Joseph Moonarie non era solo un conoscente, per Stanley Luna. Nella sua, del tutto peculiare, concezione di rapporto umano, erano amici, malgrado non sapesse nulla del ragazzo che era andato a recuperarlo in stazione. Non sapeva quanti anni avesse, cosa facesse per vivere, o se avessi fratelli o sorelle più grandi, ma sapeva quale musica ascoltasse, che gli piacessero i coltelli, che non avesse alcuna conoscenza di cultura popolare, e che avesse un adorabile furetto. Non era una di quelle persone che condividevano dettagli sulla propria vita gratuitamente, ma il serbo l’aveva costruito come un puzzle, prendendo i pezzi lasciati impliciti fra un messaggio e l’altro per creare quello che credeva essere un intero. E se non lo era, non aveva importanza, perché quanto aveva era bastato perché Stan si sentisse abbastanza al sicuro da prendere un borsone, e decidere di trasferirsi in Gran Bretagna. Wow. Detto così, non aveva molto senso. Qualcosa pungolò la sua coscienza, una fetta affilata a suggerire che avesse fatto una stronzata, che avrebbe dovuto pensarci meglio, che la sua presenza a Londra non fosse gradita, e non avesse le skills per ricominciare in un paese che non conosceva in una realtà appena conosciuta. Il battito cardiaco recuperò quei pensieri prima che potesse farlo il cervello, acquistando velocità in un impeto che quasi bastò a fargli venire le vertigini. Il sapore dei colori a sciogliersi sulla lingua, iniziava a sapere di bile, e consapevolezza che l’unica soluzione a tutti i suoi problemi fosse lasciarsi morire. Quindi sorrise, perché non poteva dire a Joey che stesse valutando il suicidio assistito come tattica di sopravvivenza a se stesso. Non dal vivo, perlomeno – non ancora. «sembrava quello della pubblicità delle scatolette Cesar» rispose, perché no, non conosceva le razze, a meno che non possedessero caratteristiche univoche e molto particolari. Tutti gli altri, erano semplicemente cagnetti. «Ho vent'anni» Ricambiò l’occhiata, ma senza vederlo realmente. Nel caotico marasma dei suoi pensieri, Stan pensava ai suoi vent’anni, quand’era ancora ebbro di entusiasmo ed il resto della vita davanti a sé per decidere come spenderla. E a venticinque anni no? Beh, no, e neanche prima che una guerra magica rivoluzionasse il mondo così come lo conosceva: dopo aver trovato lavoro, aveva sacrificato tutte le proprie ambizioni in cambio della comodità di uno stipendio fisso, senza aspettative per il futuro o per migliorare se stesso. Sognava solo la pensione che avrebbe avuto a ottant’anni, se fosse stato fortunato e gli avessero offerto qualche scivolo fiscale. Certo non sarebbe mai stato abbastanza indipendente da vivere da solo, o avere la possibilità di raccattare qualcun altro e trascinarlo sotto il suo stesso tetto. Era ammirato. Ed un po’ terrorizzato. Sarebbe stato anche umiliato, se non avesse adorato Joey con ogni misera fibra del suo essere: era felice fosse più funzionale rispetto a lui; qualcuno doveva pur esserlo, e non sarebbe stato Stan Luna. Lo seguì senza fare domande, sguardo basso sui propri piedi in silente contemplazione del piano fisico. «A casa ho la moka» Un guizzo delle labbra verso l’alto, ed un’occhiata rapida verso il ragazzo. «stai cercando di sedurmi?» Vorrei dire che poche cose al mondo arrivassero dirette verso il cuore del Luna, ma non sarebbe stato vero. Poteva però dire, con assoluta certezza, che la promessa del caffè – ed un caffè buono, perché non poteva pensare di essere amico di qualcuno che usava la minaccia all’umanità che rappresentava il caffè solubile – fosse uno dei modi più veloci per conquistare la sua fiducia, e la sua venerazione. Sapeva, con l’assoluta certezza possibile solo ai tossico dipendenti, che il caffè avrebbe risolto tutto. L’impaccio del primo incontro, il disordine dei propri pensieri, la presa friabile che aveva sulla realtà. «prima mi inviti a casa tua, poi mi offri il caffè» elencò, spostando la testa ad ogni numero spuntato dalla lista, come se quello non fosse esattamente e precisamente stato il comportamento che qualunque essere umano avrebbe adottato con un barbone raccattato per strada. «hai una cotta per me o qualcosa» sorrideva leggero, perché quel particolare senso dell’umorismo era uno dei suoi tanti copy mechanism al complicato processo che era vivere, e perché con Joey si sentiva abbastanza a suo agio da poterlo fare. In compenso, non appena qualcuno ci provava davvero, o non se ne rendeva conto, o disingaggiava come un pro - non che fosse mai capitato davvero, ma gli bastava un complimento per decidere che le dita a pistola fossero una risposta adatta. «Ti porto io il borsone, se vuoi» Strinse il suddetto borsone protettivo al petto, drizzando la schiena per dimostrare di essere un UOMO INDIPENDENTE, e di non essere affatto provato da quel peso che sembrava attirarlo verso il cuore stesso della Terra. Sarebbe morto prima di lasciare che qualcuno si facesse carico dei propri fardelli, fisici o emotivi che fossero. «nah, grazie, non mi da fastidio» gli dava molto fastidio, invece, ma persistette a sorridere come se ancora avesse una percezione del proprio braccio, e la gravità non lo stesse lentamente uccidendo. Lo seguì con la cieca fiducia di un cane con il proprio padrone, lasciando che facesse strada in un silenzio che, bisognava dirlo, era molto meno imbarazzante di quanto si sarebbe aspettato. Fremeva comunque come uno studente prima dell’interrogazione, Stan, attendendo il social cue adatto per iniziare una conversazione. Una qualsiasi. «vivi lontano da qui?» domandò, guardando l’orologio. «tra quanto passa il pullman? Possiamo andare subito, se preferisci» Una pausa, sguardo al cielo. Ma passavano i pullman? Non ricordava di aver visto tratte urbane, nel suo pellegrinaggio verso Londra. Dopotutto, i maghi non ne avevano bisogno. «o mi... Boh. Swippi via??» Come funzionava la vita. Corrugò le sopracciglia, fermandosi di fronte al bar scelto dal Moonarie. «tu prendi qualcosa?» Un’altra pausa. Frugò nelle proprie tasche cercando il portafoglio, che tenne fra le mani soppesandolo. «ma che. Soldi vogliono» non aveva pensato di cambiarli. «dici che accettano i dinari» ma che valuta avevano in Serbia quel posto. Strinse le labbra fra loro, infilando nuovamente il portafoglio in tasca. «in effetti. Possiamo prima andare a casa» poteva rimandare il caffè se significava non farsi troppe domande sulle cose badger da fare.
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