Votes taken by sehnsüchtig.

  1. .
    Adalbert? Behemoth
    I just got lost.
    Every river that I tried to cross,
    every door I ever tried was locked…
    Oh, and I’m just waiting ‘til the shine wears off.
    Lì per lì non riconobbe il suono che gli uscì dalle labbra. Anche in condizioni normali, in effetti, quando era lui, non era poi qualcosa che si faceva sentire tanto spesso. Da quando era successo, poi, non si era più fatto sentire. Ora le colpì le orecchie, così estraneo eppure così familiare, lasciandola confusa per qualche istante. Somigliava a quella che era stata un tempo, tuttavia era diversa. Era solo accennata, un’eco lontana e sbiadita di qualcosa che avrebbe potuto essere, ma che per fortuna non era. Perché altrimenti, se fosse stata più forte, più sguaiata, più sentita, avrebbe finito per somigliare terribilmente a quella che sua madre riservava solo alle pareti di casa, e mai al grande schermo.
    Una risata.
    Sentendo Taichi fargli notare che quella che gli aveva dato non era una risposta, con tutte le parole al posto giusto e un’inflessione, una vera inflessione, una punta di vero fastidio in quell’oceano piatto del suo tono normalmente incolore, a Bertie era venuto da ridere. Una sola, singola risata, che all’esterno probabilmente dovette sembrare più un singulto strozzato che altro, ma pur sempre una risata.
    «Lo so», gli concesse, troppo sconvolta dall’idea di essere ancora in grado di trovare qualcosa divertente. Ma glielo doveva. «È difficile essere chiari quando non ci si capisce più nulla», aggiunse, ancora in vena di concessioni che, di solito, non avrebbe donato neanche sotto tortura. Però, ormai, cosa aveva da perdere? E il Limore non gli aveva chiesto niente in cambio. Non aveva fatto nemmeno domande. Aveva semplicemente accettato di essere lì, con lei, con lui, con quello che era e che non era.
    Bertie era stato e restava una merdina, ma non fino a quel punto.
    «in ogni caso ti preferisco, hai *accasato fascino»
    «Ecco, questo fa male, invece.» Sospirò e chiuse gli occhi, incrociando le braccia sul petto ora innaturalmente pieno. «Pensavo preferissi il vero me. Sai, in memoria dei vecchi tempi», ironizzò, tamburellando le dita della mano destra sul braccio. Quello che succede al capodanno Oblivion resta al capodanno Oblivion, ma erano successe cose ben peggiori. La guerra, tanto per dirne una.
    La scomparsa del suo pene.
    Sospirò nuovamente e tornò ad aprire gli occhi, la nuvola grigia sempre sopra di loro. Un po’ avrebbe voluto chiedere a Ty di far piovere, ma qualcosa gli diceva che sarebbe stato solo peggio. Certo, così nessuno avrebbe potuto dire se quelle sul suo viso fossero lacrime o gocce di pioggia, però l’umidità non avrebbe fatto che peggiorare, invece di rinfrescarla, e dopo avrebbero finito entrambi per puzzare di cane bagnato.
    Si faceva già abbastanza schifo da sola, come aveva appena confessato allo special, non aveva bisogno di rincarare la dose con quel tanfo.
    Così non disse nulla e, anzi, si apprestò ad ascoltare, come Taichi le chiedeva. Quando calò il silenzio, non lo guardò. Cosa avrebbe dovuto dire? Che le dispiaceva? Non era così. Non aveva nulla di cui scusarsi. Si faceva schifo lei. Lui che di solito schifava tutti gli altri, all’infuori di sé stesso. Maghi, special o babbani che fossero, non faceva alcuna differenza. Si sentiva superiore. Adesso le cose non si erano ribaltate, naturalmente. Il resto del mondo le faceva ancora schifo. Ma, in cima a tutto, ora c’era lei. Con il suo non essere più sé stesso. Con quell’essere special che non aveva scelto né desiderato. In un mondo contro cui aveva lottato e perso.
    Eppure, anche senza guardarlo, sapeva che Ty stava vibrando. Non nel modo dell’Hale, ma in uno tutto suo, una frequenza apparentemente inudibile, eppure più acuta e pungente.
    Forse fu per questo che sussultò. Qualcosa di acuto e pungente, qualcosa in grado di dare la scossa, le aveva appena sfiorato, e ancora le stava sfiorando, una spalla. Dissimulò la sorpresa e voltò appena il capo in quella direzione. Era il dito lungo e ossuto del Limore. La stava toccando. Forse non potevano propriamente definirsi amici, ma Bertie sapeva quanto la cosa gli costasse. Fissò quel dito per parecchi secondi, le sopracciglia appena aggrottate e le labbra strette in una linea sottile, sentendolo dire che lì dentro era ancora Adalbert Behemoth.
    Quel suono strozzato tornò ad arrampicarsi su per la gola. Un’altra risata, secca, esasperata, sconfitta. Ma anche quasi intenerita. Dopotutto, cosa ne sapeva lo special del suo non essere mai davvero stato Adalbert Behemoth? Non era colpa sua. Anzi, c’era un che di commovente, in quel suo provare a… consolarla. Era tutto assurdo, naturalmente.
    Però Ty aveva ragione.
    C’era sempre spazio per nuovi traumi.
    «Bel… no, non è stato un bel tentativo.» Incurvò appena un angolo delle labbra, il destro, in quel minuscolo accenno di sorriso che di tanto in tanto gli aleggiava in volto. Chissà com’era adesso, su quelle labbra. «Però è stato un tentativo.» Lo guardò negli occhi, sorprendendosi nel trovarvi come un bagliore, una scintilla di qualcosa che non riuscì a identificare, invece della solita, vuota apatia. Provò una punta di orgoglio nel rendersi conto che era stata lei a scuoterlo dal suo naturale torpore, ma durò solo un istante. Amava sollevarsi al di sopra di tutto e di tutti, lo faceva sentire quasi bene; adesso, però, quella sensazione aveva un che di artefatto, di sbagliato. «Sappiamo entrambi che è una grande stronzata.»
    Era inutile girarci intorno. Non ci capiva più nulla, gliel’aveva detto, ma qui non c’era nulla da capire. Anche un bambino l’avrebbe compreso. «Però…» Quella parola gli pizzicava sulla punta della lingua. «Grazie.» Per il tentativo. Per essere lì, nonostante tutto.
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    23
    … special
    depressed
  2. .
    Adalbert Behemoth23 | metamorfəmagiavvocatə
    Bertie era abituato al vuoto. Era sempre stato lì, un compagno così invisibile da essere nulla, da riempire ogni singola cavità. Il vuoto non lasciava spazio per niente, ingoiava tutto senza mai risputarlo indietro. Era stato un’arma, e ancora di più uno scudo. Grazie al vuoto poteva non sentire nulla. Vi si poteva ammantare, stringendoselo intorno alle spalle strette, lasciando che lo colmasse dall’interno, così da spazzare via ogni altra cosa.
    Il vuoto era la mancanza di qualsiasi sentimento. Se n’era sempre fregiato, quasi fosse un merito, un’abilità, sottolineando quanto gli venisse spontaneo non provare nulla. Ed era effettivamente così, sebbene non potesse eguagliare il maestro, suo padre. Ma anche Tyler Wood aveva permesso che parte di quel vuoto venisse riempito, che dal nulla scaturisse qualcosa. Era stato così anche per lui, in fondo. C’era stato un tempo in cui, in quel buco nero, brillava una luce. C’era sempre stata e non solo l’oscurità non era mai riuscita a inghiottirla, ma aveva persino rischiato di fare rischiarare fin verso i confini che non avrebbe nemmeno dovuto avere.
    Poi avevano fatto quel balzo nel tempo, e di quella luce non era rimasta che una scintilla.
    Nice.
    Lo scudo fatto di nulla si era inspessito, crescendo così tanto da diventare una corazza, un’armatura, poi un intero rifugio antiatomico. Un rifugio di cui Bertie aveva perso la chiave, o forse persino totalmente privo di porta. Si era rinchiuso lì dentro, volontariamente, deciso a non sentire nulla. Eppure quel rifugio era stato costruito per due, per Albie e Nice, e il vuoto che si era preso ogni singolo centimetro era freddo e buio e opprimente.
    Bertie era abituato al vuoto, ma il vuoto lo stava uccidendo. Soprattutto ora, ora che il silenzio si era fatto assordante, tanto si sforzava di tenere lontano tutto il resto. La rabbia. Il dolore. La tristezza. Il terrore.
    La mancanza.
    C’era stato un tempo in cui, con il suo mantello di vuoto, Albie aveva coperto Nice, stringendola a sé per aiutarla a non sentire. Certo, lei aveva il giacchio tutt’attorno, ma lui sapeva che era solo una parte. Sotto a quella coltre gelata si nascondeva il calore di una stella, un cuore che sentiva e provava troppo. Ecco perché, di tanto in tanto, aveva bisogno del suo nulla. Per rinforzare quella corazza di ghiaccio.
    Ora Bertie aveva bisogno di quel calore. Voleva bruciarsi. Voleva sentire.
    Voleva dirle che aveva paura, che era terrorizzato, anzi, che voleva tornare a casa, anche se sapeva che una casa, per lui, per loro, non c’era più. Voleva pregarla di tornare a essere quella casa. Voleva piangere. Voleva dirle che era stanco, che era così stanco, di non sentire nulla, di sentire troppo. Voleva spiegarle quanto anche solo respirare fosse diventato faticoso. Voleva chiederle di ridargli la mano, di dirgli di non avere paura.
    Voleva implorarla di perdonarlo.
    Voleva gridarle che gli mancava.
    Ma quando i suoi occhi incontrarono i loro gemelli, ogni volontà si dissolse nel vuoto.
    La fissò, forse per un’ora, forse per un attimo, altezzosa e impassibile, sapendo che sarebbe bastato buttare fuori il fiato appena un po’ più forte per infrangersi in mille pezzi. Pronunciò quella mezza verità, mezza menzogna, sulla gatta che avrebbe dovuto essere il supporto di entrambi, uno dei tanti punti di sutura su quella ferita mai davvero richiusa.
    «Le somigli moltissimo.»
    Il nulla dentro di lui vibrò, da creatura inconsistente quale era incapace di fare anche solo il più lieve dei rumori. Ma Bertie lo sentì tutto, nelle ossa, nel sangue, nella carne. Un dolore così forte da non poter essere gridato al mondo.
    Raddrizzò la schiena e la testa, fissando un punto imprecisato alle spalle di Nice. Non sarebbe crollato. Non poteva farlo. Un respiro troppo forte e sarebbe andato in pezzi.
    «Non riesco nemmeno a guardarmi allo specchio.»
    Perché non si riconosceva, ma riconosceva lei.
    Batté le palpebre e rimise lentamente a fuoco, continuando a evitare accuratamente lo sguardo azzurro, così simile, così uguale al proprio, della cugina. Non era mai stata lì dentro da quando Nice vi si era trasferita, quindi avrebbe dovuto essere tutto nuovo. Eppure poteva scorgere la serpeverde in ogni angolo, a partire dalla cura maniacale con cui la stanza era organizzata.
    «Non credo a Belladonna sia mancato tu.»
    «Chiudi la porta, prima che ti faccia vedere quanto poco le mancherai tu», la rimbeccò, alludendo alla brutta abitudine della gatta di approfittare di qualsiasi porta aperta per avventurarsi fuori. «Ma come darle torto, visto che l’hai praticamente rapita? Si merita di fuggire…»
    Si sforzò di non ascoltare le parole successive, ripetendosi che erano riferite solo a Belladonna e non a lei, ma fu proprio la gatta ad attutire il colpo. Ringraziandola mentalmente, sentì gli occhi pizzicare nel vedere Belladonna avvicinarsi miagolando, la coda a uncino verso l’alto, nel saluto che riservava solo alla Hillcox… e a lui. Si accovacciò, aprendo le braccia finché la gatta non vi arrivò in mezzo, e la sollevò, affondando il viso nella pelliccia nera. L’aveva riconosciuto.
    Era ovvio, lo sapeva, perché gli animali sono molto più intelligenti degli umani, tuttavia rischiò davvero di crollare, motivo per cui continuò a nascondere quei tratti famigliari ed estranei insieme nel pelo morbido e setoso di Belladonna, avanzando nella stanza con la gatta in braccio. Ora che non doveva più sfuggire palesemente allo sguardo di Nice poteva tirare un sospiro di sollievo.
    «Spero sia una visita breve, ho cose da fare.»
    O forse no.
    «Non lo sai l’ospitalità è sacra? Non vorrai violare le norme della xenia…» Non era andata lì per litigare, ma le veniva così semplice, così spontaneo, così naturale cercare il battibecco a tutti i costi con Nice… Quella consapevolezza le strinse il cuore in una morsa, tanto dolorosa quanto piacevole. Le fusa di Belladonna la rimisero con i piedi per terra. Non avrebbe dovuto usare la gatta come scudo, come ancora di salvataggio, ma il calore che le irradiava nel petto era confortante, in quell’oceano di nulla. «E poi guarda com’è contenta Bee…»
    Avendo racimolato abbastanza coraggio, e abbastanza forza, stava per voltarsi verso Nice, quando sentì quel commento. Era da lei, eppure non era da lei. C’era troppa poca arguzia, in quelle parole. Erano fatte per ferire, ma Nice sapeva farlo molto meglio di così.
    Strinse Belladonna a sé e si girò giusto in tempo per scorgere l’ombra di un sorriso sulle labbra della Cox-Hill. Il cuore gli saltò un battito, gli occhi pizzicarono di nuovo. «Lei Guardò la spilla che le indicava, storcendo la bocca in una mezza smorfia. «Quella sì che mi sembra priva di gusto estetico. Soprattutto da parte tua», le fece notare sollevando piano gli occhi, sebbene non fosse del tutto sicura di essere pronta per incontrare di nuovo quelli glaciali di Nice. Non dopo averla sentita parlare del suo nuovo potere. Fece un’altra smorfia, con un brivido, e strinse un po’ troppo Belladonna, che per tutta risposta si ribellò e le saltò giù dalle braccia, per andare ad appollaiarsi sulla spalliera del divano, osservandole. «Scusa», borbottò, indirizzata naturalmente alla gatta.
    Il vuoto era pronto a riprendersi il lieve calore che Bee le aveva lasciato nel petto. Quello stesso calore che attendeva solo una scintilla, da parte di Nice, per ricordare alla fiamma di non essere ancora del tutto spenta, sotto strati e strati di cenere grigia, grigia come lei. «Me li ha prestati Chelsey.» Si indicò, non sapendo cosa farsene di quelle mani vuote, senza una bacchetta da stringere. «Non sono ancora riuscita a…» Guardarsi davvero? Già. «Mi chiedevo se volessi trovarmi qualcosa di più consono da mettermi. Sai, grazie al tuo giusto senso estetico…»
    Rimmel
    Francesco De Gregori
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)
  3. .
    Adalbert? Behemoth
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    every door I ever tried was locked…
    Oh, and I’m just waiting ‘til the shine wears off.
    Adesso che le bollette le pagava anche lei, nessuno poteva più impedirle di tenere l’aria condizionata a balla, almeno in camera sua. No, nemmeno Chelsey, nonostante tutto. E allora perché cazzo non era rimasta a congelarsi le chiappe sotto almeno tre strati di coperte, con uno sbalzo termico, tra dentro e fuori, di almeno trenta gradi? Perché aveva voluto dimostrare di poter uscire da quella stanza e di essere ancora in grado di fare cose normali?
    A nessuno fregava un cazzo.
    In generale, certo, ma soprattutto di lei.
    Naturalmente Bertie aveva la coda di paglia e un’innata propensione al vittimismo, ma c’era comunque un fondo di verità in quell’amara consapevolezza. Non che prima fosse al centro dei pensieri della gente, sebbene le piacesse convincersi del contrario, ma adesso avevano tutti ben altro su cui focalizzarsi. Lei compresa, una volta smesso di crogiolarsi nel proprio dolore e nella propria apatia. Ma, sebbene si fregiasse di essere brava in qualsiasi cosa, l’autocompatimento era ciò che le riusciva meglio.
    «immagino»
    Ovviamente Ty non immaginava proprio un cazzo, ma stranamente non glielo fece notare. Aveva troppo caldo per farlo. Si stava pentendo di tutto. L’essersi resa presentabile, l’essere uscita di casa, l’essere lì. L’esserci e basta, in effetti.
    Ma non si sentiva realmente pentita di aver interpellato Taichi.
    Perché non le avrebbe rotto il cazzo. Perché, come lei, si sforzava in tutti i modi di vivere nel proprio au, dietro quel muro di apatia che, a forza di fare resistenza, prima o poi avrebbe ceduto tutto d’un colpo, riversando loro addosso la marea di emozioni represse che si trascinavano dietro.
    «Fa veramente schifo. Essere così.» Non era del tutto vero, specie quando sapeva per esperienza di cosa era capace quel corpo, soprattutto con Sorta nei paraggi, ma non era quello il punto. E le mezze verità erano pur sempre il suo pane quotidiano. «Senza offesa, ma lo so che lo sai.»
    Nessuno dei due aveva scelto di essere così.
    Special.
    E depresso.
    «noi amo»
    Ecco appunto. Quello slang da genZ era stato datato alle sue orecchie, almeno un tempo, ma ormai lo sentiva così spesso da dover ammettere di essere quasi abituata. Non che vi avrebbe ceduto, questo era ovvio, ma fece un minuscolo cenno di assenso, perché sì, Ty aveva ragione. E soprattutto aveva avuto ragione lei: per crogiolarsi ancora un po’, ma ora alla luce del sole, in quella merda, il Limore era la spalla adatta.
    E forse, nel mentre, era anche in grado di darle qualche consiglio non richiesto ma silenziosamente desiderato.
    «Mmh», borbottò a denti stretti, dando però il via libera alla richiesta di Ty di farle una domanda. Anche solo per la straordinarietà del fatto, se non altro. Fosse stato qualcun altro, gli avrebbe mangiato la faccia con un commento sarcastico. Adesso non ne aveva però la forza. E forse non voleva neppure.
    Osservando una nuvola fantozziana addensarsi sopra di loro, le labbra le si tirarono in un mezzo sorriso, per l’assurda e insensata perfezione della cosa. E anche perché, nonostante la lieve ombra, l’afa continuava a soffocarla, impedendole tanto di respirare a pieni polmoni quanto di tirare le cuoia una volta per tutte. Si stravaccò sulla scomoda panchina stendendo le gambe decisamente più lunghe di quelle a cui era abituata davanti a sé, la nuca poggiata sulla spalliera e gli occhi fissi sulla nuvola grigia.
    «come mai non hai il tuo solito assetto*»
    «Secondo te?» Il suo proposito di non essere sarcastica aveva resistito per ben due minuti, un vero record.
    «sono solo curioso, ma non devi rispondere per forza.»
    Sospirò, cercando senza troppo successo di raccogliersi i capelli in un goffo chignon sulla testa. Aveva tre sorelle e due cugine, ma le acconciature erano sempre state il terreno di Minnie e Florrie. E di suo padre, naturalmente.
    «Vorrei dire che il cazzo mi aveva rotto, ma mentirei», ironizzò, cercando di interpretare la forma della nuvola sopra di loro. Un uccello, forse? Che poi in parte era pure vero, però non era un problema di quelli altrui. Il suo sarebbe mai tornato?
    La confusione del Limore era più che legittima. Ed era anche la sua, in effetti. «Sinceramente non lo so manco io. Come sto messo. Messa. Boh? Entrambi? Nessuna? Vorrei fosse nessuna, e mi sento nessuna delle due, ma… sono qui. Purtroppo.» Non che nella sua testa avesse senso, però ad alta voce era pure peggio. «E non so niente neanche di… questo.» Si indicò con un gesto svogliato, e schifato, della mano. «Presumo di essere capace di trasformarmi in altre, ew, persone, adesso, ma per ora… sono solo così. E non tornerò mai più me stesso.»
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    23
    … special
    depressed
  4. .
    AWWWH Bea grazie, che carino!! Lo metto subito in firma :cuore:
  5. .
    cristo
    santo


    literally
  6. .
    Adalbert Behemoth23 | metamorfəmagiavvocatə
    Non era una sconfitta.
    Se l’era ripetuto fino alla nausea, e non perché fosse una cosa, quella, che le veniva particolarmente facile. Non si stava arrendendo. Non stava chinando il capo, sebbene, ormai da qualche mese, tutto il mondo lo stesse facendo. Persino chi pensava di aver vinto, essendosi ritrovato dalla parte giusta della storia, aveva dovuto arrendersi all’evidenza e abbassare la testa. È questo che succede quando un tiranno prende il potere. E quando la libertà muore, non esistono vincitori, ma solo sconfitti.
    Perdenti.
    Non era una sconfitta quella di essere lì, davanti alla porta di quell’appartamento, ma sentiva di essere comunque una perdente. Nel senso etimologico del termine, almeno. In quei mesi, in quegli anni, Bertie aveva perso tutto. Aveva perso la sua famiglia. I suoi amici. Il suo passato. Aveva perso la sua stessa identità, prima sulla carta, poi, da quel maledetto giorno che aveva decretato la fine della guerra, in ogni aspetto della vita. Aveva perso sé stesso.
    E aveva perso anche Nice.
    Una parte di lei avrebbe voluto che anche la perdita della cugina fosse stata dovuta alle conseguenze della guerra, ma sapeva che non era così. Certo, l’essere partito senza dirle nulla, e soprattutto nella più assoluta consapevolezza dell’avversione di lei alla cosa, non aveva sicuramente aiutato. Ma la perdita di Nice risaliva a tanto, troppo tempo prima.
    In fondo sapeva che era cominciata nel momento stesso in cui si erano ritrovati catapultati indietro nel tempo di ventitré anni. Sebbene all’inizio fosse sembrato al contrario, sebbene l’essere loro due contro il mondo fosse diventato non solo un mantra, o un modo per irritare i loro fratelli, ma una vera e propria realtà, qualcosa si era spezzato in quel preciso istante. Loro si erano spezzati, nel momento in cui ad Albert e Nice si erano sostituiti Adalbert e Berenice. Si erano stretti l’uno all’altra, apparentemente ancora più vicini e legati di quanto non fossero mai stati, ma non era bastato.
    Perché Nice aveva imparato ad andare avanti, mentre lui era rimasta indietro.
    Aveva voluto rimanere indietro.
    Per ironia della sorte, l’aveva fatto per non perdere sé stesso, e per paura. Proprio il sé stesso che ora non esisteva più, e proprio quella paura che, dal giorno in cui era partito per combattere senza sapere se sarebbe mai tornato, non lo abbandonava mai.
    Tornare dove, però?
    Anche prima di quel salto nel tempo, Nice aveva sempre rappresentato casa. Insieme al resto della loro famiglia, naturalmente, ma era sempre stata quella stanza tutta per loro, quel piccolo mondo mentale fatto di quella complicità che gli altri potevano solo invidiare, senza però mai riuscire a capirla davvero.
    Ora quella casa non esisteva più.
    E non esisteva più nemmeno lui, sostituito da una lei che non riusciva ancora a percepire del tutto come sé stessa.
    Ogni volta che pensava al matrimonio di William e Akelei, le si rivoltava lo stomaco. Il modo tanto idiota e infantile e ingenuo con cui aveva cercato di attirare l’attenzione di Nice, o meglio, di scatenare una sua reazione, facendo leva su quel misto di orgoglio e testardaggine che aveva ereditato da entrambi i suoi genitori, era a dir poco patetico. Sorvolando sull’argomento, ogni volta che qualcuno vi faceva riferimento, imputava il tutto all’alcol, nascondendosi dietro una delle sue mezze verità. Era vero che quel giorno aveva più spirito che sangue nelle vene, tanto aveva bevuto prima, durante e dopo, sapendo che avrebbe visto non solo Nice e tutti i loro amici sopravvissuti, da una parte e dall’altra della barricata, ma anche, e soprattutto, i suoi genitori, da cui si era tenuta, nonostante tutto, sempre a debita distanza; tuttavia, non era una vera scusa. Era stata patetica, appunto, e la reazione fredda e incurante di Nice, e da Nice, non aveva fatto che confermarlo. Eppure sarebbe stata pronta a ribattere ancora e ancora, se non l’avesse vista volteggiare tra le braccia di Dominic.
    Non c’era bisogno di sentire cosa si stavano dicendo per capirlo.
    Bastava osservare il modo in cui si guardavano.
    Avrebbe dovuto essere felice, e lo era, lo era davvero, ma era solo l’ennesima riprova di quello che, in tutti quegli anni, non era riuscita, e non aveva voluto, accettare.
    Dovevano andare avanti. Il loro mondo era lì e ora, non là e quando l’avevano lasciato.
    Era questa la loro vita, adesso.
    Fissò ancora per qualche istante l’etichetta sul campanello, su cui svettava Berenice Hillcox scritto con l’elegante calligrafia della cugina. Quindi chiuse gli occhi e prese un bel respiro, sforzandosi di ricacciare indietro le lacrime, e la nausea. Li riaprì e suonò il campanello.
    Trattenne il fiato finché non si ritrovò a guardare Nice da un’angolatura strana, più alta di quella a cui era sempre stata abituata.
    «Sono venuta a trovare Belladonna. Mi mancava.»
    Rimmel
    Francesco De Gregori
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    Edited by sehnsüchtig. - 12/3/2024, 00:31
  7. .
    Ananke BeckettV, 15 y.o.beater
    Non è che le responsabilità non le piacessero, anzi, adorava essere lei a decidere e pianificare letteralmente tutto, come una Sara qualsiasi che pianifica le vacanze
    Però anche meno.
    «Forse non ti è del tutto chiaro il ruolo di battitore. Devi battere. Capito? B-A-T-T-E-R-E. Non stare lì a fare l'uccello impagliato», soffiò in direzione di Geri, non riuscendo a, e non volendo neanche, in realtà, trattenersi dall'essere giusto un tantino acida.
    Come disse un saggio: se sei la guardia Geri stai facendo un lavoro di merda.
    Lei non era per niente petty, figuriamoci.................
    (Ma era pur sempre figlia di suo padre. E di sua madre.)
    Dopodiché, sospirando teatralmente, prese la mira e...
    Sarainception. Di nuovo.
    «Noiii.»

    Chissà che ho scritto.
    Paths Of Victory
    Bob Dylan
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    (16) DIFESA GERI (amio + ana): le fa la lezioncina petty
    BOLIDE SU ARA (ana):
  8. .
    Ananke BeckettV, 15 y.o.beater
    Sara 🐱: chissà se voglio sbolidare me stessa
    Sara 🐱: proprio io
    Elisa 🍵: TI PREGO.
    Ed ecco la breve storia di come Ana ribatté il bolide su Ara (troppo bello. Mio dio aiuto è orribile).

    Ma facciamo un passo indietro.
    In primis perché non voleva assolutamente essere chiamata Ana. Non tanto per la vicinanza con il tormentone di Martellone. No, non sticazzi. L’altro. Il suo problema era quello che, nella memoria collettiva popolare degli anni Dieci, quel soprannome rappresentava. O meglio, chi.
    Quella Ana.
    «Hhhh.» Respirò profondamente l’aria fredda, sentendosi bruciare i polmoni, e chiuse gli occhi per un istante, imponendosi di calmarsi. Era la prima partita di campionato per i corvonero. Ed era la prima partita per lei. In assoluto. Certo, militava tra le fila dei giocatori della sua casata già dal terzo anno, ma in quanto riserva non aveva ancora mai messo piede in campo. Persino in un concentrato di sfighe com’era, da sempre, la squadra dei corvi. Anche se era da un po’ che nessuno veniva colpito da un fulmine, in effetti.
    Peccato.
    Ecco, ora che l’aveva detto, aveva come l’impressione di sapere come sarebbe andata a finire.
    Ma lei non era superstiziosa!!!
    Non indossava assolutamente le sue mutande rosse fortunate, come d’altronde non lo faceva per ogni singolo compito in classe, chiaramente…………..
    E poi non aveva bisogno di sotterfugi! Né di falsa modestia. Sapeva di essere lì meritatamente, così come meritava ogni E sul registro.
    PERCHÉ ERA FANTASTICA!!!
    Anche se una piccola, piccolissima ma tremendamente fastidiosa e soprattutto incapace di stare zitta parte del suo cervello sosteneva il contrario. La ricacciò indietro, stringendo con più forza la mazza, e guardò i suoi compagni. Quello era il loro momento, il suo momento.
    E niente non so bene cosa dire, è una certa e ancora non so bene /cose/ su Ananke (che poi potrebbe pure cambiare nome, stay tuned). E ho mangiato troppo sushi, anche.
    «Amio ci servi viva ancora per un po’, chissà quando uscirà il boccino», fece notare alla cacciatrice, avvertendola tra le righe dell’avvicinamento del bolide. Il suo primo bolide!!! Chissà se poteva lanciarlo direttamente in testa a sua sorella sugli spalti…………. Con il kwore lo fece, ma nella realtà dei fatti tentò di rispedirlo al mittente, alla battitrice dei tassorosso che urlava in spagnolo. Non per dire, ma era un caso la sua provenienza?
    Eh.
    Paths Of Victory
    Bob Dylan
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)


    (7) DIFESA AMIO (amio + ana): le dice di non farsi uccidere prima dell'uscita del boccino
    BATTE SU ARA (ana):
  9. .
    Adalbert ? Behemoth
    That there, that’s not me.
    I go where I please.
    I walk through walls,
    I float down the Liffey…
    I’m not here,
    this isn’t happening…
    I’m not here, I’m not here!
    In a little while… I’ll be gone.
    Era stanco. Esausto, in realtà. Era una sensazione che conosceva bene, ma non per questo vi era davvero abituato. Avrebbe solo voluto chiudere gli occhi e lasciarsi andare al piacevole oblio del sonno, allontanando tutto, e tutti, da sé. Eppure sapeva che non si sarebbe sentito riposato neanche dopo una dormita di cent’anni. Sapeva che, pur sperandolo con tutto sé stesso, al risveglio non avrebbe trovato nulla di risolto. Per un istante, per un brevissimo istante, l’avrebbe forse creduto, come gli accadeva sempre, ma poi la realtà avrebbe tornato a piovergli addosso, se possibile con ancora più violenza.
    Un motivo in più per sentirsi esausto.
    Proprio come a ogni aggiunta nell’elenco di Sorta, che gli diceva che respirava, che soffriva, che si autotorturava.
    Che la odiava.
    «forse vorresti essere morto ma hai così tanto per cui vivere che ti tiene ancora ancorato qui»
    Strinse le labbra, attenta a non lasciar trapelare nemmeno un sorriso sprezzante. Si era sempre vantato di essere illeggibile, per natura, per menefreghismo e soprattutto per la sua, almeno apparente, totale apatia. Eppure con la Motherfucka difficilmente aveva funzionato. Anzi, la serpeverde sembrava avere quasi un sesto senso nel carpire ciò che lui avrebbe voluto nascondere.
    Ma stavolta si sbagliava.
    «Anche se continuo a non crederci, il destino…» La guardò, forse per la prima volta quel giorno, in modo davvero intenso, gli occhi ora non offuscati dalla nebbia in cui si era nascosta da quando tutto era finito. «… la sorte… ha deciso di torturarmi ancora. Oppure, molto più semplicemente, è solo l’ennesima dimostrazione del fatto che nulla abbia un senso. Io compreso. Tutto il mondo compreso.» Tornò a serrare le labbra, soffocando un sospiro amareggiato e sarcastico. «È questo a tenermi ancorato qui. Non ho niente per cui vivere.»
    Sorta poteva rivaleggiare con lui nell’arte del ribattere e dell’avere l’ultima parola, ma aveva l’impressione che, stavolta, non l’avrebbe fatto. O meglio, che non l’avrebbe fatto come una piccola, minuscola parte di lui desiderava.
    Perché forse, forse, avrebbe voluto sentirsi dire che il motivo per cui era ancora vivo era lì, davanti ai suoi occhi.
    «Chi siamo noi per dire di meritare di vivere? Perché noi siamo qui e tutti quelli che non si sono più rialzati dal campo di battaglia no? Non è giusto», sentenziò, in parte per allontanare quel pensiero. Sapeva di essere egoista. Doppiamente, persino. Non era indifferente a tutti quelli che erano morti, eppure non era quello, non del tutto, almeno, ciò che avrebbe voluto sentirsi dire. Non voleva e non poteva ammetterlo, ma nelle profondità del suo cuore non riuscì a soffocare del tutto quel desiderio.
    Non quando Sorta si mostrò, ancora una volta, umana.
    Fu più forte di lei: non riuscì a non spalancare gli occhi, quasi certa di aver sentito male. Si stava preoccupando per qualcuno? Per dei… bambini? «Vuoi… rassicurarli?», mormorò a fior di labbra, senza quasi rendersi conto di averlo detto a bassa voce e non solo nella sua testa. «Tu
    Non era nulla rispetto a quello che avrebbe detto se fosse stato ancora lui, ma per alcuni secondi non riuscì a cancellare quel debole calore dentro il petto. Eppure, quando alle successive parole di lei si trasformò in un incendio, invece di scaldarlo lo bruciò. Era morto e con lui e tutti gli altri lo era anche la loro causa: proprio per questo faceva così male.
    «Sì», rispose secco, coprendo le ultime sillabe della domanda di lei. «Se avessimo vinto noi sarebbe andata molto diversamente. Il mondo starebbe guarendo, non morendo sempre di più.» Le lanciò un’occhiata sprezzante e carica di disprezzo. Era la verità, ma non del tutto. La Resistenza non era famosa per essere pacifista. Sapeva che, a ruoli invertiti, anche loro avrebbero avuto trofei di guerra e rivalse. Però… «Non staremmo sterminando metà della popolazione mondiale solo perché priva di magia. O con una magia sbagliata A differenza della sua, di magia. Era così assurdo da avere un suo senso. Quella sorta di contrappasso infernale a cui Abbadon aveva condannato lui e tanti altri gli si addiceva perfettamente. La sua vita era costellata da situazioni in bilico tra tragedia e commedia.
    E quello che non c’era tra lui e Sorta Motherfucka era l’apice di quel teatro dell’assurdo che era la sua esistenza.
    Parlò e parlò, tanto che qualcuno avrebbe potuto pensare che, nonostante l’aspetto angelico, dietro a quel viso delicato si nascondesse davvero Albert. Un Albert vivo, visto che, come suo solito, sembrava incapace di stare zitto.
    La vide tremare e serrare i pugni, palesemente concentrata per non colpirlo. Chissà se avrebbe sentito qualcosa, se lei non fosse riuscita a trattenersi. Una parte di lui avrebbe voluto scoprirlo. Cosa che in effetti, poco dopo, accadde, ma non come si era immaginato. Quello che lo colpì non fu un pugno fisico, bensì metaforico. L’insulto di lei, quel sentirsi dare del coglione a cui era così abituato, suonò estraneo alle sue orecchie. Non c’era nulla di sarcasticamente affettuoso nella voce di Sorta. Era seria.
    Aveva voluto davvero ferirlo.
    Si sentì attraversare da un fremito. Dolore? Senso di colpa? Vita? Ma non poteva darlo a vedere. In fondo, stava solo ottenendo ciò che voleva. Voleva allontanare Sorta, voleva che lo odiasse. Voleva che fosse lei quella a guardare avanti e ad andarsene senza voltarsi più indietro.
    Lo voleva.
    «non m'interessa se sei incazzato e mi odi, ne hai tutto il diritto ma non osare parlarmi così perché non sai proprio un cazzo di come mi senta io o come stia messa la mia coscienza»
    So che sei ferita. Che le tue scelte ti hanno ferita. Che io ti ho ferita, pensò, gli occhi fissi in quelli di lei.
    Ma non disse nulla.
    Non stavolta.
    Lo voleva?
    Non voleva piangere, eppure lo stava facendo.
    Non voleva sentire, eppure lo stava facendo.
    Non voleva… «lo sai anche tu che se sono qui e ho addirittura saltato le lezioni è perchè mi interessa effettivamente come stai»
    Non era esattamente quello che, nella parte più nascosta di sé, avrebbe voluto sentirsi dire. Però ci andava dolorosamente vicino. E per l’ennesima volta, quel giorno, non poté non provare uno stupore che sapeva di certezza. Anche se non esistevano realmente buoni e cattivi al mondo, ma solo persone, Sorta, pur cercando di dimostrare costantemente al mondo il contrario, era molto, troppo vicina al primo gruppo.
    «Certo. Perché ti senti in colpa. Per questo ti interessa.»
    Ma lui non poteva permettersi di tenerla vicina a sé.
    E così le vomitò addosso ancora una volta tutta la sua rabbia, e il suo dolore, con fare terribilmente egoista. Perché sapeva di doverla allontanare, ma non lo stava facendo. Anche se era morto, stava cercando di trascinarla giù nella fossa con sé. Tra le lacrime e gli insulti stava gridando disperatamente in cerca di aiuto.
    Del suo aiuto.
    Trattenne il fiato, o meglio, ci provò, visto che l’impeto con cui le aveva parlato e stretto le spalle adesso ansimava, quando percepì il calore della mano di Sorta. O meglio, immaginò di percepirlo, visto che non la stava davvero sfiorando. Eppure ricordava alla perfezione la sensazione delle piccole dita di lei sul proprio corpo, la leggera ruvidità frutto del tanto tempo passato su una scopa che si mescolava alla delicatezza decisa di ogni suo gesto.
    «e sai cos'altro vedo?»
    Cosa vedeva?
    Vedeva la sua disperazione? La morte?
    Vedeva quanto era delirante? Non solo la situazione e il mondo, ma proprio lei, ciò che restava di lui. Il voler allontanare Sorta a tutti i costi, ma il desiderare che lei, ancora una volta, decidesse di rimanere.
    «vedo una persona spaventata abbastanza da rimanerne paralizzata ma non abbastanza da nascondere la propria sofferenza. non è mica facile, sai?»
    Se la mano di Sorta fosse stata davvero poggiata contro la sua guancia, avrebbe potuto percepire il brivido che la attraversò. Aveva ragione, naturalmente. Ma non fu questo a farle male. Si sentiva… delusa. Ancora una volta, lui e la Motherfucka sembravano correre su due linee parallele. Vicinissime, così vicine da poter sembrare quasi un’unica retta. Due linee destinate a non incontrarsi mai.
    «Non voglio la tua pietà.»
    Era vero.
    Non voleva la sua pietà. Ma voleva tutto il resto.
    Voleva lei.
    Sorta si sbagliava, quindi, nel dirgli che non era un mostro. Certo che le era. Ma non per le ragioni che adduceva lei.
    «diresti a qualunque persona che ha vissuto la tua stessa esperienza, ad ogni special, che è un mostro?»
    Era così vicina… Scosse il capo, risoluta. «Sappiamo entrambi chi sono qui i mostri.» E non si riferiva solo a tutti quelli che avevano contribuito a distruggere il mondo, naturalmente.
    Era così vicina… Una nuova ondata di bollente disperazione la invase, accentuandosi ancora di più quando, un attimo prima di scansarla, sebbene fosse ancora e solo lei a tenerla vicina, le dita serrate sulle spalle di Sorta, vide la serpeverde osservarla con smarrimento. Voleva tutto e il contrario di tutto, in particolar modo da lei. Non sentiva niente, eppure provava troppo.
    E la vicinanza di Sorta era intossicante.
    Solo una volta al sicuro lontana da lei, rannicchiata contro la testiera del letto, riprese un attimo fiato. Percepiva ancora le spalle piccole e muscolose sotto le dita, adesso strette intorno alle proprie ginocchia, che aveva tirato al petto nel tentativo di farsi piccola e, ancora di più, di chiudersi nei confronti del mondo esterno e, soprattutto, della Motherfucka.
    «non ho il diritto di non odiarti? ora desideri essere odiato così tanto?»
    No.
    «Sì. Io ti odio, tu mi odi. Semplice.» Nulla tra di loro era mai stato semplice. O forse tutto.
    Si fissarono, silenziose, immerse in quel non detto che, ormai, era così denso da rischiare di soffocarle. O almeno, di certo soffocava Bertie. Forse era quello il suo biglietto di sola andata per al morte, per la vera morte.
    «posso anche odiarti, se lo desideri, devi solo convincermi a farlo»
    Sapeva che sarebbero bastate due, semplici eppure difficilissime parole per farsi odiare da lei.
    Ma era troppo codardo per dirle.
    Ed egoista, visto che avrebbe significato perderla per sempre, stavolta.
    «Se non fossi già morto, sicuramente ci riuscirei.»
    gif code
    23 y.o.
    shapeshifting
    depressed
  10. .
    Chissà se sono ancora in tempo.

    Per il ruolo in realtà uno vale l'altro, ditemi voi??

    NOME PG: Ananke Beckett
    CASATA: Corvonero
    RUOLO: battitrice (???) riserva

    guardate come in classic oblvion style mi prendo a bolidate da sola.
  11. .
    Lo metto anche qui perché sì.

    IMXS4TP
  12. .
    (Non io che fangirlo ogni volta che ci penso.)
  13. .
    Già sai amo (oh mio dio come mi sento genZ a dire sta cosa), ma...
    AWWWHHHHHHHH!!!

    GRAZIE BABYNA!!!!!
  14. .
    whoAdalbert Behemoth
    roleguest (groom’s side)
    outfitdress & hair
    info23 y.o. | magilawyer
    inforebel & shapeshifter
    Il fatto che la sua prima uscita pubblica dopo mesi passati a decomporsi a letto fosse a un matrimonio la diceva lunga sulla sanità mentale di Bertie.
    Se si escludeva, certo, quel pomeriggio afoso su una panchina sgangherata di una Londra deserta e post apocalittica, nel vero senso della parola, che aveva passato con Taichi. E le inevitabili giornate in cui, nonostante tutto, il senso del dovere aveva prevalso, fortemente incoraggiato dal bisogno fisico di non darla vinta a Sinclair, portandolo, portandola, a presentarsi al lavoro. Dopotutto, per fare il magiavvocato non serviva davvero la magia. Anzi, come aveva fatto notare con finta noncuranza proprio Perses, il suo nuovo io lo rendeva vagamente utile, permettendogli di assumere le fattezze di chiunque. E quale miglior modo per entrare nella testa di qualcuno se non mostrarle le fattezze della persona amata, o, ancora meglio, della vittima?
    Bertie non voleva trovarsi lì, così come non voleva trovarsi ovunque, sulla faccia della Terra. Voleva non esserci. Anzi, lo avrebbe voluto, visto che, pur ripetendolo a sé stesso da mesi, dal giorno in cui la sua vita era finita, là tra le macerie di Stonehenge, invece c’era ancora. Continuava a esistere, perché era un codardo. Perché si odiava, o forse perché non lo faceva abbastanza.
    Eppure era lì.
    A il matrimonio, per antonomasia.
    Ed era proprio come essere a casa, seduta com’era accanto a Hyde, entrambi intenti a fissare il vuoto davanti a loro, apatici. Morti.
    Perché, allora, gli pizzicava la gola? Perché qualcosa, nel suo petto, si mosse, quando non riuscì a non notare lo sguardo con cui William osservò Akelei avvicinarsi? Perché quelle parole trite e ritrite, pronunciate da così tante labbra senza alcuna reale intenzione, senza alcun vero sentimento, gli parvero così pure, così vere?
    Non esitò neppure un istante, quindi, quando con la coda dell’occhio vide Hyde cominciare a muovere la fiaschetta nella sua direzione, rispondendogli di sì ancora prima che lui le offrisse effettivamente un sorso. Un attimo dopo l’alcol già le bruciava la lingua, spingendo giù per la gola quella sensazione così assurdamente simile alla commozione.
    *
    «Non è ridicolo essere qui a celebrare una storia già scritta?», sentenziò poco dopo, mentre gli ospiti cominciavano a sparpagliarsi per la vera festa. «Almeno metà dei presenti lo sa. Sposi compresi.» Anche solo perché la progenie Akerrow rappresentava una buona fetta degli invitati, in effetti. Sospirò, con studiata noia, e sfilò due – ennesimi – calici di champagne dal vassoio del cameriere più vicino. Per un attimo ponderò se scolarseli entrambi da sola, tutto d’un fiato, anche perché non troppo lontano, a proposito di famiglie, aveva intravisto la sua, ma poi ne porse uno a Hyde. «Mi sento particolarmente magnanima, oggi.»
    Forse era quello il motivo per cui era andata al matrimonio di William Barrow e Akelei Beaumont. Perché si sentiva magnanima. Non perché voleva accarezzare i suoi genitori con lo sguardo, tra la gente, sapendo che non sarebbe mai potuta tornare da loro, adesso. Da una parte era sempre stata dolorosamente consapevole dell’impossibilità di rimettere le cose a posto, di riappropriarsi di quel futuro che aveva deciso di abbandonare. Dall’altra, però, non si era mai davvero rassegnata all’idea, continuando a illudersi che, prima o poi, le cose sarebbero tornate al loro posto, che lui sarebbe tornato al proprio posto.
    Ma ora Albert non esisteva più.
    E con lui il suo futuro.
    La sua famiglia.
    Presagendo che suo padre Adam stava per fare qualcosa di molto, molto stupido, in perfetto stile Adam Cox, si costrinse ad allontanarsi, il cuore stretto in una morsa di dolore e nostalgia. Avendo in corpo più alcol che altro, grazie anche alla preparazione a cui lei e Hyde si erano sottoposti ancora prima di uscire di casa, intenta com’era a ignorare completamente Dominic, che si era palesato per prelevare Chelsey, non prestò davvero caso a dove stesse andando, né se il Crane Winston fosse ancora con lei.
    Ecco, a proposito di progenie Akerrow per fare numero. «Renée», salutò il ragazzo, trovandoselo improvvisamente davanti. «Volevo dire, Zelda Arricciò le labbra e gli smollò la flûte ormai vuota, impaziente di procacciarsi un bicchiere pieno. «Dove sono finiti tutti i camerieri?» Dicendolo, scostò lo sguardo dall’aria malaticcia, per non dire in perenne punto di morte, del ragazzo, in cerca di qualche addetto del catering. E, così facendo, notò che l’ultimo Beaumont-Barrow non era solo.
    «Per fortuna Akelei può contare sul suo splendore naturale, perché quel vestito è davvero… insulso.»
    In quei tre mesi, Nice non l’aveva cercata.
    Mai.


    Tecnicamente, Adam era stato invitato. Anche nella pratica. Quello che mancava era un invito ufficiale, sulla costosissima carta profumata di lavanda, quasi di sicuro scritto a mano da un bambino esperto di calligrafia rapito e schiavizzato da Akelei Beaumont in persona, identico ai due che, per mesi, erano rimasti appesi alla bacheca della cucina del loro appartamento. Ma che senso aveva mai avuto un pezzo di carta per la Ribellione? Non era una firmetta a sancire l’impegno, la lealtà. Erano gli ideali. Era il cuore.
    William era un amico, un compagno. Avrebbe fatto di tutto per la libertà e l’uguaglianza, per la causa. E per Akelei.
    Era stato un invito di cuore, il suo, motivo per cui Adam, nella realtà dei fatti, era un quasi imbucato. Ma si poteva davvero definire tale, dal momento che conosceva buona parte dei presenti? E poi non era un semplice +1, ma un +1 +1, come quando si rilanciano i +2 a Uno, sancendo così la fine di amicizie decennali.
    Mediando tra l’essere costantemente in anticipo del Wood e lo studiato ritardo da star della Bulgakov, erano arrivati in perfetto orario, né un minuto di troppo prima né uno dopo. E adesso sedeva tra i due, da sempre il suo luogo preferito in cui essere, il salame in un panino anglo-burgaro, intento a godersi dalla cerimonia.
    Pianse, naturalmente, perché era pur sempre un Cox, emozionato per gli sposi e con loro, orgoglioso del coraggio che stavano mostrando nell’impegnarsi non solo pubblicamente, ma in modo ufficiale. Se il primo punto non era mai stato un problema, per lui, non poteva invece dirsi lo stesso del secondo, vista la sua avversione per le etichette e, ancora di più, per i vincoli. Eppure, vedendo Ake e Will dirsi che sì, si amavano, e che l’avrebbero fatto per sempre, non poté fare a meno di domandarsi non se, ma quando, anche loro tre avrebbero trovato il coraggio di fare quel passo.
    Non aveva paura.
    Non per questo, almeno.
    Per qualche ora aveva deciso di lasciare tutto il resto fuori e di tornare a essere il vecchio Adam, il vero Adam, quello che non aveva alcuna intenzione di tenersi la testa sulle spalle e le grazie nelle mutande. In fondo, non c’era nulla più da lui che ignorare il fatto che, appena qualche passo al di là della bellissima villa e dei campi di lavanda, il mondo fosse in balia della peggiore dittatura di tutti i tempi e l’intera umanità fosse stata messa a ferro e fuoco da il più sadico dei tiranni.
    Era lì per divertirsi, per festeggiare, per vivere.
    Perché sì, nonostante tutto, erano ancora tutti vivi, e tutti insieme.
    Schioccò un bacio prima a Daisy, poi a Tyler, promettendo che avrebbe riportato loro due piattini carichi di cibo pescato dalle a dir poco infinite isole di buffet. In realtà sapevano benissimo tutti e tre che sarebbe arrivato ben poco fin lì, dal momento che Adam non avrebbe resistito a smangiucchiare tutto il suo lauto bottino prima di tornare da loro. Ma come poteva essere altrimenti? C’era letteralmente qualsiasi cosa su quei tavoli!
    Si sentiva davvero commosso.
    Dalla cerimonia, certo, ma soprattutto dal cibo.
    «ho molte domande» «Anche io», bofonchiò con la bocca mezza piena. «Tipo la ricetta di questa... cos’è, secondo te? Una mini pie?? Non capisco cosa ci sia dentro, ma è…» Con un secondo e ultimo morso finì di ingollarla, la bocca costantemente impastata. «… deliziosa! L’hai provata??»
    Conosceva la ragazza con cui stava parlando? Assolutamente no.
    Ma non era certo un mistero che fosse in grado di parlare anche con i muri.
    «dov’è la creatura?» Aggrottò appena la fronte, masticando il pezzo di formaggio che, senza aver ancora mandato giù del tutto la pie, si era già buttato tra i denti. «Le creature sono dai miei, a Kensington», sospirò, dispiaciuto, volando col pensiero a Minerva e Albert. «Avevo detto a Tyler che secondo me almeno Minnie poteva venire, ma si è messo a dire che si sarebbe annoiata, che non è giusto costringere gli estranei a sopportare i figli altrui, che…» Sbuffò ed indicò il baby parking in lontananza. «E invece guarda!! Ci sono un sacco di bambini!! Avrebbe potuto fare amicizia!!!»
    In these bodies we will live,
    in these bodies we will die.
    And where you invest your love,
    you invest your life.
    when3 september 2023
    avignon, provencewhere
    board'till death do us part
    Awake My Soul
    Mumford & Sons
    whoAdam Cox
    roleguest (+1 +1)
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    info27 y.o. | magizoologist househusband
    infoex hufflepuff & rebel



    Bertie parla con Hyde, beve, beve, beve, parla con Renée, gli smolla il bicchiere e insulta il lavoro di Nice.

    Adam parla con Tyler e Daisy (fuoricampo), piange, si emoziona, mangia e importuna parla con Rea.
  15. .
    Chissà se posso (devo?) segnare fem!Bertie, visto che ormai è canon.

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    <span class="pv-m">Louis Hofmann/Sophie Turner[color=red]*[/color]</span> Adalbert Behemoth [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/?t=61897276][color=#567C13] scheda pg[/color][/URL]
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