claw my way out through these walls

[ ty ft. bertie ]

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    taichi lìmore
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    sisi, la guerra era stata una brutta cosa.
    terribile.
    quelli che avevano preso posizione, per una parte o per l'altra, ty un po li invidiava; e riconosceva valide ragioni in entrambi gli schieramenti: ciascuno credeva di fare la cosa giusta, a suo modo.
    e forse era anche per quello che aveva scelto di non scegliere — quando mai taichi lìmore era stato in grado di prendere la decisione giusta. meglio risolvere il problema alla radice, accettando di buon grado le ammonizioni che fake gli aveva fatto.
    non pensarci neanche.
    e ty non ci aveva pensato.
    rimani qui.
    e ty non si era mosso.
    tranne che per macinare sotto i piedi il breve tragitto tra casa golden e l'appartamento di Hans, con un preavviso di 72 tra una visita e l'altra; still, non avevano bisogno di parlare, per dirsi le cose.
    e, ovviamente, per controllare che Mac stesse tirando avanti.vivo sarebbe stata un'esagerazione, anche in tempi normali; e non c'era più un cazzo di normale, ormai.
    «ma mai una gioia, proprio» un sospiro colmo di delusione sfuggì dalle labbra dello special, iridi scure rivolte al cielo terso. faceva un cristo di caldo assurdo, soprattutto per uno che odiava spogliarsi e viveva con la pressione costantemente sotto i piedi, ma ancora resistette alla tentazione di richiamare un po di nuvole e far venire giù il diluvio universale. voleva concedere ad Adalbert almeno il tempo di essere elegantemente in ritardo, prima di colpirlo con un fulmine — prima lezione di sopravvivenza.
    chiuse il giornale dopo aver sollevato scettico un sopracciglio di fronte alla pagina sportiva — non ci capiva un cazzo, ty, ma ogni tanto le foto dei calciatori e dei pallavolisti gli regalavano qualche emozione™; non era quello il caso: nessuno, proprio nessuno, voleva vedere le lacrime di Zlatan Ibrahimovic zoomate del 200%. anche se non era a quell'articolo sull'ormai ex calciatore che il lìmore aveva dedicato un commento.
    ancora nessuna notizia da Hong Kong.
    una città da ricostruire, come molte altre, le cui vittime si contavano a centinaia; forse addirittura migliaia. nel casino generale, e nei cambiamenti radicali che ne erano seguiti, una manciata di morti in più o in meno non aveva fatto differenza. il vero dono di Abby all'umanità: riportare in auge il cinismo come forma basilare di pensiero, senza vergogna. in quel mondo, così nuovo eppure totalmente stravolto, ty poteva rimanere impassibile di fronte a tutta quella distruzione (perché ormai il danno era fatto.) e preoccuparsi per una cosa alla volta.
    tipo, che ne so, capire se i suoi erano finalmente crepati negli scontri.
    «euu, c'hai una faccia» non salutò nemmeno, quando gli occhi scuri si posarono sulla zazzera bionda del Behemoth. i movimenti limitati al minimo per disperdere meno energie possibili — una scorta già particolarmente limitata. si fece un po di aria con il giornale piegato, stendendo le gambe da fenicottero, la schiena sempre incollata alla panchina. potendo, non si sarebbe mosso di lì, ed era quello il piano principale: tanto intorno a loro, non c'era un cristo di nessuno.
    alla gente era finalmente passata la voglia di fare jogging sotto il sole, god bless la guerra.
    «allora?» un'unica domanda per racchiuderne molteplici: lasciava a Bertie la scelta — come va? di cosa hai bisogno? perché hai chiamato proprio me? hai sentito che cazzo di caldo?????
    neanche si conoscevano così bene, ty e bertuccia.
    avevano condiviso un incubo, ricordato solo a tratti (scale e sangue e denti), e per qualche ragione sembrava sufficiente.
    strange forte.


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    prove di pv rigorosamente senza gif.
     
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    Adalbert? Behemoth
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    Perché, tra tutti, Bertie avesse scelto di chiedere aiuto proprio a Taichi, rimaneva un mistero. Per Bertie, per Taichi e per tutto il resto del mondo.
    Prima di tutto, era Taichi Limore. Non era emo nel senso stretto del termine, ma tra simili, in un qualche modo, ci si riconosce. Questo, quindi, Bertie lo sapeva ormai da anni.
    Allo stesso modo, era consapevole del loro non essere propriamente amici. Non lo erano stati al castello e non lo erano ora, entrambi fuori da quelle quattro mura e teoricamente pronti a vivere da persone adulte (ah!). Non che avesse qualcosa contro il Limore, anzi, era una delle poche persone gli le andavano a genio, chissà poi come mai. Forse quell’esperienza di morte, in tutti i sensi, specie in quello letterale, che era stata Tottington aveva fatto la magia (in effetti, alle volte, chiudendo gli occhi, Bertie vedeva ancora il ragazzino allampanato trasformarsi ogni secondo di più in un fungo assassino). O forse quel limone (a cazzo duro? Chiederlo alla palla) a una delle randomissime feste di capodanno oblivion.
    E di certo non era l’unico special che conosceva. Anche se, da questo punto di vista, Bertie si sentiva un po’ come gli omofobi che dicono di avere tanti amici gay (e il tutto perché in fondo sono gay anche loro – la storia della sua vita, insomma): ne conosceva, sì, ma chi poteva davvero definire suo amico? Certo, c’era Jekyll, tanto per citarne uno, visto che viveva più o meno legalmente in casa sua da anni e, be’, lo conosceva da una vita, ma… Ma.
    Sarebbe stato troppo semplice. Troppo scontato. Troppo intelligente, soprattutto.
    Eh, no pain, no gain.
    Cosa c’entrava? Niente, ma quella parola, dolore, continuava a risuonargli nella testa, mentre si trascinava per la prima volta fuori dal letto, sotto la doccia e infine in strada dopo un numero di giorni che non voleva, e non sapeva, contare. Adesso nessuno avrebbe più potuto romperle il cazzo: si era alzata ed era uscita. L’aveva fatto.
    Magari, con un po’ di fortuna, un’auto l’avrebbe pure investita.
    Almeno il dolore sarebbe cessato, dopo essere schizzato alle stelle per qualche istante.
    Invece, a Londra, dovevano essere rimasti giusto gli stronzi come lei, a giudicare dalle strade deserte. Persino la metro lo era. Ma non era tutti poveri? Non c’era appena stata una guerra?
    Ecco, la guerra.
    Scrivere, tra tutti, proprio a Taichi, in quel modo stringato e senza nemmeno un’emoji (ma dopotutto lui non era un millennial, quindi le emoji erano totalmente bandite dal suo vocabolario), era stato voluto. Perché lui, in un qualche modo, con quella guerra non c’entrava niente. O forse c’entrava tutto, essendo ora parte della ristretta fetta di privilegiati della società. Ma nella mente di Bertie, il Limore era ancora il ragazzino innocente di qualche anno prima; era puro. Così, egoisticamente, aveva pensato che con lui sarebbe riuscito a dimenticarsi di tutto quello che era successo.
    Almeno un po’.
    «euu, c'hai una faccia»
    O forse no.
    «Come hai fatto a notarlo?», borbottò sarcastica e, con un sospiro, si lasciò cadere accanto a lui sulla panchina. Non esattamente la reazione che sperava – totale apatia –, ma in fondo neanche troppo male. Lo osservò con la coda dell’occhio, vedendolo sventolarsi con il giornale e stendere le lunghe gambe magre. «allora?» «Allora.»
    Un po’ come Sara a Pescara, dopo quello che sembrava essere, che doveva essere l’incipit di qualcosa, Bertie si zittì per parecchi secondi. Troppi, probabilmente, soprattutto nel suo caso, incapace com’era di tenere la bocca chiusa per più di qualche istante. Ma da quando era tutto finito, a partire dal mondo, non aveva più la voglia, e ancora di più la forza, di parlare.
    «Non mi alzavo dal letto da settimane. Semplicemente… non ci riuscivo.» Lo ammise così, dopo quel lungo silenzio, buttandolo lì come se fosse una cosa da niente, lo sguardo perso sull’erba bruciata dal sole a pochi passi da loro. «Dovevo parlarne con qualcuno. Qualcuno che non c’entrasse nulla con tutto questo… schifo.» Si piegò in avanti e puntellò i gomiti sulle ginocchia, sentendo i capelli oscurarle buona parte della visuale, ai lati del viso. «Mi pento di tutto, ovviamente. Fa un cazzo di caldo assurdo, voglio morire.»
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    ty non aveva alcuna dote particolare.
    si confondeva nella massa, nonostante il suo metro e ottantacinque, una siluette sottile uguale a tante altre; non doveva nemmeno rasentare i muri, per essere invisibile. gli bastava continuare ad interpretare se stesso, un giovane uomo con poche ambizioni ed un bagaglio di ansie spesso immotivate da portarsi sempre appresso — e non è che la cosa gli dispiacesse.
    vivere nel suo au, sprofondare nella comfort zone, crogiolarsi all'interno della sua bolla delulu, gli aveva permesso di sopravvivere ad un anno fino a quel momento davvero troppo intenso per i suoi gusti; un anno che era praticamente solo a metà ("what a week, uh?" "ty, it's wednesday").
    considerato il susseguirsi di eventi inattesi per i quali Taichi non poteva minimamente definirsi preparato (Hans e Mac che decidevano, infami, di scomparire così de botto e senza senso, trasformando lo special in Charles Boyle while Jake is on trial; hans, infame doppio, e i suoi due minuti di elettrocardiogramma piatto, che avevano mandato anche il cuore del lìmore in uno stato di morte apparente; la guerra — e vabbè, abbiamo detto che non ci interessa), forse non se l'era cavata così male.
    «Non mi alzavo dal letto da settimane. Semplicemente… non ci riuscivo.» sapete cosa: ty non era una merda come barrow skylinski. quello rigirava il coltello appena vedeva una ferita aperta, quasi che nel vederla rimarginarsi fosse lui a provare il più grande dolore; Taichi preferiva strappare, la lama o un cerotto. non ci godeva particolarmente a vedere gli altri in difficoltà, perché era lui il primo ad annegarci dentro, ma allo stesso tempo era rapido a diventare insofferente al dolore altrui. soprattutto quando non lo capiva— e quello di bertie era come una forza che gli remava contro.
    forse perché era finito nei laboratori contro la propria volontà quando aveva solo cinque anni, e con quella condizione gli era toccato viverci e con-viverci tutta la sua vita; un'esperienza che aveva inconsciamente rimosso, i brutti sogni di un bambino a svegliarlo nel cuore della notte quando gli altri pensieri si placavano. un evento molto raro, quindi «immagino» annuì, senza immaginare proprio un cazzo. specchiandosi nelle iridi chiare della ragazza, ebbe persino modo di pensare che la forma scelta dal Behemoth fosse più piacevole dell'originale.
    gli ricordava Livy, il che era insieme un bene e un fottuto male.
    «Mi pento di tutto, ovviamente. Fa un cazzo di caldo assurdo, voglio morire.» ah, adesso sì che iniziavano a parlare la stessa lingua (quella famosa che Bertie gli aveva cacciato in gola quando era ancora minorenne? bertuccia passione pg di rob since sempre). l'espressione fino a quel momento contrita, quasi sulla difensiva, di ty prese una sfumatura appena più morbida, riflettendosi nel mezzo sorriso che fu rapido a regalare alla bionda e altrettanto a far sparire «noi amo» che volete, colpa di fake. Kugi aveva anche tentato di introdurlo al mondo di tiktok, ma l'algoritmo dell'applicazione si era rivelato alquanto caotico: un giorno era in fissa con daddy!Pedro Pascal, l'altro con la gente che raccattava i gattini per strada.
    «posso farti una domanda?» si mosse sulla panchina appoggiando la caviglia destra sul ginocchio opposto, la testa reclinata all'indietro; il cielo era terso, il sole troppo splendente. chiuse gli occhi, respirando a fondo, le dita ad intrecciarsi contro lo sterno.
    quando le ombre cominciarono ad accumularsi sul volto imberbe, Taichi si concesse un sospiro di sollievo: racimolare qualche nuvola non era poi così complicato, soprattutto per uno che aveva ancora l'abitudine di far nevicare quando gli prendeva un attacco di panico «come mai non hai il tuo solito assetto*» qualche problema con l'inglese ty ce l'aveva ancora; la capacità di imbarazzarsi per qualche stupido errore grammaticale, non più — god bless the adulthood 🙏🙏🙏 «sono solo curioso, ma non devi rispondere per forza. » in ogni caso lungi dal lìmore lamentarsi.
    «a potere come stai messo? messa. messo. non so» non sapeva. quali pronomi usare, ma anche quale tipo si capacità avesse acquisito Bertie dopo aver perso la magia per mano del caro signor Abby — ✨surprise


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    Adesso che le bollette le pagava anche lei, nessuno poteva più impedirle di tenere l’aria condizionata a balla, almeno in camera sua. No, nemmeno Chelsey, nonostante tutto. E allora perché cazzo non era rimasta a congelarsi le chiappe sotto almeno tre strati di coperte, con uno sbalzo termico, tra dentro e fuori, di almeno trenta gradi? Perché aveva voluto dimostrare di poter uscire da quella stanza e di essere ancora in grado di fare cose normali?
    A nessuno fregava un cazzo.
    In generale, certo, ma soprattutto di lei.
    Naturalmente Bertie aveva la coda di paglia e un’innata propensione al vittimismo, ma c’era comunque un fondo di verità in quell’amara consapevolezza. Non che prima fosse al centro dei pensieri della gente, sebbene le piacesse convincersi del contrario, ma adesso avevano tutti ben altro su cui focalizzarsi. Lei compresa, una volta smesso di crogiolarsi nel proprio dolore e nella propria apatia. Ma, sebbene si fregiasse di essere brava in qualsiasi cosa, l’autocompatimento era ciò che le riusciva meglio.
    «immagino»
    Ovviamente Ty non immaginava proprio un cazzo, ma stranamente non glielo fece notare. Aveva troppo caldo per farlo. Si stava pentendo di tutto. L’essersi resa presentabile, l’essere uscita di casa, l’essere lì. L’esserci e basta, in effetti.
    Ma non si sentiva realmente pentita di aver interpellato Taichi.
    Perché non le avrebbe rotto il cazzo. Perché, come lei, si sforzava in tutti i modi di vivere nel proprio au, dietro quel muro di apatia che, a forza di fare resistenza, prima o poi avrebbe ceduto tutto d’un colpo, riversando loro addosso la marea di emozioni represse che si trascinavano dietro.
    «Fa veramente schifo. Essere così.» Non era del tutto vero, specie quando sapeva per esperienza di cosa era capace quel corpo, soprattutto con Sorta nei paraggi, ma non era quello il punto. E le mezze verità erano pur sempre il suo pane quotidiano. «Senza offesa, ma lo so che lo sai.»
    Nessuno dei due aveva scelto di essere così.
    Special.
    E depresso.
    «noi amo»
    Ecco appunto. Quello slang da genZ era stato datato alle sue orecchie, almeno un tempo, ma ormai lo sentiva così spesso da dover ammettere di essere quasi abituata. Non che vi avrebbe ceduto, questo era ovvio, ma fece un minuscolo cenno di assenso, perché sì, Ty aveva ragione. E soprattutto aveva avuto ragione lei: per crogiolarsi ancora un po’, ma ora alla luce del sole, in quella merda, il Limore era la spalla adatta.
    E forse, nel mentre, era anche in grado di darle qualche consiglio non richiesto ma silenziosamente desiderato.
    «Mmh», borbottò a denti stretti, dando però il via libera alla richiesta di Ty di farle una domanda. Anche solo per la straordinarietà del fatto, se non altro. Fosse stato qualcun altro, gli avrebbe mangiato la faccia con un commento sarcastico. Adesso non ne aveva però la forza. E forse non voleva neppure.
    Osservando una nuvola fantozziana addensarsi sopra di loro, le labbra le si tirarono in un mezzo sorriso, per l’assurda e insensata perfezione della cosa. E anche perché, nonostante la lieve ombra, l’afa continuava a soffocarla, impedendole tanto di respirare a pieni polmoni quanto di tirare le cuoia una volta per tutte. Si stravaccò sulla scomoda panchina stendendo le gambe decisamente più lunghe di quelle a cui era abituata davanti a sé, la nuca poggiata sulla spalliera e gli occhi fissi sulla nuvola grigia.
    «come mai non hai il tuo solito assetto*»
    «Secondo te?» Il suo proposito di non essere sarcastica aveva resistito per ben due minuti, un vero record.
    «sono solo curioso, ma non devi rispondere per forza.»
    Sospirò, cercando senza troppo successo di raccogliersi i capelli in un goffo chignon sulla testa. Aveva tre sorelle e due cugine, ma le acconciature erano sempre state il terreno di Minnie e Florrie. E di suo padre, naturalmente.
    «Vorrei dire che il cazzo mi aveva rotto, ma mentirei», ironizzò, cercando di interpretare la forma della nuvola sopra di loro. Un uccello, forse? Che poi in parte era pure vero, però non era un problema di quelli altrui. Il suo sarebbe mai tornato?
    La confusione del Limore era più che legittima. Ed era anche la sua, in effetti. «Sinceramente non lo so manco io. Come sto messo. Messa. Boh? Entrambi? Nessuna? Vorrei fosse nessuna, e mi sento nessuna delle due, ma… sono qui. Purtroppo.» Non che nella sua testa avesse senso, però ad alta voce era pure peggio. «E non so niente neanche di… questo.» Si indicò con un gesto svogliato, e schifato, della mano. «Presumo di essere capace di trasformarmi in altre, ew, persone, adesso, ma per ora… sono solo così. E non tornerò mai più me stesso.»
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    nessuno:
    proprio nessuno:
    assolutamente nessuno:
    bertie: «Vorrei dire che il cazzo mi aveva rotto, ma mentirei»
    ora, non è che taichi fosse proprio un intellettuale (astuzia +6, remember that?), ma non poté comunque fare a meno di ruotare lentamente il capo in direzione dell* special, lo sguardo vuoto quanto quello di geronimo e sara vj ad incrociare la limpidezza dell'altro
    «questa non è una risposta, lo sai vero?» cioè, non è che volesse scavare a fondo nella sua psiche, però cristosignore — gli avesse detto che preferiva non parlarne, ty avrebbe capito e sottoscritto. per quanto lo riguardava, potevano anche rimanere in completo silenzio da quel momento in avanti, perché le parole portavano sempre delle conseguenze e quasi mai piacevoli.
    lo sapevano già i Depeche Mode ai loro tempi da boomers.
    ma quella vaghezza, al contrario, aveva il potere di triggerarlo da morire; non sopportava di dover estrarre a forza le informazioni dalla bocca delle persone, il che spiegava perché quando era nella stessa stanza di Hans solitamente nevicava o cadevano fulmini dal cielo. il cervello del diciannovenne non funzionava a hint (e infatti aveva avuto bisogno che Mac gli facesse non uno, ma tutta una serie di reality check) ma per direttissima: qualunque cosa fosse lasciata tra le righe era inevitabilmente perduta.
    «ma se non vuoi dirmelo non è un problema» così, tanto per chiarire «in ogni caso ti preferisco, hai *accasato fascino» annuì tra sé e sé, passando entrambe le mani fra i corti capelli corvini mentre tornava a guardare l'area verde che li circondava. si intravedeva qualche figura, in lontananza, ma nessuno ancora pronto a diventare un problema. e se proprio fosse successo, aveva già la soluzione pronta, taichi: levarsi dal cazzo. «Presumo di essere capace di trasformarmi in altre, ew, persone, adesso, ma per ora… sono solo così. E non tornerò mai più me stesso.» ah, ecco. la risposta che ty cercava, e insieme l'ultima che avrebbe voluto sentire.
    con quella vena di disgusto per se stessi sullo sfondo che gli riempiva le orecchie martellando nel cervello, lo sguardo da cucciolo depresso a scavare tra le costole — non si era mai trovato da quella parte della barricata, il lìmore.
    l'unico messo peggio di lui era sempre stato Hans, e di certo non si scambiavano confidenze con gli occhi pieni di lacrime e i sussulti cuore a cuore con il viso nascosto uno nel collo dell'altro.
    era quella la sensazione che provava Mackenzie ogni volta che gli toccava fare da psicologo, anche contro la sua volontà? Madonna (virgola) che scenario terribile e non consigliato «ascolta—» iniziò, per poi fermarsi li. ad abbandonare le labbra ci fu solo un sospiro, male parole - ammesso che ne avesse formulata qualcuna sensata nella testa - non lo seguirono. perché il primo istinto, ferale e poco civile, era stato quello di mandare bertie in un luogo molto specifico; sentiva il prurito correre dal palmo delle mani lungo le dita, quell'invito poco gentile intrappolato in gola. non riservato al behemoth nello specifico, quanto più come reazione alla situazione generale. ma anche se l'empatia di ty aveva sempre raschiato il fondo del suo barile morale, negli anni si era imposto (gliel'avevano imposto) di darsi una regolata; giusto per potersi adattare a vivere tra gli esseri umani, ecco.
    «ascolta» riproviamo «sei ancora tu. non ti riconosci, forse non ti riconoscerai mai come facevi prima. ma» allungò una mano, l'indice ossuto a premere nella spalla dell'altra come un ET qualunque «qui dentro sei ancora Adalbert Behemoth» oh, aveva anche pronunciato il nome giusto! «con un trauma in più sulle spalle e sempre spazio che avanza per i nuovi a venire» minchia, com'era diventato saggio. lentamente, ritirò la mano e se la mise aperta sul ginocchio: con quel gesto aveva gia infranto i confini della sua confort zone e gli serviva qualche secondo per ristabilire l'ordine prestabilito «quando avrai imparato a controllarlo sarà più facile»
    so che stavate tutti aspettando questo preciso momento — la prima, enorme, palese, banale e scontata (safeword:) cazzata.
    ma non era forse così che le persone normo si prendevano cura di chi soffriva? raccontando balle che chiunque avrebbe riconosciuto come tali, al solo scopo di infondere un po di pace dentro ad un cuore tormentato che si sarebbe fatto andare bene qualunque stronzata. taichi era certo, e ne stava avendo la conferma, che per chi le raccontava fosse un metodo assolutamente efficace: ci si sentiva quasi in pace con se stessi, purificati dall'idea di affrontare davvero una situazione complicata e spiacevole.
    ma per chi si ritrovava ad ascoltarle?
    ancora una volta puntò le iridi scure sul volto imberbe di Bertie, le sopracciglia leggermente corrugate in una espressione di sincera curiosità, quasi scientifica. un'ottima occasione per scoprire se il metodo funzionava oppure no.

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    Lì per lì non riconobbe il suono che gli uscì dalle labbra. Anche in condizioni normali, in effetti, quando era lui, non era poi qualcosa che si faceva sentire tanto spesso. Da quando era successo, poi, non si era più fatto sentire. Ora le colpì le orecchie, così estraneo eppure così familiare, lasciandola confusa per qualche istante. Somigliava a quella che era stata un tempo, tuttavia era diversa. Era solo accennata, un’eco lontana e sbiadita di qualcosa che avrebbe potuto essere, ma che per fortuna non era. Perché altrimenti, se fosse stata più forte, più sguaiata, più sentita, avrebbe finito per somigliare terribilmente a quella che sua madre riservava solo alle pareti di casa, e mai al grande schermo.
    Una risata.
    Sentendo Taichi fargli notare che quella che gli aveva dato non era una risposta, con tutte le parole al posto giusto e un’inflessione, una vera inflessione, una punta di vero fastidio in quell’oceano piatto del suo tono normalmente incolore, a Bertie era venuto da ridere. Una sola, singola risata, che all’esterno probabilmente dovette sembrare più un singulto strozzato che altro, ma pur sempre una risata.
    «Lo so», gli concesse, troppo sconvolta dall’idea di essere ancora in grado di trovare qualcosa divertente. Ma glielo doveva. «È difficile essere chiari quando non ci si capisce più nulla», aggiunse, ancora in vena di concessioni che, di solito, non avrebbe donato neanche sotto tortura. Però, ormai, cosa aveva da perdere? E il Limore non gli aveva chiesto niente in cambio. Non aveva fatto nemmeno domande. Aveva semplicemente accettato di essere lì, con lei, con lui, con quello che era e che non era.
    Bertie era stato e restava una merdina, ma non fino a quel punto.
    «in ogni caso ti preferisco, hai *accasato fascino»
    «Ecco, questo fa male, invece.» Sospirò e chiuse gli occhi, incrociando le braccia sul petto ora innaturalmente pieno. «Pensavo preferissi il vero me. Sai, in memoria dei vecchi tempi», ironizzò, tamburellando le dita della mano destra sul braccio. Quello che succede al capodanno Oblivion resta al capodanno Oblivion, ma erano successe cose ben peggiori. La guerra, tanto per dirne una.
    La scomparsa del suo pene.
    Sospirò nuovamente e tornò ad aprire gli occhi, la nuvola grigia sempre sopra di loro. Un po’ avrebbe voluto chiedere a Ty di far piovere, ma qualcosa gli diceva che sarebbe stato solo peggio. Certo, così nessuno avrebbe potuto dire se quelle sul suo viso fossero lacrime o gocce di pioggia, però l’umidità non avrebbe fatto che peggiorare, invece di rinfrescarla, e dopo avrebbero finito entrambi per puzzare di cane bagnato.
    Si faceva già abbastanza schifo da sola, come aveva appena confessato allo special, non aveva bisogno di rincarare la dose con quel tanfo.
    Così non disse nulla e, anzi, si apprestò ad ascoltare, come Taichi le chiedeva. Quando calò il silenzio, non lo guardò. Cosa avrebbe dovuto dire? Che le dispiaceva? Non era così. Non aveva nulla di cui scusarsi. Si faceva schifo lei. Lui che di solito schifava tutti gli altri, all’infuori di sé stesso. Maghi, special o babbani che fossero, non faceva alcuna differenza. Si sentiva superiore. Adesso le cose non si erano ribaltate, naturalmente. Il resto del mondo le faceva ancora schifo. Ma, in cima a tutto, ora c’era lei. Con il suo non essere più sé stesso. Con quell’essere special che non aveva scelto né desiderato. In un mondo contro cui aveva lottato e perso.
    Eppure, anche senza guardarlo, sapeva che Ty stava vibrando. Non nel modo dell’Hale, ma in uno tutto suo, una frequenza apparentemente inudibile, eppure più acuta e pungente.
    Forse fu per questo che sussultò. Qualcosa di acuto e pungente, qualcosa in grado di dare la scossa, le aveva appena sfiorato, e ancora le stava sfiorando, una spalla. Dissimulò la sorpresa e voltò appena il capo in quella direzione. Era il dito lungo e ossuto del Limore. La stava toccando. Forse non potevano propriamente definirsi amici, ma Bertie sapeva quanto la cosa gli costasse. Fissò quel dito per parecchi secondi, le sopracciglia appena aggrottate e le labbra strette in una linea sottile, sentendolo dire che lì dentro era ancora Adalbert Behemoth.
    Quel suono strozzato tornò ad arrampicarsi su per la gola. Un’altra risata, secca, esasperata, sconfitta. Ma anche quasi intenerita. Dopotutto, cosa ne sapeva lo special del suo non essere mai davvero stato Adalbert Behemoth? Non era colpa sua. Anzi, c’era un che di commovente, in quel suo provare a… consolarla. Era tutto assurdo, naturalmente.
    Però Ty aveva ragione.
    C’era sempre spazio per nuovi traumi.
    «Bel… no, non è stato un bel tentativo.» Incurvò appena un angolo delle labbra, il destro, in quel minuscolo accenno di sorriso che di tanto in tanto gli aleggiava in volto. Chissà com’era adesso, su quelle labbra. «Però è stato un tentativo.» Lo guardò negli occhi, sorprendendosi nel trovarvi come un bagliore, una scintilla di qualcosa che non riuscì a identificare, invece della solita, vuota apatia. Provò una punta di orgoglio nel rendersi conto che era stata lei a scuoterlo dal suo naturale torpore, ma durò solo un istante. Amava sollevarsi al di sopra di tutto e di tutti, lo faceva sentire quasi bene; adesso, però, quella sensazione aveva un che di artefatto, di sbagliato. «Sappiamo entrambi che è una grande stronzata.»
    Era inutile girarci intorno. Non ci capiva più nulla, gliel’aveva detto, ma qui non c’era nulla da capire. Anche un bambino l’avrebbe compreso. «Però…» Quella parola gli pizzicava sulla punta della lingua. «Grazie.» Per il tentativo. Per essere lì, nonostante tutto.
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    23
    … special
    depressed
     
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