the words I most regret are the ones I never meant to leave unsaid

ft. Gaylord @ casa sua | preq 11

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    i berserker hanno la violenza nel sangue. scatenano la loro furia sul nemico con efferatezza, incuranti della propria salvaguardia.
    Seduta sulla sedia della cucina di un appartamento che non era il suo, eppure che aveva iniziato a sentire un po' casa in quelle ultime settimane, Dylan fissava un punto imprecisato oltre la finestra senza realmente mettere a fuoco ciò su cui le iridi chiare si posavano; aveva completamente dimenticato anche l'esistenza della tazza di caffèlatte che si era preparata, più come distrazione che per fame. Aveva perso peso, in quell'ultimo periodo, per la gioia di sua mamma e per la preoccupazione di tutti gli altri; aveva perso anche la scintilla gioiosa e malandrina che per anni l'aveva caratterizzata, anche (e forse soprattutto) nei momenti peggiori; quella che nemmeno il processo di Kiel, avvenuto forse quando lei era troppo piccola e influenzabile per capirlo davvero, era riuscita ad affievolire.
    La sparizione di decine di persone, di amici ed ex compagni, era stata invece più che sufficiente a incidere in maniera netta sull'esistenza di Dylan Kane e arrecare danno; la sparizione di Kaz, l'aveva distrutta. Poteva anche essersi diplomata, e aver lasciato una volta per tutte Hogwarts alle spalle, ma era ancora una furia, e lo sarebbe stata sempre; più di tutto, faceva parte di un duo impossibile da separare – o così aveva creduto –, un binomio scritto persino tra quelle perline colorate con cui la rossa, ora, giocava distrattamente. Kaz era sempre stata la sua metà, allo stesso modo in cui lo era anche Joni, o Thor, o Gaylord. Aveva tante metà, Dylan Theodora Kane; tutte importanti nella stessa misura, per motivi uguali o diversi che fossero. Sapere che Kaz, il suo Kazzino, fosse sparito e non aver potuto fare nulla, in quei primi giorni, l'aveva piegata; sapere che ci fosse la possibilità di andarlo a riprendere, e poi vederla sfumare e perdere anche altri, tra cui il suo prom king Giacomino, l'aveva infine spezzata.
    Se andava ancora avanti come un essere semi funzionale era solo per merito delle sue amiche, e di Gay, e di Akelei — quest'ultima, soprattutto, non le dava modo di respirare, figuriamoci pensare, e Dylan gliene era grata. Aveva già quei terribili momenti di silenzio in cui rimaneva da sola con i suoi pensieri ed era terribile; apprezzava che, almeno a lavoro, la Cacciatrice la tenesse abbastanza impegnata da non darle nemmeno il tempo di ricordare quale fosse il suo nome. Non avrebbe saputo come andare avanti, altrimenti, se non avesse avuto il lavoro ad occupare ogni singolo momento della giornata.
    Ma c'era anche il risvolto negativo del lavorare al ministero: quello di sapere prima degli altri, volente o nolente, cosa sarebbe successo. Non lo aveva capito subito, certo, troppo presa a combattere i cattivoni come Callie le aveva insegnato (bacino al cielo), e come Akelei si aspettava che facesse – troppo occupata ad occultare (e a trovare una spiegazione) per quelle morti inaspettate che avevano iniziato ad apparire dal nulla; ma quando era stato chiaro che i Sei (così venivano chiamati i sei ostaggi che erano stati in grado di scappare e far ritorno a casa) avevano informazioni utili che avrebbero portato alla possibile liberazione di tutti gli altri, allora era stato chiaro. Cristallino. Persino per Dylan.
    Ed era diventato il suo roman empire.
    C'era una possibilità; potevano ancora salvare i loro amici (Kazkazkaz) e riportarli a casa. Riabbracciare chi avevano perso, e assicurarsi che non sarebbero più andati via.
    Non era una ragazza da azione, Dylan Kane, e ci aveva messo un po' anche ad ingranare nel reparto cacciatori, ma era cresciuta in quell'anno; era cambiata, era maturata. Sapeva di avere dei limiti, così come sapeva di avere dei punti di forza: la sua lealtà e la sua dedizione, tratti che sicuramente avevano influito molto al tempo dello smistamento in tassorosso, erano più forti che mai in lei, così come lo era la determinazione di fare qualcosa. Troppo a lungo era rimasta in silenzio ad osservare tutto dalle retrovie, ma non poteva più farlo.
    Non quando sapeva, senza ombra di dubbio, che a parti invertite Kaz avrebbe fatto la stessa identica cosa — e molto prima di lei. Che amica terribile sarebbe stata, se non ci avesse almeno provato?
    Per questo, il giorno precedente, si era convinta a parlare finalmente con Akelei e chiederle il permesso di partecipare alla missione; era importante, per la Kane, avere la benedizione e il lasciapassare del suo capo, perché non voleva a) essere licenziata al suo ritorno, e b) deludere Akelei Beaumont.
    E la donna, quel permesso, lo aveva accordato.
    Ora rimaneva solo un ultimo scoglio, forse quello più difficile da superare: dirlo a Gaylord. Non era preoccupata che l'altro non capisse, perché sapeva che l'avrebbe sempre sostenuta in ogni sua scelta così come aveva fatto per tutto quel tempo, ma era preoccupata per quello che, la missione, avrebbe significato per il loro rapporto. E, più in generale, odiava l'idea di spingere Gaylord a preoccuparsi per lei, pur sapendo che fosse impossibile per il Beckham non farlo.
    Con un sospiro, si alzò dalla sedia e rimise la tazza ancora piena nel lavandino, scivolando verso la camera da letto, poi, con passi lenti e inconsuetamente silenziosi per una Dylan Kane; una volta lì, si richiuse la porta alle spalle e si sdraiò di nuovo accanto a Gaylord, posando la testa sul petto del fidanzato, strizzando gli occhi e trattenendo a fatica le lacrime, come spesso succedeva da San Valentino a quella parte.
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    At the end of this road, where should we be?
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    2005 — cacciatrice — furia rossaat the end of this road,
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    il voto dei protettori è quello di permettere a se stesso ed ai compagni di vedere l'alba successiva, sopravvivere per combattere un'altra guerra.
    Gaylord conosceva molto bene il sapore della perdita. Tendeva a indugiare sulla lingua come gli ultimi strascichi del caffè, amarognolo e pungente, spezzato solo dal sollievo che il tempo concedeva. E ne aveva avuto di tempo, il Beckham, per metabolizzare. Anni, da quando aveva visto sua sorella per l’ultima volta. O sua madre, la madre biologica. Ma Gaylord era ormai diventato abile a glissare oltre e soffermarsi su pensieri più rosei, perché era l’unico modo che aveva per far fronte alla successione inevitabile di eventi che aveva costellato la sua vita. Ed era proprio perché conosceva quel sapore, che simpatizzava con chi aveva deciso di partecipare a quella missione. Anche loro avevano perso qualcosa, qualcuno, e avrebbero lottato per battere le statistiche. Era un ottimista per natura, il Beckham, e voleva credere che potesse esserci una luce alla fine di quel tunnel. Un lieto fine per qualcuno, se quel qualcuno non poteva essere lui. Forse si sarebbe unito anche lui alle schiera di volontari per quella missione, un pensiero che continuava a indugiare ai limiti della sua mente ogni volta che superava la porta chiusa della stanza di Mac. Ogni volta che lasciava vagare lo sguardo per il Quartier Generale, sedie vuote a fissarlo dall’altra parte del tavolo. Sospirò nell’aria stantia della camera, ciglia a sfiorare gli zigomi laddove le palpebre erano ancora chiuse. Non voleva alzarsi, Gay, non ancora, perché alzarsi avrebbe significato ripetere la routine che da mesi perseguitava ogni angolo della sua vita. Ma non per molto ancora, di quello ne era certo, non quando ormai la Missione era imminente. Chissà che non potesse usare il pretesto per concedersi di varcare le porte della palestra dove Piz lavorava, indugiare nel familiare calore della presenza del padre, sebbene per l’uomo rappresentasse un cliente come un altro. Still, fingere di essere parte di qualcosa era confortante a suo modo, se non poteva riavere la sua famiglia. Non ancora. Non si accorse della mancanza di un altro corpo all’altro lato del letto finché non udì il manico della porta scricchiolare, poi il tonfo del legno a far tremare l’aria nella stanza. Ormai in gesto spontaneo, una seconda natura per il Beckham, accolse tra le braccia Dylan, lasciando che posasse il capo sulla cadenza accennata del petto. Sarebbe stato impossibile non notare il fine tremore a scuotere le spalle della ragazza, ma anche se non lo avesse fatto, poteva percepire sulla punta della lingua la tristezza che permeava la sua figura. La strinse un po’ più forte tra le braccia, il capo ad abbassarsi per posare un bacio sul capo di Dylan «che succede, dyl?» appena un sussurro, quello del Beckham, tinto di preoccupazione e del timbro ruvido che portava la notte «vuoi parlarne?» se così non fosse stato, si sarebbe limitato a stringerla un po’ più forte per farle sapere che era lì, che non sarebbe stata da sola quella volta.
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    i berserker hanno la violenza nel sangue. scatenano la loro furia sul nemico con efferatezza, incuranti della propria salvaguardia.
    Se Dylan avesse potuto fermare il tempo e dimenticare tutto il resto, circoscriverlo a quel momento specifico e non uscirne mai più, lo avrebbe fatto. Egoista e immatura, come solo una figlia unica poteva esserlo (perché difficilmente i Kane avrebbero considerato Kiel il loro primogenito, been there done that eccetera eccetera), non si preoccupava delle conseguenze, della realtà, dei veri problemi; era stata abituata da Mercutio a non dover nemmeno battere i piedi per avere quello che desiderava, le era sempre e solo bastato puntarci i grandi occhioni verdi sopra e l'uomo avrebbe fatto carte false per farglielo ottenere, pur di ricevere in cambio la cieca lealtà che Dylan non gli aveva mai rifiutato. Con sua mamma era stato più difficile, ma la donna aveva a suo modo contribuito a formare la persona che Dylan era diventata, un po' ribelle e decisamente un po' troppo sopra le righe, per il solo gusto di poterle dire “guarda, mamma, sono migliore di ciò che pensi” e darle fastidio; ma anche Sabine, piuttosto che stare a combattere con una figlia che non avrebbe mai capito e che non sarebbe mai stata all'altezza delle sue aspettative, aveva preferito chiudere gli occhi in più di un'occasione e girarsi dall'altra parte, convincendosi che non fosse un problema suo e permettendo a Dylan di crescere nella convinzione che potesse fare, o avere, tutto quello che desiderava.
    Il mondo adulto, se non già quello all'interno delle mura del castello, avevano però disegnato per la Kane un'altra realtà, una meno malleabile, meno divertente, meno propensa a piegarsi ai capricci di una bambina petulante e viziata. L'aveva scoperto a sue spese, la ex tassorosso, e aveva dovuto accettare la consapevolezza di non vivere più nella bolla creata dai Kane, in quella casa che era stata culla tanto quanto prigione pur senza che lei se ne rendesse mai conto, e affrontare una realtà che non era rosea come Dylan stessa aveva sempre sperato.
    In quel mondo, non bastava chiudere gli occhi e nascondere il viso dietro i palmi delle mani, o sbattere la porta della cameretta e convincersi che i problemi non l'avrebbero inseguita fin lì.
    Non bastava.
    Non funzionava così.
    E anche se Dylan continuava a sperarci, rifugiandosi nei luoghi che riteneva sicuri ora che non aveva più una cameretta in cui rinchiudersi quando sua mamma diventata pressante, sapeva che la sola speranza non l'avrebbe portata da nessuna parte. I due mesi appena trascorsi avevano inciso profondamente anche su quella certezza, facendola maturare ancora una volta, e in maniera più repentina, costringendola a calarsi in un mondo che fino a quel momento Dylan aveva visto da lontano, danzandoci intorno in punta di piedi convinta di avere ancora tempo prima di dismettere i panni da bambina e vestire quelli da donna.
    Aveva diciannove anni; nessuna ragazza di diciannove anni avrebbe dovuto trovarsi costretta a crescere così in fretta, o ad assaporare lutto e perdite già ad un'età così giovane.
    Inconsciamente, si strinse di più al proprio ragazzo, cercando nel calore emanato da Gaylord una rassicurazione in più, la tacita, seppur effimera, promessa che sarebbe andato tutto bene.
    Quando lui strinse appena l'abbraccio, posando poi le labbra morbide sulla chioma ramata ed arruffata di Dylan, quest'ultima non riuscì a trattenere un mezzo respiro strozzato e affranto, e si strinse di rimando intorno alla vita del Beckham, in cerca di più calore, di più amore, di più certezze. Non ne avevano, ma almeno Gaylord, più di chiunque altro, avrebbe potuto comprendere la perdita e condividere lo stato emotivo di Dylan; era terribile pensare che anche lui avesse sofferto per la partenza di Willow (e poi quella di Harper, che era stata loro coinquilina per un po') ma sempre per il fatto che Dylan fosse incredibilmente ed irrimediabilmente egoista, non poté non sentirsi in parte sollevata dal fatto che l'altro riuscisse a capirla.
    Per un attimo, non fiatò e non rispose alla domanda di Gay, lasciando che l'eco della voce bassa e roca del ragazzo riempisse ancora un po' la stanza, rigirando quel «vuoi parlarne?» tra le mani, e tra i pensieri.
    Sì che voleva.
    La vera domanda era se fosse stata in grado di farlo. Non sapeva dirlo.
    Si rese conto, quando aprì bocca, che persino la sua risultava roca e graffiata come chi è in silenzio da giorni — decisamente un concetto poco familiare per la rossa, ma non più così estraneo nell'ultimo periodo. «pensavo a Kaz» non un segreto, non lo era mai stato, e soprattutto Gay sapeva benissimo quando Dylan amasse il nuovo capitano tassorosso, non aveva senso mentire— non a Gaylord. Giocherellò per qualche istante con il bordo della maglia del pigiama di Gay, senza alzare lo sguardo verso di lui o muoversi anche solo di un millimetro. «mi manca, e—» tirò leggermente su col naso, e pur non avendo lacrime da asciugare, serrò le palpebre come se non vedere avrebbe aiutato a non soffrire.
    Non era così.
    Quando tornò a parlare, lo fece con un voce ancora più bassa e quasi rotta dalla consapevolezza che ci fosse qualcosa di inevitabile che stava per cambiare irrimediabilmente entrambe le loro vite. «penso che dovrei andare.» Non via, non a casa, non a lavoro; ma «a cercarlo.» Buttò fuori quelle parole tutte insieme, più paura di rimangiarsi ogni cosa ancora prima di affermarla, che per paura della reazione di Gaylord; temeva che se non avesse fatto così, se non avesse costretto se stessa a capire che fosse necessario, la paura e la codardia avrebbero vinto sul buonsenso.
    E poi, a voce ancora più bassa e piccola, come quella di un bambino incerto ma testardo, aggiunse «lui lo avrebbe fatto» e finalmente alzò lo sguardo grande e triste su Gaylord, cercando negli occhi scuri di lui tutta la serenità e la tranquillità che, ultimamente, Dylan non aveva più.
    dylan
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