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post-q10 / feat. moka

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    doveva davvero smetterla di convincersi che l’universo gli avesse dato abbastanza cazzotti in faccia. tanto poi la sua teoria veniva smentita prima ancora che potesse terminare quel pensiero. ogni fottuta volta. uguale, un serpente che si mordeva la coda.
    sì, javier non era tipo da accettare le cose a muso basso, ma era altrettanto vero che in quell’evento specifico avrebbe preferito essere avviluppato da quell’abisso in definitiva. non che riaprire gli occhi lo avesse poi sorpreso più di tanto; morire di quella morte breve e indolore sarebbe stata una concessione eccessivamente gentile, visti i precedenti. suoi, in qualità di sfigato cronico. punching bag ufficiale come tagline di rito.
    non era riuscito a tornare a casa. armato delle migliori intenzioni, ma bloccato dalla forza fisica e mentale che gli permettesse di fare quel passo in avanti. era ormai stato privato degli strumenti necessari per guardare in faccia tutte quelle persone senza piegarsi al loro cospetto — non riuscire più ad alzarsi. con la vaga coscienza di non essere più pienamente se stesso? eh, difficile. cristo iddio.
    impossibile.
    e dire che ci aveva costruito un’intera carriera, sull’autocontrollo. tassello dopo tassello, sopprimendo in scelte calcolate tutta la furia che era tornata a distanza di anni a pesargli sullo stomaco. malcelata, orribile, incontenibile. ne aveva pagato le conseguenze. quelle facce svuotate governavano il suo inconscio; manifestandosi in incubi, nelle poche ore di sonno che riusciva a concedersi, e in squarci — quando la sua mente esausta gli giocava brutti scherzi, offrendogli immagini lucide che lo obbligavano a premere le dita contro il torace e insegnarsi un’altra volta a respirare.
    un bel casino. da aggiungere a una lista già singolare di bei casini che non sembrava intenzionata a diminuire, solo a crescere drammaticamente. si era fatto trascinare avanti da quelle nozioni imparate a nausea – freddo nel frazionare in priorità, realista nel voler partire dal basso. che troppo basso, poi, non si era manco rivelato.
    prendere il telefono in mano gli era costato un’ora della sua giornata. gli era bastato premere sul tasto dell’accensione, il respiro trattenuto, e guardare tutte le chiamate perse per cambiare idea e abbandonarlo sul lenzuolo ancora intoccato. non sapeva proprio dove sbattere la sua testa del cazzo; non quando ovunque guardasse c’erano spigoli, uno più affilato dell’altro. altre due ore per inviare un rapido messaggio a mira e julie, breve e conciso per necessità personale. solo sono vivo, tornerò – perché al resto non voleva e non poteva pensarci. si era persino dato una mentale pacca sulla spalla per aver agito prontamente e previsto l’inevitabile con un check in al primo hotel disponibile. entrare in quell’appartamento normalmente vuoto e ritrovarsi un comitato di benvenuto non avrebbe fatto che peggiorare le cose, d’altronde; ci era già passato una volta, e non era intenzionato a ripetere l’errore.
    come poi fosse giunto a scrivere a moka era un po’ un mistero.
    insensato, indubbiamente. aveva fatto scorrere il pollice tra i nomi, il pallino blu accanto a ciascun messaggio non letto a deriderlo; e ci era quasi scivolato, su quella conversazione vuota. premendo un po’ troppo il dito contro il touch screen, forse. o cercando volutamente il silenzio dell’unica persona che non si era chiesta dove fosse finito – le solite brutte abitudini a tornare a galla nei momenti meno opportuni. ed era rimasto a fissare l’anteprima della chat per qualche secondo di troppo, leggendo e rileggendo il singolo messaggio che lui stesso aveva lasciato in tempi meno sospetti. preferisco le chiamate, tranne quando le ignorava come un deficiente. ma vaffanculo, javier.
    al masochismo, tanto, non c’era mai fine. rapido nel digitare la semplice richiesta di vedersi, perché a ragionarci sopra non avrebbe più concluso niente. ritirarsi, ormai, era diventato il suo modus operandi preferito.
    il dubbio di aver fatto il passo più lungo della gamba gli era venuto solo dopo, col casco in mano e la moto a ringhiare nel parcheggio. aveva continuato a pensarci per tutto il tragitto; superando l’ingresso, e continuando anche quando ormai era faccia a faccia col legno che lo separava dal suo appartamento. ma che cazzo ci faceva lì. ma cosa cazzo stava facendo.
    non si diede il tempo per considerare la fuga tattica che spingeva contro la sua gola: premendo le nocche contro la porta e spingendo la spalla sul telaio, lo sguardo basso mentre si ripeteva, a mantra, di renderla una visita rapida. il giusto necessario per chiedergli se stesse bene, frasi di circostanza con educato distacco prima di passare alle questioni pressanti – la resistenza, la guerra, il nuovo mondo. problemi di gran lunga più importanti di quelli che comunque gli balzarono alla mente non appena alzò gli occhi su di lui.
    «hey.»
    spinse la lingua contro il palato, e cercò parole che si rifiutarono di venirgli incontro.
    eh.
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    [bestemmia].
    «scusa» stese le labbra in un sorriso appena accennato, e piegò il capo. «mi sembrava più semplice così.»
    di persona, s’intende. heavy on sembrava, perché poi, concretamente, non lo era affatto. nascose la mano inoccupata dal laccio del casco nella tasca dei pantaloni – spingendo via l’istinto che gli faceva solleticare i polpastrelli, e dandosi forzatamente una regolata.
    non era proprio il caso.
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    Edited by western nights - 2/6/2023, 22:10
     
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    «moka»
    aveva finto di ignorare i colpi sulla porta, gli occhi fissi sulla maniglia.
    «lo so che ci sei, cretino»
    aveva finto di ignorare la voce stanca di cherry, il respiro di lei attraverso il pannello di legno. finto, perché anche volendo non sarebbe riuscito a farlo davvero. ma le mani erano rimaste ferme, la bocca chiusa, il cuore a pulsare febbrile nel petto.
    quando lei si era appoggiata con la fronte, moka aveva fatto altrettanto — senza vederla, che tanto non era necessario: sapeva esattamente dove fosse, conosceva ogni movimento, e quello che le passava per la mente.
    «ti ho portato qualcosa da mangiare. lo so che se fosse per te andresti avanti a tequila e patatine» si era girato, moka, la testa reclinata verso una spalla e le iridi verde acqua a cercare la bottiglia sul tavolo della cucina. era davvero così prevedibile? si. e avrebbe voluto aprire quella fottuta porta, lasciare entrare cherry e il suo sacchetto della spesa, senza darle il tempo di dire altro. chiedere piuttosto, pregarla di dargli qualcosa di diverso a cui pensare, perché quella era sempre stata la soluzione del telly a tutti i problemi del mondo.
    ma non se lo meritava.
    di guardarlo negli occhi e vedere ciò che conosceva meglio spazzato via da uno tsunami senza nome, andata e ritorno a ondate irregolari; di venire contagiata da qualunque cosa stesse tentando di arrampicarsi sotto pelle, sfrigolando, in attesa.
    e in un attimo di debolezza avrebbe finito per dirle la verità: che per la frazione di un istante, durato una vita intera, gli era piaciuto. svuotato da se stesso, eppure mai così presente, cellule e molecole a ricombinarsi senza più un limite a segnare i bordi. ed era stato tutto ed era stato niente, sette secondi, minuti, ore di buio e lampi e (morte e distruzione e) assenza. materiale per gli incubi, dove il senso di colpa lasciava spazio a qualcos'altro; una domanda più infame, che sapeva esattamente quali punti andare a toccare — che razza di persona sei?
    quello poteva, doveva, tenerselo per sé.
    una vecchia regola fondamentale per la sopravvivenza, che non passava mai di moda.
    erano rimasti così, moka e cherry.
    fronte contro fronte con una porta a dividerli, ciascuno perso a modo suo «va bene. la prossima volta la butto giù, tanto perché tu lo sappia» ci credeva, il ventitreenne.
    ciecamente.
    anche se avrebbe preferito il contrario, che non tornasse più — non era così forte da tenerla lontana, da resistere all'impulso egoistico ed istintivo di aver qualcuno accanto a prendersi parte del suo dolore. parte di quel veleno che aveva messo radici e cresceva a vista d'occhio, sostituendosi al sangue, reclamando a gran voce il suo posto nel mondo. non sapeva più dove scaricarla quell'energia, moka, e non voleva fosse su di lei.
    possiamo vederci?
    ma magari su qualcuno si.
    come fosse riuscito a non rispondere con un sentito vaffanculo rimaneva tra moka e dio; che solo a guardarla, quella chat praticamente vuota, gli faceva partire un embolo. non ci aveva nemmeno pensato, un battito di ciglia e l'indirizzo già scritto — via il dente, via il dolore, così dicevano.
    avrebbe potuto dirgli di no, (o non rispondere affatto), e continuare a fingere: che non gli importasse abbastanza, che quelle quattrocentomila persone, in fondo, non le aveva davvero uccise lui; che l'idea di essere stato strappato alla Resistenza, quando per anni gli era sembrata l'unica ancora di salvezza, non facesse un cazzo di male fottuto.
    un luogo ideale, il suo au, nel quale le persone non si sentivano in dovere di chiedergli come stesse, dopo averlo guardato in faccia.
    già conoscendo la risposta.
    ma a javi quell'unico favore poteva anche concederlo.
    con il telepate non doveva tenere ostinatamente la porta chiusa ed evitare il suo sguardo, perché i demoni che vi si aggiravano dentro in attesa di venire nutriti erano gli stessi — famelici, pieni di denti, corruttori e corrotti. non c'era niente che moka potesse rovinare, piu di quanto già non fosse..
    «hey»
    oh, era già a tanto così.
    non rispose al sorriso di javi, la mano destra saldamente ancorata alla maniglia della porta, l'altra abbandonata lungo il fianco «e lo è? più semplice, dico» socchiuse gli occhi e lo guardò, iridi verde acqua a scorrere sulla figura del maggiore concludendo l'itinerario sul casco.
    chissà, forse in un'altra vita avrebbero potuto scambiarsi opinioni anche su quello, come le persone normali.
    fece un passo indietro, lo special, lasciando a javi lo spazio sufficiente per entrare — sempre ammesso che volesse farlo. a quel punto moka non giudicava più: aveva passato troppi giorni (settimane) a cercare disperatamente di comprimere se stesso, mostrando solo il minimo indispensabile; si era sentito accartocciato, schiacciato, messo all'angolo, e la guerra c'entrava solo in parte «c'è una birra in frigorifero» si, quella.
    «e se sei ancora contrario alla tequila a stomaco vuoto—» indicò distrattamente la bottiglia sul tavolino. accanto, caricatore inserito, la glock — scelte: qualcuno, a pochi chilometri di distanza, si stava ponendo la stessa, fottuta domanda «non ho nient'altro da offrirti» e quella era, palesemente, una cazzata: un'altra proposta moka ce l'aveva. gli premeva contro le costole, esitava sulla punta della lingua.
    ma forse poteva permettersi di mentire ancora un po', almeno finché l'alcol e la stanchezza non lo avessero tradito.
    avrebbe voluto chiedergli notizie di Mac e twat.
    di sin e vince (ma dove cazzo era vince?).
    di may.
    degli altri.
    (chicago
    kyoto
    il cairo
    hangzhou)
    non lo fece.
    «cosa vuoi, javier?» non si riferiva alla birra, moka, nonostante il tono di voce pacato, gli occhi verdi a cercare (la tastiera suggerisce disperatamente, ed è così) quelli del maggiore.
    cosa vuoi da me, sarebbe stato più corretto.
    cosa cazzo vuoi, javi.


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    era diventata una scelta del cazzo in tempi record. non che non lo fosse stata dall’inizio — solo, con moka davanti ai suoi occhi e non più un’immagine frammentata nella sua testa, gli pareva un po’ più apparente.
    lo fissò di rimando senza rispondergli; concedendosi quel po’ d’esitazione sul ciglio della porta per prepararsi mentalmente ai dieci minuti (massimo, massimo venti) più lunghi della sua vita, prima di superarlo. l’ennesimo déjà vu. nessuna porta a sbattergli alle spalle, quella volta. nessuna mano a cercarlo e trattenerlo. un sollievo e un problema allo stesso tempo.
    lasciò vagare lo sguardo sull’appartamento, a quel punto; prendendo nota dei pochi segni di vita, e quelli che poco carinamente gli stava indicando il telly. e inarcò lento un sopracciglio quando, inevitabilmente, si soffermò sulla pistola. una certezza come poche, quella; strano, però, non vederla addosso a moka.
    priorità, si era detto. di fronte a quel richiamo magnetico finì lo stesso per scostare la giacca dalle spalle e lasciarla scivolare lungo i fianchi, prima di adagiarla con cura sulla prima superficie a disposizione — e allungare la mano, delicato come se stesse per accarezzare una bestia male addestrata.
    «non devi offrirmi niente.»
    lo mormorò distrattamente, le dita già prese a sfiorare il carrello della semiautomatica. non era una visita in amicizia, la sua. questo, quantomeno, lo sapeva.
    il resto – cosa volesse – beh.
    più complicato.
    passò la lingua sui denti, e prese la pistola in mano una volta per tutte. soppesando il ferro nei palmi, e sistemandola con movimenti fluidi nella giusta posizione prima di spingere contro la canna, cercando conferme a domande che ancora non si era posto. il solito stronzo audace; ovvio che teneva una pistola carica su di un cazzo di tavolino. alzò solo brevemente gli occhi su di lui, dandogli un’altra volta una fetta di ciò che gli veniva richiesto. stava imparando a concedersi in piccole dosi, javier, piuttosto che tutto insieme: una tattica vincente con un moka telly che prendeva e prendeva. attenzioni, spazio mentale e vitale.
    tirò fuori ciascun proiettile e lì reinserì uno ad uno, metodico e casuale. e poi, perché fanculo, avevano già violato un paio di volte di troppo le millanta regolazioni sull’utilizzo delle armi da fuoco, rilasciò la sicura e glie la puntò addosso. braccia alzate, spalle rilassate, schiena dritta: una posizione militare, aggraziata e letale, che era così familiare da permettere al sangue di circolare più facilmente. rimaneva incastrato tra quei due soli, il mendoza – uno violento, l’altro sentimentale. il genere di mix che non prometteva mai niente di buono.
    «non ne ho mai capito troppo il fascino.» suo malgrado la portò nuovamente a un livello che non mettesse a rischio la vita di entrambi. contro il pavimento, a pochi centimetri di distanza dagli stivali. ancora piena di proiettili, e ancora pronta all’utilizzo. non era abbastanza stupido da voler sfiorare il grilletto con l’indice, ma la tentazione c’era; e si leggeva nello scintillio degli occhi, ancora fissi sulla glock. «ho sempre preferito calibri più pesanti. win mag, rum.»
    la rigirò un’ultima volta tra le mani, prima di rinstillare la sicura – chiedersi per ben due secondi quanto fosse azzardata come mossa, decidere che non gli interessasse abbastanza ed eliminare la distanza fra loro. educato nell’offrirgliela riversa; la canna ora puntata verso il suo petto, l’impugnatura misericordiosamente libera.
    e di quei dieci minuti se n’era già giocati nove.
    «più facile partire da cosa non voglio, forse.»
    volere, tanto, voleva sempre troppo. da se stesso e dagli altri. a mancargli davvero era la capacità di chiederle, tutte quelle cose; men che meno pretenderle.
    «o da ciò che puoi darmi tu.» che in effetti era molto poco, vista l’esperienza. fece il suo passo indietro, riposizionando le mani nelle tasche; al sicuro dall’istinto che le voleva addosso a moka. come, non lo aveva ancora deciso.
    priorità.
    priorità.
    «abbiamo perso fin troppo tempo, e da qualche parte bisogna pur iniziare. solo perché siamo stati tagliati fuori da un posto—» batté le palpebre, e strinse le labbra in una linea retta. toccata piano. era più forte di lui: l’alternativa a rimettere la divisa da sergente, d’altronde, era di buttarsi a terra e piangersi addosso. che era un modo diverso per dire che non esistesse. «non significa che il nostro lavoro sia finito. e prima capiamo dove e come agire, meglio è.»
    ok.
    pragmatismi tolti: prese un lungo respiro, e non distolse lo sguardo da lui. qualcosa che non avrebbe potuto fare pur volendo.
    «e vorrei mettere in chiaro un paio di cose.» ma per quello, forse, l’alcol poteva essere loro amico. tanto che alla fine lo aprì lo stesso, il frigorifero; ignorando gentilmente il vuoto assoluto che occupava gli scompartimenti, e servendosi delle chiavi attaccate alla cintura per stappare la bottiglia. il genere di gesto ruvido che portava tutti i segni di una gioventù bruciata – tra fuoco ed esplosioni e scelte infelici. alcune visibili sulla pelle esposta del bicipite, lì dove la coda di un tatuaggio sbucava dalla manica della maglietta; altre sottocutanee.
    prese un primo sorso che valevano per due, e picchiettò il vetro contro la gamba. «facciamo così.» stavolta la lingua la passò sul labbro superiore. tastando il sapore della birra, e lo spettro di altro. osceno. «prima mi spieghi cosa cazzo significava quel momento in base.» eh. forse non era così importante: puttanate. «magari ci riflettiamo su.» fece un cenno col volto, e gli offrì la bottiglia.
    «e niente tequila.» ma come viveva.
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    non poté trattenere un brivido, nel ritrovarsi puntata contro la canna della glock.
    dettato non dalla paura, o dalla certezza che, volendo, javi avrebbe potuto tranquillamente premere il grilletto. era il concetto di fondo, a premere sul pomo d'adamo, impedendogli di inghiottire: una scena immaginata e rivisitata cento volte negli ultimi giorni, l'arma stretta in una mano diversa; la sua.
    il freddo del metallo contro la pelle sensibile della gola, a ricordargli senza sosta che una vera scelta forse non ce l'aveva. se non la possibilità di mettere giù la semiautomatica senza inserire la sicura, scambiandone il peso con quello altrettanto familiare della bottiglia; rimandare. l'inevitabile? forse.
    di sicuro ne era convinto in quel momento, moka, mentre nascondeva un fremito sollevando il mento — non una sfida, ma quasi; i battiti contati mentalmente uno ad uno, per assicurarsi non sfuggissero al suo controllo.
    quale controllo, poi, era da capire.
    lo aveva mai avuto?
    con javi, neanche per il cazzo, altrimenti non si sarebbe trovato in quella situazione — ah, fottuto punto e virgola.
    «non ne ho mai capito troppo il fascino.» le iridi verdi a vagare per una manciata di secondi sul volto del maggiore, uno studio prettamente scientifico dell'espressione concentrata; doveva solo pensare a qualcosa che non fosse la sua voce, o a dove mettere le mani. che chiuse a pugno, in mancanza di un'opzione migliore, premendo le nocche contro la stoffa dei pantaloni, un guizzo di muscoli e tendini a seguire il ritmo non proprio regolare del battiti cardiaco.
    aprí la bocca per dire qualcosa
    qualcosa di banale
    e la richiuse subito.
    soffocata nel petto una risata che sapeva di rassegnata consapevolezza: alcune cose, proprio, moka non riusciva a tirarle fuori. avrebbe potuto avvicinarsi a javi e sussurrargli all'orecchio che se proprio doveva parlare allora tanto valeva si riempisse la bocca con il suo nome mentre lui teneva occupata la propria con qualcos'altro, senza battere ciglio; non un accenno ad abbassare per primo lo sguardo, solo la voce a spezzarsi perché faceva parte del gioco.
    oh, aveva detto di peggio.
    e aveva detto di meglio — poeta d'altri tempi, moka telly, altroché: dopotutto, non si poteva sempre parlare di bocchini così, en passant.
    eppure, eppure, non sapeva come elaborare a parole che gliel'aveva regalata suo padre, la Glock; che l'unico fascino esercitato dall'arma, un magnete e un'ossessione, era quello del non avere nient'altro. a parte un ricordo sbiadito, qualche rammarico, troppa rabbia che non aveva mai saputo dove scaricare.
    tanto valeva non dire nulla.
    piu facile che sbilanciarsi, offrire un pezzetto di sè ottenendo in cambio una zona esposta e vulnerabile.
    soprattutto se javi continuava a toccare tasti che avrebbe fatto meglio a lasciare stare.
    un po come il coltello che rigirava nella ferita impedendole di rimarginarsi, e moka quel dolore se lo prese tutto e tutto insieme, a badilate sui denti, battendo appena le palpebre per costringersi a tornare alla realtà. quella nella quale li avevano tagliati fuori da un posto.
    casa sua. stava parlando di casa sua.
    non avrebbe dovuto incazzarsi
    (cosa poteva saperne lui?)
    e lo fece comunque.
    non avrebbe dovuto importargli
    (ma porca puttana)
    e lo fece comunque.
    non avrebbe dovuto stringere i denti sulla carne morbida della guancia, aggiungendo dolore fisico a quello che sentiva crescere nel petto
    (una scintilla a bruciare tra i polpastrelli)
    e lo fece comunque.
    non avrebbe dovuto guardarlo in quel modo, cercando comunque la pelle esposta delle braccia e del collo
    ( [bestemmia][sospiro][bestemmia] )
    e lo fece comunque.
    forse era ancora in tempo a pregarlo di sparargli, chissà.
    «se hai idee, sono tutto orecchie. non è che abbia opzioni migliori, come avrai notato» che pragmatico, moka telly, cercava sempre di esserlo fino in fondo. anche quando non ce la faceva piu, e voleva solo mollare il colpo; quando era certo di aver toccato un fondo e continuava a scavare comunque. peccato poi non ci credesse, a qualunque cosa stesse tentando di organizzare il Mendoza. avevano un mostro in agguato sulle spalle, tutti loro; si chiese allora quanto oltre avrebbero potuto spingersi, senza che Abaddon lo sapesse — poco, immaginava. ma si strinse comunque nelle spalle, il fianco appoggiato contro una parete.
    sopracciglia inarcate, i muscoli addominali tesi: pronto ad incassare, moka, un commento che javi pensò bene di risparmiargli.
    niente da dire sul frigo vuoto.
    però voleva mettere in chiaro un paio di cose.
    «ok» [derogatory]
    istintivo, il corpo a spostarsi di lato puntando tutto il peso sul piede sinistro; nemmeno troppo antisgamo nell'allungare il collo e puntare le iridi verde acqua sulle spalle del mendoza, mentre armeggiava con il tappo. quella fottuta maglietta, la stessa sostanza di cui erano fatti gli incubi. se non avesse già contravvenuto alla regola niente tequila prima di trovarsi il telepate in casa, sarebbe stato più bravo a fingere un'indifferenza che era certo di non provare.
    forse, piú bravo: non era sicuro nemmeno di quello, moka
    «è un—» aveva già sollevato una mano, incapace di trattenersi. per imprimere i polpastrelli sul braccio dall'altro, scivolare appena un po sotto la manica della maglietta, osservare meglio: il tatuaggio, le cicatrici; stringere, dove poteva. per quanto poteva.
    e invece, cazzo, doveva tirare fuori quella storia.
    hhh fucking javi.
    prese un respiro, profondo, la mancina a passare sul volto «il cazzo di significato, eh» ripeté parafrasando, uno sforzo immane per impedire alla propria mente di tornarci, alla cazzata; a proposito di riempirsi la bocca con il suo nome: che quel moka soffocato contro le labbra ancora se lo sognava di notte «volevo baciarti» ci pensò, un istante di troppo «e tutto il resto» almeno era la verità. se la desiderava, doveva solo chiedere; e magari smetterla di prenderlo per culo —
    dejavu «non era abbastanza chiaro?» si avvicinò di un passo, il telly, tentato
    (la giocata, moka, la giocata)
    e gli tolse la bottiglia di vetro dalle mani «sono stati due mesi complicati» sotto tutti i punti di vista, ma forse non serviva specificarlo.
    bevve un sorso e poi un altro; rapida occhiata al tavolino: era meglio la tequila.
    sarebbe stata meglio la pistola.
    premette il vetro freddo contro il torace di javi, perché se la riprendesse «vuoi ancora rifletterci sopra?» domande lecite.
    nessun passo indietro, questa volta; ridi chiare a cercare incessantemente le sue, che tanto giulia aveva ragione — non serviva nemmeno la telepatia.
    al massimo poteva rischiare di lasciarci un paio di denti.
    guarda mamma, come mort!
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    Edited by mokaccino© - 5/6/2023, 23:56
     
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    prese un lungo respiro, riempendo e svuotando i polmoni e chiedendo, forse inutilmente, al cervello di calmarsi. avrebbe anche chiesto a moka di collaborareporcaputtana, ma quella aveva capito essere una battaglia persa già in partenza. poteva almeno dire di averci provato e di averlo fatto armato di buoni propositi. una possibilità, la sua: di scendere oltre il superficiale, e per una cazzo di volta offrirgli qualcosa che non rasentava il monosillabico.
    no? no.
    fissò la bottiglia per qualche secondo di troppo; poi la strinse nel palmo, concedendo a moka la fine di quel contatto prima che fosse obbligato a forzarla lui stesso. non era il momento giusto per cogliere i messaggi impliciti che gli stava inviando. e di quel passo non ci sarebbe mai stato, un momento giusto.
    «e tutto il resto.» annuì fra sé e sé, e portò nuovamente il vetro alle labbra. non per bere, stavolta, ma per premerlo contro la pelle, strofinare delicatamente.
    quando alzò lo sguardo su di lui gli offrì un altro sorriso. coperto in parte dalla bottiglia, ma la natura plasticosa non fu comunque in grado di celarla; nessuna traccia di divertimento nelle iridi scure. amaro, e forse un po’ anche ferito – non da moka, ma da se stesso. aveva sempre aspettative così alte, javier. gli schiaffi in faccia che arrivavano quando inevitabilmente non venivano raggiunte erano meritati.
    «ok.» parte due. sempre derogatory. come ci si sbaglia.
    riversò la testa indietro, premendo la lingua contro il collo della birra per cogliere un altro po’ di necessario alcol; poi lo trattenne nel palato per qualche secondo prima di buttarlo giù. glie ne servivano altre dieci di birre, cristo iddio.
    «credo tu non abbia colto la domanda.» la spinse di nuovo verso moka, a quel punto. necessario: a tenersela stretta al petto se la sarebbe finita da solo.
    «l’intenzione era un po’ difficile da perdere.» anche perché l’aveva fatto. lo aveva baciato prepotentemente, senza lasciargli una vera scelta; non che lui ci avesse davvero provato a sottrarsi. anche se avrebbe dovuto, perché era un fottuto adulto e sapeva fosse la mossa più logica.
    alas.
    «non voglio sapere cosa volessi fare, ma perché l’hai fatto. perché insisti.» incrociò le braccia al petto, e inclinò il mento. un sospiro stanco a scuotergli il petto prima ancora che potesse pensare di bloccarlo. «ma in effetti, forse ci siamo solo persi per strada.»
    citando santo fezco da euphoria: you’re confused? i’m fucking confused, bro. «a volte penso di sapere cosa vuoi, e poi–» agganciò i denti alla guancia, e cercò ancora le sue iridi chiare. eh. «leggo cose in più. che non dovrei leggere perché non esistono.»
    o almeno, per pace mentale, aveva scelto di trarre quella conclusione. che a cercare di capire i segnali a malapena accennati di moka un transcript non sarebbe stato sufficiente, e d’interpretare si era sinceramente rotto il cazzo; le sue questioni preferiva prenderle di petto, a denti scoperti. detto non detto tua madre.
    il passo in avanti, alla fine, lo fece anche lui. reggendo il suo sguardo e promettendo un sacco di cose. nessuna particolarmente buona o saggia. «va bene. se non lo fai tu, traduco io per entrambi.» lasciò che il tono di voce mutasse in qualcosa di più basso, appena sopra il sussurro. un segreto fra loro due. «devi toglierti questo sfizio. e posso capirlo.» via il dente, via il dolore. and all that. cercò brevemente il divano; un cenno del capo a indicarlo, e tornò su di lui. «possiamo farlo. o potrei anche» un altro passo in avanti, fino a rendere quasi del tutto nulla la distanza tra loro due. per obbligare moka a guardarlo dal basso, e per scorrere un palmo sulla sua spalla, tracciare un percorso fino alla nuca; lì dove affondò le dita tra le ciocche morbide, e tirò delicatamente. «evitarti il favore e metterti in ginocchio qui.» lui, un poeta, non lo era mai stato. i giri di parole non aiutavano mai nessuno; anche in quel caso preferiva essere diretto. sapeva cosa voleva, javi. e sapeva come ottenerlo – dove spingere, quando guidare, e anche quando lasciar fare. e se c’era una cosa che aveva capito del telly (l’unica, molto probabilmente), era proprio che avesse bisogno di ordini precisi. chi era lui per negarglielo. «è questo che vuoi?»
    non che gli servisse davvero, quella risposta. voleva solo sentire quel sì. chiaro e coinciso. posò l’altra mano contro il suo mento, allora; carezzando il labbro inferiore col pollice, e chiudendosi ancora di più attorno a lui. «il fatto, moka, è che non capisco cosa speri di ottenere. vuoi la scopata veloce, e poi l’amicizia disinteressata?» si strinse nelle spalle. «non so farlo.» di chiare dimostrazione ce n’erano parecchie. bastava solo chiedere. «non sapevo farlo prima, quando eri a distanza di un corridoio» lasciò la presa sui capelli, abbandonando nuovamente il braccio al fianco. «e non so farlo ora.» e abbassò anche l’altra mano; posandola alla base del suo collo, ed esercitando una pressione leggera. «non ne vale la pena, e non so più come dirtelo.»
    non aveva funzionato con le buone. non aveva funzionato con le cattive. e forse non avrebbe funzionato neanche in quelle circostanze: arreso, con qualche carta scoperta in più. l’importante era provarci.
    in teoria.
    «mandami a fanculo.»
    respiro.
    respiro.
    respiro.
    «ti passerà.»
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    ma allora sapete che c'è?
    occhi verdi, respiro mozzato in gola.
    e tutta la calma di questo mondo.
    «vaffanculo, javi.»
    lo lasciamo così, sussurrato a mezza voce; dandogli il tempo di depositarsi — è uno strumentopolo che ci tornerà utile più tardi.
    «credo tu non abbia colto la domanda.» era rimasto lì, moka, chiuso in un cocciuto silenzio che gli comprimeva le labbra e il petto, le iridi chiare sempre ancorate a quelle del maggiore. non se lo poteva permettere, di guardare altrove; una convinzione radicata troppo in profondità, come se una barriera di arroganza fosse per forza di cose necessaria. non lo era. ma il mento alto lo mantenne comunque, sentendosi vibrare come un diapason (cit.), le mani ancora una volta nascoste sotto le braccia incrociate contro il torace: per tenerle ferme, per nascondere il lieve guizzo dei tendini ogni qualvolta le dita si aprivano e chiudevano, resistere al bisogno di allungarle, sfiorare la pelle con i polpastrelli; sentire la stoffa e stringerla nei pugni.
    eppure, al passo avanti di javi moka fu tentato di farne uno indietro.
    istinto di sopravvivenza, un meccanismo di autodifesa naturale che entrava in funzione al primo segnale di pericolo — e ne stavano suonando, di campanelli.
    resistette sul posto, le spalle dritte, inghiottendo aria perché non aveva altro da mandare giù, a parte le parole che teneva gelosamente sulla punta della lingua e dietro i denti. sarebbe stato facile accontentare il Mendoza, aprire la bocca e, cazzo, parlare, ma non poteva; la gola asciutta e ruvida come carta vetrata.
    avrebbe voluto chiedergli quali fossero quelle cose in più, che gli leggeva dentro.
    non chiese niente.
    ma strinse i denti, sentendo la rabbia montare ad ogni parola del maggiore, troppo stanco per combattere contro la piccola supernova che gli cresceva tra le costole, chiedendo spazio. reclamando ossigeno.
    un'uscita.
    invece ottenne solo una mano sulla spalla, dita a spingere contro la carne e tirare, i capelli e altro; un filo invisibile, che lo costringeva ad obbedire e basta, piedi e cuore inchiodati al pavimento.
    eppure.
    fosse successo due mesi prima, fosse successo dentro un bagno in Siberia, quel gliel'avrebbe concesso senza troppi problemi. nemmeno uno di secondo, nemmeno zitto: se lo sarebbe tolto, moka, il famoso sfizio. anche lì, anche subito, ginocchia a premere sul pavimento o molle del divano a penetrare nella colonna vertebrale, non avrebbe fatto nessuna differenza.
    ma stava succedendo ora.
    e tutta la rabbia a ribollire nelle vene, il telly non l'aveva prevista.
    in rapido aumento, una banda di tamburi impazziti nel petto — un animale in gabbia, moka. a lottare contro l'istinto che gli diceva contemporaneamente di accompagnare il pollice di javi tra le labbra e affondarvi i denti come avrebbe fatto un cane randagio. che in fondo un po' quello era, il ventitreenne: ben addestrato, ma abbandonato a se stesso; gli ordini e una ferrea routine quotidiana lo tenevano all'interno dei binari, evitavano il deragliamento.
    cazzo di treni.
    «ti sei fatto un bel quadro generale» resistette all'impulso di schiarire la voce, anche se impastata dal silenzio e dal nodo a stringersi nella trachea; con il palmo di javi a premere contro la carotide, stava ancora cercando di mantenere un contegno «ma la traduzione fa un po schifo» inspirò — così vicini, ormai, che il profumo della sua pelle se lo sentiva persino addosso, incollato ai vestiti; la distanza ideale, pari a zero, per tirargli una testata sul naso.
    espirò «se volevo una scopata veloce, andavo in un bar. è la strada più semplice» ma che, davvero? dopo tre fottuti mesi pensava ancora che volesse togliersi uno sfizio? ironico, il fatto che moka funzionasse all'esatto contrario: se non otteneva subito quello che voleva, mollava il colpo. gli estranei avevano quello, di buono — non doveva rivederli più.
    thinkin.
    sollevò la mano libera e raggiunse quella di javi, intrecciando le dita con le sue sue; allontanandola dalla propria gola, per quanto il calore sulla pelle fosse quello che voleva. non quello di cui aveva bisogno, evidentemente.
    priorità.
    «cosa spero di ottenere? tu che esci dalla mia cazzo di testa» visto come migliorava in fretta? forse perché gli stava salendo la tequila, forse perché rabbia e frustrazione mescolate alla stanchezza sono un mix più letale di qualunque super alcolico; che a furia di ingoiare e basta, riducendo ogni emozione in una pallina accartocciata su se stessa, lo spazio poi finisce «e non è che non ci abbia provato, a sbatterti fuori» andando contro i suoi stessi desideri, da bravo soldatino qual era «sai cosa? ho ottenuto solo l'effetto contrario»
    e magari non era quello che il telepate voleva sentirsi dire, ma così tante parole insieme, reali, senza filtri, forse non gliele aveva mai rivolte — passi avanti.
    aveva ancora la birra tra le mani, ma non portò la bottiglia alle labbra.
    era davvero troppo sobrio, per quello.
    la appoggiò invece sul tavolino, iridi verde acqua ad accarezzare sia la glock che tequila; scelta quasi obbligata: almeno con la seconda sapeva dove andare a parare. il passo fino al divano fu breve, una volta lasciato indietro javi e la pistola, le parole dette e quelle che ancora si teneva ostinatamente dentro; e accogliendo la sensazione familiare dei cuscini quando ci si abbandonò sopra «sai che ti dico, probabilmente hai ragione» non aveva ancora bevuto, ma lo fece in quel momento, lasciando all'alcol l'ingrato compito di aprire i polmoni e rimettere il cuore all'interno della cassa toracica «qualunque cosa sia, mi passerà»
    di nuovo, cercò i suoi occhi.
    quasi a volerci leggere una conferma — la richiesta disperata di un naufrago.
    e siccome si torna sempre dove si è stati bene, ci aggiunse anche un sospiro, incastrato per metà, soffiato contro il collo della bottiglia «vaffanculo, javi.» chiesto, e dato.


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    e il vaffanculo, preciso come un orologio svizzero, era arrivato.
    avrebbe riso, javi, se ogni muscolo del suo corpo non fosse teso al punto da renderlo immobile. una statua greca all’incirca dal momento in cui gli aveva detto, semicit, che la sua traduzione facesse schifo. non aveva fatto altro che peggiorare; tendine dopo tendine, parola dopo parola. battendo le ciglia solo all’improvviso peso sulla mano, e a quel contatto concesse uno sguardo fugace; di nuovo preso contropiede da un gesto in totale dissonanza con all’incirca tutto il resto. perché riportando gli occhi nei suoi non lesse alcun tipo di tenerezza – solo altra stanchezza a colorargli la pelle, e la solita fiamma cautamente placida che era divertente solo quando non si scontrava con la sua. una brutta accoppiata, senza ombra di dubbio.
    «e non è che non ci abbia provato, a sbatterti fuori»
    premette la lingua contro i denti, e si risparmiò il commento. uno che sarebbe stato ricevuto male, ma che come consiglio spassionato aveva il suo senso: forse dovresti provarci meglio. c’era poco da perdere, d’altronde; tanto da guadagnare. il problema alla base di tutto, ovviamente, era proprio che non fosse così facile. poteva spingerlo fuori dalla sua vita e javi glie lo avrebbe concesso senza combattere. ma sarebbe comunque sgusciato in ogni fottuto luogo e lago, valerio scanu di noialtri. una di quelle cose che si era accuratamente evitato per anni scegliendo strade più semplici: sconosciuti per il tempo di una notte, e arrivederci, a mai più. troppo uniti, i loro mondi, per permetterglielo. e troppo impulsivo, moka, per concedergli di fare l’adulto in grado di tenere i problemi personali lontani dal campo da guerra. troppo distraente, con quello sguardo che finiva inevitabilmente per cercarlo e trovarlo. e troppo stupido, javi, per rispondere con dell’impassibile professionalità per più di dieci minuti. ci aveva provato; ed eccoli, i risultati.
    or lack thereof.
    lo guardò appoggiare la birra sul tavolino. e ancora, sguardo assottigliato mentre prendeva nota della tequila tra le mani dell’altro. cristo, se era testardo. si mosse solo allora: trascinando pollice ed indice contro la radice nasale e spingendo i polpastrelli contro l’osso per scacciare il mal di testa in rapido approccio.
    «qualunque cosa sia, mi passerà»
    sbuffò, un sorriso amaro a curvargli le labbra. qualunque cosa sia? e lui che pensava nessuno potesse prendersi il primato del kinsley in fatto di soppressione dei sentimenti. s’imparavano cose nuove ogni giorno.
    roteò il capo nella sua direzione, e annuì.
    «mi pare un ottimo piano.» grattò l’indice contro l’estremità della bocca, prima di affondare le dita nel mazzo di chiavi; le iridi scure fisse sul metallo mentre poggiava nuovamente la schiena contro il piano della cucina. avrebbe potuto seguirlo, ma si sentiva più a suo agio in quella terra di mezzo. pronto a scattare via se solo moka glie l’avesse chiesto. più di una volta, quantomeno: avevano ancora qualcosa da dirsi. dieci minuti, massimo venti. certo.
    «se non fosse che mi stai dicendo solo quello che pensi io voglia sentirmi dire.» sfiorò le chiavi di casa, quelle della moto; e quelle di un appartamento che aveva da tempo cambiato la serratura e trovato nuovi residenti. niente più che un accessorio, ormai.
    «o sto di nuovo sbagliando traduzione?»
    gli rivolse l’ennesimo sorriso. da dietro alle ciglia, beffardo. la presa per il culo, tanto, era per entrambi: poteva dire di essere cosciente del suo status di emerito deficiente, javier. una grande qualità che lo aveva contraddistinto per tutta la sua vita.
    «non ti piace parlare.» un’affermazione, e non una domanda. un’altra cosa che doveva essere ovvia a tutti e due. alla fine di quella birra abbandonata se ne appropriò una volta per tutte; dando un’occhiata distratta al liquido rimanente prima di buttarlo giù in un sorso lungo e lento. per concedersi un’altra pausa dal ceruleo di moka, nonostante se lo sentisse bruciare addosso. era un contrasto interessante, il suo: quello di una persona che detestava il confronto con ogni fibra del suo corpo, ma che al contempo non era in grado di sfuggirgli. perché non poteva concederselo, o perché era una reazione automatica: questo javi non poteva saperlo. ma voleva scoprirlo. e se non era una realizzazione terrificante, quella. mai una persona ben aggiustata che mettesse le pezze alle sue mancanze. sempre caso umano che attraeva caso umano. le leggi dell’universo, quelle emerite stronze.
    «o meglio,» rincorse le ultime gocce di birra umettando le labbra, e piegò il volto sulla spalla. «non ti piace farlo quando l’argomento sei te. almeno finché non è qualcosa di superficiale. il rischio è essere conosciuti, no?»
    a quel punto, la domanda era lecita. una che gli aveva già posto in passato – in un luogo che non avrebbero più rivisto. «ti faccio così paura?»
    non che si aspettasse una risposta sincera, javi. dopotutto prediligeva per il sì, e non era manco certo che moka fosse in grado di ammetterlo a se stesso. un lupo cattivo tutto speciale che da lui non sapeva farsi bastare qualche bacio rubato. e tutto il resto.
    «credevo che da me volessi solo una distrazione. mi hai detto che non ci ho capito un cazzo.» si strinse nelle spalle, e afferrò con più forza il collo della bottiglia. avrebbe fatto di tutto per una sigaretta, in quel momento; sentiva i palmi prudergli con la tasca della giacca così vicina. accenderla sarebbe significato concedersi minuti in più che sapeva avrebbe comunque passato in sua presenza, ma farlo avrebbe concretizzato quel dato di fatto. gli piaceva convincersi di avere la situazione sotto controllo.
    «e quindi cosa vuoi?» schioccò la lingua contro il palato, e picchiettò contro il vetro. «oltre a togliermi dalla tua testa, che credo sia poco fattibile.» quindi disegnò un cerchio in aria, come a raccogliere l’appartamento sulla punta dell’indice. «viste le circostanze.»
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    «se non fosse che mi stai dicendo solo quello che pensi io voglia sentirmi dire.»
    quando javi sorrise, moka gli andò dietro.
    fu automatico, rispondere alla evidente presa per il culo con la stessa dose di sarcasmo a tingere le labbra, incisivi e canini a spuntare e premere nella carne. era ad un sorso di tequila dal fargli pure l'applauso, meritatissimo, ma si trattenne: stringendo più forte la bottiglia tra le dita e contro il petto.
    un fottuto salvagente.
    avrebbe potuto replicare che il vaffanculo gli arrivava dal cuore, ma ancora una volta moka preferì il silenzio.
    perché tutto il resto era vero — mi passerà? ah, cristoddio.
    sentiva l'alcol bruciare in gola, risalire pigramente lungo le vene cercando la strada più rapida per raggiungere il terreno di caccia preferito; qualche neurone da bruciare, un paio di interruttori da spegnere. tutto considerato, forse non era stata una grande idea. che se già così non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, dubitava di poterlo fare con il cervello in shout down.
    problemi per il moka del (l'immediato) futuro.
    una lancia a suo favore però lo special doveva proprio spezzarla: nel momento del bisogno, poteva sempre contare su Javier,
    «non ti piace parlare.»
    e sulla sua peculiare capacità di toccare i tasti giusti per farlo incazzare.
    con tutto il lavoro che aveva fatto su se stesso, moka, smussando gli angoli e spegnendo fuochi che sapeva avrebbero finito per consumarlo — un autocontrollo quasi totale, definitivo, perfetto quando ci si deve limitare a ricevere ordini ed eseguirli.
    finché javi non si era affacciato di prepotenza nella sua vita, il telly aveva sempre seguito lo stesso copione: pochi step da seguire, il solito status quo da raggiungere e conservare. non gli serviva fare altro che mandare giù e lasciarsi scivolare addosso il resto; ci guadagnava in salute.
    sentì il sorriso scemare, i muscoli delle spalle improvvisamente tesi. e un groviglio, filo spinato e cocci di vetro, a spingere e graffiare dall'interno, lacerando la bocca dello stomaco. finalmente le iridi verde acqua si spostarono altrove, cercarono altro che non fosse lui, mentre le parole del telepate penetravano sotto pelle ed entravano in circolo insieme alla tequila.
    una cazzata che già sapeva, moka.
    e allora perché, cristo, doveva dargli così fastidio.
    probabilmente conosceva anche la risposta a quella domanda, il ventitreenne: nessuno si era mai dato pena di farglielo notare. andava bene a tutti un moka passivo e accondiscendente, che dicesse solo cose superficiali con un sorriso sulle labbra che quasi mai raggiungeva gli occhi verdi;lui compreso — otteneva quello che voleva e portava a casa. niente di più fottutamente facile.
    non poteva fare altrettanto, javi?
    accontentarsi di chiudergli la bocca con la propria, invece che chiedere chiedere chiedere? evidentemente no.
    «quindi sei anche psicologo?» era affondato un altro po' nel divano, mentre il maggiore parlava, ma a raddrizzargli la schiena fu il mero desiderio di stringere la bottiglia tra le mani e spaccargliela sul cranio «e senza nemmeno leggermi nella mente, guru.» si pentì di averlo detto nell'istante stesso in cui le parole presero forma, ed era comunque troppo tardi per rimangiarsele; con dodici milioni di morti alle spalle, quello era probabilmente l'ultimo argomento su cui il maggiore avrebbe voluto soffermarsi.
    piegò la testa, il braccio sinistro a sfregare sugli occhi.
    ecco perché non parlava, moka telly.
    bastava una parola sbagliata per rovinare tutto, e una per concedere una breccia di troppo — non era big fan né dell'una né dell'altra cosa.
    si concesse un altro sorso, lasciando alla tequila l'ingrato compito di sciogliere il peso che sentiva sul petto. fosse stato chiunque altro, avrebbe permesso a se stesso di rigirare il coltello nella piaga; essere crudele, e trarne un beneficio esclusivamente personale — nonché effimero. ma con (fucking) javi sapeva che non poteva funzionare.
    ci aveva già provato, il ventitreenne, durante quella guerra che avevano perso nel modo peggiore, guadagnandoci un ulteriore fallimento.
    se aveva paura di lui?
    era riuscito a farlo sentire al contempo patetico, eccitato e desiderato, rifiutato e cercato; gli aveva reso impossibile respirare quando più gli sarebbe servito, incapace di muoversi e pensare: certo, cazzo, che gli faceva paura.
    ma, almeno quello, se lo tenne per sé.
    di nuovo in piedi, l'ennesimo errore di valutazione; non riusciva proprio a mantenere le distanze moka, se era il maggiore a farlo per primo.
    «e quindi cosa vuoi?»
    gli occhi chiari del ragazzo tornarono a sfiorare la bottiglia, e il liquido ambrato rimasto all'interno; poco. avrebbe potuto tenersela stretta e finire quello che aveva cominciato, trasformando quel lieve torpore nel nulla più assoluto.
    la lasciò invece sul tavolino, accanto alla pistola. prendendo una scelta della quale sapeva si sarebbe presto pentito «ah» per citare un saggio: «più facile partire da cosa non voglio, forse» cercò di nuovo il suo sguardo, entrambe le sopracciglia inarcate — era un gioco che potevano fare in due, quello.
    ammesso di voler ancora giocare.
    era stato divertente per i primi cinque minuti, con la schiena a premere contro un muro e la mano del telepate a stringergli la gola, in quel buco di merda in Siberia; prima dei bambini morti. quando ancora le regole erano chiare e moka non aveva dovuto fare altro che seguirle.
    incredibile la rapidità con cui era andato tutto a puttane: le regole e il mondo stesso.
    «sentirmi così quando ti guardo, per esempio» la tequila non era riuscita a sciogliere del tutto il nodo che sentiva ancora nella trachea, ma la tensione nei muscoli, quella sì; contro ogni istinto di sopravvivenza, la voce della coscienza ad urlargli di fare dietrofront, moka gli si fece più vicino. con un sospiro a sfuggire dalle labbra che era solo in parte frustrazione, e troppo cedimento «sempre ad un passo dal perdere il controllo» su quale emozione, preferì tenerlo per sé. perché erano tutte, e tutte insieme: in presenza di javier il limite tra rabbia e desiderio si faceva troppo sottile, sfilacciato.
    diventava complicato, per moka, riuscire a distinguerle quando finivano per sovrapporsi.
    «lo capisci cosa voglio dire, javi?» una muta richiesta, quella negli occhi chiari del ragazzo, una cauta disperazione che avrebbe preferito risparmiarsi. stava offrendo al maggiore la propria debolezza su un piatto d'argento, rischiando qualcosa più di una giocata. proprio vero: c'è una prima volta per tutto «non è per il sesso» si rese conto prima ancora di finire la frase, che detta così non era credibile; non con le dita a scivolare sotto l'orlo della sua maglietta, i polpastrelli ad imprimersi contro la pelle calda del fianco «non è solo per il sesso» quello sì, faceva una paura fottuta: rendersi conto di volere altro, desiderare un tutto da sempre considerato superfluo.
    pericoloso, persino.
    un istante, e valutò l'idea di allontanarsi.
    quello dopo stava già sfiorando l'incavo della sua gola con le labbra dischiuse, il respiro ad infrangersi in soffi caldi e irregolari «non voglio che tu esca dalla mia testa» risalì con le dita verso l'alto, contando muscoli e cicatrici, soffermandosi su ciascuna costola; voleva esplorare senza fretta, moka, affondando le unghie dove poteva «e non voglio che tu te ne vada» concetto che sottolineò spingendo il proprio corpo contro il suo, la mano libera aggrappata al bordo della cucina — quasi un dejavu.
    glielo disse di nuovo, ancora e ancora, senza bisogno di parole. più nel suo habitat naturale, il telly, quando invece di dare voce ad un pensiero poteva tradurlo direttamente sulla pelle dell'altro, la punta della lingua a marcare ogni centimetro disponibile con alcol e saliva. seguendo la linea netta della mandibola fino a raggiungere la bocca dell'altro; sulla quale non si soffermò, moka.
    se non il tempo necessario a raccogliere un sapore che non aveva bisogno di saggiare sulla lingua per poterlo riconoscere.
    familiare [derogatory]
    poi si fece da parte.
    letteralmente, sfilando la mano da sotto la maglietta (quella dannata maglietta.) di javier, spingendo entrambi i palmi contro il torace del maggiore per costringere se stesso ad allontanarsi. un passo indietro, l'ennesima offerta di una rapida via d'uscita «ma se non vuoi rimanere, javi, questo è il momento giusto per andartene» prima che qualcuno osasse pensare fosse nothing but an angel, disposto a concedergli un'altra — l'ultima — occasione di ripensamento.
    una scelta che lasciava a lui, perché la sua, il telly, l'aveva già fatta esponendo se stesso all'ennesima mazzata sui denti.
    m(asochista)oka core.


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    ironicamente, la sensazione era quella di star scuotendo un osso di fronte a un cane coi denti scoperti. ironicamente perché era un ruolo in cui si rivedeva lui, di solito; e se non era sempre terribile come la prima volta, scoprirsi riflesso nel telly. un reminder tutto fuorché gentile: lo stesso che gli aveva fatto fare svariati passi indietro in passato, e che anche in quel momento stava svolgendo correttamente il suo ruolo di schiaffo in faccia.
    strinse i denti, e lo seguì nei movimenti con occhi severi che, infondo, non necessitavano davvero di essere accompagnati da una risposta a quella chiara provocazione.
    quelle, provocazioni.
    se lo impose. roteò le spalle fino a drizzare la schiena, assottigliò lo sguardo, e spinse giù l’istinto di accogliere quella vicinanza nell’unico modo in cui era in grado di riceverla – allungando le braccia, stringendolo a sé, fottendosi da solo. eh.
    «lo capisci cosa voglio dire, javi?»
    riempì lentamente i polmoni d’aria, e la rilasciò in respiri calcolati. il momento peggiore per realizzare che quella risposta non voleva davvero sentirla, perché complicava un po’ tutto. se era stato difficile mettere una giusta distanza tra il groviglio insensato di emozioni che aveva provato tra le mura di… decisamente troppe stanze, in troppe occasioni, per trascinarsi a forza nel qui-ora degno del ruolo che aveva scelto lui stesso – a quel punto, gli risultava al limite dell’impossibile. e quindi invece di fare la cosa sensata e coerente di spingerlo via, dirgli di usare le sue parole, da bravo, senza tutti quei giochetti del cazzo, strinse quasi inconsciamente una mano attorno al suo braccio. quello che l’infame bastardo stava usando per toccare dove non gli era permesso, e con la debolezza di chi non voleva arrestare; al massimo ancorarsi a qualcosa, perché cristo. cristo, se non si sentiva sull’orlo della pazzia, javi. di nuovo intrappolato tra un corpo così caldo da scottare la pelle nei punti di contatto e il freddo dell’ennesima superficie; non era più certo dove finissero i brividi di freddo, dove iniziassero quelli provocati da moka. avrebbe proprio voluto dirgli che era uno stronzo, ma non si fidò della sua stessa bocca. aveva già fatto i suoi danni.
    invece inclinò il volto verso l’alto, concedendogli più spazio di manovra e rivolgendo le palpebre pesanti al soffitto di quel fottuto appartamento infernale. una mosca in un barattolo.
    eppure, a pratica archiviata, invece di sentirsi sollevato non poté respingere un sorriso amaro; uno sbuffo soffiato contro le sue labbra prima ancora che potesse staccarsi del tutto. almeno con gli ultimi vestigi di autocontrollo che gli rimanevano si fermò dal rincorrere quell’improvvisa mancanza. non il massimo se vuoi essere preso sul serio.
    non voglio che tu te ne vada, cit.
    «eppure» schioccò la lingua contro il palato, e riportò gli occhi su di lui. «guarda come ti allontani.»
    si era, come dire. rotto abbastanza il cazzo di danzargli attorno, javi. un sentimento che sapeva fosse condiviso; e quindi, invece di nascondersi o eliminare nuovamente la distanza, rimase immobile ad appendere un’ascia che troppo metaforica non era.
    «ma se non vuoi rimanere, javi, questo è il momento giusto per andartene»
    annuì piano. poi premette l’indice contro un angolo della bocca, l’altra mano a tenere il gomito: l’immagine dell’attenta riflessione. come se davvero ce ne fossero di opzioni da considerare. si diede comunque il tempo di girare e rigirare le sue parole nella mente, casomai il suo cervello decidesse di sorprenderlo.
    sapeva due cose, d’altronde: che la scelta migliore sarebbe stata prendere la palla al balzo, vederla come la via d’uscita che era e chiudere lì la questione. non era certo moka se la meritasse, ma era la soluzione meno problematica. e sapeva anche di averci provato un quantitativo francamente imbarazzante di volte, javi, a diventare il genere di persona che in situazioni simili faceva più che considerare passivamente la scelta migliore, prima di buttarsi su quella più stupida.
    «va bene.» strinse le labbra in una linea retta, lasciando che la mano scivolasse inerme al suo fianco. va bene, ma non andava bene un cazzo. classico. «quando arriverà il giorno in cui me lo rinfaccerai, ricorda sempre che io ci ho provato.»
    parecchio, pure. il sorriso, allora, si fece sincero. una piega divertita ad alleggerire un pensiero dolorosamente vero; quando, e non se. vista l’esperienza poteva persino supporre le tempistiche. un paio di mesi a essere generosi, via.
    in mancanza di scuse o difese, citazione casuale, si concesse pure di allungare il palmo verso di lui – spianarlo sul fianco di moka, prima di stringere la stoffa tra le dita e trascinarlo di nuovo nel suo spazio personale. «chiaro?»
    suonava come una minaccia, e forse un po’ lo era. lasciò scorrere le dita fino a stringere il braccio attorno ai suoi fianchi, farlo aderire perfettamente al suo petto; da così vicino era difficile anche solo ricordare perché non lo avesse fatto subito. con la mente dolcemente offuscata dall’alcol – quello che aveva bevuto, e quello che aveva saggiato dalle labbra di moka –, e il peso dei muscoli sotto i polpastrelli. pericoloso; tanto quanto era stata pericolosa l’adrenalina che gli era scorsa nelle vene in siberia, nel peggior momento possibile. la differenza stava nelle circostanze: tante da perdere, allora. ma in quell’attimo? in quel contesto?
    portò l’altra mano sul suo viso. una carezza leggera fino al mento, che raccolse tra pollice e indice. avrebbe potuto baciarlo. davvero, stavolta: stringergli la nuca e prendere, prendere, prendere. ma infondo quella loro altalena di cause e conseguenze gli piaceva. offrirsi e lasciare che moka cogliesse i pezzi, li rimettesse al loro posto, era un linguaggio di gran lunga più efficace di quello verbale. potevano lavorarci sopra.
    e quindi, a un palmo dalla sua bocca, invece di affondare i denti nella carne lasciò mischiare i loro respiri. «non me ne vado da nessuna parte, a meno che tu non me lo chieda.»
    la sua causa. sfiorò le sue labbra col pollice, e spinse la fronte contro quella di moka, in attesa di una conseguenza.
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    era così prevedibile, moka.
    Così fottutamente immerso in quella routine che da sola lo teneva con la testa un pelo fuori dall'acqua, da coprire una ferita ancora da infliggere; allontanandosi, offrendo al maggiore una via di fuga, la consegnava inconsciamente a se stesso.
    «va bene.» e il sollievo provato, cazzo, fu così genuino da costringerlo ad affondare i denti nella guancia per non lasciarlo scappare: era una cosa tra lui e dio — a javi aveva già evidentemente detto troppo. Un altro buon motivo per lasciare che una parte di sé, quella più familiare e gestibile, dilaniasse l'altra impedendole di prendere il sopravvento; che a sperare in qualcosa di diverso, di essere diverso, non ci guadagnava nulla.
    Immobile, il telly si limitò ad annuire.
    la stanchezza a comprimere il costato e i capelli di javi a solleticare la gola.
    'dovresti cancellare il mio numero'.
    Il respiro a farsi un po' più corto e il sapore sbagliato sotto la lingua.

    «ok» poteva davvero essere il loro per sempre «non—» ha importanza, probabilmente. Anche se ne aveva, molta; troppa: non gli sarebbe dovuto importare, se il mendoza decideva di chiudere lì la questione e imbroccare una porta che era stato lui stesso ad indicargli. Aveva passato una quantità oscena (per i suoi standard) di tempo a chiedersi dove stesse sbagliando, quale fosse il bug che gli impediva di ragionare, usare la fottuta logica ogni volta che il pensiero delle sue mani e dei suoi sguardi tornava con prepotenza ad invadergli la mente.
    Si era lasciato prendere, e spingere, in così tante occasioni da avere il mal di mare come un naufrago alla deriva.
    Eppure nel momento esatto in cui sentì il calore del suo palmo attraverso la maglietta, quando ogni cellula del corpo era già pronta ad accogliere l'accomodante sensazione di avere ancora uno spazio personale e inviolabile, gli parve di non essersi lasciato prendere abbastanza; o spingere, se poteva fare una qualche differenza.
    «chiaro?» lo sarebbe stato se avesse smesso di respirargli addosso.
    Se la solidità del corpo di javi non si fosse scontrata con la sua, diventando quasi un tutt'uno.
    Non sarebbe dovuto essere così strano — si erano già trovati : sapendo esattamente dove toccare, dove premere. Quasi sempre per fare male, però; per farsi male. Mai che si fossero trovati a metà strada, senza il bisogno impellente di mettere l'altro spalle al muro - metaforico, ma non solo - per salvaguardare se stessi.
    Accolse le carezze del maggiore con una scintilla di diffidenza, l'impercettibile guizzare dei muscoli sotto la pelle. Soprattutto, lo fece in silenzio. Non per mancanza di cose da dire, semmai dell'ossigeno necessario a trasformarle in qualcosa di reale, comprensibile, che non fosse solo un gemito a riempire la gola; se lo sarebbe fatto bastare, moka, in qualunque altra circostanza. Evidentemente non in quella «no» non vado da nessuna parte, aveva detto, lasciando cadere quella frase tra di loro come se fosse la cosa più scontata del mondo: non lo, fottutamente, era.
    Nello spiraglio rimasto tra i loro volti, dove l'unico rumore che il telly riusciva a sentire era il martellare del proprio muscolo cardiaco tra le costole, le parole di javi avevano un peso nuovo, una consistenza tremendamente reale. non aveva mai dato a nessuno la possibilità di rimanere, moka. persino Cherry se l'era dovuta prendere con la forza. più facile, certo, distare a guardare mentre gli altri se ne andavano: giocare d'anticipo era sempre sembrata una strategia vincente — finché il signor Ptolemy non aveva pensato bene di metterlo spalle al muro, e moka aveva iniziato a perdere.
    il sonno, la calma, un battito dopo l'altro.
    «niente è chiaro in questo momento» sollevò piano le palpebre, incastrando le iridi acqua marina in quelle scure dell'altro «ma puoi sempre spiegarmelo» che era un po un teach me, ma in font diverso. e con un tono, diverso: si capivano meglio a sussurri; a tocchi che sembravano lievi e poi non lo erano per niente. come graffiargli il polpastrello con i denti, affondando un po più del necessario. non è che non se le cercasse, javi. strinse il polso con le dita, e invece che offrire al maggiore un'anteprima di quello che certo avrebbe voluto fargli, allontanò la mano dalla propria bocca — la tentazione di chiedere se avesse un'alternativa per tenerla occupata era forte, ma si trattenne.
    bravo ragazzo cristiano, moka telly.
    o forse era semplicemente stanco (punto) di giocare: una delle due somigliava alla verità un po più dell'altra
    «ammesso che tu riesca a fare due cose contemporaneamente» con quella voce, mannaggialaputtana avrebbe potuto dirgli quello che voleva e parlare finché gli fosse avanzato ossigeno nei polmoni: consumarlo, d'altronde, era compito del ventitreenne. ma se proprio doveva scegliere, preferiva ascoltarlo dopo.
    la presa sul polso del maggiore si fece più salda, il palmo aperto trattenuto contro il proprio petto; per condividere un battito accelerato, e il respiro a farsi così denso da rimanere incastrato in gola.
    spinse fino a trovare le costole.
    i muscoli addominali ancora più sotto.
    avrebbe potuto allentare la stretta e lasciare che javi trovasse la strada da solo. invece lo accompagnò oltre, superando l'orlo della maglietta, e l'elastico dei pantaloni — già di troppo: colpa della solita impazienza giovanile, sicuramente. aveva pensato così tante volte a quel momento, moka, assaporando ricordi e sensazioni sulla punta della lingua, che ad un'eventuale richiesta di calmarsi la reazione sarebbe stata l'esatto contrario.
    dovette tendere il collo, moka, per eliminare i centimetri che javi si prendeva in altezza, labbra dischiuse a cercare la sua bocca con un'urgenza quasi famelica che non si era reso conto di provare finché non l'aveva avuto davanti. lui e quella stupida maglietta, gli occhi da cucciolo di labrador, il sapore della birra che si mescolava a quello della tequila ogni volta che la lingua del maggiore si intrecciava con la sua.
    hhh fucking javi.
    letterale, a quel punto.
    e come disse una volta un poeta:
    'posso odiarti e farmelo comunque venire duro' — cit.


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    ho ascoltato un paio di volte di troppo questa canzone, mannaggia moka, hai vinto ORA BASTA PERSEGUITARMI PERò

    è un po' nsfw. ma poco, dai


    javier iglesias mendoza
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    Feel it grow stronger and stronger
    It sharpens to a point and sheds my skin
    Shakes off the weight of my sins And takes me to heaven
    dovette ingoiare la necessità di schiacciargli i polpastrelli contro la cassa toracica e soffiare stronzo contro la sua bocca. di scuse per farlo ce n’erano anche troppe.
    in che posizione lo stava mettendo, in primis. quasi in ginocchio per un ragazzino con il temperamento caldo; in certi au molto specifici ci era pure già stato, ma non siamo qui per discutere di questo, in effetti.
    più della facilità con cui riusciva a insidiarsi sotto alla sua pelle. affascinante e terribile al contempo; non era la prima volta che gli succedeva, eppure non smetteva mai di essere assurdo. colpa sua, che con i giusti input si lasciava consumare. colpa di moka, che molto evidentemente li aveva scoperti tutti e li sfruttava a suo piacimento.
    come se avesse davvero qualcosa da spiegargli, poi. ma di nuovo, scelse di cogliere le sfumature di quelle poche parole e di spingere il dito contro i denti dell’altro: una lieve concessione, che a sua volta aveva i suoi significati persi tra le righe. sapeva di aver spinto oltre ogni suo limite, e poteva farsi bastare quelle vaghe premesse. non aveva nulla di solido da offrirgli, dopotutto, se non un torace solido contro cui premere il corpo. al resto potevano pensarci in un momento imprecisato del futuro – sempre se, di nuovo, moka non si rompeva il cazzo prima. troppa esperienza passata per lasciarsi accecare in quel modo. ma non era il caso di dirglielo, che lui ne fosse ancora fermamente convinto. sarebbero state in ogni caso parole vuote: difficile tirare fuori un discorso con un nesso, con il peso del suo palmo a spingere contro le linee dei suoi muscoli.
    e quella volta glie lo concesse davvero. con un sopracciglio inarcato e lo sguardo a percorrere languido il movimento, poi a cercare nuovamente quello di moka. eh, stronzo davvero.
    ok. cit.
    di nuovo, potevano venirsi incontro. e glie lo dimostrò lasciandosi guidare fino alla fine; permettendogli di chiudere la distanza senza imporsi per primo, e accogliendo un ritmo dettato unicamente da moka. uno sforzo maggiore di quanto potesse sembrare – mesi a girarsi attorno, e il risultato era esattamente quello. in sua difesa non aveva immaginato che avrebbe occupato ogni suo fottuto spazio fisico e mentale nel giro di qualche mese.
    e infatti non poté respingere l’istinto di trascinare la mano libera contro il suo zigomo, carezzare la pelle rovente, inclinare ulteriormente il suo volto per rendere la vicinanza ancora più opprimente. la conosceva bene, quella sensazione; e aveva imparato a conoscerla anche moka, ogni volta che i suoi momenti di debolezza si facevano particolarmente problematici e invece di fare il cazzo di adulto spingeva la lingua nel suo palato. non poteva più mentire a se stesso e dirsi che quel contatto non gli mancasse quando se ne privava; non quando lo cercava con il genere di devozione che sua madre sperava di vedergli praticare di fronte a un altare. così tipica di javier, quella tendenza a trovare del sacro nel sapore degli altri.
    «vuoi che ti spieghi» e spinse un bacio contro le sue labbra socchiuse, l’indice a carezzare sotto l’elastico – lì dove moka, molto gentilmente, aveva scelto di piazzarlo. sembrava quasi in controllo, javi. respiri erratici e occhi così scuri da brillare a parte. «o che ti dimostri?»
    sospettava qualcosa di più vicino alla seconda, ma gli diede comunque il tempo per una risposta; affondando la mano, millimetro dopo millimetro, sotto la stoffa. lento e punitivo, tanto che colse sotto le unghie le linee dell’inguine – e poi salì nuovamente, graffiando la pelle fino allo sterno. solo perché era disposto a dargli corda non significava che approvasse dei suoi metodi. se voleva essere divorato, moka telly, aveva scelto la persona sbagliata. javi preferiva macchiare qualunque cosa toccasse. una fottuta maledizione; qualcosa che era stato dal primo momento in cui moka aveva posato lo sguardo su di lui con l’innocenza di chi, al massimo, si aspetta un’occhiata di troppo. e non necessariamente il genere di terremoto dell’iglesias-mendoza.
    sorrise, perché potevano essere stronzi entrambi, e ruppe il contatto per passare ciascun dito sulla superficie ruvida della lingua con quel genere di indecenza metodica che poteva essere intesa solo in un modo. non gli interessava davvero di ciò che avesse da dirgli, in quel momento – voleva solo che moka ricambiasse con un po’ di sana obbedienza. provocazione per provocazione. tanto che poi, alla fine, accontentò entrambi: soffiando baci contro la sua mandibola e premendo appena i denti contro il lobo, e spingendo nuovamente la mano tra le sue gambe. sfiorando la lunghezza, e accogliendola decisivamente nel palmo.
    amen.
    «ce lo hai un letto, moka telly?»
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    e siamo ancora qua, eh già.
    dopo un anno quasi preciso, un tempismo praticamente perfetto (così non devo elaborare niente!): il post giusto da scrivere a fine quest, con le ore contate (morti di fiPE be like) e nel bel mezzo del mental breakdown semestrale — di rob, non di moka. il telly ne aveva così tanti a distanza ravvicinata che ormai non ci faceva più nemmeno caso: fuck it we ball. gli occhi non gli si riempivano di lacrime in modo del tutto casuale e inopportuno, ma le strizzava così forte che a furia di comprimerle diventavano rabbia; grezza, nemmeno un po smussata agli angoli. c'era chi chiedeva scusa prima di ritirarsi ad urlare nei boschi, tipo le persone normo, e poi c'erano i moka di questo mondo che non davano alcun segnale dell'esplosione imminente.
    un ragazzo per bene in sano contatto con le proprie emozioni.
    «ce l'hai un letto, moka telly?» persino lì, con la mano di javi a solleticare i centimetri più sensibili del suo corpo e con un unico neurone rimasto ad affrontare la questione, lo special ebbe la forza, l'audacia! (letto con il tono di sanità mentale!) di sollevare un sopracciglio. per chi l'aveva preso, un senzatetto che dormiva sotto i portici in mezzo alle coperte? domanda superflua e risposta ovvia: sì. in fondo bastava guardarsi attorno, dedicare un istante al frigorifero tristemente vuoto, gli scatoloni abbandonati negli angoli con i vestiti ancora dentro. per non parlare del fatto che moka dormisse di rado, e questo javi lo sapeva bene.
    «hai così poca fiducia?» raggiunse la mano dell'uomo stringendo le dita attorno al suo polso, le spalle (ho detto spalle.) a sollevarsi appena. nemmeno per quella domanda serviva davvero una risposta. lo guidò nell'altra stanza senza mollare la presa, perché a conti fatti poteva sempre ripensarci javi; lasciarlo lì, con un palmo di naso e un'erezione da gestire non sarebbe stata poi una grande novità.
    been there done that, recitavano gli antichi.
    «visto?» con la mano libera mostrò il letto rifatto, le lenzuola piegate in modo così precisi che il dubbio se ci si fosse mai sdraiato diventava pericolosamente lecito «non dormo solo sulle sedie» avrebbe voluto si sentisse di più la vena di sarcasmo nella voce divenuta roca e asciutta, ma non poteva chiedere troppo a se stesso; gli piaceva giocare solo fino ad un certo punto, e quel punto l'avevano superato da un pezzo.
    ma poi che bel gioco, il loro — una cazzo di roulette russa.
    quando le dita si chiusero nuovamente sulla sulla maglia di javi, aggrappandosi alla stoffa, non lo fece per tirare ma per spingere, sapendo che alle spalle del maggiore il bordo del letto avrebbe attutito la breve caduta. e lo spazio tra le sue gambe moka se lo prese senza chiedere permesso, finalmente nel posto giusto al momento giusto. o l'esatto contrario, ma dipendeva dai punti di vista: quello di moka, dopo due mesi di tormento e desideri opprimenti a scavare nella carne e insinuarsi sotto pelle, era che non sarebbe potuto essere in nessun altro posto se non li; ginocchia a terra e dita impazienti a passeggiare sui fianchi dell'altro.
    una scena che sara vj aveva manifestato in modo egregio, ma a ruoli inversi e (si spera.) con un finale diverso.
    «javi» pericoloso, con quel papi a cercare di sgusciare tra le labbra dischiuse — certe abitudini erano dure a morire, ma moka sapeva essere forte. abbastanza da appoggiare i gomiti contro le sue cosce, il mento sollevato a cercarne insistente lo sguardo. il proprio sapeva fosse liquido, reso lucido da tequila e stanchezza in egual misura; sapeva che entrambe imponevano un rigido codice di condotta — la bocca non andava usata per parlare. il rischio era di esporsi un po troppo, rendersi vulnerabile.
    non gli era mai passato per la testa di offrire volontariamente il fianco alla lama di un coltello, fino a quel momento «tu mi rendi.. disperato. lo sai, vero?» il lieve tentennamento a grattare la gola, moka lo ignorò aumentando il volume di tutto il resto: la pelle calda del Mendoza sotto i polpastrelli, la saliva a bagnare le labbra, il lento ma insistente pulsare del sangue attraverso vene e capillari. incredibile come al primo colpo gli fosse venuta la parola giusta in mente, disperazione, e che per pronunciarla avesse avuto bisogno di lasciarsi spegnere il cervello.
    dall'alcol.
    da javi.
    funzionava con lo stesso algoritmo insensato di Pinterest, il telly.
    avrebbe potuto avvicinarsi al maggiore, in mezzo ad una folla di persone, e suggerire in tono pacato che si lasciasse succhiare come una cazzo di cannuccia dentro un bicchiere di coca cola fresca in estate; e poi per esprimere ad alta voce un (1) singolo sentimento necessitava di uccidere qualche cellula neuronale. giovani.
    batté le ciglia scure e la stretta sulle gambe di Javier si fece più forte. aveva già detto troppo, senza praticamente dire niente. lo attirò verso di sé, perché non aveva alcuna intenzione di alzarsi, e le labbra le dischiuse un'altra volta ma sulla sua bocca; raccogliendo fiato caldo e respiri frammentati, la lingua a cercare di prepotenza un passaggio tra le labbra e i denti. i propri, moka li affondò appena oltre la linea precisa della mandibola, dove la pelle si faceva sottile e la carne più morbida. lo stesso identico spazio che in un momento ben preciso della loro situationship lo special aveva deciso fosse suo — anche solo per un breve attimo, solo uno.
    qualunque segno, in fondo, sarebbe stato un problema per il Javier Mendoza di domani.

    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio perché fatturare ho fatturato e devo per forza di cose andare a farmi la doccia 🙏
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