scheda pg 029

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    grazie a lia per questo modulino




    Tvättbjörn Cömmstaj
    22.12.2003
    modalen, no
    special muggle
    neutral
    nome & cognome: Che Agnes Cömmstaj non avesse tutte le rotelle al proprio posto, avrebbero dovuto tutti – laddove, per tutti, si intende la discreta popolazione di Modalen, Norvegia – comprenderlo sia dalla sua smania di avere più figli che mucche nelle stalle del marito (e ne aveva tante, Sal-Hund), sia dai peculiari nomi che aveva deciso di appioppare ad ogni nuovo arrivo nella famiglia. E sempre quei tutti, avrebbero dovuto intuire che fossero dei cuccioli sperduti ed accalappiati dalla coppia nordeuropea – anche fosse solo per il fatto che venivano chiamati come delle bestie. Letteralmente: Tvättbjörn, nella lingua dei fiordi, è traducibile come procione comune; almeno gli ha detto meglio di altri figli dei Cömmstaj, a cui è toccato chiamarsi Ragno o Mosca, ma in norvegese. Scarse sono, invece, le informazioni riguardanti la stirpe di cui il babbano porta il cognome: poco comune, nuovo nel comune del Vestland, ma sicuramente più noto dato il quantitativo di giovani leve che lo portano come condanna. Per quanto, nonostante tutto, ami il proprio nome – soprattutto data la sua unicità, l’insita impossibilità ad essere confuso con altri in quel di Londra od Hogwarts –, Tvättbjörn è più solito presentarsi come Twat, diminutivo trovato per lui da altri che avevano troppa difficoltà a cimentarsi con il linguaggio nordico.
    data & luogo: Gli aneddoti familiari narrano che non fosse previsto: i coniugi, in attesa del loro quarto figlio, non avevano mai fatto dei veri e propri controlli riguardo quella gravidanza. Giusto quelli strettamente necessari, ma era sempre una toccata e fuga; come potevano sapere che non ci fosse solo una bestia a nutrirsi della matriarca, ma bensì due? Certo, non potevano – lo scoprirono direttamente quando il primo disgraziato, Björn, fu espulso dal corpo di Agnes ed il medico disse loro che, herregud!, c’era un’altra testolina lì, a fare capolino. Erano le 07:04 del 22 dicembre del 2003, nel minuto esatto in cui il solstizio d’inverno aveva luogo, quando i gemelli vennero al mondo in quel di Molden, un piccolo comune dimenticato da Dio e dalla stessa contea del Vestland. E sarebbe stato tutto vero, se solo Tvättbjörn ed il gemello – come la stragrande maggioranza degli altri fratelli, escluso Edderkopp – non fossero stati adottati, o per meglio dire trovati, anziché essere stati partoriti.
    razza: Babbano fino al midollo, Tvättbjörn Cömmstaj, ed in qualsiasi vita egli abbia vissuto: nessuna discendenza magica a poter istillare il dubbio di un gene sopito, nessuna generazione spontanea di poteri da mezzosangue nato babbano; nulla di nulla. Se non fosse stato trascinato nei Laboratori, probabilmente avrebbe vissuto e sarebbe morto felicemente come tale.
    potere: Emocinesi, la capacità di manipolare il sangue proprio ed altrui a proprio piacimento; per il Cömmstaj, una vera e propria maledizione. E non soltanto per i diversi disturbi che ha portato con sé: soprattutto, anzi, perché la gente continua a chiedergli se, per caso, al sole brilli come il professor Quinn. Giusto per informazione, la risposta è no.
    allineamento: Twat non si identifica in nessun allineamento – dal momento che, a dire il vero, l’unico a cui potrebbe essere interessato è quello planetario ed al quale, essendo nato troppo presto di quattrocento anni (o troppo tardi di millecinquanta), purtroppo non potrà mai assistere. Si ritiene neutrale, ancora troppo estraneo al mondo magico per poterlo analizzare da un punto di vista più razionale; a voler essere onesti, nemmeno gli interessa più di tanto.
    istruzione: Purtroppo, la vita grama gli ha impedito di conseguire gli studi che più avrebbe potuto approfondire – ingegneria aerospaziale, così da potersi costruire uno shuttle monoposto con cui lanciarsi nello spazio e non fare mai ritorno sulla Terra. In compenso, una volta uscito dai Laboratori, gli è stata donata una casacca viola ad Hogwarts ed una bella spilla a forma di lira, che lo colloca tra le file dei Vega, negli Ivorbone.
    Semplice, ordinario: basterebbero davvero questi unici due aggettivi per descrivere fisicamente Tvättbjörn Cömmstaj. Magari poteva non esserlo a Modalen, Norvegia, dove lo standard era fissato sull’individuo alto, chiaro come un raggio di luna, con fili dorati al posto dei capelli e zaffiri o smeraldi nei bulbi oculari – ma anche lì la propria famiglia era sempre un po’ stata l’eccezione alla regola, tanto che spesso e volentieri gli veniva chiesto da dove si fossero trasferiti i genitori e tutto il resto della mandria.
    Non c’è nulla nell’estetica dell’emocineta che enfatizzi la sua presenza tra la folla, ed è sempre molto propenso a nascondersi dietro felpe più lunghe e larghe di lui pur di mimetizzarsi al meglio, piuttosto che risultare appariscente in alcun modo possibile; semplicemente perché non si confà all’indole del giovane, di per sé discreto ed anonimo. D’altronde, dovrebbe davvero esagerare per mettersi in mostra – e già ritiene che il portare un orecchino e tutti quei gingilli ai polsi sia eccessivo in tal senso –: alto appena un metro e sessantotto, Twat ha sempre dovuto preoccuparsi maggiormente delle gomitate in faccia casuali che non del fatto nessuno lo notasse; si sarebbe fatto considerare per i propri meriti, prima o poi, e non perché alto nella media o poco più.
    L’incarnato olivastro era forse ciò che più poteva richiamare l’attenzione altrui, ma solo se si pensava alle sue origini nordeuropee: i tratti meridionali, dal taglio degli occhi al colore degli stessi – di una morbida tonalità tra l’ebano ed il cioccolato fuso, caldo più di quanto Tvättbjörn avesse mai compreso in due intere vite, e più espressivi di ogni parola uscita dalle labbra del ragazzo o delle smorfie a tirarne la pelle –, alle sfumature di castano più soffice tra i bruni capelli mossi, scuri quanto le folte sopracciglia, finanche alle labbra piene, carnose; nulla di tutto ciò, potrebbe ricondurlo alla penisola scandinava. Il fisico è fin troppo asciutto, privato di un’adeguata nutrizione per sette anni, ma tonico quanto basta da non essere spazzato via da una violenta folata di vento – seguiva lezioni di ballo durante la propria infanzia, ed il tenersi in allenamento durante la prigionia lo aiutava a non uscire fuori di testa.
    Alla fine, potrebbe tranquillamente passare invisibile ed inosservato; uno come tanti, nascosto senza doversi celare – e va bene così, fintanto che gli consenta di sopravvivere.
    (fam: tvättbjörn cömmstaj) Agnes e Sal-Hund, meglio noti come la Matrona e l’Uomo, sono le due Entità che hanno allevato il biondo ed i suoi fratelli – anche definiti genitori dagli altri; Løve, Edderkopp, Mygg – i fratelli (e sorella) maggiori: gente decisamente troppo strana, a volte piacevole ma nemmeno troppo – ; Björn, il presunto fratello gemello ma con il quale, nonostante di sangue non ne condividessero nemmeno una singola goccia, aveva sempre avuto un legame speciale ed unico; Sauer, Geit, Esel, conosciuti come le bestie minori – ma non per questo, le meno problematiche. Fun fact: per quanto ne sapeva Twat, erano tutti morti. (2043!fam: dexter chesterton stilinski-milkobitch) Suzanne e Ken Chesterton, i genitori biologici di Dexter – due comunissimi saccheggiatori babbani, che durante il sesto anno di vita del figlio hanno ben pensato di abbandonarlo in un camioncino a fare l’hacker improvvisato, facendosi uccidere in una rapina andata male. Jeremy Milkobitch e Andrew Stilinski hanno senza dubbio fatto più da genitori, adottandolo, di quanto non abbiano fatto quelli naturali. Levi (Mckenzie Hale), suo coetaneo e come lui adottato dai #bitchinski, è uno tra gli esseri umani preferiti da Dex, se non il preferito: non lanci i tuoi fratelli - Sander (Barnaby Jagger), Juno (Reagan Lynch), Ray (Zachary Milkobitch), Julie: vi si vuole bene - da una catapulta con una persona qualsiasi. E poi ci sono un sacco di cugini. (animals) escludendo parenti vari e di cui non sa l'esistenza? okay. Una stupida capra, e nemmeno sua. Alejandro Pastina era la Bestia di suo fratello e di Roan – di chi altri poteva essere, con un nome simile? – ai loro tempi di Hogwarts, e che disgraziatamente è passata in eredità al babbano ed a Willow Beckham. Tra le abilità dell’ovino, troviamo: la capacità di rompere il cazzo a qualsiasi ora; l’espulsione di feci poco profumate sui letti di poveri disgraziati qualsiasi; raccapriccianti urla nel cuore della notte e nel buio più totale. Il Cömmstaj, convinto che Björn sia morto, è alquanto certo che Pastina sia posseduta dallo spettro del defunto gemello, tornato dall’aldilà solo per tormentarlo fino alla fine dei propri giorni. Fortuna che quella di Twat non è una lunga aspettativa di vita. (particular signs) Tvättbjörn è cleptomane da che possiede una memoria cui attingere: un’ossessione, un disturbo nevrotico, che ha dal momento nel quale ha imparato a stare in piedi ed a manipolare gli oggetti con facilità, piuttosto che affidarsi ad una blanda e semplice prensione. I motivi gli sono ancora oscuri; forse un feedback della sua vita passata, nella quale era stato allevato come un piccolo ladro ed in cui aveva usato certi insegnamenti per sopravvivere fino a che qualcuno non gli aveva mostrato potesse fare meglio di così – essere meglio di così. Quel che è assai più probabile, se non certo, è che s’incastra perfettamente con quel principio di disturbo antisociale della personalità che, dal tardo duemiladiciotto, ormai lo attanaglia sempre più marcatamente – non abbastanza da essere completamente invalidante, o diagnosticabile alla giovane età di sedici anni, ma comunque presente. Si definisce asessuale, mancando di qualsiasi impulso che contraddistingue invece la stragrande maggioranza dei suoi coetanei, nonché agnostico: avendo una mente che fa affidamento al metodo scientifico per ogni aspetto dell’esistenza, ritiene semplicemente di non avere abbastanza prove concrete né per credere in una fede piuttosto che in un’altra, né per affermare con assoluta certezza l’inesistenza assoluta di una qualsiasi divinità. Ciononostante, è fortemente affascinato dall’occulto, e se c’è da prendere parte a qualche rito – che sia satanico o meno, fa differenza fino ad un certo punto –: tutta colpa dei norvegesi da cui proviene. È un discreto collezionista, che ben si abbina al furto frenetico ed incondizionato; al momento, ciò che più lo affascina sono i coltelli di ogni genere e forma – e c’è chi dice addirittura ne abbia fin troppi –, i gioielli e la bigiotteria – in particolar modo, anelli e bracciali. Ha una cicatrice che gli percorre il busto da poco sopra lo sterno fino all’ombelico, nell'inquitante forma di una runa che non ha interesse di studiare. Ama la danza in ogni sua forma e stile, potrebbe tranquillamente cimentarsi in ogni tipo di ballo con facilità; l’unica in cui eccelle, però, è quella moderna.
    blood's thicker
    “Du er annerledes.” tre parole, scandite con estrema semplicità e naturalezza, ogni volta che da più piccolo alzava il capo a cercare gli occhi della madre – senza mai trovarli; facendosi per forza di cose bastare la larga schiena della donna impegnata in chissà quale attività casalinga: il massimo che aveva mai ottenuto da lei erano stati sguardi vaghi da sopra la spalla, ma mai veri o realmente rivolti al Cömmstaj. Se non fosse sempre stato così attento ai dettagli, minuzioso non solo nei gesti ma anche nelle occhiate rivolte ad un intero mondo da scoprire e conquistare, avrebbe potuto chiedersi quali fossero le sfumature dell’iride di Agnes senza mai riuscire a trovare una risposta. Se Tvättbjörn avesse considerato l’accontentarsi come una valida alternativa nella propria vita, se non ci fosse stata quella cocente ambizione e fervente curiosità ad alimentare ogni suo anelito di fiato, sarebbe probabilmente rimasto soddisfatto – come il resto dei suoi fratelli – delle attenzioni e premure che i genitori davano loro tutti, ritenendole genuine e spontanee. Ma uno dei migliori pregi, nonché forse il peggior difetto che potesse mai ambire d’annoverare nella lunga lista delle proprie imperfezioni, era proprio quell’insoddisfazione che non gli permetteva, in alcun modo possibile, di bearsi di quel che l’occhio vedeva; doveva, deve continuamente, scavare sempre un po’ più a fondo per raggiungere le vette più alte – su cui mettere lo stendardo di una nuova occupazione, o dalla quale osservare meglio il creato.
    Per questo quelle singole tre parole non avevano mai sorbito davvero alcun effetto in Twat: di essere diverso, l’aveva sempre saputo; strano dicevano alcuni, ma non gli importava. Lo aveva capito quando si era messo in piedi per la prima volta, a dispetto di un Björn che a malapena aveva compreso di avere delle appendici alla fine di quei salsicciotti che volgarmente considerava gambe; nell’istante seguente, l’epifania era divenuta un dato di fatto – consolidata, se non altro, dagli sguardi sorpresi ed allibiti dei vari Cömmstaj presenti alla sua prima corsa camminata verso le braccia aperte del padre. Di non essere come tutti gli altri, ne era felice. Se ciò significava che a differenza loro non riusciva ad accontentarsi di quel che gli veniva posto davanti, ma aveva la costante e fremente necessità di allungare la mano verso quel che teneva il suo vicino – non per gelosia, ma per semplice piacere nello scoprire cosa ci fosse di diverso dal suo, nel conoscere profondamente tutte le varie sfaccettature della realtà che non si confinavano ad una vista con il paraocchi –, a lui andava bene essere quello strano. Disinteressato alle normali attività dei suoi coetanei perché più avanti di tutti loro; non più intelligente quanto più sagace e lungimirante, più svelto nell’apprendere e nel capire il funzionamento del mondo; scientifico al limite dello snervante, sempre pronto a sperimentare a costo dell’etica e del buonsenso pur di annoverare un altro successo nella propria lista di vittorie. Se significava essere un emarginato, se tutto questo giustificava gli sguardi mancati con gli altri ragazzi quando era lui ad alzare il capo – solo per poi risentirli puntati contro la nuca mentre era lui a distoglierlo –, poteva farselo andar bene.
    Poteva, tutto ciò, oscurare quanto di negativo ci fosse nell’essere trattato come un utstøtt sin da bambini, e dalla propria famiglia. Poteva fingere di ottenebrare – ed addirittura riuscire a farlo, almeno in alcuni casi – tutti i lati svantaggiosi di quell’incontentabilità, dai motivi scatenanti agli effetti provocati.
    Come, ad esempio, quel senso di solitudine perenne che lo rende bisognoso di affetto e attenzioni che non vuole: non li cerca, né l’uno né le altre, perché non ha alcuna idea di come farlo. Non sa come guadagnarseli, perché sente di non essere capito il più delle volte; non sa come rapportarcisi, perché nessuno glielo ha mai spiegato. Autonomo da quella prima volta in cui si è reso migliore tra gli altri, Tvättbjörn Cömmstaj non è mai più stato considerato come qualcuno a cui andassero spiegate le cose basilari – come essere sociali, per dirne una. Come inserirsi in un contesto che prevedesse interazioni che non si basassero unicamente sulla scienza, quanto più sulla connessione umana; come essere in grado di rapportarsi all’altro.
    Erano tutte cose che, per quanto ne leggesse e ne avesse letto al riguardo, il giovane Cömmstaj sentiva di non comprendere – d’altronde lo dicevano tutti, che non erano argomenti che potessero essere studiati solamente nella teoria; nella pratica, ne era sempre stato carente. Prima perché troppo distante, poi perché troppo isolato: se in partenza Twat non era mai stato davvero stimolato dai propri genitori ad intraprendere dei rapporti interpersonali, sentendosi allontanato dagli stessi tranne quando avevano da premere su quei punti del suo intelletto per cui risultava importante, la reclusione forzata all’interno dei Laboratori non ha fatto altro che renderlo ancora più solitario, incapace anche solo di dire se ci sta provando.
    Fondamentalmente, il norvegese non può definirsi né buono né cattivo – certo che comunque non esista nessuno dei due estremi e solo sfumature tra loro. Si colloca nel mezzo, in quella sottile linea di perenne crepuscolo, perché troppo consapevole di se stesso: è quel tipo di persona che punta sempre al premio più alto, perché sa di essere il peggiore; sa di non essere prevedibile, non più, nemmeno al proprio sguardo riflesso nel vetro, per cui l’idea di non doversi standardizzare ad alcun canone lo fa vivere meglio – per quanto concesso. Ma forse deve anche a questo suo aspetto, la capacità di adattarsi a qualsiasi situazione gli venga posta davanti.
    Può essere tutto e può essere nulla, Tvättbjörn Cömmstaj.
    Di solito, sceglie di esserli contemporaneamente – come un maledetto gatto di Schrödinger.
    21.12.2012

    «nome e cognome,» il giovane norvegese cercò di sporgersi, sollevando entrambe le castane sopracciglia in direzione dell’uomo – ragazzo, per la precisione – con il camice; dati i diversi cavi che lo collegavano ad un macchinario che non aveva mai visto in precedenza, e che lo costringevano contro la sedia d’acciaio inossidabile, la sua fu una pretesa stupida: poté a malapena portare in avanti l’esile busto, senza minimamente riuscire ad avvicinarsi.
    Alla sua richiesta, Tvättbjörn Cömmstaj non rispose: perché avrebbe dovuto? Non gli era concesso parlare agli estranei, e anche se così non fosse stato aveva abbastanza buonsenso, malgrado la tenera età, da non fidarsi ciecamente di uno sconosciuto in una stanza sterile ed asettica. Si limitò a spingere le spalle contro il duro schienale, un velo d’incertezza e dovuto timore a piegargli le labbra in un broncio infantile; le iridi celesti, però, non lasciavano mai il profilo dell’adulto.
    «allora?» deglutì. Gli faceva male la testa; gli facevano male le braccia e le gambe, e qualcosa – sesto senso, o semplice intuito – gli suggeriva che quel dolore non era che l’inizio di una terribile esperienza. Magari, rispondendo, avrebbe fatto finire tutto molto più velocemente: se avesse detto a quel tipo quel che voleva sapere, magari l’avrebbero rimandato a casa dalla sua famiglia. Purtroppo per lui, era troppo sveglio anche soltanto per crogiolarsi nelle vane speranze di un bambino: «lo sai» masticò quelle due parole in inglese come fossero un pasto troppo stoppaccioso tra i denti, distogliendo debolmente lo sguardo. Il dottore – o infermiere, o ricercatore, o quel che era – tentennò, guardando verso la parete alle proprie spalle.
    «s-sì, ma devi dirmelo.» «perché?» una delle prime parole che aveva imparato a pronunciare in ogni lingua possibile: fosse mai che le barriere linguistiche potessero fermare la sua curiosità. «perch酻 si morse le labbra e sospirò, già arreso, allontanandosi un secondo per far poi stridere le gambe di una sedia verso il centro della stanza; gli si sedette di fronte, abbandonando la cartellina sul proprio grembo: sembrava aver già capito che quel colloquio gli avrebbe portato via loro molto tempo. «devo accertarmi tu lo ricordi, ok? che tu non abbia… traumi, ecco. ci stai?»
    Che non avesse… traumi. Perché mai avrebbe dovuto? Non capitava a tutti i bambini di 8 anni e 364 giorni di venire cloroformizzati e rapiti durante una cena di famiglia, mentre avevano il solo compito di recuperare del fieno ed un capretto dalla stalla così da adempiere al sacrificio che Freya meritava per il nono compleanno di due gemelli? Ah no? Assurdo. Allora si strinse tra le spalle, squadrando con un accenno di sfida l’altro: «tvättbjörn cömmstaj». Ovviamente il dottore non lo trascrisse, rimanendo con le labbra dischiuse a fissarlo – probabilmente, maledicendo chiunque lo avesse mandato lì dentro a prendere le generalità del bambino senza nemmeno un briciolo d’informazione basilare. Angelico com’era sempre sembrato ma mai stato, il ragazzino gli sorrise innocentemente, senza nemmeno pensare di avere la premura di ripeterglielo – fosse mai scriverglielo; non che potesse, date le corde a legarlo, ma non lo avrebbe comunque fatto. «mh, ok…» «scarabocchi?» con un cenno della testa, gli indicò la cartellina – dove era evidente che, al posto del suo nome, aveva fatto dei ghirigori privi d’alcun senso o scopo; contento lui. «cos- nO.» sì, certo. «ascolta, sai perché sei qui?» Twat aggrottò le sopracciglia, e piegò appena la testa di lato per espletare in pieno la propria confusione; naturalmente, non ne aveva alcuna idea. Gli ritornò alla mente l’altro bambino con cui si era brevemente incrociato quando aveva ripreso conoscenza: sembrava provato, stanco – ferito. Non sapeva perché fosse lì, non voleva davvero saperlo, ma era alquanto certo non fosse una gita di piacere.
    «no» mentì con voce tremula; perché una parte del giovane Cömmstaj sapeva, ma non aveva la parole adatte per esprimersi.
    «meglio così», rispose invece il dottore – Zeke, avrebbe poi scoperto il suo nome –, non sentendosela di dire una bugia al ragazzo.

    16.06.2018

    Erano passati cinque anni, cinque mesi e venticinque giorni da quando aveva fatto la conoscenza dei Laboratori, e da allora Tvat (così lo chiamavano i Dottori, sempre troppo affaccendati per ricordarsi che il quattordicenne avesse un nome completo) aveva visto entrare ed uscire un discreto numero di residenti come lui – chi più grande, chi della sua stessa età; raramente più piccoli. Aveva avuto ben dodici coinquilini, che solitamente parlavano, piangevano o si muovevano troppo per i suoi gusti, ma di pochi di questi ricordava la faccia, o il nome: la metà era morta durante il soggiorno nel Residence degli Orrori, l’altra era stata o Schiantata o Obliviata prima di essere lasciata libera di andarsene – Dio solo sapeva dove – e a lui veniva suggerito di dimenticarsene, cosa che non mancava mai di fare. Se non lo aveva già capito nel momento in cui era stato rapito, l’aveva fatto tre anni più tardi quando gli era stato detto che la sua famiglia – tutta, da Björn a quella bestia di Edderkopp, fino al più piccolo Esel – erano stati uccisi, chi a Modalen chi altrove: tutto era effimero, e così lo sarebbero stati i suoi stessi ricordi o forse la propria vita. Se non gli avessero cancellato la memoria prima di farlo andare via, sarebbe stato unicamente perché da lì non ci sarebbe mai uscito. Ogni iniezione faceva più male, ed ogni elettroshock era talmente più potente da lasciarlo stordito per ore ed ore: in tutto quel tempo gli esperimenti su Tvättbjörn Cömmstaj non avevano mai prodotto alcun esito, ed era sempre più convinto che il prossimo sarebbe stato l’ultimo.
    Così, quando Zeke gli disse che lo avrebbero spostato in un altro appartamento, non esultò né protestò. Prese i suoi pochi averi (qualche cambio all’ultima moda made in lab, ma soprattutto libri: era un abitante stabile e con un certo grado di anzianità, aveva dei privilegi) e lo seguì lungo quel labirinto di corridoi e stanze. In tutti quegli anni aveva imparato ad affezionarsi al Dottore, e sapeva che anche questo gli volesse bene – era buono, nonostante tutto e soprattutto se paragonato al resto dell’entourage, e sapeva che fosse sempre una sua premura quella di far spostare l’ormai quattordicenne per fargli avere compagnia, sebbene al sistema importasse poco o niente di chi fosse in isolamento e di chi condividesse la cella –, ma ogni volta che lo faceva spostare gli veniva voglia di ucciderlo. «Perché non fai venire direttamente da me i nuovi?» domandò, con l’accento nordico a smussare l’inglese che aveva imparato.
    Zeke parve non sentirlo, e piuttosto fece scivolare il proprio badge sul sensore di una porta. «Tvättbjörn Cömmstaj, ti presento Garrison Gates…»
    «Posh,» lo corresse subito il ragazzo, ancora mezzo addormentato e steso al buio sulla sua brandina. Twat rimase al proprio posto, senza minimamente scomporsi. «Gates come quelli della Microsoft?» fu il suo unico commento, dopodiché lanciò un’occhiata al dottore ed andò ad occupare il letto ancora libero dall’altra parte della suite. L’altro mugugno in assenso.
    Ci rifletté sopra qualche istante, poi decise di liquidare la questione con un secco «okay», prima di sdraiarsi e riprendere a leggere da dove aveva lasciato. Non gli interessava davvero chi fosse o chi fosse la sua famiglia, ma immaginava che per circostanza dovesse farlo; in ogni caso, prima o poi si sarebbe dimenticato anche di lui.
    «Garrison Gates, ti presento Tvättbjörn Cömmstaj.»

    21.12.2018

    Lo sguardo di Twat guizzava dalle spalle del dottore che era stato costretto a seguire alla propria stanza, dove aveva lasciato un Posh confuso quanto lui sulla porta.
    «Dove stiamo andando?» gli domandò, senza ricevere alcuna risposta. Nel giro di qualche ora – qualche minuto – avrebbe compiuto quindici anni, nonché sei da quando era stato rapito e portato lì dentro, ed a quel punto aveva bene o male capito chi lavorasse lì per puro sadismo e chi invece perché realmente credeva in un mondo migliore, in una risoluzione alle disparità che affliggevano la società magica: per le torture a cui era sottoposto avrebbe dovuto, eppure non riusciva a condannare realmente tutto il personale dei Laboratori.
    Ralph Adler, l’uomo che lo aveva interrotto quella sera, apparteneva senza dubbio alla prima categoria; per di più, era uno tra gli esseri umani più odiati dal Cömmstaj – una classifica colma di nominativi a dire la verità, ma sul podio il cinquantenne era presente. Non soltanto era un sadico bastardo, ma aveva anche uno strano luccichio negli occhi neri che trasudava cattiveria pura ogni volta che toccava a lui divertirsi con le cavie. Non un briciolo di pietà o compassione, né rimorso, ma quelle erano cose che avrebbe potuto leggere negli occhi di chiunque vestisse un camice dentro quella struttura: immaginava, il ragazzo, che ad un certo punto anche il più tenero dovesse diventare insensibile davanti agli Esperimenti, per non avere un crollo nervoso tre volte al giorno. In Adler c’era… altro. Come se fosse lì per fare del male e basta, senza un vero scopo a muovere bisturi ed elettrodi – di certo, non scienza o progresso.
    Ripeté la domanda quando svoltarono l’angolo, ignorando una prima sala operatoria.
    Lo fece di nuovo, quando non entrarono nella sala dei macchinari (per quanto fosse giovane e soltanto carne da macello, aveva un indiscutibile dono nei confronti della meccanica, e non era passato inosservato: allo staff, faceva sempre comodo qualcuno che aggiustasse le cose per loro senza doverlo pagare).
    Deglutì, e quando domandò per la quarta volta la loro destinazione lo fece con una certa, aliena preoccupazione a gravargli nel petto, gli occhi chiari puntati su quella che aveva tutta l’aria d’essere una via d’uscita da quell’inferno. Questa volta una risposta giunse, ed a quel puntò Twat comprese che non stava per essere liberato come aveva brevemente osato immaginare: dopotutto non erano ancora arrivati a nessun risultato con lui, sarebbe stato stupido sbarazzarsi di lui in quel modo.
    Arrivò sotto la forma di una parola in latino e di un lampo di luce scarlatto, accompagnati da un ghigno sul volto glabro e, poco dopo, dal buio più totale.

    Quando riprese totalmente conoscenza, sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime che non ebbe modo di versare. Non per la paura, per quanto alzando il capo sarebbe stato naturale essere terrorizzati: una dozzina, forse più, di individui incappucciati teneva delle fiaccole tra le mani, ed erano disposti in cerchio attorno a dove si era svegliato; a terra, sicuramente tramite la magia, erano stati disegnati dei simboli all’interno di un cerchio (simboli che non riuscì a riconoscere, ma che dubitava fortemente non avessero a che fare con dei rituali: aveva passato troppo tempo a guardare Sal-Hund sgozzare capretti per ingraziarsi Freya per non sapere certe cose). Non che non fosse spaventato, ma quella che pungeva gli angoli delle palpebre era sincera emozione. Gioia, quasi. Non vedeva un cielo stellato da così tanto che non era più certo di ricordarsi come fosse fatto, così come temeva non avrebbe mai più sentito il vento carezzargli il volto e scompigliargli i capelli chiari; sensazioni alle quali non credeva di essere mai stato tanto attaccato fino a quel momento.
    Si guardò attorno, sebbene ogni fibra del corpo e tutto il proprio buonsenso gli suggerisse di chiudere gli occhi ed aspettare che, qualsiasi cosa fosse, finisse – in un modo o nell’altro. Ma per Tvättbjörn era impossibile non essere spettatore, anche se impossibilitato a partecipare in prima persona: doveva sapere, doveva conoscere.
    Sapeva che di avere una ragazza accanto, sdraiata nella direzione opposta alla sua: poteva vederne solo il viso, il profilo, ma non aveva la certezza che anche lei fosse legata a terra come aveva scoperto di essere lui.
    Sapeva, appunto, di non poter muovere liberamente gambe e piedi, ma non capiva se per funi reali che lo incatenavano o se a causa della magia.
    Sapeva di avere nove persone nel proprio campo visivo, quindi dovevano essere minimo il doppio di quel numero.
    Sapeva che fosse notte, e che probabilmente si trovavano in una radura in qualche bosco dimenticato da Dio e dagli uomini.
    Sapeva che erano circondati da fuochi fatui, e che i mormorii che presto iniziarono a cantilenare le figure incappucciate né promettevano nulla di buono, né erano in una lingua che il norvegese avesse mai studiato.
    Sapeva di essere nella merda, ma non il perché.
    Non che, ad ogni modo, avesse il tempo di scoprirlo. Evitò di domandare alla ragazza chi fossero – una setta – o cosa stessero facendo – un rito –, o tanto meno il perché; erano tutti quesiti ai quali egli stesso poteva darsi una risposta, o ai quali sapeva che nessuno dei due potesse averne. Perciò, quando si volto nella sua direzione, lo fece solo per chiederle chi fosse.
    «Reggie. Tu?» rispose in un sussurro, udibile solo grazie alla vicinanza tra le loro teste: il vociare dei cultisti si era fatto più intenso, ed il vento aveva iniziato a turbinare così forte da fischiare nelle orecchie. Annuì, come se avesse importanza scambiarsi i nomi in quel momento. Non ne aveva, ed in realtà non era certo gli interessasse davvero sapere nulla di Reggie – eppure, sorrise. Una piega amara, gli occhi più umidi, e senza conoscerne il motivo. «Twat.» che ne poteva sapere, lui, che fosse sua sorella la coprotagonista di quell’orribile situazione?
    Quando Adler li raggiunse, il viso appena visibile alla fioca luce delle torce e sotto il cappuccio, lo fece con un coltello strano: una manifattura antica, quelle che credeva essere rune disegnate sia sul manico che sulla lama. Non si era reso conto di essere senza alcun indumento fino a quando la punta d’argento non aveva incontrato la carne del petto, spingendo così tanto da tagliarla e sporcarsi di sangue e bruciare e farlo desiderare di urlare con quanto più fiato avesse nei polmoni – cosa che non fece, serrando soltanto la mandibola e le palpebre, sapendo che tanto nessuno l’avrebbe mai sentito gridare. Strinse così forte da far male, e smise solo nel momento in cui la lama finalmente si scostò dal suo ventre. Aveva il cuore in gola con il battito estremamente accelerato, il respiro affannato da chilometri di corsa che non aveva mai fatto, e per quanto potesse voler alzare il capo per guardare cosa gli avesse fatto quello psicopatico, tutto ciò che vide attraverso lo sguardo appannato fu sangue. Tanto sangue.
    Sangue che cominciò a scivolargli addosso, cadendo a terra ed andandosi ad insinuare nelle rune disegnate in precedenza, splendendo di uno scarlatto così intenso da illuminare la zona più dei fuochi fatui. Lo osservò scorrere come un fiume in piena, sentendo la testa già pesare del trauma e dell’emorragia, e quando sentì gridare Reggie lo fece distante, sovrappensiero, ma si voltò comunque.
    Non sapeva dire se fosse peggio di ogni altra tortura per la quale era passato negli ultimi sei anni, ma si avvicinava parecchio al podio: forse, si disse, tra un po’ lo scoprirò.
    La terra, bagnata dal sangue della ragazza, iniziò a tremare. Le fronde sopra le loro teste cominciarono a muoversi forsennate, così come anche il circolo di spettatori tutt’attorno. Le voci si fecero distorte e gravi, come se provenissero da un altro mondo.
    Magari era tutta una sua impressione, un’allucinazione.
    Come la voce di Adler, appena un sussurro, ora inginocchiato al suo fianco.
    «Non sei contento? Ti ho regalato una lezione di alchimia, dovresti ringraziarmi.» fece per rispondergli, per mandarlo a farsi fottere, ma quando il coltello tribale gli venne conficcato nel ventre il fiato gli morì in gola, soffocato da altro sangue a salire fino alle labbra. «Buon compleanno, Tvättbjörn.»

    22.12.2018

    «T-twat?»
    Alzò lo sguardo, ma non vide davvero molto. Doveva essere sorto il sole da poco, dato il chiarore che filtrava tiepido tra le foglie, ma non lo aiutava più di tanto: aveva la vista appannata, ed i capelli che gli cadevano davanti gli occhi complicavano ancora di più. Respirava pesantemente, aveva freddo, si sentiva appiccicoso, ma soprattutto la testa pulsava come un fottuto martello pneumatico. Da un momento all’altro, e di ciò era abbastanza sicuro, gli sarebbe esplosa.
    Non aveva riconosciuto la voce che l’aveva chiamato, ma aveva sentito i passi concitati a schiacciare le foglie, sebbene il tutto fosse ovattato; quando sentì un tonfo davanti a sé, riconobbe Zeke – uno Zeke terrorizzato, per la precisione, che tremava per entrambi.
    Quando gli strinse le spalle, trovò la forza di vederlo meglio. Di vedere meglio tutto: il proprio corpo, nudo e macchiato di scarlatto, così come lo erano le mani; l’erba che premeva sotto le proprie ginocchia e sotto quelle del Dottore; il sangue. Oh, quanto sangue. Piegò appena la testa, e subito riprese a fargli male qualsiasi cosa oltre alla testa: non aveva mai visto così tanto sangue, né così tanti corpi riversi a terra privi di vita, e – «hey.»
    Gli prese la testa tra le mani, facendolo tornare con gli occhi su di sé. Non chiese nulla, ed il Cömmstaj ne fu molto felice, anche perché non avrebbe saputo cosa rispondere oltre a non averne la forza.
    «Reggie...» mormorò soltanto contro il suo petto, accorgendosi solo in quel momento che lo stava abbracciando. Assaporò la densità del sangue sulla lingua, ma non poteva immaginare che non fosse soltanto il suo. «Aiutala...»
    Quando Zeke chiese di chi stesse parlando, Twat era già svenuto.

    25.12.2018

    «Buon Natale – credo?» Twat aprì gli occhi, e ci mise un po’ a capire che era Posh a parlargli, seduto sul suo materasso. «Merda, sono tre giorni che dormi, pensavo non ti saresti più svegliato.» Provò a mettersi seduto, ma rinunciò subito dopo.
    Faceva ancora male – il petto, il ventre, le gambe, la testa.
    E lì, sdraiato su una brandina che ormai era casa sua, sentendosi più al sicuro con il Gates al suo fianco di quanto avesse mai potuto pensare, iniziò a piangere come non aveva mai, e non avrebbe più, fatto.

    01.07.2019

    «hO uNa LaUrEa!!!» «in cosa, stronzate avanzate?» Tvättbjörn Cömmstaj, occhi celesti spalancati e sopracciglia sollevate, scivolò sul carrello d’acciaio più scomodo che avesse mai provato – non che, negli ultimi quattro anni passati all’interno dei laboratori, avesse avuto l’ebbrezza di poterne montare uno più ergonomico e meno spacca schiena – per permettere alla testa di fare capolino oltre al macchinario, l’olio del motore di quella cosa (qualsiasi essa fosse, al norvegese non era dato saperlo) a macchiargli da cima a fondo il camice pallido. Armando («mi chiamo zeke, porca troia. zeke!!!, come fai a sbagliare così tanto??» «herregud, armando, calmati») stava evidentemente perdendo le staffe, ed il sedicenne non riusciva davvero a comprenderne il motivo. Lo stava liberando di un sacco di lavoro, ed il tutto gratuitamente – avrebbe soltanto dovuto ringraziarlo, anziché alterarsi nei momenti in cui gli faceva notare quanto il proprio operato da ingegnere meccanico fosse andato a farsi benedire. Quando lo diceva, lo faceva per il suo bene: sebbene passasse metà del suo tempo lì dentro a fargli presente quanto fosse un incapace, sia come Dottore Estremista che come uomo di scienza, Twat si era affezionato al ragazzo ed alla troupe che quotidianamente lo sottoponeva a più test e prove di resistenza del dovuto. Davvero, davvero, non lo capiva perché ogni volta tutti loro parevano essere sull’orlo delle lacrime. «hai una laurea, armando, e non sei riuscito a capire che il fusibile si era staccato, e che il bullone centrale della centrifuga si era allentato quel tanto che basti a renderla semovibile» rotolò a terra, solo per arrampicarsi in un secondo momento sul macchinario e guardare all’interno del cestello. «praticamente,» alzò lo sguardo, puntando un’inquisitoria chiave inglese contro Armando e tutta la sua squadra. «siete riusciti a mandare a puttane ricerche alchemiche di chissà quanti anni e quanti pazienti, premendo un solo tasto. uno solo!!» sì che non aveva idea dello scopo di quella roba, ma ad un occhio attento e scientifico come quello del Cömmstaj era palese che doveva trattarsi di una sorta di estrattore microbiologico: non gli interessava cosa ci facessero, gli importava soltanto che lo avevano distrutto – o meglio, che non avevano saputo come aggiustarlo. «idioter tutto ciò che per lui aveva valore lì dentro, era la macchina stessa: dopodiché, potevano davvero gestirsela come gli pareva là dentro.
    Li vedeva farlo da quando aveva appena compiuto dodici anni, non gli avrebbe detto di smetterla: voleva continuassero, ma con i giusti mezzi. Ed era per quello che, nonostante avesse avuto l’opportunità di andarsene tempo prima, aveva deciso di non schiodarsi da quella base – aveva stipulato una sorta di patto con il direttore della divisione in cui era stato “imprigionato”: sarebbe potuto rimanere, solo se avesse continuato a sottostare ai loro esperimenti e se avesse impiegato le proprie conoscenze nell’ingegneria e la meccanica per aiutarli.
    Era passato un anno da quando gli avevano detto che doveva uscire, che lo avrebbero ricollocato in una struttura magica inglese, e lui aveva rifiutato di alzarsi, dicendo che si trovava così tanto bene lì dentro. Nove mesi, da quando avevano tentato nuovamente di scortarlo fuori dal Laboratorio per mandarlo in branco ad una società che non capiva, ed alla quale non voleva mescolarsi: non lo vedevano, che faceva fatica anche solo a parlare con i compagni di cella? Sei mesi, da quando nauseati dai suoi modi di fare – lo definivano arrogante e saccente, fastidioso come un dito ricoperto di sabbia su per il deretano, ma Twat non aveva mai compreso le loro ragioni: viveva in un mondo tutto suo, e per lui quello era un modo normalissimo di relazionarsi ad altri esseri umani – , Armando ed un’altra decina di suoi colleghi avevano provato a trascinarlo fuori con l’inganno. Fallendo miseramente: dopo quella volta, smisero di provarci realmente – qualche tentativo di liberarsi di lui persisteva, ma ingenting å gjøre.
    Zeke, con la testa abbandonata contro le sbarre ed un esaurimento nervoso a pulsare comicamente contro la tempia, glielo aveva chiesto quale fosse il vero motivo per il quale non voleva andarsene di lì. Era stato nel settembre dell’anno precedente, a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico e poco prima che provassero a farlo uscire di nuovo; la sua risposta, era stata la stessa che aveva dato al Dottore Capo.
    Forse non aveva una vita, quello lì, perché periodicamente tornava a chiederglielo: non riusciva a decifrare i suoi intenti, Twat, arrivando a sentirsi un esperimento sociale oltre che magico e scientifico. Una volta, per farlo contento, gli disse che quand’era piccolo avrebbe desiderato diventare un astronauta – un ingegnere, un macchinista; aveva tutte le carte in regola, sebbene fosse poco più che un semplice bambino – , ma che a quel punto immaginava di non avere più molte opportunità di andare nello spazio. Non era più un semplice babbano, ma non era nemmeno un mago come suo fratello: era uno stupido ibrido, e senza davvero una forma, senza un potere manifesto che gli permettesse di darsi un’etichetta. Non lo avrebbero mai lasciato libero di studiare, di partire, di andarsene davvero – ed a quel punto, allora, rimanere lì dentro a sistemare macchinari era il massimo che potesse immaginare per il proprio futuro a venire.
    Quando continuò a fargli domande, iniziò a dirgli che aveva rotto il cazzo.
    Voleva solo stare lì ed aggiustare cose, perché dovevano farla così difficile? «ma voi ci avete studiato pure per fare così male il vostro lavoro?» forse, per quello. «dovevate soltanto -» «shhhh» «- scUSA?» lo aveva appena zittito? «zitto un po’, 971» sì, lo aveva fatto. «qualcuno si è introdotto nel laboratorio» ma… «oh, quindi avete rotto anche il sistema d’allarme? du er veldig god» avrebbe anche iniziato a battere le mani, se non gli avessero puntato contro una bacchetta.
    Dopodiché, iniziarono tutti a disperdersi: Twat, rimase da solo con il suo bff4e.
    Udirono urla, tante urla, e per quanto fosse abituato a sentir strillare le altre cavie sapeva che quello era ben diverso.
    Stava succedendo qualcosa, e «twat, stavolta è meglio se scappi sul serio» cercò gli occhi scuri di Zeke, rimanendo però al proprio posto. «non voglio» «non è un’opz-» «non so dove andare»
    Quello, il vero motivo per cui non voleva andarsene.
    Lo avrebbero potuto sbattere nella famosa Different Lodge di Hogwarts, glielo avevano detto, ma non gli andava. Avrebbe potuto accettare, solo se avesse potuto rivedere Björn ed i suoi fratelli – ma non era uno stupido, e sapeva che nemmeno quella sarebbe stata una vera opzione.
    Erano in Norvegia, e lui aveva solo sedici anni ed una vaga idea di quanto lontana fosse dall’Inghilterra. Per quanto ne sapeva, la sua famiglia poteva essere morta – o non trovarsi più a Modalen, nei migliori dei casi.
    Uscito da lì, sarebbe stato da solo. Completamente, da solo.
    «facciamo che ci vediamo fuori da qui» e per la prima volta, vide il Dottore sorridere – quasi dolce ed amichevole, la piega sulle sue labbra. «ti aiuterò io.»
    Ma… successero cose.
    Molte, molte cose, dal momento in cui le loro strade si divisero.
    Tipo una ragazza con una katana ed un orsacchiotto, e «ernest?» morto dissanguato. «oh no.»
    «…perché ti stai buttando addosso il suo sangue»
    «precauzioni: penseranno io sia stato aggredito – DOVE ANDIAMO»
    Ovunque la ragazza strana lo stesse portando, comunque, fuori di lì non rivide Zeke.
    jake manley
    save your razorblades now, not yet



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    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> birthday:</span> SCRIVI QUI DATA E LUOGO DI NASCITA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> race:</span> SCRIVI QUI RAZZA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> power:</span> SCRIVI QUI POTERE SE SPECIAL
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> alignment:</span> SCRIVI QUI L'ALLINEAMENTO
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> school:</span> SCRIVI QUI ISTRUZIONE
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