontano possibile dal suo appartamento.
    La Abbott non aveva bisogno che Daveth si unisse al coro di voci che la definivano pazza: lo sapeva bene che lo pensasse da anni, ribadirlo era diventato superfluo e anche abbastanza noioso. Non era però per quel motivo che l’aveva catapultata via. E non del tutto per il fatto che aveva osato turbare quella tanto agognata quiete che era riuscito a conquistare grazie all’intervento divino che l’aveva fatta sparire per dieci, meravigliosi giorni.
    Era felice che stesse bene? Relativamente: lo confortava il fatto che fosse viva per più di un fattore – primo tra tutti, non sapeva se sarebbe stato in grado di sopportare gli autodistruttivi meccanismi di coping dell’Hilton: già non era certo di cosa aspettarsi come reazione al mancato ritorno di Nahla, ci mancava solo che tra la gente riuscita a fuggire da ovunque fossero finiti non ci fosse anche la sua migliore amica –, ma aveva sperato che si portasse dietro qualche trauma, anche uno piccolino, che le facesse considerare di entrare in una fase di terapeutico silenzio, se non direttamente in un monastero tibetano; di certo non abbastanza contento da reggerla per più di un minuto, ed era stato anche paziente.
    Se aveva voluto rimanere da solo, era (per tutti questi motivi, e) perché avesse detto davvero tante cose, e l’ombrocineta aveva bisogno di pace per assimilarle, comprenderle, capirne i risvolti e le implicazioni.
    Di base non gliene sarebbe fregato niente, e sebbene gli dispiacesse per Nahla, per Barbie, Dave era abituato all’abbandono, a veder le persone vicine scomparire dalla sua vita senza salutare né mai più fare ritorno. Che anche dei ribelli fossero stati coinvolti in quell’evento, non l’aveva turbato così tanto: era pragmatico, ben cosciente del fatto che il rischio fosse un punto rilevante della firma che avevano messo sulla pergamena incantata, e che le perdite fossero calcolate e contemplate nel grande disegno della Resistenza.
    Gli interessava però il ruolo che aveva deciso di ricoprire, l’impegno preso. Non poteva ragionare sul da farsi nel prossimo futuro con una zanzara a ronzargli nelle orecchie.

    «te lo dico io, davey,» tutte belle parole e pensieri sensati, quelli dell’ex soldato, ma quanto gli rodeva il culo. In generale, sì, ma in quel momento un po’ di più. «gliela farò pagare per quello che mi hanno fatto.» lasciò cadere le buste a terra, andandosi a sedere sulla poltrona di fronte al divano su cui Shiloh aveva deciso di fare il suo sermone da psicopatica. «è una minaccia e una promessa. mi sentiranno oh cielo. «mh-mh.» mugugnò soltanto, perché una delle grandi lezioni di vita che aveva appreso in ventinove anni era che i matti andavano sempre assecondati. «ti ho preso un regalo.» un vero gentiluomo; si piegò in avanti, prendendo una scatola dalla borsa della spesa e lanciandola alla ragazza. Una GoPro, perché non vedeva l’ora di non perdersi nemmeno un secondo delle sue avventure: era una persona seria sempre, in particolar modo sul campo di battaglia qualsiasi esso fosse, ma se esisteva l’occasione di farsi due risate sulle disgrazie altrui perché mai avrebbe dovuto privarsene? «ugh che palle ma yale non si poteva fare i cazzi suoi? cos’è, tipo un buon proposito per l’anno nuovo, fare la carità ai poveri? senza offesa, eh.» sollevò appena il capo per sorriderle guardandola negli occhi. «sono mortalmente offeso.» atono e apatico, perché non aveva alcun motivo di prendersela davanti all’ignoranza delle persone – anche quando si trattava di quelle più vicine che, suo malgrado, si fosse ritrovato ad avere. Percepiva una copiosa pensione da veterano di guerra nonostante si fosse congedato, prendeva fior di quattrini dai suoi incarichi da sicario, Piz lo pagava discretamente in palestra, aveva l’eredità di un tenente colonnello ancora del tutto integra e gli Hilton sborsavano più di quanto fosse necessario per non far morire Yale: era ben lontano dalla povertà, ma trovava sempre divertente vedere quanto la gente ricca per natura vivesse con il paraocchi.
    «quando mai hai visto newhaven cedric edward george stephen hilton iv» nome complete necessario. «farsi i cazzi propri?» era sinceramente curioso di saperlo: lo conosceva da indubbiamente più tempo di Daveth, magari era successo almeno una volta nella sua vita. Tornò a guardare nella busta, schioccando la lingua sul palato. «avresti fatto lo stesso, comunque. quindi…» si fermò, prima di dire qualcosa che avrebbe rimpianto per sempre: non giudicarlo.
    Perché credeva davvero che la ragazza potesse consapevolmente scegliere di aderire ad una missione potenzialmente suicida per qualcuno a cui teneva, qualcuno cui aveva promesso di prendersi cura. Lo capiva, e sapeva che lui in primis avrebbe fatto la medesima cosa – se ci fossero stati Zenith o Leaf al posto di Nahla, o Niamh; gli costava molto ammetterlo, ma avrebbe considerato quell’ipotesi anche se la trentenne con il gelato ed il pile davanti a lui non fosse riuscita a fuggire da quella situazione due mesi prima; con ancora più rammarico, era certo che se fosse scomparso Yale avrebbe tentato di recuperarlo.
    Questione di responsabilità.
    «secondo te gli piaceranno?» perché poteva anche [sospiro profondo] capirlo, ma ciò non significava che non dovessero provare a legarlo in casa ed impedirgli di fare qualche stronzata: era pur sempre la sua guardia del corpo. «non mi intendo molto dei suoi gusti estetici riguardo allo shibari» beh: si sarebbe fatto andare bene delle classiche corde, a meno che la scrittrice non avesse deciso di andarne a comperare delle altre.
    daveth
    gallagher

    Another game, another god
    Another day to buy your fate
    rogue lame mortali
    [ 15-20 pa all'avversario, pa/pd dimezzati ]
    special, ombrocinesi
    lvl master
    hitman — 1995s — rebel strategistAnother kill, another drug
    Another night, another war
    Another "What are we fighting for?"
    Another lost to bitter pain
    hail to the victor
    30 seconds to mars
    Mother of Night, darken my step
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