Votes given by homini lupus

  1. .
    il voto dei protettori è quello di permettere a se stesso ed ai compagni di vedere l'alba successiva, sopravvivere per combattere un'altra guerra.
    Ce l'avevano fatta, erano riusciti a liberare coloro che erano stati rapiti e gli erano stati strappati via. Era corso immediatamente da Ethan appena lo aveva visto tuffandoglisi addosso, stringendosi a lui il più possibile per assicurarsi che non fosse un sogno e che fosse reale. Non gli importava quanto gli facessero male le ferite, quanto fosse stremato, quanto volesse solamente piangere. «mi dispiace, è stata tutta colpa mia, non volevo, non dovevi venire a cercarmi» e Ethan gli aveva parlato, gli aveva detto qualcosa, l'urgenza nella sua voce, ma non aveva percepito nulla. Era stanco e aveva bisogno solo di un abbraccio, il calore delle sue braccia ad avvolgerlo e sparire. «dani... dov'è dani?» Erano riusciti a liberarli, o almeno questo era quello che aveva creduto, perchè alcuni dei rapiti avevano scelto di rimanere, altri che erano partiti con lui avevano fatto altrettanto. Si sentì tradito, soprattutto quando incontrò lo sguardo di Dani dall'altra parte. Gli era bastato uno sguardo per capire che scelta avesse fatto. Tutte le parole che aveva da dirgli gli erano morte in gola, lo stomaco sottosopra. Avrebbe voluto dirgli tante cose ma non lo aveva fatto. Era rimasto in silenzio a fissarlo, consapevole che avesse fatto una scelta e che lui non era nessuno per dirgli di non farlo, non avrebbe sicuramente cambiato idea per lui. Se mai avesse cambiato idea, sarebbe stato per Blaise. Non per questo non faceva male, era doloroso, perché gli era affezionato e non avrebbe voluto perderlo, soprattutto dopo che aveva rovinato tutto uscendo allo scoperto e rivelandogli suoi sentimenti. Aveva cercato di eliminare tutti e mettere le basi per una vera amicizia, Dani dopotutto era stato uno dei pochi ad effettivamente avergli rivolto la parola quando pensava di essere invisibile per chiunque e ora nemmeno la sua amicizia avrebbe potuto avere. Era stato stupido da parte sua pensare che sarebbe stato capace di portarlo via di lì. Non aveva detto niente e non aveva avuto il tempo per farlo.

    Things change, people change, everything change
    Love change, friends change, everyone change


    Lui era un prescelto. Finley Lloyd era un cazzo di prescelto. Inutile dire che Finn gli era scoppiato a ridere in faccia a quelle parole. Ma si erano mai fermati a osservarlo bene? Lui era l'ultimo degli ultimi, il moscerino più insignificante dell'intero universo, che era riuscito ad affezionarsi a una creatura non ben identificabile e per la quale aveva sofferto un sacco uccidendola. Lui era Finley Lloyd, l'ultima ruota del carro, quello che per una missione suicida aveva deciso di portarsi come arma uno spray al peperoncino. Sinceramente, nessuno avrebbe mai scelto con coscienza di renderlo un prescelto, probabilmente nemmeno i suoi compagni avrebbero voluto averlo come compagno di squadra se avessero potuto scegliere. Era stato reputato degno. Avrebbe voluto dirgli di ricontrollare i loro prerequisiti perché lui non era nemmeno capace di uscire fuori di casa senza avere un attacco di panico ma non disse niente, la risata già parlava per lui. Era stato bombardato da troppe informazioni: La Città, Michael, il sacrificio, la questione dell'essere stato scelto, la perdita della magia, il legame con la Bolla, il fatto che il mondo intero si fosse dimenticato di quel posto. Che lui avrebbe dimenticato quel posto una volta uscito da lì, che avrebbe dimenticato chi aveva scelto la Bolla e tutto quello accaduto lì. Blaise già si era dimenticato dell'esistenza di Dani, così come Ethan, così come avrebbe fatto lui e questo valeva per ogni persona che avevano abbandonato lì dentro. Non poteva sopportarlo, ma non aveva scelta, la sua scelta l'aveva fatta e ora era troppo tardi per cambiare e cose. In altri momenti avrebbe avuto un attacco di panico ma ora era troppo stanco, era devastato, era stato investito da un senso di apatia che lo aveva gelato nell'anima.

    Quando aveva riaperto gli occhi, ricordava ancora tutto. Per quanto ne fosse stato avvertito, era stato difficile fidarsi. Non sapeva per quanto tempo avrebbe ricordato, sarebbe arrivato ad un punto nel quale tutto quello sarebbe scomparso. Non del tutto, gli ricordò una vocina. Sarebbe stato chiamato, reclamato, sarebbe stato difficile vivere all'esterno. L'avevano maledetto. Perchè nessuno glielo aveva chiesto, nessuno gli aveva detto che stava legando se sesso a quella Bolla. Aidan aveva avuto sempre ragione, stavano proteggendo qualcosa, l'intera esistenza di quel luogo dipendeva da solo. Ormai erano un'unica cosa. Per distruggere la bolla avrebbero dovuto dare la propria vita.
    Si era bloccato a fissare il proprio riflesso della vetrina della cartolibreria verso la quale si era diretto. Per essere una persona alla quale era appena stata stravolta l'intera esistenza, non mostrava segni di alcun cambiamento, solo i suoi occhi gli sembravano alieni, per quanto fossero sempre i suoi. Quelli dovevano essere gli occhi di chi aveva visto fin troppo. Scosse la testa cercando di tornare alla realtà e non perse altro tempo, entrò ne negozio per comprare un'agendina e una penna. Aveva iniziato a scrivere, camminando per strada, fermandosi su una panchina. Aveva cercato di disegnare il volto di Dani per non dimenticarlo ma aveva sempre fatto schifo a disegnare e si era ritrovato a scarabocchiare frustrato su quel disegno. Non era giusto. Era partito solo per salvare i suoi amici e si era trovato immischiato in qualcosa di più grande di lui. Avrebbe preferito essere uno di quelli che aveva semplicemente dimenticato, almeno non avrebbe sofferto così tanto, non avrebbe avuto paura di dimenticare parte della sua vita da un giorno all'altro. Sarebbe stato più facile da affrontare perchè non avrebbe dovuto affrontare niente. Sarebbe stato terribile ma lui on lo avrebbe saputo. E aveva continuato a scrivere, tutto, nei minimi dettagli, senza tralasciare niente. Tutto quello che sapeva, tutto quello che aveva visto e che gli era stato raccontato. Aveva iniziato scrivendo di fidarsi, che era tutto reale, che non era solo l'idea di un libro ma la realtà, di parlare con gli altri prescelti, che qualcuno prima o poi gli avrebbe creduto, una volta che avrebbe dimenticato tutto. «ti stavo aspettando.» e stava ancora scrivendo quando sentì quelle parole. Strinse la penna in un pugno, conficcandola nelle pagine. «noi... ci conosciamo?» chiese spaventato, alzando lo sguardo su Elias. Aveva già iniziato a dimenticare? Penava che avrebbe avuto più tempo. «ho sempre voluto dirlo!» fece un sospiro di sollievo. Probabilmente non si stava riferendo a lui e non lo conosceva. Vagò però con lo sguardo ad analizzare la persona che aveva di fronte, quella sensazione di déjà vu non lo aveva ancora abbandonato. «hai un'aria piuttosto familiare» e sapeva perfettamente chi gli ricordava. Presto si sarebbe dimenticato anche di lui. «hai per caso un fratello minore?»
    FINLEY
    LLOYD
    "I wish that you would stay in my memories"
    In my memories, stay in my memories
    FEELING LIKE A GARBAGE
    stupid, emotional,
    obsessive little me
    24 yo — ex ravenclaw — glitter fairy — neutralwatching my memories go
    everything i’ve ever known
    slip underwater exchange with fear
    i’m scared i’ll disappear
    iìm scared i'll disappear
    water from your eyes
    moonmaiden, guide us
  2. .
    A little bad luck has taught me how to stand
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Avrebbe potuto farlo per ogni presunta frequentazione che portava a casa dai genitori, soltanto per far loro un dispetto o per reclamarne l’attenzione, quando non per trasformare la rabbia celata dietro il trucco sempre impeccabile in divertimento fine a sé stesso. Non lo aveva mai fatto: non era un suo diritto tanto quanto non lo era di nessun altro; si limitava ad essere un buon fratello nel terrorizzare tutte le compagnie che sapeva non essere opportune per Liz, stringendo i ranghi attorno alla maggiore per proteggerla dalle sue stesse scelte – sempre che questo significasse esserlo, un buon fratello. Aveva sempre sperato di sì – aveva sempre creduto che esserlo volesse dire prendersi cura di lei, e non soltanto amarla per com’era; rispettare ogni decisione che la facesse stare bene e anche quelle che facevano il contrario, fintanto che fossero state prese da lei e non dai demoni nella sua testa. Ma non c’era mai stato giudizio negli occhi cioccolato, né nelle mani a sfiorarle le ciocche dorate ad ogni rottura.
    Avrebbe potuto giudicarla quando era caduta in una spirale senza fine, vorticando attorno ad un buco nero dal quale solo ultimamente era riuscita a tirarsi fuori, aggrappandosi al primo fascio di luce disponibile. Chi in un modo e chi nell’altro, tutti lo facevano – tutti, gli dicevano che avrebbe dovuto farlo anche lui. Non ci era mai riuscito, non ci aveva nemmeno mai provato: si era lasciato trascinare sul fondo con lei, piuttosto, sciogliendo una pasticca dietro l’altra sotto la lingua e non potendo fare altro che capirla, e sentirglisi un po’ più vicino. Perché non c’era mai stato nulla di capriccioso o vizioso nei gesti della ragazza – piuttosto un bisogno, ed il modo più semplice per soddisfarlo; e tutte le volte che aveva potuto, l’avevano condiviso. Non c’era mai stato giudizio nei sorrisi poco lucidi, né nei glitter appiccicati tra un abbraccio e l’altro.
    Avrebbe potuto farlo quando era partita per la guerra. Avrebbe voluto farlo, nel momento in cui si era ritrovato con un semplice biglietto – un messaggio, niente più, per comunicargli fosse andata dove non poteva raggiungerla, e dal quale forse nemmeno sarebbe tornata. Ma anche allora, non ci era riuscito: si fidava di Liz più di quanto il buonsenso potesse suggerire di fare, e se l’aveva reputato necessario lo accettava. L’aveva odiata, forse; l’aveva voluta odiare perché non gli aveva detto niente, perché se aveva pensato alle conseguenze aveva ponderato anche l’ipotesi di rimanere nel fuoco incrociato e non aveva reputato opportuno salutarlo come si doveva, ma non era certo di essere stato in grado di fare nemmeno quello. Ed aveva fatto l’offeso, ovviamente aveva fatto l’offeso, perché era suo fratello ed era suo obbligo morale farle pagare in qualche modo il fatto di non avergliene parlato: era la sua vita, poteva fare quello che più riteneva giusto per sé; Balt voleva soltanto essere avvertito, finché poteva. Ma non c’era stato giudizio nel broncio appuntato sul viso del diciassettenne, né tantomeno nel silenzio che le aveva riservato per quei pochi giorni.
    Non avrebbe iniziato ad esserci, quel sentore di giudizio che chiunque poneva con tanta superficialità su Lissette Monrique, nemmeno in quel momento. Aveva pensato di sì, ed avrebbe voluto che fosse vero. Sarebbe stato più facile stare lì, davanti a lei, con i pugni affondati nei jeans e la visiera di un cappellino da baseball a coprire lo sguardo puntato sui fili d’erba ai propri piedi, se solo avesse deciso di riservarle tutto il proprio sdegno – perché avrebbe significato l’essere andati oltre all’odio, ed aver sublimato tutto il proprio rancore nell’indifferenza: non aveva mai creduto d’essere capace di una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta.
    Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire ogni singola, e fottuta, cosa provata tre giorni prima.
    La felicità di aver ritrovato Wren, ed il non aver reputato importante il fatto che fosse stato messo a dormire per due mesi interi: stava bene, glielo avevano assicurato, e tanto gli bastava per portarlo fuori di lì tirandoselo sulla spalla – malgrado non ce la facesse, e la magia fosse più semplice in una situazione del genere; voleva stringerlo, e sentirlo vivo contro di sé, e tenerselo lì perché magari si sarebbe svegliato mentre lo trascinavano fuori ed avrebbe avuto lui al suo fianco.
    Lo sbigottimento, quando aveva visto Kaz e Clay impugnare le armi in favore dell’uomo che li aveva rapiti due mesi prima – un sentimento prettamente egoista, e superficiale: era andato lì anche per loro, il tassorosso; era andato lì per riportarli a casa, e non sarebbe successo.
    Il sollievo, perché tutti i suoi amici (i tibiavorio compresi) erano sani e salvi.
    La paura ad ogni battito troppo potente o troppo debole contro lo sterno, perché non voleva morire, e non aveva un singolo muscolo nel proprio corpo che lo aiutasse a tenersi in piedi come avrebbe dovuto.
    Il dolore di quelle mani premute sulle spalle, di quelle parole a fare più male di ogni colpo ricevuto – persino della pugnalata al petto. La sofferenza della propria voce a rompersi contro le pareti della gola, e ad uscire come singhiozzi privi di forma e senza lacrime a solcare tracciati tra il sangue.
    Cosa stai dicendo, Liz. Non potrei mai dimenticarti. Perché dovrei farlo? Cosa vuoi fare? Non mi lasci da solo, vero? Non puoi lasciarmi da solo, ti prego.
    Ricordava ancora il momento in cui gli era stata tolta la magia, la libertà, la sua scelta; quello in cui era caduto a terra, e di non essere riuscito a provare niente che valesse la pena di essere ricordato – confusione, vuoto, abbandono.
    Ma faceva più male sollevare gli angoli delle labbra, ed il capo per cercare le iridi chiare di Liz. Non perché fosse forzato, ma perché piuttosto era l’unica cosa che volesse fare: voleva che se lo ricordasse così, suo fratello. Voleva non sentirsi abbandonato, per quanto partendo per lo Sri Lanka avesse perso più di quanto avrebbe mai potuto immaginare; voleva rimanere stoico, con i denti stretti ed i nervi tesi per bloccare il prurito agli angoli degli occhi.
    Annullò quella poca distanza che c’era tra loro, e non le diede modo di allontanarsi per qualche stupido motivo che poteva funzionare solo e soltanto nella sua testa: le strinse le braccia attorno alle spalle prima che potesse opporsi, e nascose la testa nell’incavo del collo per qualche istante.
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Non avrebbe iniziato a farlo per una scelta del genere; non se sarebbe stata bene, in pace con le proprie decisioni. Si era sempre preso cura di lei, ma mai quanto il contrario – non l’avrebbe potuta lasciare in altro modo, se non in quello.
    «te quiero, noona.» soffiò sulla pelle della bionda, occhi strizzati per impedire che uscisse anche solo una singola lacrima. Non le disse che non l’avrebbe mai dimenticata, né che non gli sarebbe mancata: non faceva promesse che non poteva mantenere, il Monrique. «vedi di diventare l’imperatrice di questo stupido posto. fatti valere.» deglutì, lasciando che il suo profumo gli si imprimesse addosso quanto più possibile prima di staccarsi da lei. «ci vediamo presto, va bene?» quelle parole uscirono un po’ più secche, ma non poté controllarlo: sapeva sarebbe tornato lì, e che non dipendesse da lui.
    Posò lo sguardo su Kaz, arretrando fino ad essere ad un passo dall’uscita della Bolla, due dita premute sulla fronte ed il sorriso stampato sulle labbra: non gli interessava cosa avessero scelto, era felice fintanto lo fossero anche loro; sperava soltanto che il lumocineta tenesse fede alla promessa, e che si prendesse cura della sorella al posto suo.
    Quando la Città scomparve alle sue spalle, dovette passare il palmo contro il viso e spingere sugli occhi: a quanto pareva, le lacrime non avevano più motivo di stare al loro posto.

    La cosa peggiore, fu credere fino all’ultimo che salutare Liz e gli amici rimasti al fianco di Lancaster sarebbe stata la cosa più difficile.
    Si era sbagliato, e se ne era reso conto quando la realtà che aveva deciso di ignorare gli si era abbattuta addosso con tutta la forza che il golem che avevano combattuto nel teocalli poteva soltanto sognare di possedere.
    Aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, quando lo aveva accolto in un’aula del Castello. Lo conosceva per la nomea che si era fatto nel corso degli anni all’interno della scuola, e perché non c’era una singola persona che il Monrique non conoscesse, ma dopo essere stato tra quelli che avevano contribuito a portarli fuori dalla piramide mesoamericana trovava terribilmente ironico – giusto, eppure così sbagliato – che fosse proprio lui a dirgli che non potesse più rimanere lì. Che non avrebbe più frequentato le lezioni di Hogwarts, che non si sarebbe mai diplomato, che non poteva più passare ogni istante della sua vita con i propri amici.
    Che doveva tornare a casa, parlarne con i suoi genitori, spiegare cosa fosse successo.
    Che era il loro unico figlio, che erano sicuramente preoccupati per lui.
    Allora aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, e di scoppiare in lacrime senza riuscire a fermarsi. Non voleva sembrare un pazzo nel dirgli che non fosse figlio unico – che sua sorella era lì dove il legionario aveva passato gli ultimi due mesi della sua vita, dove era andato per riprendersi un fratello che nessuno sapeva avesse tranne lui –, né disperato nel tranquillizzarlo – era più facile che i suoi genitori lo lasciassero in mezzo ad una strada, piuttosto che preoccuparsi di quel che gli era successo. Aveva chinato il capo perché non voleva che lo vedesse piangere, ma da qualche parte doveva aver fallito – forse nella superficialità con cui aveva creduto che all’ex battitore dei Corvonero non potesse fregare di meno: il suo era un copione, in fin dei conti, frasi fatte e di circostanza da riadattare in base alle esigenze; aveva sentito il sentimento con cui aveva condito quelle parole, ed aveva voluto che fosse per lui, ma crederci era un altro discorso. «non è la fine, balt.» annuì, ma senza alzare lo sguardo sul maggiore. «non sarà facile, ma non sei da solo. hai un gran bel gruppo di amici, no?» a quello assentì con più convinzione, felice al solo sentir nominare i Ben – ma.
    «è stato bello quello che avete fatto in bangladesh.» furono forse le prime, sicuramente le ultime, parole che rivolse al Hale, alzandosi dalla sedia sulla quale si era affossato sempre di più con un sorriso caldo sul volto tirato e stanco. «grazie.»
    Quello aveva fatto male, sì.
    Ma non quanto andare nel dormitorio mentre tutti gli altri erano a lezione di Incantesimi e fare davvero le valigie. Non quanto aspettarli laddove si erano incontrati prima di partire, senza voler guardare fuori dalla grande finestra oltre al pendolo, rimanendo con la testa affossata nelle ginocchia strette al petto – meno guardavano un volto che non riconosceva più nemmeno lui, e meglio era. Non doveva dir loro addio: avrebbe semplicemente vissuto fuori dal Castello, non lo avrebbero dimenticato una volta oltrepassato il cancello – «venite da me quest’estate? ad ibiza.» caso mai pensassero volesse tornare a Barcellona dai suoi –; allora perché lo sembrava? Un anticipazione di quello che Michael aveva profetizzato, che sentiva vibrare nel petto – torna a casa.
    Parlare con Mac non aveva fatto nemmeno male quanto far cadere tutte le valigie nel scontro, chiedere quello «scusa!» prima di rendersi conto a chi lo stava rivolgendo, e che questo lo guardava come se fosse uno studente qualunque? Alla fine quello era Balt, per il guardiacaccia: cosa ne poteva sapere Galen Acharya del fatto che in un giorno, un solo fottutissimo giorno, si fosse fidato più di lui che di quanto avesse mai fatto con Adam Monrique.
    Né aveva fatto male quanto passare davanti all’Aconitea, e sentire sulla bocca dello stomaco e nel petto che ci fosse qualcosa di sbagliato – come se poi se ne sarebbe sbattuto più di tanto le palle, il diciassettenne, che qualsiasi cosa fosse Wren facesse a pugni con qualsiasi cosa fosse lui ora: non avrebbe perso l’unica cosa che era riuscito a riportarsi a casa.
    Non aveva fatto minimamente male quanto lo aveva fatto tornate nella casa che aveva preso con Liz quando si erano trasferiti a Londra, e trovare tutte le sue cose ancora lì: a quel punto, non aveva potuto evitare di cadere a terra e piangere – e piangere, e piangere, fino a quando non ebbe più fiato in corpo per singhiozzare o acqua nei dotti lacrimali per irrigargli il volto.
    Trasse un profondo respiro, ed iniziò a raccogliere quello che aveva lasciato in giro sua sorella. Svuotò il proprio baule, e mise tutto quanto lì dentro, scrivendoci sopra il nome di lei: poteva pur finire per dimenticarla, ma prima o poi quegli averi avrebbero significato qualcosa. Così come avrebbe significato qualcosa quel diario di viaggio, tutte le informazioni e i vari Kaz è pompatissimo e Paris + Theo = </3 ma andrà meglio.
    Avrebbe significato qualcosa anche il ciondolo infilato nella collana – e anche non lo avesse fatto, l’importante era che in quel momento sapesse che la stellina appuntata al collo voleva dire che la avrebbe sempre avuta con sé.
    Fu nel sistemarsela, che posò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Non lo aveva fatto davvero da quando si era risvegliato nella bolla; avrebbe preferito non farlo nemmeno lì. C’era... qualcosa di sbagliato. Fece scivolare le dita sulla pelle del viso, sulle labbra, sul naso, sugli occhi – forse non era nemmeno così sbagliato, soltanto tremendamente diverso; eppure uguale a com’era prima di partire, se non si consideravano le occhiaie e il colore meno acceso dell’incarnato. Chiuse con prepotenza gli occhi fino a sentire il dolore alla radice del naso, e quando li riaprì non guardavano più la propria immagine riflessa, ma una piccola scatolina abbandonata sul mobile.

    Ricordava la prima pasticca che aveva fatto sciogliere sotto la lingua, ma non se ce n’erano state delle successive. Supponeva di sì, perché non era ben certo di come fosse arrivato seduto sul prato dell’Aetas sotto il cielo stellato di Maggio.
    Aveva pianto? Ancora? Anche lì, poteva darsi una risposta soltanto premendo il polso sul viso: sentendolo umido, immaginava di sì – immaginava di aver solo creduto avesse finito, in casa, e che ne avesse ancora bisogno.
    Ma soprattutto: aveva chiamato lui Mimmo? O era stato l’italiano a chiamarlo? Oppure era lì di passaggio anche lui, a vagare senza alcuna meta? Battendo il palmo sull’erba accanto a sé per invitarlo a fargli compagnia, occhi liquidi e sorriso ebbro sul viso, decretò che non gli interessasse affatto.
    «sgodiamo?»
    baltasar
    monrique

    mom, dad
    i failed again
    chosen
    sacrifice
    what did
    you expect?
    nothing but an angel — hufflepuff — 2006It's taken my spirit
    It's taken the words out of my mouth
    I feel like I'm disappearing
    And all I ever seem to say is-
    down with my demons
    Lø spirit
    moonmaiden, guide us
  3. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    24 yo
    dancer
    wtf
    ethanolo "ethan" lynx
    "Chi passava le sue serate racchiuso in un pub anonimo di Tottenham" Ethan ovviamente, tornato da poco dal Bangladesh. Non ricordava l'ultima volta che aveva bevuto qualcosa e ancora doveva capire come fosse riuscito ad astenersi all'alcool senza andare in astinenza. Inoltre il jet lag doveva averlo avvero devastato a questo giro perché si sentiva un po' confuso. Prima di tutto era entrato in casa e si era guardato attorno come se non le appartenesse. C'erano vestiti e oggetti che non ricordava. Per un attimo si era chiesto se Sasha fosse tornato con qualcuno e in quei mesi avessero deciso di rendere loro il suo appartamento, poi si era chiesto se non fosse stato derubato al contrario, se un suo fan scatenato fosse entrato in casa per rubare qualche suo effetto personale da collezionare o rivendere e per il disturbo gli avesse lasciato i suoi abiti, poi tutto d'un tratto aveva avuto la realizzazione che fossero stati di Finn. Finley Lloyd, il suo migliore amico. Si era quasi sentito stupido quando se n'era reso conto... Dimenticare per qualche millisecondo il suo migliore amico? Blocked.

    Non lo aveva visto. «ethan?» Non lo aveva visto però aveva riconosciuto la sua voce ancora prima di voltarsi a guardarlo. Aveva trattenuto il respiro qualche secondo prima ed era poi rimasto ad osservarlo per qualche istante di troppo, senza dire niente. Lo stava guardando ma non lo stava guardando sul serio, qualcosa lo aveva bloccato prima di poter dire qualunque cosa e aveva percepito un vago senso di confusione che lo aveva intrappolato all'interno dei propri pensieri. Da quanto tempo non lo vedeva? La sua mente aveva cercato di rimettere man mano insieme i pezzi di un puzzle cercando di far ordine nella sua mente. Non lo vedeva da mesi, avevano finito anche per non scriversi più. Lui aveva smesso di scrivergli. Non lo vedeva Blaise da mesi perchè lui era sparito, gli aveva suggerito una vocina dentro di sé. Se n'era andato e non si era più fatto sentire, perché forse lui non voleva più rimanere in contatto con loro. O questo era quello di cui era certo fino a un istante prima. Trovandosi nuovamente di fronte a lui... No, quello non era il motivo. Era partito per il Bangladesh per un aiutare a costruire delle case per i bambini poveri. Ne portava i segni sulla propria pelle, che era abbronzata e per quanto si allenasse fino allo stremo, aveva sviluppato una massa muscolare maggiore. Il fatto strano era che non sentisse Blaise da mesi. Non ricordava avessero litigato o le cose fra loro fossero peggiorate, perciò come mai... Non era il tipo di persona da abbandonare un amico, soprattutto quando era uno dei pochi a cui effettivamente aveva concesso di essere tali, soprattutto quando sapeva che non fosse solo un amico. No, aveva avuto un valido motivo per non averlo contattato prima. Sì, aveva dovuto cambiare numero di telefono una volta arrivato in Bangladesh e si era dimenticato di annotarsi i numeri di telefono. Strano che si fosse dimenticato il suo numero, sapeva di conoscerlo a memoria e sapeva che la sua memoria non aveva mai fatto cilecca. probabilmente però doveva aver avuta davvero troppo per la testa. «blaise?» e quando pronunciò il suo nome si ridestò dai suoi pensieri, scorrendo lo sguardo sul suo corpo con più attenzione questa volta, riconoscendone la figura come un ricordo familiare, il suo Blaise, con il suo numero spropositato di piercings e l'eyeliner sbavato e- «è sangue quello?» non era troppo sorpreso di vederlo con del sangue addosso. Blaise quando voleva sapeva essere davvero autodistruttivo: più di una volta si era presentato a lui con un labbro spaccato o qualche sbucciatura qua e là e quello era solamente il minimo, quando si faceva male sullo skate per esempio. La sua vera autodistruzione era di tutt'altro tipo. Quello che però l'aveva sorpreso era che non avesse in alcun modo cercato di fermare quel sangue o di applicarci un cerotto. Ancora al bancone, girò lo sguardo verso il barista. «potrei avere un bicchiere di acqua? anzi, due» e fece segno verso un tavolino che era ancora vuoto, poi si girò nuovamente verso Blaise, finalmente avanzando di qualche passo verso il ragazzo, solo per prendendogli il mento fra il pollice e l'indice, inclinarsi verso di lui tanto quando bastava per osservare più da vicino le ferite e fargli voltare la testa prima da un lato e poi dall'altro. Fu più forte di lui, lo sguardo si posò per un istante sulle sue labbra e appena se ne rese conto, scostò le le dita dal suo viso come se si fosse appena scottato. Dopo tutto quel tempo, quella vicinanza era ancora intossicante. «che diavolo ti passa per la testa? andare in giro in questo stato? mi spieghi cos'hai combinato questa volta?» appoggiò delicatamente la mano sul suo fianco per accompagnarlo verso il tavolo ma sfiorandogli il braccio si rese conto di quanto fosse congelato. «tieni» disse staccandosi da lui di un paio di passi per togliersi la giacca e porgergliela. Non avrebbe accettato un no come risposta. Infine si avvicinò al tavolo e gli fece segno di sedersi. Almeno così avrebbe potuto togliergli quel sangue di dosso e magari avrebbero potuto ordinare qualcosa con più calma. «ti sembra la giornata adatta per uscire solo con una maglietta?» Ciao, Blaise, mi sei mancato, è da tanto che non ci vediamo. Come stai?
    what a pity to behold
    rest now tormented soul
    don't you know i would have
    loved you the way you were
    whole
  4. .
    no pronouns: do not refer to me, ever

    I suoi saluti, Kyle, li aveva fatti.
    Pochi, perché non aveva così tante persone care all’interno della Bolla, e non le avrebbe perse quando, inevitabilmente, avessero scelto di voltare le spalle alla comunità e tornare al mondo fuori da lì.
    Ma li aveva fatti.
    Quelli che gli erano stati concessi, certo; se avesse potuto chiedere il permesso di farne altri, probabilmente si sarebbe smaterializzato a casa per prendere Hiro, e portarlo con sé; per salutare JD, e assicurargli che avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarlo anche se non sembrava; avrebbe salutato Bye, forse addirittura scusandosi per essere l’ennesima persona che se ne andava. Avrebbe scritto una lettera ai Kang, e una diversa per sua sorella, e le avrebbe augurato buona fortuna ora che finalmente diventava lei il capo effettivo dell’azienda familiare.
    Ma non ce lo aveva quel tempo, e ad essere del tutto sinceri, non gli era pesato non averlo: chi lo conosceva, sapeva che fosse naturale così, che sparisse senza dire nulla, che lasciasse indietro solo meri ricordi di sé e progetti lasciati a metà. Sperava che JD ci si sarebbe divertito, con quei progetti; che lui e Zac avrebbero dato vita a ciò che Kyle aveva interrotto prima del tempo. Che i ribelli lo avrebbero perdonato per aver scelto un’altra via, una più pratica, una soluzione diversa.
    Aveva comunque salutato quei pochi che conosceva, Mis e Murphy ed Ethan e — uh, basta, probabilmente. Non c’erano così tante persone con cui avesse stretto legami, in quei due mesi; quei pochi con cui era successo, avevano deciso di fare la sua stessa scelta, poi.
    Con la testa china sui tavoli dell’officina, e la mente sempre impegnata a tenere il conto dei tentativi o a pensare a soluzioni per aggirare quello o quell’altro problema, anche nei momenti più conviviali, Kyle era stato solo di passaggio; mai un grande chiacchierone, mai troppo propenso a partecipare alle conversazioni, ai giochi, alla vita quotidiana.
    Quei pochi saluti che aveva concesso, erano stati più per educazione e perché, con quelle persone, aveva condiviso qualcosa; i ribelli, ed Ethan. Non lo conosceva così bene, ma da quando lo aveva visto la prima volta nella foresta, dopo essere letteralmente uscito a mani nude dal terreno umido, aveva sentito subito una connessione con l’altro coreano, che non aveva mai potuto spiegare a parole. La stessa che, da quando lo conosceva, lo legava a doppio filo a Kaz, pur senza averne necessariamente un motivo.
    Aveva salutato persino Troy, quando ce n’era stata l’opportunità.
    E poi aveva girato le spalle, raccolto le armi e offerto supporto ai compagni non in grado di reggersi sulle loro gambe. Aveva aiutato Kaz a prendersi cura di Clay, e aveva sistemato per loro qualche piccolo aggeggio robotico affinché potessero sentire un po’ meno il peso di quella scelta che li aveva, di fatto, tagliati via da tutto ciò che avevano conosciuto per diciassetta anni di vita.
    Non era bravo a dare supporto morale, a malapena riusciva in quello fisico, ma per i mini ribelli sentiva un’inclinazione particolare, diversa, più sincera.
    Più facile.
    Erano comunque quelli meno semplici da gestire, socialmente parlando, ma erano anche gli unici che non gli rompessero più di tanto le scatole quando voleva solo starsene per i fatti suoi e si rifiutava di partecipare attivamente al resto della vita comunitaria nella bolla.

    Che avesse passato più tempo nell’officina che nella propria stanza al Lotus, in quei due mesi, non era certo una nozione che avrebbe sconvolto i più; pensare che ne avrebbe passato ancora di più, di tempo, lì dentro, era quasi… beh, scontato.
    Sapere che non sapesse di quello o quell’altro locale adibito a punto di ritrovo o svago, sorprendeva ancora meno: Midnight Gate? Mai sentito nominare. Giardini botanici? Figuriamoci. Il Bottom? Anche no. Era già tanto che si ricordasse, quando capitava, di recarsi fino alla mensa per mangiare qualcosa — ecco, se proprio, della vita fuori dalla Bolla gli mancavano le app per la consegna a domicilio.
    Quello che succedeva nella Bolla, delle nuove installazioni, dei nuovi ospiti, eccetera eccetera eccetera, a Kyle importava poco. Il giusto. (Quindi sì, davvero poco.) Per esempio, non metteva il naso fuori dalla sua stanza-slash-nuovo ufficio da.. boh, tre giorni? Insomma, tutti quelli che i sacrifici avevano passato in convalescenza, lui li aveva passati chino sulle armi che avevano distribuito ai soldati e che avevano spillato sangue amico, e non solo. Era uscito solo per farsi la doccia, e mangiare qualcosa; per il resto, il tempo era trascorso tra una sistemazione e l’altra, sempre troppi cacciaviti stretti tra le dita, tra i denti, ficcati dietro le orecchie.
    Così tanto abituato all’andirivieni della gente che entrava nella stanza, gli parlava, non riceveva risposta, se ne andava, che non ci fece neppure caso quando la porta si aprì per l'ennesima volta, facendo entrare l’ennesima persona che, dopo essersi scontrata con il muro di silenzio di un Kyle assorto in cose ben più importanti, avrebbe girato i tacchi e se ne sarebbe andata.
    Giusto?
    Hhhh.
    Se, infine, alzò lo sguardo sulla fonte di distrazione, fu solo perché quel qualcuno pensò bene di mettere mano dove non doveva, e tirare giù una serie ben impilata di schede LED e farle capitombolare a terra.
    Dire che la biondina fosse fuori posto, tra cavi di rame, bulloni e dispositivi EMP era dire poco. Ma Kyle l’avrebbe fatto, senza neppure alzare il visore protettivo. «ti sei persa.» E no, non era una domanda quella del coreano. «la spa non l’hanno ancora aperta.» AH! Quello lo sapeva, e solo perché aveva sentito Melvin affermare che avrebbe accettato al volo un posto all’interno del centro benessere, se lo avessero aperto. Kyle aveva stretto le spalle, ed era andato oltre. «non toccare più nulla.» Disse all’intrusa, poi, riabbassando lo sguardo sul chip che stava saldando, e riprese a fare il suo lavoro.
    Ciao Liz.
    Addio Liz!
    kyle
    kang hae-il

    next time I'm opening up to someone
    is my autopsy
    error 404
    conviviality not found.
    wizard
    the brain and the brawl
    the honest — 1998, magitechnician, rebelmake social calculations,
    know when you're supposed to cry,
    fake real communication,
    rehearse your scripted lines
    machine learning
    j. maya
    moonmaiden, guide us
  5. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    2005's
    lumokinese
    belga-bollo
    kaz oh
    Con il mento poggiato sulle dita intrecciate fra loro ed i gomiti a scavare solchi sulle ginocchia, Kaz Oh guardava una mattonella scheggiata dell’ospedale. Una precisa, con una crepa nell’angolo più a sinistra. Si domandava dove fosse finito il pezzo mancante, perché le altre domande sembravano un po’ troppo pesanti per lui. In quel momento; il giorno dopo, ad occhio e croce.
    Per sempre.
    «tu non sei più mio fratello, ti odio »
    Non lo pensava davvero, Kul. Sapeva non lo pensasse davvero. Ma era un timore costante, e ci si scontrava di continuo. Ogni battito di cuore ne picchiava uno spigolo. Lo sentiva rimbalzare fra una parete e l’altra della calotta cranica come una pallina da ping pong: ogni colpo, inspirava tremulo; al rimpallo, espirava e corrugava le sopracciglia. Sulla scomoda sedia del Primo ed Ultimo Soccorso, chiamato in amicizia (e da chi lo visitava spesso, tipo l’Oh) PUS, mordicchiava l’interno del labbro inferiore e faceva le due cose che meno preferiva al mondo: aspettava e pensava.
    Non avevano dato stanze singole, ai Sedici Prescelti. Mancava lo spazio, e certo il personale. Erano stati tutti ammassati in una delle camere del primo piano, su brande misere che apparivano, se possibile, ancor più sconvenienti della sedia su cui ormai aveva lasciato la propria impronta. C’erano sedute di ogni tipo, lì dentro. L’Oh, come Riccioli d’oro nella favola, le aveva provate tutte – quelle in legno, quelle da bagnino, quelle metalliche raccattate solo Dio sapeva dove – prima di scegliere quella plasticosa da giardino. Sentiva di essere diventato ormai un tutt'uno con lei.
    Non c’era stato verso di farlo alzare, dopotutto. E perché avrebbe dovuto? Erano tutti lì: Balt e Mimmo, Thor. Kul. Ancora addormentati, la pelle segnata e sporca dal sangue che non era venuto via al primo passaggio del panno umido. Non ce n’era stato un secondo, per l’Oh manipolatore d’ombre: Kaz aveva guardato lo straccio offerto da Melvin, ed aveva scosso secco il capo.
    Più passava il tempo, più aveva modo di riflettere fra sé e sè, e più si innervosiva. Lo riteneva un sentimento migliore rispetto alle centinaia d’altri in attesa di sfondare la cassa toracica, quasi gradevole. Un pensiero sul quale ossessionarsi che non fosse tutto il resto, recluso sotto cumuli di macerie e polvere. Non aveva – non voleva - non poteva -
    E non l’avrebbe fatto, signori e signore. Neanche una singola cosa. Cuore sottochiave, e lingua appiccicata al palato. Rimase aggrappato solo a quello, Kaz, perché una cosa per volta sembrava gestibile, ed osservare il profilo del fratello ancora in convalescenza con sguardo torvo ed accigliato, era la sua alternativa migliore. Continuava a cercare di immaginare la scena di quando l’altro avrebbe aperto gli occhi, completando dieci e cento scenari diversi. Il vero saluto che non avevano avuto tempo di darsi, le confessioni, il perché della sua scelta. Le lacrime – quelle, ne aveva immaginate parecchie, perfino nel solo contesto protetto riguardante loro due, e senza includere quanto tutto il resto attendesse sotto pelle di strappare e strappare. Per qualche motivo, non accadde nulla di quanto Kaz si era immaginato in quelle ore, quando le palpebre del fratello tremolarono segnando il suo risveglio.
    E la sua mano scattò a dargli uno schiaffo sulla tempia.
    «ma sei deficiente»
    Rabbia. Poco familiare, per l’Oh. Forse aveva passato troppo tempo con la sua anima gemella, perché tremava da testa a piedi di pura, non filtrata, furia. Migliaia di motivi, ma decise di dedicarne al minore solo un paio, nessuno dei quali includesse la stretta alla gola del pensiero fosse maledettamente morto. «”cosa direbbero mamma e papà”, bohoo. ma se mamma è morta, e sai che papà mi supporterebbe!» non alzò la voce, gli altri stavano ancora (shes dead – shes meditating) riposando, ma rivedere baby allen aveva riportato alla memoria il suo talento, non così segreto, di gridare molto forte, molto sottovoce. Bisbigli indignati, quello del lumocineta. «pugnalarti alle spalle?» Unì le dita della mano destra e le scrollò, labbra curvate verso il basso. Quello, doveva averlo ereditato da Remo. «come sei egocentrico. megalomane. Kul! kul. qui si parla del mondo intero» indicò con un ampio cenno la stanza attorno a loro, ingurgitando nel senso l’universo oltre quelle porte.
    Quella Bolla.
    «pensi sia qua perchè tu hai fatto di male a me Non resistette, allungando ancora una mano per schiccherarlo sulla guancia. Che fosse messo male, dopotutto, non era una novità – non per loro, non fra loro - e si sentì del tutto in diritto di mettere il dito nella piaga. Metaforicamente parlando.
    Il prezzo da pagare per avergli spezzato il cuore. Frantumato sotto il tallone, senza alcun maledetto rimorso. Parole dure, sputate come fottuto veleno solo per fargli del male: quella, era cattiveria gratuita. Quello era pugnalare qualcuno, alle spalle e tutto intorno. «rimanere da solo... ridicolo» incrociò le braccia al petto, sentendo il primo brivido lungo la schiena – non l’ultimo, immaginava. Cercò comunque di tenerlo a bada, perché non era pronto. Non lo era, ok? Scelta, sì, ed aveva fatto la sua; no, non sarebbe tornato indietro. Non significava che ne fosse euforico: tutti dovevano fare dei sacrifici. «hai papà. hai gli amici. hai tutta la vita» ed eccolo, il seme originario di quella rabbia.
    Aveva scelto tutto il resto, Kul. Rispetto alla cosa giusta, rispetto a lui. Ed anziché capirlo, fidarsi, e conoscerlo abbastanza da sapere che non avrebbe messo sull’altare la sua intera esistenza se non fosse stato sicuro ne sarebbe valsa la pena, parlava di tradimento? A Kaz, che incarnava tutti gli ideali per i quali avevano sempre combattuto? Insieme, per giunta. «questo è il momento in cui mi chiedi scusa.»
    If I don't say this now, I will surely break
    As I'm leaving the one I want to take
    Forgive the urgency, but hurry up and wait
    My heart has started to separate
  6. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    soft
    idiot
    sappy
    motherfucker
    sentimental
    bastard
    archibald dominique baudelaire leroy
    Una giornata come tutte le altre.
    Poche ore di sonno mentre cercava di incastrare due lavori che amava e che lo tenevano ancorato ad una vita ormai cambiata, sorrisi sghembi agli avventori della panetteria, battute e lamentele ad amici e colleghi, sbadigli e mal di testa e Dio, ancora quelle immagini, ricordi e possibilità che non gli appartenevano, sogni ad occhi aperti pronti destabilizzarlo ogni volta che non era abbastanza veloce a ingoiare un potere che ancora non controllava. Ancora il senso di perdita, ancora l'impressione di essere maledetto, ancora la paura di guardarsi allo specchio e vedere un bambino di dieci anni abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo ed arrabbiato con chiunque per questo.
    Niente di diverso dal solito (o da quello che almeno, ormai, era diventato il suo solito).
    Solo che non era davvero una mattina come tutte le altre. E neanche lo sapeva.
    Non poteva saperlo, Arci, quando si era avvicinato pronto a bussare alla porta della camera da letto vuota, ridendo fra sé e sé per la propria stanchezza.
    Non poteva saperlo quando aveva notato le troppe tazze nel mobile della colazione, e si era chiesto distrattamente perché Aidan avesse rubato a casa Eubeech quella roba a tema Star Wars.
    Non poteva saperlo quando aveva trovato una pergamena abbandonata sul tavolo in salotto con dei compiti di sdm abbandonati al loro destino, e li aveva lanciati nello zaino ripromettendosi di restituirli al povero studente a cui li aveva presi per sbaglio.
    Non poteva saperlo guardando un po' confuso, un po' annoiato, i tanti piccoli segni della presenza di un terzo (ex) abitante di quella casa.
    Non poteva saperlo quando, toccati i fu oggetti di tale coinquilino per metterli a posto, aveva ricevuto un insolito (e ironicamente piacevole) silenzio.
    Una giornata uguale a quella prima in tutto e per tutto - anche nel suo alzare lo sguardo di scatto verso l'ingresso quando la magia lo avvisó del rientro a casa di Aidan.
    Il rapporto di Arci con la sua (ormai non più) nuova... situazione, era ancora particolare. Preferiva non parlarne, non pensarci, e aveva stiracchiato il potere volontariamente talmente poche volte che non era una sorpresa che di tanto in tanto gli esplodesse in faccia, offeso di essere relegato a contrattempo piuttosto che esercitato come dono.
    La chiaroveggenza era ancora un punto dolente, visto che averla significava aver perso la Vista, l'animagia, la sua bacchetta...
    Riconoscere l'arrivo imminente a casa di Aidan e di- di- (Aidan e basta) rientrava nelle poche cose in cui eccelleva di natura come chiaroveggente.
    La sua magia gli sussurrava sempre nell'orecchio quando il Gallagher stava arrivando, forse riconoscendo il piacere che questa notizia portava, e Arci accoglieva ogni volta l'avviso con un sorriso. Non lo aveva detto al compagno, certo che Aidan lo avrebbe preso in giro per il suo romanticismo, per il modo in cui tutte le lamentele dette o silenzione (odiava quel potere. Odiava non essere più un mago), si scioglievano nel momento in cui c'entrava il Gallagher.
    Non avrebbe capito.
    O avrebbe capito troppo bene per volerne parlare.
    Quando Aidan ci mise più del solito a varcare la soglia, fu Arci ad andargli incontro, curioso del perché ci stesse mettendo tanto, affamato di vederlo come non sapeva spiegarsi e sentendo una nostalgia carogna e confusa per le sue mani addosso, i denti sul collo, le labbra sulla pelle tiepida - nostalgia che sapeva non avere senso di esistere visto che erano visti solo- tre- uno- giorn- (si erano appena visti).
    Sorridendo divertito aprì la porta.
    E non fu più un giorno come tutti gli altri - anche se per tutti i motivi sbagliati.
    «Aidan» cauto (più di quanto il suo cuore a battere veloce nel petto avrebbe richiesto), come lo sarebbe stato con un gatto, sia nel pronunciare il suo nome sia nell'allungare la mano. Il sorriso era sparito, gli occhi scuri fattisi preoccupati. Spaventati. Arrabbiati. Strinse il pugno, prendendo un respiro profondo e quasi minaccioso. C'era qualcosa di sbagliato nel Gallagher, anche se non avrebbe saputo decidere cosa (non solo nell'espressione, fisicamente), e rischiò a distogliere lo sguardo per cercare tracce di sangue su di lui (cos'è successo chi è stato lo ucciderò non dovevi andare-), non trovando però, a vista, risposte ai suoi dubbi.
    Un bene, forse. Un male, se il problema di Aidan, dei suoi occhi scavati, dei capelli non lucidi come al solito, dell'aria provata e sconfitta, era di natura magica.
    Il fu grifo arrancò in avanti, ma non pronto dal trovarsi ad avere a che fare con un peso morto, Arci riuscì appena a rallentargli la caduta.
    Finalmente, al movimento dell'altro, gli si attivò nel cervello la modalità emergenza, e questo per lo meno gli permise di non gridare, di non chiedere chi gli avesse fatto del male, di non uscire di casa a passi veloce per cercare chiunque o qualunque cosa avesse portato alla loro porta Aidan in quello stato e dargli fuoco, dare alle fiamme l'intera città se necessario, riportando cadaveri in cenere al capezzale del Gallagher se sarebbe servito a farlo stare meglio.
    Invece, un braccio ancora a tenere Aidan (non si era reso conto di averlo preso per impedirgli di cadere malamente a terra, tanto era stato istintivo, pur nello shock iniziale, proteggerlo da altro male), si allungò per chiudere la porta dietro il grifo dopo averlo tirato a sé. Gli scivolò allora di fronte, in ginocchio sul pavimento freddo e incurvato in avanti per essere allo stesso livello dell'altro. Scomodo, in quella posizione, nel tentativo sia di toccare Aidan - assicurarsi che fosse lì che stesse bene che non stesse andando via da lui e restasse lucido - che di farsi guardare... ma quando mai amare Aidan non era stato doloroso, negli ultimi sette anni?
    Fra loro ondeggiava la catenina legata al collo di Arci, una croce e un anello fianco a fianco.
    «mi dispiace»
    «Aidan»
    ripetè, con meno urgenza, ignorato nuovamente mentre cercava di riportarlo al presente, di portarlo da sé. Aveva domande, ma la maggior parte riguardavano la salute dell'altro, quindi prima doveva capire quello. Stava bene? Era ferito? Fece scivolare una mano sul retro del suo collo, tenendolo fermo in una presa solida, meno dolce di quanto avrebbe dovuto, imitando le strategie che altre volte il grifondoro aveva usato con lui. Resta con me. Non annaspare via. Mi senti? Strinse la presa. Sono qui.
    «mi dispiace»
    «Ehi. Guardami un ordine, perchè Aidan smettesse di vedere Dio solo sa cosa, ma si inebriasse del Leroy davanti a sè - uno che non aveva bisogno di scuse. Gli prese il mento fra indice e pollice, tenendogli non senza gentilezza il viso e obbligando l'uomo a guardarlo.
    Non era mai stato bravo con le parole,.
    «Mon coeur» mormorò. Aveva iniziato a usare il nomignolo per scherzo, per prendere in giro più che Aidan le coppie che non erano loro e il loro romanticismo zuccheroso, ma col tempo ci si era affezionato, trovandolo un nome azzeccato e sincero. «ça va aller. Je suis là»
    Tracciò col pollice la linea dello zigomo, bagnandolo di lacrime, e parlò ancora a bassa voce in francese come cantilenando una ninnananna. Era una lingua abbastanza melodica da non aver bisogno di grande impegno per riuscire ad essere di conforto di per sé.
    Parlare francese, da utile (per non farsi capire da- da- per non farsi capire e basta) era passato a piacevole e poi necessario. Lo usava quando voleva dire cose ma il suo intero essere si ribellava dal farlo - nei momenti troppo dolci per usare la stessa lingua con cui si prendevano a parole o si prendevano e basta, e nei momenti in cui respirare era difficile e non sapeva come ammettere che non sapeva come andare avanti.
    Si sporse in avanti, spinse la mano sulla nuca dell'altro per avvicinare i loro visi, il respiro raschiato di Aidan a fargli il solletico, lasciando che il proprio, forzatamente tranquillo, gestisse il tempo fra una boccata d'aria e l'altra anche per entrambi.
    Posò le labbra sulle ciglia umide di pianto di Aidan, con calma passò all'altro occhio.
    Appoggiò la fronte contro quella dell'uomo.
    «Risolveremo tutto. Ci siamo dentro insieme»
    Il panico di aver visto Aidan crollare davanti a lui (Aidan! La cui strategia era sempre stata quella di nascondersi, piuttosto che chiedere aiuto. Chiedere scusa), era stato sostituito da una paura più razionale.
    Era successo qualcosa di grave.
    Aidan pensava che Arci non l'avrebbe presa bene.
    Si conoscevano abbastanza vicendevolmente per sapere entrambi che il Leroy si arrabbiava spesso, ma proprio per questo poche cose meritavano una tale reazione da parte del Gallagher.
    Qualcuno che Arci amava si era fatto del male (o peggio).
    Aidan pensava, presumibilmente, di essere parte del problema.
    L'assenza di sangue non escludeva ancora del tutto l'idea che la persona in pericolo fosse Aidan stesso.
    «nel bene e nel male» Mosse ancora il dito, accarezzandolo. «Lascia che ti aiuti»
    I will not have you without the darkness that hides within you.
    I will not let you have me without the madness that makes me.
    If our demons cannot dance, neither can we.
  7. .
    don't cag my cazz.
    Avevano perso.
    Ci avevano provato alla grande fino alla fine, stringendo i denti, cercando di recuperare dopo l'errore grossolano che li aveva fottuti e condannati; valorosi guerrieri che non ci stavano, semplicemente non ci stavano ad accettare quella sconfitta.
    Non era possibile.
    Ma non erano ancora spacciati; potevano ancora farcela.
    Potevano ancora farcela, cazzo.
    Non avrebbero concesso a dei nessuno qualunque il permesso di strappare quella vittoria, in nome… in nome di cosa, poi. Si credevano organizzati solo perché erano stati in grado di disegnare un progetto e realizzarlo; sistemare le pedine sulla scacchiera nella giusta maniera e fare scacco matto; fare capo ad un leader che — ok, sì, aveva messo in saccoccia qualche vittoria in più di loro, ma?? Ma??
    Che cazzo ne sapevano, cosa stracazzo sapevano!
    Serviva più di quello per vincere davvero.
    Avevano perso, sì, ma non erano stati sconfitti; non del tutto.
    Potevano ancora… ribaltare il risultato, in qualche modo. C'era ancora una speranza.
    C'era… c'era una speranza.


    .
    La Roma aveva ancora una speranza di arrivare in finale: andare a Leverkusen e spaccare il culo ai crucchi di merda, o in alternativa si accontentavano di spaccare la faccia a Karsdorp, per quel retropassaggio del cazzo a due metri dall'avversario, che nemmeno i pulcini della Nova Sette si permettevano di fare, certo.
    E di cosa pensavate si parlasse, scusate, se non della semifinale di Europa League?
    Ovvio che fosse quello era l'unico pensiero nella testa di Romolo Linguini in quei giorni, come sempre, — a cos'altro doveva pensare? Di certo non a missioni in Sri Lanka mai avvenute (e, con esse, tutto il resto; se si era riscoperto stranamente affascinato dalle tipe con i capelli rossi, ultimamente, era solo colpa di quella vecchia foto di Miriam Leone che aveva visto sul Chi di nonna Rosetta, e di nient'altro). E c'era anche una spiegazione logica allo strano dolore fantasma al petto, e alla convinzione sempre più concreta che sarebbe morto di infarto prima di raggiungere i venticinque anni: tifava la Roma, e non esisteva nessun romanista fedele al romanismo che non avesse rischiato l'attacco di cuore almeno una o due volte (a partita); chi diceva il contrario era un tifoso occasionale.
    Insomma: vincere la semifinale di ritorno, e assicurarsi la quarta finale europea consecutiva era l'unico pensiero coerente nella mente del romano (e romanista). La sua testa lavorava in maniera molto semplice, e gni altro ricordo, di qualsiasi natura, era stato facilmente soppiantato da quello, così come i vuoti di memoria o i buchi narrativi lasciati da una magia antica e incomprensibile erano stati facilmente colmati con quel genere di immagini; rimaneva solo il dolore del pugno ricevuto sul naso quando il fottuto ladro aveva fatto impattare le nocche contro il suo viso, al tentativo dell'italiano di bloccarlo prima che fugisse dopo il tentativo di rapina. «ginè, è l'ultima cazzo di volta che mi metto in mezzo. 'o vedi a volè fa' der bene, ce se rimette sempre» ma chi glielo aveva fatto fare di immolarsi, non ne valeva mai la pena.
    Inutile dire che il naso era ancora gonfio e le borse sotto gli occhi così scure da farlo sembrare Bruce Wayne dopo che si toglieva il casco da pipistrello e rimaneva solo col trucco sbavato intorno agli occhi; ma di andare a farsi sistemare da un guaritore bravo non se ne parlava, e preferiva guarire a modo suo, come aveva sempre fatto, perché anche sticazzi.
    Non era proprio uno spettacolo bellissimo, certo, viso gonfio ed espressione omicida, ma anche sticazzi un’altra volta: chi frequentava il Bar dello Sport ormai ci aveva fatto l’abitudine al viso sempre più o meno tumefatto del cugino romano (e romanista), e non si facevano più domande; avevano capito che domandare se si fosse picchiato con un tifoso rivale o avesse dato una testata a qualche studente durante il lavoro e rischiare di ricevere una risposta poteva essere un’arma a doppio taglio.
    Chiuse di scatto il Corriere dello Sport (che Ginevra si faceva arrivare tutti i giorni direttamente dall’Italia, santa donna), e lo girò sottosopra per non vedere la prima pagina e i titoloni giganti che chiamavano la Roma all’impresa delle imprese, e si verso un altra tazzina di caffé. Tipo il sesto della giornata. Erano solo le due del pomeriggio, doveva arrivare alle nove e superare quello scoglio insormontabile che erano le qualificazioni ala finale di europa league 2023-2024 senza perdere quel poco di sanità mentale (!) che gli era rimasta.
    Poteva farcela.
    Poteva farcela?
    «che vvoi?» chiese, sapore dolceamaro del caffé ancora appiccicato alla lingua, e occhi scuri stretti sul cliente al bancone: vuoi essere tu?
    romolo
    linguini

    io boh,
    ma pure voi mah!
    romanismo
    “che er daje sia con voi”
    wizard
    good heart, bad temper
    the leader — 1999, romano, romanistae un'altra notte che passa,
    questa vodka rilassa,
    non pensare a domani
    alza al cielo le mani!
    domani ci passa
    ludwig
    moonmaiden, guide us


    un'altra pq libera?! sì.
    non ha neanche uno scopo se non che serviva a me per esorcizzare demoni (della quest? no. della partita di domani.)
  8. .
    CITAZIONE (zugzwang. @ 6/5/2024, 22:19) 
    FAQ - BOLLA E QUEST 11


    [DOMANDA] ma gli animali ricordano i padroni nella bolla?
    [RISPOSTA] sì. Ed è terribile come sembra.

    [DOMANDA] è possibile portare altri pg nella bolla a parte quelli che hanno partecipato all'oblinder/missione/quest?
    [RISPOSTA] È possibile creare dei fittizi (Cittadini della Bolla, li dai mesi precedenti; la bolla è nata anche per essere rifugio di babbani e sovversivi) o inserire personaggi work in progress che non sono stati mossi in molti mesi, dando loro come background che siano Cittadini da un po' (massimo giugno 2023, prima il progetto non esisteva; potevano però essere parte delle milizie di Jeanine, e di conseguenza, far parte del Nuovo Ordine). Al momento, non è possibile accedere ex novo alla Bolla.

    [DOMANDA] ma se per esempio Mort che ora ricorda ancora tutto, esce e fa veramente una puntata del podcast dicendo tutto quello che ricorda, lo danno per pazzo, lo mettono in prigione o cosa?
    [RISPOSTA] A parte che non gli converrebbe, essendo lui legato a doppio filo alla Bolla. Per il resto? Verrebbe sicuro preso per pazzo, eccetto che dai soliti complottisti (o qualcuno che potrebbe trovarlo familiare, ma insomma, sarebbero folli insieme). Non finisce in prigione di certo, non è un segreto di stato (letteralmente, non è il Governo ad averlo insabbiato: nessuno sa nulla)

    [DOMANDA] ma ora la /situazione politica/ com'è?
    [RISPOSTA] fuori dalla bolla, la stessa identica di prima, letteralmente come se non fosse successo nulla (come se l'avessero ....dimenticato, badum tss)

    [DOMANDA] per chi è tra i prescelti, e quindi per chi ha perso la magia, e va ancora ad Hogwarts, che succede? sono costretti a lasciare la scuola? vengono tenuti a pulire i bagni?
    [RISPOSTA] no, gli studenti che erano tra i prescelti, e che hanno perso la magia, non sono più ammessi a frequentare le lezioni ad Hogwarts, o in qualunque altra scuola magica. Perlomeno, finché non finirete la raccolta di Halo Points 💅

    [DOMANDA] [riguardo l'alibi dei prescelti fuori dalla bolla] ma quindi.
    Questa piccola esplosione è stata qualche giorno fa on GDR (secondo arci) e può averne letto sui giornali pensando Aidan gli ultimi due giorni fosse in ospedale? C'è il collegamento esplosione\assenza di magia per loro (o sono due eventi separati)?
    [RISPOSTA] Usiamo questo caso come esempio.
    Aidan è partito in Missione. Arci lo sapeva. La missione è finita.
    (REWIND) Arci non ricorda l'esistenza di Aidan anche durata la permanenza di Aidan nella bolla (3 giorni ish).
    Nel momento in cui Arci vede Aidan, dopo un istantaneo attimo di dubbio, il vuoto viene colmato: ma certo, Aidan era a King's Cross. Lo sapevi. Era al San Mungo, ti sembra anche di essere andato a trovarlo (perchè ti pare assurdo il contrario). Insomma: laddove manca il senso, la tua mente riempie con quello che per lei è normale.

    [DOMANDA] Per precisione/trasparenza vorrei sapere se esiste l'idea di dare linee guida più specifiche a riguardo o anche solo una notazione in più qui in FAQ. Perché ogni Potere Special ha il suo concept e i suoi funzionamenti, quindi magari avete delle idee particolari su come le categorie di Poteri o i singoli Poteri proprio possano reagire a questa nuova condizione di instabilità? O preferite, per comodità eccetera, lasciare queste cose alla fantasia dei player?
    [RISPOSTA] No, non esistono linee guida riguardo i defective, e non esisteranno. Il potere, indipendentemente dal tipo, è instabile. Il come, potete gestirlo voi a seconda di quello che preferite per la vostra trama: potrebbe funzionare a tratti, non funzionare affatto, funzionare troppo intensamente... dipenderà anche dalle situazioni. Ci fidiamo ciecamente al darvi carta bianca. Ricordate che la vostra libertà creativa finisce solo dove inizia quella degli altri (insomma: non uccidete pg reali, e non prendetevi troppe libertà che pensiate l'altro possa non volere - tipo, boh, mutilazioni e qualsiasi altro effetto permanente.).

  9. .
    they say tomorrow's never promisedthey say that angels are among us

    «oltre al sacrificio di sangue, serviva la vostra magia. serviva qualcosa che abbadon non avesse, e che nemmeno io posseggo: è diversa dalla nostra. è per questo che la vostra [Liam, Corvina, Taichi, Johannes, Amaranth, Kul] è stata… rispedita al mittente, ecco, mentre si è tenuta quella di voialtri.»
    Lo sapevano già, l’avevano sentita scivolare via, ma sentirlo dire amplifica il dolore di quella perdita, di quel vuoto laccato di miele. Così come chi era special, si è reso conto di quanto sia stato rovinato il proprio potere, difettoso, rimbalzato da qualcosa che l’ha rifiutato. Eppure, sanno che c’è dell’altro – che qualcosa si è insinuato sottopelle, scorrendo tra le vene negli spazi lasciati vuoti.
    «la bolla è stata creata con un’energia uguale e contraria a quella che possiede l’abisso.» chi è stato a Stonehenge durante la Guerra della Primavera Magica, sa a cosa si riferisce; li ricorda, i demoni a sgusciare fuori dalle fessure nella terra.
    Un’energia uguale, e contraria.
    «serviva qualcosa che bilanciasse il tutto, e quel qualcosa eravate voi. do ut des

    Do ut des.
    Queste sono le parole che sono state dette a chi ha sacrificato la propria vita per permettere alla Bolla, al Progetto di nascere realmente. Poco di conforto, quando rimani con un pugno di mosche tra le mani – niente magia, o poteri ingestibili.
    Ma è davvero tutto qui?
    Può essere tutto qui, per persone che si sono fuse con un potere antico come il mondo e forse un po’ di più, che hanno dato sangue e magia ad un essere i cui sconfinati poteri sfuggono alla sua stessa comprensione?
    Non è nemmeno una magra consolazione, quello che sentite scorrere dentro di voi al posto della magia che avete perso – ma è qualcosa.
    Potere.
    Un’energia uguale e contraria a quella delle entità volgarmente definite demoniache, richiamate da Abbadon un anno fa dalle viscere della terra.
    Un potere puro, angelico nella sua accezione più profana: non è l’oscurità ad essersi impossessata di voi, così com’è successo ad altri, ma quello che più le si oppone. È buono, ed è Bene: lo capite perfettamente; accettarlo, è un altro discorso.
    Non una maledizione, ma un dono – a voi decidere se considerarlo tale o meno.



    Cosa significa tutto questo, in parole povere?
    Avete ragione: basta con i misticismi, passiamo alla pratica.
    Gli special dell’ultima settimana all’interno della bolla, sono ancora special. La loro magia è stata presa dalla bolla e rispedita al mittente, alterata dalla sua potenza, risultando in poteri difettosi: i Defective sono, canonicamente, special incapaci di controllare il proprio potere. In questo caso specifico, però, non è che abbiate perso completamente il controllo: lo troverete però più difficile da gestire, e non sarà naturale quanto prima. Inoltre, c'è la possibilità che con emozioni troppo forti, sia lui a controllare voi.
    I maghi dell’ultima settimana, al momento attuale, risultano come babbani; tuttavia, non lo sono davvero. La loro magia è stata presa dalla Bolla perché serviva, ma la Bolla ha dato un po’ di sé ai Prescelti che ha lasciato a secco.
    E quindi. E quindi: complimenti, non-tanto-babbani. Avete vinto un nuovo potere! Non potete sceglierlo, però. Di conseguenza, vi va una bella raccolta punti? A noi sì!
    Ogni post dei PG "fu maghi" fra i Prescelti vi farà accumulare 1 punto (Halo Point), ed ogni 2 punti vi verrà data una scelta – altre scelte, uh. A mano a mano, accumulando checkpoint su checkpoint e scelte su scelte, avrete indizi sul nuovo potere sviluppato (on gdr, sarà giustificabile con il fatto che non lo conosciate, e si stia effettivamente sviluppando con voi, e su di voi. non ha ancora una forma sua, per intenderci), fino ad arrivare alla fine a comprendere di quale si tratta. Capito? Saranno le vostre scelte, a determinare il vostro destino *dun dun duuun*

    Per ciascun personaggio che ha partecipato all'ultima settimana contro il Golem da mago o strega (baltasar monrique - aidan gallagher - finley lloyd - mary jane hendricks - domenico malatesta - john ming-yue campbell - madein cheena - mort rainey - sinéad mikhailova - thursday dethirteenth) dovrete aprire una discussione nella sezione dello smistamento (click) mettendo come titolo "NOME_PG - risky q11". In quel topic, a halo point completo vi verranno date le scelte, e sempre in quel topic, dovrete postare la vostra decisione. Mi raccomando! Siate coerenti con il vostro personaggio, non con quello che fareste voi!
    Detto questo: le risposte che riceverete non dovranno obbligatoriamente essere citate on GDR. Le scelte che vi ritroverete a fare saranno ipotetiche. Potete comunque citare eventuali effetti sopraggiunti grazie alle /indagini/ (ogni scelta, sarà accompagnata da ...indizi, si potrebbe dire) in qualunque dei vostri post.
    Non avete alcun limite di tempo. Potete raggiungere il vostro... pieno potenziale in una settimana o in mesi. Quindi no stress!

    PRIMA SCELTA
    (tip: questo potreste usarlo come prompt del vostro risveglio!)
    "Ti guardi allo specchio, faticando a riconoscere il riflesso. Cosa noti di strano?"
    OPZIONE 1: Gli occhi. C'è qualcosa di diverso, anche se all'apparenza sembrano sempre gli stessi.
    OPZIONE 2: La pelle. La forma del naso, delle labbra. Ti sembra di essere stato ricostruito da argilla.

    Con questo modulino, in questa discussione segnerete terrete personalmente conto dei post che farete! Varranno soltanto i post ambientati dopo il 06/05.

    CODICE
    [HTML]<i class="fas fa-long-arrow-right" style="color:#1B5583;padding-right:3px;font-size:15px;"> <b>nomepg</b></i>: <i class="fa fa-star-o" style="color:#bfbd3d;padding-right:3px;font-size:10px;"></i>  
    — [url=linkalpost]01[/url] / [url=linkalpost]02[/url][/HTML]




    aidan:
    01 / 02

    John:
    01 / 02

    Finley:
    01

    baltasar:
    01


    Edited by homini lupus - 10/5/2024, 02:40
  10. .
    moka telly jr.
    I shoulda died at least a million times
    How am I still alive?
    Every night I'm fighting gravity
    And other things that could be
    When we kiss it tastes like razor blades
    When we touch, it's the same
    e siamo ancora qua, eh già.
    dopo un anno quasi preciso, un tempismo praticamente perfetto (così non devo elaborare niente!): il post giusto da scrivere a fine quest, con le ore contate (morti di fiPE be like) e nel bel mezzo del mental breakdown semestrale — di rob, non di moka. il telly ne aveva così tanti a distanza ravvicinata che ormai non ci faceva più nemmeno caso: fuck it we ball. gli occhi non gli si riempivano di lacrime in modo del tutto casuale e inopportuno, ma le strizzava così forte che a furia di comprimerle diventavano rabbia; grezza, nemmeno un po smussata agli angoli. c'era chi chiedeva scusa prima di ritirarsi ad urlare nei boschi, tipo le persone normo, e poi c'erano i moka di questo mondo che non davano alcun segnale dell'esplosione imminente.
    un ragazzo per bene in sano contatto con le proprie emozioni.
    «ce l'hai un letto, moka telly?» persino lì, con la mano di javi a solleticare i centimetri più sensibili del suo corpo e con un unico neurone rimasto ad affrontare la questione, lo special ebbe la forza, l'audacia! (letto con il tono di sanità mentale!) di sollevare un sopracciglio. per chi l'aveva preso, un senzatetto che dormiva sotto i portici in mezzo alle coperte? domanda superflua e risposta ovvia: sì. in fondo bastava guardarsi attorno, dedicare un istante al frigorifero tristemente vuoto, gli scatoloni abbandonati negli angoli con i vestiti ancora dentro. per non parlare del fatto che moka dormisse di rado, e questo javi lo sapeva bene.
    «hai così poca fiducia?» raggiunse la mano dell'uomo stringendo le dita attorno al suo polso, le spalle (ho detto spalle.) a sollevarsi appena. nemmeno per quella domanda serviva davvero una risposta. lo guidò nell'altra stanza senza mollare la presa, perché a conti fatti poteva sempre ripensarci javi; lasciarlo lì, con un palmo di naso e un'erezione da gestire non sarebbe stata poi una grande novità.
    been there done that, recitavano gli antichi.
    «visto?» con la mano libera mostrò il letto rifatto, le lenzuola piegate in modo così precisi che il dubbio se ci si fosse mai sdraiato diventava pericolosamente lecito «non dormo solo sulle sedie» avrebbe voluto si sentisse di più la vena di sarcasmo nella voce divenuta roca e asciutta, ma non poteva chiedere troppo a se stesso; gli piaceva giocare solo fino ad un certo punto, e quel punto l'avevano superato da un pezzo.
    ma poi che bel gioco, il loro — una cazzo di roulette russa.
    quando le dita si chiusero nuovamente sulla sulla maglia di javi, aggrappandosi alla stoffa, non lo fece per tirare ma per spingere, sapendo che alle spalle del maggiore il bordo del letto avrebbe attutito la breve caduta. e lo spazio tra le sue gambe moka se lo prese senza chiedere permesso, finalmente nel posto giusto al momento giusto. o l'esatto contrario, ma dipendeva dai punti di vista: quello di moka, dopo due mesi di tormento e desideri opprimenti a scavare nella carne e insinuarsi sotto pelle, era che non sarebbe potuto essere in nessun altro posto se non li; ginocchia a terra e dita impazienti a passeggiare sui fianchi dell'altro.
    una scena che sara vj aveva manifestato in modo egregio, ma a ruoli inversi e (si spera.) con un finale diverso.
    «javi» pericoloso, con quel papi a cercare di sgusciare tra le labbra dischiuse — certe abitudini erano dure a morire, ma moka sapeva essere forte. abbastanza da appoggiare i gomiti contro le sue cosce, il mento sollevato a cercarne insistente lo sguardo. il proprio sapeva fosse liquido, reso lucido da tequila e stanchezza in egual misura; sapeva che entrambe imponevano un rigido codice di condotta — la bocca non andava usata per parlare. il rischio era di esporsi un po troppo, rendersi vulnerabile.
    non gli era mai passato per la testa di offrire volontariamente il fianco alla lama di un coltello, fino a quel momento «tu mi rendi.. disperato. lo sai, vero?» il lieve tentennamento a grattare la gola, moka lo ignorò aumentando il volume di tutto il resto: la pelle calda del Mendoza sotto i polpastrelli, la saliva a bagnare le labbra, il lento ma insistente pulsare del sangue attraverso vene e capillari. incredibile come al primo colpo gli fosse venuta la parola giusta in mente, disperazione, e che per pronunciarla avesse avuto bisogno di lasciarsi spegnere il cervello.
    dall'alcol.
    da javi.
    funzionava con lo stesso algoritmo insensato di Pinterest, il telly.
    avrebbe potuto avvicinarsi al maggiore, in mezzo ad una folla di persone, e suggerire in tono pacato che si lasciasse succhiare come una cazzo di cannuccia dentro un bicchiere di coca cola fresca in estate; e poi per esprimere ad alta voce un (1) singolo sentimento necessitava di uccidere qualche cellula neuronale. giovani.
    batté le ciglia scure e la stretta sulle gambe di Javier si fece più forte. aveva già detto troppo, senza praticamente dire niente. lo attirò verso di sé, perché non aveva alcuna intenzione di alzarsi, e le labbra le dischiuse un'altra volta ma sulla sua bocca; raccogliendo fiato caldo e respiri frammentati, la lingua a cercare di prepotenza un passaggio tra le labbra e i denti. i propri, moka li affondò appena oltre la linea precisa della mandibola, dove la pelle si faceva sottile e la carne più morbida. lo stesso identico spazio che in un momento ben preciso della loro situationship lo special aveva deciso fosse suo — anche solo per un breve attimo, solo uno.
    qualunque segno, in fondo, sarebbe stato un problema per il Javier Mendoza di domani.

    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio perché fatturare ho fatturato e devo per forza di cose andare a farmi la doccia 🙏
    gif code
    1999
    electrokin.
    black/out
  11. .
    Finn, amore santissimo ❤
  12. .
    Hanno vinto peer pressure e codardia sul drama.

    nome pg: Aracoeli Miranda-Iglesias
    fazione: contro
    dov'è: PARTECIPANTE QUEST CHE NON È NELL'ULTIMA SETTIMANA

    nome pg: Lucrezia Linguini
    fazione: contro
    dov'è: PARTECIPANTE QUEST CHE NON È NELL'ULTIMA SETTIMANA

    nome pg: Thursday De Thirteenth
    fazione: contro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — OSTACOLO NELLA BOLLA

    nome pg: Benedictus Deogratias
    fazione: contro
    dov'è: ULTIMA SETTIMANA — NORMALE


    Edit.
    Lena che voleva solo farsi i cazzi suoi:

    nome pg: Milena Shevchenko
    fazione: pro
    dov'è: RAPITO OBLINDER O MINIQUEST

    Edited by god(dess) of thunder. - 28/4/2024, 15:55
  13. .
    i berserker hanno la violenza nel sangue. scatenano la loro furia sul nemico con efferatezza, incuranti della propria salvaguardia.
    Seduta sulla sedia della cucina di un appartamento che non era il suo, eppure che aveva iniziato a sentire un po' casa in quelle ultime settimane, Dylan fissava un punto imprecisato oltre la finestra senza realmente mettere a fuoco ciò su cui le iridi chiare si posavano; aveva completamente dimenticato anche l'esistenza della tazza di caffèlatte che si era preparata, più come distrazione che per fame. Aveva perso peso, in quell'ultimo periodo, per la gioia di sua mamma e per la preoccupazione di tutti gli altri; aveva perso anche la scintilla gioiosa e malandrina che per anni l'aveva caratterizzata, anche (e forse soprattutto) nei momenti peggiori; quella che nemmeno il processo di Kiel, avvenuto forse quando lei era troppo piccola e influenzabile per capirlo davvero, era riuscita ad affievolire.
    La sparizione di decine di persone, di amici ed ex compagni, era stata invece più che sufficiente a incidere in maniera netta sull'esistenza di Dylan Kane e arrecare danno; la sparizione di Kaz, l'aveva distrutta. Poteva anche essersi diplomata, e aver lasciato una volta per tutte Hogwarts alle spalle, ma era ancora una furia, e lo sarebbe stata sempre; più di tutto, faceva parte di un duo impossibile da separare – o così aveva creduto –, un binomio scritto persino tra quelle perline colorate con cui la rossa, ora, giocava distrattamente. Kaz era sempre stata la sua metà, allo stesso modo in cui lo era anche Joni, o Thor, o Gaylord. Aveva tante metà, Dylan Theodora Kane; tutte importanti nella stessa misura, per motivi uguali o diversi che fossero. Sapere che Kaz, il suo Kazzino, fosse sparito e non aver potuto fare nulla, in quei primi giorni, l'aveva piegata; sapere che ci fosse la possibilità di andarlo a riprendere, e poi vederla sfumare e perdere anche altri, tra cui il suo prom king Giacomino, l'aveva infine spezzata.
    Se andava ancora avanti come un essere semi funzionale era solo per merito delle sue amiche, e di Gay, e di Akelei — quest'ultima, soprattutto, non le dava modo di respirare, figuriamoci pensare, e Dylan gliene era grata. Aveva già quei terribili momenti di silenzio in cui rimaneva da sola con i suoi pensieri ed era terribile; apprezzava che, almeno a lavoro, la Cacciatrice la tenesse abbastanza impegnata da non darle nemmeno il tempo di ricordare quale fosse il suo nome. Non avrebbe saputo come andare avanti, altrimenti, se non avesse avuto il lavoro ad occupare ogni singolo momento della giornata.
    Ma c'era anche il risvolto negativo del lavorare al ministero: quello di sapere prima degli altri, volente o nolente, cosa sarebbe successo. Non lo aveva capito subito, certo, troppo presa a combattere i cattivoni come Callie le aveva insegnato (bacino al cielo), e come Akelei si aspettava che facesse – troppo occupata ad occultare (e a trovare una spiegazione) per quelle morti inaspettate che avevano iniziato ad apparire dal nulla; ma quando era stato chiaro che i Sei (così venivano chiamati i sei ostaggi che erano stati in grado di scappare e far ritorno a casa) avevano informazioni utili che avrebbero portato alla possibile liberazione di tutti gli altri, allora era stato chiaro. Cristallino. Persino per Dylan.
    Ed era diventato il suo roman empire.
    C'era una possibilità; potevano ancora salvare i loro amici (Kazkazkaz) e riportarli a casa. Riabbracciare chi avevano perso, e assicurarsi che non sarebbero più andati via.
    Non era una ragazza da azione, Dylan Kane, e ci aveva messo un po' anche ad ingranare nel reparto cacciatori, ma era cresciuta in quell'anno; era cambiata, era maturata. Sapeva di avere dei limiti, così come sapeva di avere dei punti di forza: la sua lealtà e la sua dedizione, tratti che sicuramente avevano influito molto al tempo dello smistamento in tassorosso, erano più forti che mai in lei, così come lo era la determinazione di fare qualcosa. Troppo a lungo era rimasta in silenzio ad osservare tutto dalle retrovie, ma non poteva più farlo.
    Non quando sapeva, senza ombra di dubbio, che a parti invertite Kaz avrebbe fatto la stessa identica cosa — e molto prima di lei. Che amica terribile sarebbe stata, se non ci avesse almeno provato?
    Per questo, il giorno precedente, si era convinta a parlare finalmente con Akelei e chiederle il permesso di partecipare alla missione; era importante, per la Kane, avere la benedizione e il lasciapassare del suo capo, perché non voleva a) essere licenziata al suo ritorno, e b) deludere Akelei Beaumont.
    E la donna, quel permesso, lo aveva accordato.
    Ora rimaneva solo un ultimo scoglio, forse quello più difficile da superare: dirlo a Gaylord. Non era preoccupata che l'altro non capisse, perché sapeva che l'avrebbe sempre sostenuta in ogni sua scelta così come aveva fatto per tutto quel tempo, ma era preoccupata per quello che, la missione, avrebbe significato per il loro rapporto. E, più in generale, odiava l'idea di spingere Gaylord a preoccuparsi per lei, pur sapendo che fosse impossibile per il Beckham non farlo.
    Con un sospiro, si alzò dalla sedia e rimise la tazza ancora piena nel lavandino, scivolando verso la camera da letto, poi, con passi lenti e inconsuetamente silenziosi per una Dylan Kane; una volta lì, si richiuse la porta alle spalle e si sdraiò di nuovo accanto a Gaylord, posando la testa sul petto del fidanzato, strizzando gli occhi e trattenendo a fatica le lacrime, come spesso succedeva da San Valentino a quella parte.
    dylan
    Kane

    At the end of this road, where should we be?
    What should we become, in what form?
    guerriero berserker
    [un tiro PA bonus]
    strega
    Lvl leader
    2005 — cacciatrice — furia rossaat the end of this road,
    if we must become something in this form,
    I hope to be myself.
    (passion, young, fever.)
    turbulence
    ateez
    Mother of Night, darken my step
  14. .
    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    Quella battaglia non era la sua battaglia.
    Nessuna battaglia era mai la sua battaglia, nemmeno quelle che lo toccavano da vicino.
    Ma quella in special modo era ben lontano dal provocare ripercussioni sulla sua vita — quindi, la domanda sorgeva spontanea: perché partecipare?
    Anche in quel momento, a distanza di giorni, se la ripeteva nella testa con lo stesso tono di voce con cui suo fratello gemello l'aveva posta la prima volta, più annoiato che confuso; preoccupato, nemmeno per sbaglio. Mikkel era abituato alle scelte poco coerenti – e spesso dettate dalla noia – a cui Elias era solito cedere, creatura troppo debole e amante di vizi e tentazioni per avere in sé l'autocontrollo sufficiente a resistere; quella domanda doveva esser nata da un altro genere di spinta emotiva, magari il fastidio provocato dall'idea che Elias potesse finire con lo stare via troppo a lungo e rovinare i loro progetti, quelli che includevano lo sterminio totale dei ribelli, e per i quali avevano lavorato a lungo negli ultimi venti anni.
    Non che ad Elias importasse qualcosa.
    Cioè, sì — ma solo in parte.
    Le sue priorità cambiavano come cambiava il meteo, e non era mai stato bravo a controllarle; preferiva di gran lunga lasciare che fossero loro a controllare lui.
    E poi, aveva già fatto una scelta, e come molto spesso succedeva, non avrebbe cambiato facilmente (o affatto) idea. La missione poteva anche non toccarlo da vicino – cosa che in realtà faceva, perché sia lui sia Mikkel sapevano bene chi fosse annoverato nella conta degli spariti – ma, da creatura onirica e legata al mondo immateriale e distorto dei sogni quale era, Elias basava la sua intera esistenza sulle immagini che riceveva dalla dimensione di cui era vittima e artefice in egual misura; e proprio quel mondo lì, un caro amico che aveva rivelato allo special più risposte di quanto anni e anni di lavoro e spionaggio e ricerca e deduzione avessero mai fatto, gli aveva suggerito di farsi trovare al posto giusto nel momento giusto. Non sapeva quale fosse, quel posto, né per cosa dovesse essere pronto, ma raramente i suoi sogni e premonizioni erano così precise, perciò era abituato a leggere tra le righe di immagini poco chiare, al punto da decidere in autonomia quale significato dargli, con quale chiave di lettura sezionarli ed elaborarli. E anche quella volta aveva scelto di procedere come spesso faceva: a cazzo duro.
    Al fratello, ovviamente, aveva rivolto solo un sorriso affilato e una stretta di spalle. Anche se gli avesse spiegato il motivo, non avrebbe mai capito; o, peggio!, si sarebbe fidato di lui e sarebbe partito in missione. Elias non poteva permetterselo, c'erano già ben due bestiole che doveva tenere d'occhio, e , sapeva già che i bambini si sarebbero uniti alle squadre di ricerca e no non glielo avevano detto le sue visioni: come un bravo fratello maggiore di tutto rispetto, aveva seguito i più piccoli della compagnia a lungo, e continuava a farlo a giorni alterni, per accertarsi riuscissero a sopravvivere in quel mondo crudele brutto e cattivo in cui vivevano; non perché fosse preoccupato o una persona dal cuore buono, ma perché lui e Mikkel avevano organizzato, nei loro progetti, anche come rivelare a tutti i loro bros che fossero una grande e allegra famigliola — non poteva mica lasciare che cose banali come, tsk, la vita intralciassero i loro piani, no?! Era, se vogliamo, il loro angelo custode.
    (Che culo.)
    Aveva già fallito l'anno prima, quando aveva ignorato tutti i campanelli di allarme dei suoi sogni profetici e non aveva fatto nulla per salvare papà due e la sorella; non avrebbe fallito anche quella volta.
    Forse.
    Non poteva prometterlo, non era il custode (o la coscienza) dei bimbetti. O di nessun altro. (E per fortuna.)
    Fatto sta, che “seguire e tenere d'occhio” era esattamente quello che stava facendo quel giorno, trench color crema a coprire un completo casual ma che gli faceva fare la sua discreta figura, capelli così biondi da sembrare quasi bianchi quando catturavano la luce del sole, e sguardo pallido nascosto dagli occhiali a specchio che aveva calato sul naso; sembrava un giovane trentenne qualsiasi, pronto a godersi una banalissima giornata per le vie di Hogsmeade, e assolutamente non il fratello stalker che in realtà era.
    Ma, da brava spia quale era, Elias Raikkonen era abituato ad apparire chi non fosse. Faceva parte delle sue tantissime doti.
    Insieme alla discrezione, ai sorrisi dolci e affabili, e alle maniere educate. Per questo, quando decise infine di avvicinarsi al ragazzetto intento a fare esercizi che stancavano il pavor solo guardando, lo fece con educazione e senza fretta, ma, soprattutto, senza mettere in allerta i sensi non umani, del corvonero.
    (Sì, sapeva anche quello; era una spia, era letteralmente il suo lavoro sapere le cose, e figuriamoci se non sapeva perfettamente tutto quello che succedeva ai suoi fratellini! Buh-uh.)
    La sua figura alta ed esile gettò appena un'ombra allungata sullo sportivo – ugh, terribile, in un'altra vita (e in un'altra forma) lo avrebbe anche potuto capire, ma era Elias in quel momento, non Kimi, ed Elias detestava l'attività fisica che non fosse a scopo ricreativo e con fini ben più piacevoli – e quando fu certo di avere la totale attenzione di Paris, con un sorriso morbido ma che metteva in mostra i denti affilati, chiese semplicemente «scusa, hai mica da accendere?»
    La scusa più vecchia del mondo, sigaretta stretta fra le dita e occhiali a coprire lo sguardo divertito di chi sapeva molto più di chiunque altro; la scusa più vecchia del mondo, , ma anche la più efficace.
    Non si era mai spinto così oltre da arrivare ad approcciare uno dei bambini, ma erano giorni che sentiva di doverlo fare, e non era mai stato fan dell'ignorare le proprie sensazioni, il fu Linguini. Perciò, here we are! Non c'era tempo (né voglia!) per i ripensamenti dell'ultimo momento.
    elias
    raikkonen

    making love with the devil hurts;
    times are changing
    sentinella seguace di arda
    [dimezza attacco O difesa del nemico]
    special
    lvl leader
    1991 — chiaroveggente — pavor spiaIn the end, the choice was clear:
    take a shot in the face of fear,
    do you believe that you can walk on water?
    do you believe that you can win this fight tonight?
    walk on water
    30 seconds to mars
    Mother of Night, darken my step
  15. .
    PRELEVI?
    (non troverai assolutamente nulla in questo pf.
    basta un pollice alzato in questo post!)

    cambiare i colori di sfondo, testo e icon
    cambiare i font e le dimensioni del carattere
    cambiare i campi e le dimensioni del container*

    rimuovere (anche solo in parte) i crediti
    rihostare il codice altrove senza autorizzazione
    utilizzare il codice come base

    per qualsiasi problema, contattami!
    * sconsigliato se non si ha una conoscenza base di html.
    prima di fare cambiamenti drastici, avvisami.


    grazie a lia per questo modulino




    Tvättbjörn Cömmstaj
    22.12.2003
    modalen, no
    special muggle
    neutral
    nome & cognome: Che Agnes Cömmstaj non avesse tutte le rotelle al proprio posto, avrebbero dovuto tutti – laddove, per tutti, si intende la discreta popolazione di Modalen, Norvegia – comprenderlo sia dalla sua smania di avere più figli che mucche nelle stalle del marito (e ne aveva tante, Sal-Hund), sia dai peculiari nomi che aveva deciso di appioppare ad ogni nuovo arrivo nella famiglia. E sempre quei tutti, avrebbero dovuto intuire che fossero dei cuccioli sperduti ed accalappiati dalla coppia nordeuropea – anche fosse solo per il fatto che venivano chiamati come delle bestie. Letteralmente: Tvättbjörn, nella lingua dei fiordi, è traducibile come procione comune; almeno gli ha detto meglio di altri figli dei Cömmstaj, a cui è toccato chiamarsi Ragno o Mosca, ma in norvegese. Scarse sono, invece, le informazioni riguardanti la stirpe di cui il babbano porta il cognome: poco comune, nuovo nel comune del Vestland, ma sicuramente più noto dato il quantitativo di giovani leve che lo portano come condanna. Per quanto, nonostante tutto, ami il proprio nome – soprattutto data la sua unicità, l’insita impossibilità ad essere confuso con altri in quel di Londra od Hogwarts –, Tvättbjörn è più solito presentarsi come Twat, diminutivo trovato per lui da altri che avevano troppa difficoltà a cimentarsi con il linguaggio nordico.
    data & luogo: Gli aneddoti familiari narrano che non fosse previsto: i coniugi, in attesa del loro quarto figlio, non avevano mai fatto dei veri e propri controlli riguardo quella gravidanza. Giusto quelli strettamente necessari, ma era sempre una toccata e fuga; come potevano sapere che non ci fosse solo una bestia a nutrirsi della matriarca, ma bensì due? Certo, non potevano – lo scoprirono direttamente quando il primo disgraziato, Björn, fu espulso dal corpo di Agnes ed il medico disse loro che, herregud!, c’era un’altra testolina lì, a fare capolino. Erano le 07:04 del 22 dicembre del 2003, nel minuto esatto in cui il solstizio d’inverno aveva luogo, quando i gemelli vennero al mondo in quel di Molden, un piccolo comune dimenticato da Dio e dalla stessa contea del Vestland. E sarebbe stato tutto vero, se solo Tvättbjörn ed il gemello – come la stragrande maggioranza degli altri fratelli, escluso Edderkopp – non fossero stati adottati, o per meglio dire trovati, anziché essere stati partoriti.
    razza: Babbano fino al midollo, Tvättbjörn Cömmstaj, ed in qualsiasi vita egli abbia vissuto: nessuna discendenza magica a poter istillare il dubbio di un gene sopito, nessuna generazione spontanea di poteri da mezzosangue nato babbano; nulla di nulla. Se non fosse stato trascinato nei Laboratori, probabilmente avrebbe vissuto e sarebbe morto felicemente come tale.
    potere: Emocinesi, la capacità di manipolare il sangue proprio ed altrui a proprio piacimento; per il Cömmstaj, una vera e propria maledizione. E non soltanto per i diversi disturbi che ha portato con sé: soprattutto, anzi, perché la gente continua a chiedergli se, per caso, al sole brilli come il professor Quinn. Giusto per informazione, la risposta è no.
    allineamento: Twat non si identifica in nessun allineamento – dal momento che, a dire il vero, l’unico a cui potrebbe essere interessato è quello planetario ed al quale, essendo nato troppo presto di quattrocento anni (o troppo tardi di millecinquanta), purtroppo non potrà mai assistere. Si ritiene neutrale, ancora troppo estraneo al mondo magico per poterlo analizzare da un punto di vista più razionale; a voler essere onesti, nemmeno gli interessa più di tanto.
    istruzione: Purtroppo, la vita grama gli ha impedito di conseguire gli studi che più avrebbe potuto approfondire – ingegneria aerospaziale, così da potersi costruire uno shuttle monoposto con cui lanciarsi nello spazio e non fare mai ritorno sulla Terra. In compenso, una volta uscito dai Laboratori, gli è stata donata una casacca viola ad Hogwarts ed una bella spilla a forma di lira, che lo colloca tra le file dei Vega, negli Ivorbone.
    Semplice, ordinario: basterebbero davvero questi unici due aggettivi per descrivere fisicamente Tvättbjörn Cömmstaj. Magari poteva non esserlo a Modalen, Norvegia, dove lo standard era fissato sull’individuo alto, chiaro come un raggio di luna, con fili dorati al posto dei capelli e zaffiri o smeraldi nei bulbi oculari – ma anche lì la propria famiglia era sempre un po’ stata l’eccezione alla regola, tanto che spesso e volentieri gli veniva chiesto da dove si fossero trasferiti i genitori e tutto il resto della mandria.
    Non c’è nulla nell’estetica dell’emocineta che enfatizzi la sua presenza tra la folla, ed è sempre molto propenso a nascondersi dietro felpe più lunghe e larghe di lui pur di mimetizzarsi al meglio, piuttosto che risultare appariscente in alcun modo possibile; semplicemente perché non si confà all’indole del giovane, di per sé discreto ed anonimo. D’altronde, dovrebbe davvero esagerare per mettersi in mostra – e già ritiene che il portare un orecchino e tutti quei gingilli ai polsi sia eccessivo in tal senso –: alto appena un metro e sessantotto, Twat ha sempre dovuto preoccuparsi maggiormente delle gomitate in faccia casuali che non del fatto nessuno lo notasse; si sarebbe fatto considerare per i propri meriti, prima o poi, e non perché alto nella media o poco più.
    L’incarnato olivastro era forse ciò che più poteva richiamare l’attenzione altrui, ma solo se si pensava alle sue origini nordeuropee: i tratti meridionali, dal taglio degli occhi al colore degli stessi – di una morbida tonalità tra l’ebano ed il cioccolato fuso, caldo più di quanto Tvättbjörn avesse mai compreso in due intere vite, e più espressivi di ogni parola uscita dalle labbra del ragazzo o delle smorfie a tirarne la pelle –, alle sfumature di castano più soffice tra i bruni capelli mossi, scuri quanto le folte sopracciglia, finanche alle labbra piene, carnose; nulla di tutto ciò, potrebbe ricondurlo alla penisola scandinava. Il fisico è fin troppo asciutto, privato di un’adeguata nutrizione per sette anni, ma tonico quanto basta da non essere spazzato via da una violenta folata di vento – seguiva lezioni di ballo durante la propria infanzia, ed il tenersi in allenamento durante la prigionia lo aiutava a non uscire fuori di testa.
    Alla fine, potrebbe tranquillamente passare invisibile ed inosservato; uno come tanti, nascosto senza doversi celare – e va bene così, fintanto che gli consenta di sopravvivere.
    (fam: tvättbjörn cömmstaj) Agnes e Sal-Hund, meglio noti come la Matrona e l’Uomo, sono le due Entità che hanno allevato il biondo ed i suoi fratelli – anche definiti genitori dagli altri; Løve, Edderkopp, Mygg – i fratelli (e sorella) maggiori: gente decisamente troppo strana, a volte piacevole ma nemmeno troppo – ; Björn, il presunto fratello gemello ma con il quale, nonostante di sangue non ne condividessero nemmeno una singola goccia, aveva sempre avuto un legame speciale ed unico; Sauer, Geit, Esel, conosciuti come le bestie minori – ma non per questo, le meno problematiche. Fun fact: per quanto ne sapeva Twat, erano tutti morti. (2043!fam: dexter chesterton stilinski-milkobitch) Suzanne e Ken Chesterton, i genitori biologici di Dexter – due comunissimi saccheggiatori babbani, che durante il sesto anno di vita del figlio hanno ben pensato di abbandonarlo in un camioncino a fare l’hacker improvvisato, facendosi uccidere in una rapina andata male. Jeremy Milkobitch e Andrew Stilinski hanno senza dubbio fatto più da genitori, adottandolo, di quanto non abbiano fatto quelli naturali. Levi (Mckenzie Hale), suo coetaneo e come lui adottato dai #bitchinski, è uno tra gli esseri umani preferiti da Dex, se non il preferito: non lanci i tuoi fratelli - Sander (Barnaby Jagger), Juno (Reagan Lynch), Ray (Zachary Milkobitch), Julie: vi si vuole bene - da una catapulta con una persona qualsiasi. E poi ci sono un sacco di cugini. (animals) escludendo parenti vari e di cui non sa l'esistenza? okay. Una stupida capra, e nemmeno sua. Alejandro Pastina era la Bestia di suo fratello e di Roan – di chi altri poteva essere, con un nome simile? – ai loro tempi di Hogwarts, e che disgraziatamente è passata in eredità al babbano ed a Willow Beckham. Tra le abilità dell’ovino, troviamo: la capacità di rompere il cazzo a qualsiasi ora; l’espulsione di feci poco profumate sui letti di poveri disgraziati qualsiasi; raccapriccianti urla nel cuore della notte e nel buio più totale. Il Cömmstaj, convinto che Björn sia morto, è alquanto certo che Pastina sia posseduta dallo spettro del defunto gemello, tornato dall’aldilà solo per tormentarlo fino alla fine dei propri giorni. Fortuna che quella di Twat non è una lunga aspettativa di vita. (particular signs) Tvättbjörn è cleptomane da che possiede una memoria cui attingere: un’ossessione, un disturbo nevrotico, che ha dal momento nel quale ha imparato a stare in piedi ed a manipolare gli oggetti con facilità, piuttosto che affidarsi ad una blanda e semplice prensione. I motivi gli sono ancora oscuri; forse un feedback della sua vita passata, nella quale era stato allevato come un piccolo ladro ed in cui aveva usato certi insegnamenti per sopravvivere fino a che qualcuno non gli aveva mostrato potesse fare meglio di così – essere meglio di così. Quel che è assai più probabile, se non certo, è che s’incastra perfettamente con quel principio di disturbo antisociale della personalità che, dal tardo duemiladiciotto, ormai lo attanaglia sempre più marcatamente – non abbastanza da essere completamente invalidante, o diagnosticabile alla giovane età di sedici anni, ma comunque presente. Si definisce asessuale, mancando di qualsiasi impulso che contraddistingue invece la stragrande maggioranza dei suoi coetanei, nonché agnostico: avendo una mente che fa affidamento al metodo scientifico per ogni aspetto dell’esistenza, ritiene semplicemente di non avere abbastanza prove concrete né per credere in una fede piuttosto che in un’altra, né per affermare con assoluta certezza l’inesistenza assoluta di una qualsiasi divinità. Ciononostante, è fortemente affascinato dall’occulto, e se c’è da prendere parte a qualche rito – che sia satanico o meno, fa differenza fino ad un certo punto –: tutta colpa dei norvegesi da cui proviene. È un discreto collezionista, che ben si abbina al furto frenetico ed incondizionato; al momento, ciò che più lo affascina sono i coltelli di ogni genere e forma – e c’è chi dice addirittura ne abbia fin troppi –, i gioielli e la bigiotteria – in particolar modo, anelli e bracciali. Ha una cicatrice che gli percorre il busto da poco sopra lo sterno fino all’ombelico, nell'inquitante forma di una runa che non ha interesse di studiare. Ama la danza in ogni sua forma e stile, potrebbe tranquillamente cimentarsi in ogni tipo di ballo con facilità; l’unica in cui eccelle, però, è quella moderna.
    blood's thicker
    “Du er annerledes.” tre parole, scandite con estrema semplicità e naturalezza, ogni volta che da più piccolo alzava il capo a cercare gli occhi della madre – senza mai trovarli; facendosi per forza di cose bastare la larga schiena della donna impegnata in chissà quale attività casalinga: il massimo che aveva mai ottenuto da lei erano stati sguardi vaghi da sopra la spalla, ma mai veri o realmente rivolti al Cömmstaj. Se non fosse sempre stato così attento ai dettagli, minuzioso non solo nei gesti ma anche nelle occhiate rivolte ad un intero mondo da scoprire e conquistare, avrebbe potuto chiedersi quali fossero le sfumature dell’iride di Agnes senza mai riuscire a trovare una risposta. Se Tvättbjörn avesse considerato l’accontentarsi come una valida alternativa nella propria vita, se non ci fosse stata quella cocente ambizione e fervente curiosità ad alimentare ogni suo anelito di fiato, sarebbe probabilmente rimasto soddisfatto – come il resto dei suoi fratelli – delle attenzioni e premure che i genitori davano loro tutti, ritenendole genuine e spontanee. Ma uno dei migliori pregi, nonché forse il peggior difetto che potesse mai ambire d’annoverare nella lunga lista delle proprie imperfezioni, era proprio quell’insoddisfazione che non gli permetteva, in alcun modo possibile, di bearsi di quel che l’occhio vedeva; doveva, deve continuamente, scavare sempre un po’ più a fondo per raggiungere le vette più alte – su cui mettere lo stendardo di una nuova occupazione, o dalla quale osservare meglio il creato.
    Per questo quelle singole tre parole non avevano mai sorbito davvero alcun effetto in Twat: di essere diverso, l’aveva sempre saputo; strano dicevano alcuni, ma non gli importava. Lo aveva capito quando si era messo in piedi per la prima volta, a dispetto di un Björn che a malapena aveva compreso di avere delle appendici alla fine di quei salsicciotti che volgarmente considerava gambe; nell’istante seguente, l’epifania era divenuta un dato di fatto – consolidata, se non altro, dagli sguardi sorpresi ed allibiti dei vari Cömmstaj presenti alla sua prima corsa camminata verso le braccia aperte del padre. Di non essere come tutti gli altri, ne era felice. Se ciò significava che a differenza loro non riusciva ad accontentarsi di quel che gli veniva posto davanti, ma aveva la costante e fremente necessità di allungare la mano verso quel che teneva il suo vicino – non per gelosia, ma per semplice piacere nello scoprire cosa ci fosse di diverso dal suo, nel conoscere profondamente tutte le varie sfaccettature della realtà che non si confinavano ad una vista con il paraocchi –, a lui andava bene essere quello strano. Disinteressato alle normali attività dei suoi coetanei perché più avanti di tutti loro; non più intelligente quanto più sagace e lungimirante, più svelto nell’apprendere e nel capire il funzionamento del mondo; scientifico al limite dello snervante, sempre pronto a sperimentare a costo dell’etica e del buonsenso pur di annoverare un altro successo nella propria lista di vittorie. Se significava essere un emarginato, se tutto questo giustificava gli sguardi mancati con gli altri ragazzi quando era lui ad alzare il capo – solo per poi risentirli puntati contro la nuca mentre era lui a distoglierlo –, poteva farselo andar bene.
    Poteva, tutto ciò, oscurare quanto di negativo ci fosse nell’essere trattato come un utstøtt sin da bambini, e dalla propria famiglia. Poteva fingere di ottenebrare – ed addirittura riuscire a farlo, almeno in alcuni casi – tutti i lati svantaggiosi di quell’incontentabilità, dai motivi scatenanti agli effetti provocati.
    Come, ad esempio, quel senso di solitudine perenne che lo rende bisognoso di affetto e attenzioni che non vuole: non li cerca, né l’uno né le altre, perché non ha alcuna idea di come farlo. Non sa come guadagnarseli, perché sente di non essere capito il più delle volte; non sa come rapportarcisi, perché nessuno glielo ha mai spiegato. Autonomo da quella prima volta in cui si è reso migliore tra gli altri, Tvättbjörn Cömmstaj non è mai più stato considerato come qualcuno a cui andassero spiegate le cose basilari – come essere sociali, per dirne una. Come inserirsi in un contesto che prevedesse interazioni che non si basassero unicamente sulla scienza, quanto più sulla connessione umana; come essere in grado di rapportarsi all’altro.
    Erano tutte cose che, per quanto ne leggesse e ne avesse letto al riguardo, il giovane Cömmstaj sentiva di non comprendere – d’altronde lo dicevano tutti, che non erano argomenti che potessero essere studiati solamente nella teoria; nella pratica, ne era sempre stato carente. Prima perché troppo distante, poi perché troppo isolato: se in partenza Twat non era mai stato davvero stimolato dai propri genitori ad intraprendere dei rapporti interpersonali, sentendosi allontanato dagli stessi tranne quando avevano da premere su quei punti del suo intelletto per cui risultava importante, la reclusione forzata all’interno dei Laboratori non ha fatto altro che renderlo ancora più solitario, incapace anche solo di dire se ci sta provando.
    Fondamentalmente, il norvegese non può definirsi né buono né cattivo – certo che comunque non esista nessuno dei due estremi e solo sfumature tra loro. Si colloca nel mezzo, in quella sottile linea di perenne crepuscolo, perché troppo consapevole di se stesso: è quel tipo di persona che punta sempre al premio più alto, perché sa di essere il peggiore; sa di non essere prevedibile, non più, nemmeno al proprio sguardo riflesso nel vetro, per cui l’idea di non doversi standardizzare ad alcun canone lo fa vivere meglio – per quanto concesso. Ma forse deve anche a questo suo aspetto, la capacità di adattarsi a qualsiasi situazione gli venga posta davanti.
    Può essere tutto e può essere nulla, Tvättbjörn Cömmstaj.
    Di solito, sceglie di esserli contemporaneamente – come un maledetto gatto di Schrödinger.
    21.12.2012

    «nome e cognome,» il giovane norvegese cercò di sporgersi, sollevando entrambe le castane sopracciglia in direzione dell’uomo – ragazzo, per la precisione – con il camice; dati i diversi cavi che lo collegavano ad un macchinario che non aveva mai visto in precedenza, e che lo costringevano contro la sedia d’acciaio inossidabile, la sua fu una pretesa stupida: poté a malapena portare in avanti l’esile busto, senza minimamente riuscire ad avvicinarsi.
    Alla sua richiesta, Tvättbjörn Cömmstaj non rispose: perché avrebbe dovuto? Non gli era concesso parlare agli estranei, e anche se così non fosse stato aveva abbastanza buonsenso, malgrado la tenera età, da non fidarsi ciecamente di uno sconosciuto in una stanza sterile ed asettica. Si limitò a spingere le spalle contro il duro schienale, un velo d’incertezza e dovuto timore a piegargli le labbra in un broncio infantile; le iridi celesti, però, non lasciavano mai il profilo dell’adulto.
    «allora?» deglutì. Gli faceva male la testa; gli facevano male le braccia e le gambe, e qualcosa – sesto senso, o semplice intuito – gli suggeriva che quel dolore non era che l’inizio di una terribile esperienza. Magari, rispondendo, avrebbe fatto finire tutto molto più velocemente: se avesse detto a quel tipo quel che voleva sapere, magari l’avrebbero rimandato a casa dalla sua famiglia. Purtroppo per lui, era troppo sveglio anche soltanto per crogiolarsi nelle vane speranze di un bambino: «lo sai» masticò quelle due parole in inglese come fossero un pasto troppo stoppaccioso tra i denti, distogliendo debolmente lo sguardo. Il dottore – o infermiere, o ricercatore, o quel che era – tentennò, guardando verso la parete alle proprie spalle.
    «s-sì, ma devi dirmelo.» «perché?» una delle prime parole che aveva imparato a pronunciare in ogni lingua possibile: fosse mai che le barriere linguistiche potessero fermare la sua curiosità. «perch酻 si morse le labbra e sospirò, già arreso, allontanandosi un secondo per far poi stridere le gambe di una sedia verso il centro della stanza; gli si sedette di fronte, abbandonando la cartellina sul proprio grembo: sembrava aver già capito che quel colloquio gli avrebbe portato via loro molto tempo. «devo accertarmi tu lo ricordi, ok? che tu non abbia… traumi, ecco. ci stai?»
    Che non avesse… traumi. Perché mai avrebbe dovuto? Non capitava a tutti i bambini di 8 anni e 364 giorni di venire cloroformizzati e rapiti durante una cena di famiglia, mentre avevano il solo compito di recuperare del fieno ed un capretto dalla stalla così da adempiere al sacrificio che Freya meritava per il nono compleanno di due gemelli? Ah no? Assurdo. Allora si strinse tra le spalle, squadrando con un accenno di sfida l’altro: «tvättbjörn cömmstaj». Ovviamente il dottore non lo trascrisse, rimanendo con le labbra dischiuse a fissarlo – probabilmente, maledicendo chiunque lo avesse mandato lì dentro a prendere le generalità del bambino senza nemmeno un briciolo d’informazione basilare. Angelico com’era sempre sembrato ma mai stato, il ragazzino gli sorrise innocentemente, senza nemmeno pensare di avere la premura di ripeterglielo – fosse mai scriverglielo; non che potesse, date le corde a legarlo, ma non lo avrebbe comunque fatto. «mh, ok…» «scarabocchi?» con un cenno della testa, gli indicò la cartellina – dove era evidente che, al posto del suo nome, aveva fatto dei ghirigori privi d’alcun senso o scopo; contento lui. «cos- nO.» sì, certo. «ascolta, sai perché sei qui?» Twat aggrottò le sopracciglia, e piegò appena la testa di lato per espletare in pieno la propria confusione; naturalmente, non ne aveva alcuna idea. Gli ritornò alla mente l’altro bambino con cui si era brevemente incrociato quando aveva ripreso conoscenza: sembrava provato, stanco – ferito. Non sapeva perché fosse lì, non voleva davvero saperlo, ma era alquanto certo non fosse una gita di piacere.
    «no» mentì con voce tremula; perché una parte del giovane Cömmstaj sapeva, ma non aveva la parole adatte per esprimersi.
    «meglio così», rispose invece il dottore – Zeke, avrebbe poi scoperto il suo nome –, non sentendosela di dire una bugia al ragazzo.

    16.06.2018

    Erano passati cinque anni, cinque mesi e venticinque giorni da quando aveva fatto la conoscenza dei Laboratori, e da allora Tvat (così lo chiamavano i Dottori, sempre troppo affaccendati per ricordarsi che il quattordicenne avesse un nome completo) aveva visto entrare ed uscire un discreto numero di residenti come lui – chi più grande, chi della sua stessa età; raramente più piccoli. Aveva avuto ben dodici coinquilini, che solitamente parlavano, piangevano o si muovevano troppo per i suoi gusti, ma di pochi di questi ricordava la faccia, o il nome: la metà era morta durante il soggiorno nel Residence degli Orrori, l’altra era stata o Schiantata o Obliviata prima di essere lasciata libera di andarsene – Dio solo sapeva dove – e a lui veniva suggerito di dimenticarsene, cosa che non mancava mai di fare. Se non lo aveva già capito nel momento in cui era stato rapito, l’aveva fatto tre anni più tardi quando gli era stato detto che la sua famiglia – tutta, da Björn a quella bestia di Edderkopp, fino al più piccolo Esel – erano stati uccisi, chi a Modalen chi altrove: tutto era effimero, e così lo sarebbero stati i suoi stessi ricordi o forse la propria vita. Se non gli avessero cancellato la memoria prima di farlo andare via, sarebbe stato unicamente perché da lì non ci sarebbe mai uscito. Ogni iniezione faceva più male, ed ogni elettroshock era talmente più potente da lasciarlo stordito per ore ed ore: in tutto quel tempo gli esperimenti su Tvättbjörn Cömmstaj non avevano mai prodotto alcun esito, ed era sempre più convinto che il prossimo sarebbe stato l’ultimo.
    Così, quando Zeke gli disse che lo avrebbero spostato in un altro appartamento, non esultò né protestò. Prese i suoi pochi averi (qualche cambio all’ultima moda made in lab, ma soprattutto libri: era un abitante stabile e con un certo grado di anzianità, aveva dei privilegi) e lo seguì lungo quel labirinto di corridoi e stanze. In tutti quegli anni aveva imparato ad affezionarsi al Dottore, e sapeva che anche questo gli volesse bene – era buono, nonostante tutto e soprattutto se paragonato al resto dell’entourage, e sapeva che fosse sempre una sua premura quella di far spostare l’ormai quattordicenne per fargli avere compagnia, sebbene al sistema importasse poco o niente di chi fosse in isolamento e di chi condividesse la cella –, ma ogni volta che lo faceva spostare gli veniva voglia di ucciderlo. «Perché non fai venire direttamente da me i nuovi?» domandò, con l’accento nordico a smussare l’inglese che aveva imparato.
    Zeke parve non sentirlo, e piuttosto fece scivolare il proprio badge sul sensore di una porta. «Tvättbjörn Cömmstaj, ti presento Garrison Gates…»
    «Posh,» lo corresse subito il ragazzo, ancora mezzo addormentato e steso al buio sulla sua brandina. Twat rimase al proprio posto, senza minimamente scomporsi. «Gates come quelli della Microsoft?» fu il suo unico commento, dopodiché lanciò un’occhiata al dottore ed andò ad occupare il letto ancora libero dall’altra parte della suite. L’altro mugugno in assenso.
    Ci rifletté sopra qualche istante, poi decise di liquidare la questione con un secco «okay», prima di sdraiarsi e riprendere a leggere da dove aveva lasciato. Non gli interessava davvero chi fosse o chi fosse la sua famiglia, ma immaginava che per circostanza dovesse farlo; in ogni caso, prima o poi si sarebbe dimenticato anche di lui.
    «Garrison Gates, ti presento Tvättbjörn Cömmstaj.»

    21.12.2018

    Lo sguardo di Twat guizzava dalle spalle del dottore che era stato costretto a seguire alla propria stanza, dove aveva lasciato un Posh confuso quanto lui sulla porta.
    «Dove stiamo andando?» gli domandò, senza ricevere alcuna risposta. Nel giro di qualche ora – qualche minuto – avrebbe compiuto quindici anni, nonché sei da quando era stato rapito e portato lì dentro, ed a quel punto aveva bene o male capito chi lavorasse lì per puro sadismo e chi invece perché realmente credeva in un mondo migliore, in una risoluzione alle disparità che affliggevano la società magica: per le torture a cui era sottoposto avrebbe dovuto, eppure non riusciva a condannare realmente tutto il personale dei Laboratori.
    Ralph Adler, l’uomo che lo aveva interrotto quella sera, apparteneva senza dubbio alla prima categoria; per di più, era uno tra gli esseri umani più odiati dal Cömmstaj – una classifica colma di nominativi a dire la verità, ma sul podio il cinquantenne era presente. Non soltanto era un sadico bastardo, ma aveva anche uno strano luccichio negli occhi neri che trasudava cattiveria pura ogni volta che toccava a lui divertirsi con le cavie. Non un briciolo di pietà o compassione, né rimorso, ma quelle erano cose che avrebbe potuto leggere negli occhi di chiunque vestisse un camice dentro quella struttura: immaginava, il ragazzo, che ad un certo punto anche il più tenero dovesse diventare insensibile davanti agli Esperimenti, per non avere un crollo nervoso tre volte al giorno. In Adler c’era… altro. Come se fosse lì per fare del male e basta, senza un vero scopo a muovere bisturi ed elettrodi – di certo, non scienza o progresso.
    Ripeté la domanda quando svoltarono l’angolo, ignorando una prima sala operatoria.
    Lo fece di nuovo, quando non entrarono nella sala dei macchinari (per quanto fosse giovane e soltanto carne da macello, aveva un indiscutibile dono nei confronti della meccanica, e non era passato inosservato: allo staff, faceva sempre comodo qualcuno che aggiustasse le cose per loro senza doverlo pagare).
    Deglutì, e quando domandò per la quarta volta la loro destinazione lo fece con una certa, aliena preoccupazione a gravargli nel petto, gli occhi chiari puntati su quella che aveva tutta l’aria d’essere una via d’uscita da quell’inferno. Questa volta una risposta giunse, ed a quel puntò Twat comprese che non stava per essere liberato come aveva brevemente osato immaginare: dopotutto non erano ancora arrivati a nessun risultato con lui, sarebbe stato stupido sbarazzarsi di lui in quel modo.
    Arrivò sotto la forma di una parola in latino e di un lampo di luce scarlatto, accompagnati da un ghigno sul volto glabro e, poco dopo, dal buio più totale.

    Quando riprese totalmente conoscenza, sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime che non ebbe modo di versare. Non per la paura, per quanto alzando il capo sarebbe stato naturale essere terrorizzati: una dozzina, forse più, di individui incappucciati teneva delle fiaccole tra le mani, ed erano disposti in cerchio attorno a dove si era svegliato; a terra, sicuramente tramite la magia, erano stati disegnati dei simboli all’interno di un cerchio (simboli che non riuscì a riconoscere, ma che dubitava fortemente non avessero a che fare con dei rituali: aveva passato troppo tempo a guardare Sal-Hund sgozzare capretti per ingraziarsi Freya per non sapere certe cose). Non che non fosse spaventato, ma quella che pungeva gli angoli delle palpebre era sincera emozione. Gioia, quasi. Non vedeva un cielo stellato da così tanto che non era più certo di ricordarsi come fosse fatto, così come temeva non avrebbe mai più sentito il vento carezzargli il volto e scompigliargli i capelli chiari; sensazioni alle quali non credeva di essere mai stato tanto attaccato fino a quel momento.
    Si guardò attorno, sebbene ogni fibra del corpo e tutto il proprio buonsenso gli suggerisse di chiudere gli occhi ed aspettare che, qualsiasi cosa fosse, finisse – in un modo o nell’altro. Ma per Tvättbjörn era impossibile non essere spettatore, anche se impossibilitato a partecipare in prima persona: doveva sapere, doveva conoscere.
    Sapeva che di avere una ragazza accanto, sdraiata nella direzione opposta alla sua: poteva vederne solo il viso, il profilo, ma non aveva la certezza che anche lei fosse legata a terra come aveva scoperto di essere lui.
    Sapeva, appunto, di non poter muovere liberamente gambe e piedi, ma non capiva se per funi reali che lo incatenavano o se a causa della magia.
    Sapeva di avere nove persone nel proprio campo visivo, quindi dovevano essere minimo il doppio di quel numero.
    Sapeva che fosse notte, e che probabilmente si trovavano in una radura in qualche bosco dimenticato da Dio e dagli uomini.
    Sapeva che erano circondati da fuochi fatui, e che i mormorii che presto iniziarono a cantilenare le figure incappucciate né promettevano nulla di buono, né erano in una lingua che il norvegese avesse mai studiato.
    Sapeva di essere nella merda, ma non il perché.
    Non che, ad ogni modo, avesse il tempo di scoprirlo. Evitò di domandare alla ragazza chi fossero – una setta – o cosa stessero facendo – un rito –, o tanto meno il perché; erano tutti quesiti ai quali egli stesso poteva darsi una risposta, o ai quali sapeva che nessuno dei due potesse averne. Perciò, quando si volto nella sua direzione, lo fece solo per chiederle chi fosse.
    «Reggie. Tu?» rispose in un sussurro, udibile solo grazie alla vicinanza tra le loro teste: il vociare dei cultisti si era fatto più intenso, ed il vento aveva iniziato a turbinare così forte da fischiare nelle orecchie. Annuì, come se avesse importanza scambiarsi i nomi in quel momento. Non ne aveva, ed in realtà non era certo gli interessasse davvero sapere nulla di Reggie – eppure, sorrise. Una piega amara, gli occhi più umidi, e senza conoscerne il motivo. «Twat.» che ne poteva sapere, lui, che fosse sua sorella la coprotagonista di quell’orribile situazione?
    Quando Adler li raggiunse, il viso appena visibile alla fioca luce delle torce e sotto il cappuccio, lo fece con un coltello strano: una manifattura antica, quelle che credeva essere rune disegnate sia sul manico che sulla lama. Non si era reso conto di essere senza alcun indumento fino a quando la punta d’argento non aveva incontrato la carne del petto, spingendo così tanto da tagliarla e sporcarsi di sangue e bruciare e farlo desiderare di urlare con quanto più fiato avesse nei polmoni – cosa che non fece, serrando soltanto la mandibola e le palpebre, sapendo che tanto nessuno l’avrebbe mai sentito gridare. Strinse così forte da far male, e smise solo nel momento in cui la lama finalmente si scostò dal suo ventre. Aveva il cuore in gola con il battito estremamente accelerato, il respiro affannato da chilometri di corsa che non aveva mai fatto, e per quanto potesse voler alzare il capo per guardare cosa gli avesse fatto quello psicopatico, tutto ciò che vide attraverso lo sguardo appannato fu sangue. Tanto sangue.
    Sangue che cominciò a scivolargli addosso, cadendo a terra ed andandosi ad insinuare nelle rune disegnate in precedenza, splendendo di uno scarlatto così intenso da illuminare la zona più dei fuochi fatui. Lo osservò scorrere come un fiume in piena, sentendo la testa già pesare del trauma e dell’emorragia, e quando sentì gridare Reggie lo fece distante, sovrappensiero, ma si voltò comunque.
    Non sapeva dire se fosse peggio di ogni altra tortura per la quale era passato negli ultimi sei anni, ma si avvicinava parecchio al podio: forse, si disse, tra un po’ lo scoprirò.
    La terra, bagnata dal sangue della ragazza, iniziò a tremare. Le fronde sopra le loro teste cominciarono a muoversi forsennate, così come anche il circolo di spettatori tutt’attorno. Le voci si fecero distorte e gravi, come se provenissero da un altro mondo.
    Magari era tutta una sua impressione, un’allucinazione.
    Come la voce di Adler, appena un sussurro, ora inginocchiato al suo fianco.
    «Non sei contento? Ti ho regalato una lezione di alchimia, dovresti ringraziarmi.» fece per rispondergli, per mandarlo a farsi fottere, ma quando il coltello tribale gli venne conficcato nel ventre il fiato gli morì in gola, soffocato da altro sangue a salire fino alle labbra. «Buon compleanno, Tvättbjörn.»

    22.12.2018

    «T-twat?»
    Alzò lo sguardo, ma non vide davvero molto. Doveva essere sorto il sole da poco, dato il chiarore che filtrava tiepido tra le foglie, ma non lo aiutava più di tanto: aveva la vista appannata, ed i capelli che gli cadevano davanti gli occhi complicavano ancora di più. Respirava pesantemente, aveva freddo, si sentiva appiccicoso, ma soprattutto la testa pulsava come un fottuto martello pneumatico. Da un momento all’altro, e di ciò era abbastanza sicuro, gli sarebbe esplosa.
    Non aveva riconosciuto la voce che l’aveva chiamato, ma aveva sentito i passi concitati a schiacciare le foglie, sebbene il tutto fosse ovattato; quando sentì un tonfo davanti a sé, riconobbe Zeke – uno Zeke terrorizzato, per la precisione, che tremava per entrambi.
    Quando gli strinse le spalle, trovò la forza di vederlo meglio. Di vedere meglio tutto: il proprio corpo, nudo e macchiato di scarlatto, così come lo erano le mani; l’erba che premeva sotto le proprie ginocchia e sotto quelle del Dottore; il sangue. Oh, quanto sangue. Piegò appena la testa, e subito riprese a fargli male qualsiasi cosa oltre alla testa: non aveva mai visto così tanto sangue, né così tanti corpi riversi a terra privi di vita, e – «hey.»
    Gli prese la testa tra le mani, facendolo tornare con gli occhi su di sé. Non chiese nulla, ed il Cömmstaj ne fu molto felice, anche perché non avrebbe saputo cosa rispondere oltre a non averne la forza.
    «Reggie...» mormorò soltanto contro il suo petto, accorgendosi solo in quel momento che lo stava abbracciando. Assaporò la densità del sangue sulla lingua, ma non poteva immaginare che non fosse soltanto il suo. «Aiutala...»
    Quando Zeke chiese di chi stesse parlando, Twat era già svenuto.

    25.12.2018

    «Buon Natale – credo?» Twat aprì gli occhi, e ci mise un po’ a capire che era Posh a parlargli, seduto sul suo materasso. «Merda, sono tre giorni che dormi, pensavo non ti saresti più svegliato.» Provò a mettersi seduto, ma rinunciò subito dopo.
    Faceva ancora male – il petto, il ventre, le gambe, la testa.
    E lì, sdraiato su una brandina che ormai era casa sua, sentendosi più al sicuro con il Gates al suo fianco di quanto avesse mai potuto pensare, iniziò a piangere come non aveva mai, e non avrebbe più, fatto.

    01.07.2019

    «hO uNa LaUrEa!!!» «in cosa, stronzate avanzate?» Tvättbjörn Cömmstaj, occhi celesti spalancati e sopracciglia sollevate, scivolò sul carrello d’acciaio più scomodo che avesse mai provato – non che, negli ultimi quattro anni passati all’interno dei laboratori, avesse avuto l’ebbrezza di poterne montare uno più ergonomico e meno spacca schiena – per permettere alla testa di fare capolino oltre al macchinario, l’olio del motore di quella cosa (qualsiasi essa fosse, al norvegese non era dato saperlo) a macchiargli da cima a fondo il camice pallido. Armando («mi chiamo zeke, porca troia. zeke!!!, come fai a sbagliare così tanto??» «herregud, armando, calmati») stava evidentemente perdendo le staffe, ed il sedicenne non riusciva davvero a comprenderne il motivo. Lo stava liberando di un sacco di lavoro, ed il tutto gratuitamente – avrebbe soltanto dovuto ringraziarlo, anziché alterarsi nei momenti in cui gli faceva notare quanto il proprio operato da ingegnere meccanico fosse andato a farsi benedire. Quando lo diceva, lo faceva per il suo bene: sebbene passasse metà del suo tempo lì dentro a fargli presente quanto fosse un incapace, sia come Dottore Estremista che come uomo di scienza, Twat si era affezionato al ragazzo ed alla troupe che quotidianamente lo sottoponeva a più test e prove di resistenza del dovuto. Davvero, davvero, non lo capiva perché ogni volta tutti loro parevano essere sull’orlo delle lacrime. «hai una laurea, armando, e non sei riuscito a capire che il fusibile si era staccato, e che il bullone centrale della centrifuga si era allentato quel tanto che basti a renderla semovibile» rotolò a terra, solo per arrampicarsi in un secondo momento sul macchinario e guardare all’interno del cestello. «praticamente,» alzò lo sguardo, puntando un’inquisitoria chiave inglese contro Armando e tutta la sua squadra. «siete riusciti a mandare a puttane ricerche alchemiche di chissà quanti anni e quanti pazienti, premendo un solo tasto. uno solo!!» sì che non aveva idea dello scopo di quella roba, ma ad un occhio attento e scientifico come quello del Cömmstaj era palese che doveva trattarsi di una sorta di estrattore microbiologico: non gli interessava cosa ci facessero, gli importava soltanto che lo avevano distrutto – o meglio, che non avevano saputo come aggiustarlo. «idioter tutto ciò che per lui aveva valore lì dentro, era la macchina stessa: dopodiché, potevano davvero gestirsela come gli pareva là dentro.
    Li vedeva farlo da quando aveva appena compiuto dodici anni, non gli avrebbe detto di smetterla: voleva continuassero, ma con i giusti mezzi. Ed era per quello che, nonostante avesse avuto l’opportunità di andarsene tempo prima, aveva deciso di non schiodarsi da quella base – aveva stipulato una sorta di patto con il direttore della divisione in cui era stato “imprigionato”: sarebbe potuto rimanere, solo se avesse continuato a sottostare ai loro esperimenti e se avesse impiegato le proprie conoscenze nell’ingegneria e la meccanica per aiutarli.
    Era passato un anno da quando gli avevano detto che doveva uscire, che lo avrebbero ricollocato in una struttura magica inglese, e lui aveva rifiutato di alzarsi, dicendo che si trovava così tanto bene lì dentro. Nove mesi, da quando avevano tentato nuovamente di scortarlo fuori dal Laboratorio per mandarlo in branco ad una società che non capiva, ed alla quale non voleva mescolarsi: non lo vedevano, che faceva fatica anche solo a parlare con i compagni di cella? Sei mesi, da quando nauseati dai suoi modi di fare – lo definivano arrogante e saccente, fastidioso come un dito ricoperto di sabbia su per il deretano, ma Twat non aveva mai compreso le loro ragioni: viveva in un mondo tutto suo, e per lui quello era un modo normalissimo di relazionarsi ad altri esseri umani – , Armando ed un’altra decina di suoi colleghi avevano provato a trascinarlo fuori con l’inganno. Fallendo miseramente: dopo quella volta, smisero di provarci realmente – qualche tentativo di liberarsi di lui persisteva, ma ingenting å gjøre.
    Zeke, con la testa abbandonata contro le sbarre ed un esaurimento nervoso a pulsare comicamente contro la tempia, glielo aveva chiesto quale fosse il vero motivo per il quale non voleva andarsene di lì. Era stato nel settembre dell’anno precedente, a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico e poco prima che provassero a farlo uscire di nuovo; la sua risposta, era stata la stessa che aveva dato al Dottore Capo.
    Forse non aveva una vita, quello lì, perché periodicamente tornava a chiederglielo: non riusciva a decifrare i suoi intenti, Twat, arrivando a sentirsi un esperimento sociale oltre che magico e scientifico. Una volta, per farlo contento, gli disse che quand’era piccolo avrebbe desiderato diventare un astronauta – un ingegnere, un macchinista; aveva tutte le carte in regola, sebbene fosse poco più che un semplice bambino – , ma che a quel punto immaginava di non avere più molte opportunità di andare nello spazio. Non era più un semplice babbano, ma non era nemmeno un mago come suo fratello: era uno stupido ibrido, e senza davvero una forma, senza un potere manifesto che gli permettesse di darsi un’etichetta. Non lo avrebbero mai lasciato libero di studiare, di partire, di andarsene davvero – ed a quel punto, allora, rimanere lì dentro a sistemare macchinari era il massimo che potesse immaginare per il proprio futuro a venire.
    Quando continuò a fargli domande, iniziò a dirgli che aveva rotto il cazzo.
    Voleva solo stare lì ed aggiustare cose, perché dovevano farla così difficile? «ma voi ci avete studiato pure per fare così male il vostro lavoro?» forse, per quello. «dovevate soltanto -» «shhhh» «- scUSA?» lo aveva appena zittito? «zitto un po’, 971» sì, lo aveva fatto. «qualcuno si è introdotto nel laboratorio» ma… «oh, quindi avete rotto anche il sistema d’allarme? du er veldig god» avrebbe anche iniziato a battere le mani, se non gli avessero puntato contro una bacchetta.
    Dopodiché, iniziarono tutti a disperdersi: Twat, rimase da solo con il suo bff4e.
    Udirono urla, tante urla, e per quanto fosse abituato a sentir strillare le altre cavie sapeva che quello era ben diverso.
    Stava succedendo qualcosa, e «twat, stavolta è meglio se scappi sul serio» cercò gli occhi scuri di Zeke, rimanendo però al proprio posto. «non voglio» «non è un’opz-» «non so dove andare»
    Quello, il vero motivo per cui non voleva andarsene.
    Lo avrebbero potuto sbattere nella famosa Different Lodge di Hogwarts, glielo avevano detto, ma non gli andava. Avrebbe potuto accettare, solo se avesse potuto rivedere Björn ed i suoi fratelli – ma non era uno stupido, e sapeva che nemmeno quella sarebbe stata una vera opzione.
    Erano in Norvegia, e lui aveva solo sedici anni ed una vaga idea di quanto lontana fosse dall’Inghilterra. Per quanto ne sapeva, la sua famiglia poteva essere morta – o non trovarsi più a Modalen, nei migliori dei casi.
    Uscito da lì, sarebbe stato da solo. Completamente, da solo.
    «facciamo che ci vediamo fuori da qui» e per la prima volta, vide il Dottore sorridere – quasi dolce ed amichevole, la piega sulle sue labbra. «ti aiuterò io.»
    Ma… successero cose.
    Molte, molte cose, dal momento in cui le loro strade si divisero.
    Tipo una ragazza con una katana ed un orsacchiotto, e «ernest?» morto dissanguato. «oh no.»
    «…perché ti stai buttando addosso il suo sangue»
    «precauzioni: penseranno io sia stato aggredito – DOVE ANDIAMO»
    Ovunque la ragazza strana lo stesse portando, comunque, fuori di lì non rivide Zeke.
    jake manley
    save your razorblades now, not yet



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    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> birthday:</span> SCRIVI QUI DATA E LUOGO DI NASCITA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> race:</span> SCRIVI QUI RAZZA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> power:</span> SCRIVI QUI POTERE SE SPECIAL
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> alignment:</span> SCRIVI QUI L'ALLINEAMENTO
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> school:</span> SCRIVI QUI ISTRUZIONE
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    <td><div style="float:left; height:71px; width:206px; background-color:#050505; padding:2px 5px; overflow:auto; font-family:lato; font-size:10px; line-height:13px; text-align:justify; color:#bbb">SCRIVI QUI L'ASPETTO FISICO</div><div style="float:left; background-color:#COLORE;text-align:center;padding:5px;width:70px;height:65px;color:#0C0C0C;font-size:20px;line-height:12px;"><i class="fas fa-ICON" style="padding:22px;-webkit-transform: rotate(90deg);"></i></div></td>
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    <td width="3px" rowspan="2"><div style="float:left; height:90px; padding:1.50px; background-color:#e5e5e5"></div><div style="float:left; height:60px; padding:1.50px; background-color:#050505"></div></td>
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