[evento] in loving memory

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    Can bring back
    what's no longer there"

    - grandson
    Un mese.
    Inspirò, espirò.
    Un mesto sorriso incurvò appena l’angolo della bocca di Mitchell Winston, mentre le mani affondavano sempre di più nelle tasche del mantello; una piega triste e nostalgica quella sulle labbra, ombra di ciò che era stato e che nel passare del tempo ancora non aveva recuperato. Non che, dopo soli trenta giorni, avesse la pretesa di poter far finta di nulla – di andare avanti, così come se la battaglia non avesse mai preso piede sotto lo sguardo stanco di una Hogwarts distrutta. Strinse istintivo i pugni nella stoffa, quando gli occhi celesti scivolarono sulla parete della Sala d’Ingresso: il pannello di nero onice, che egli stesso aveva avuto premura di applicare sulla spoglia parete di mattoni della scuola, una delle poche ancora miracolosamente integre, non gli avrebbe comunque concesso di sorvolare sull’argomento con facilità. E non lo voleva, il vicepreside – non poteva: era passato sin troppo velocemente dalla negazione all’accettazione dell’evento, osservando rabbia, contrattazione e depressione mentre correva loro affianco, superandole per mancanza di tempo necessaria ad elaborarle, ma non poteva fingere che quelle fasi non ci fossero, o che non ci sarebbero sempre state. Erano parte di lui, e lo avrebbero costantemente seguito.
    Ma aveva già fallito, e non poteva permettersi di adagiarsi sugli allori. Doveva sistemare il sistemabile, Mitch; doveva fare qualcosa, e rimanere a quel primo di giugno non avrebbe fatto sì che la scuola si ricostruisse per mero intervento divino, o che le fibre di cuore strappate dalla lama di un folle si ricucissero da sole. Era consapevole di non essere la persona adatta a quel compito, o che non esistesse realmente quella in grado di mettere ogni cosa al proprio posto – o almeno, non più -, ma quantomeno ci avrebbe provato, in un modo o nell’altro.

    Un mese.
    Era già un mese, da che quella lapide simbolica aveva fatto la sua entrata in scena a scuola.
    Non erano stati lasciati loro corpi da piangere e da seppellire, a cui donare un ultimo saluto prima di non poterli mai più rivedere; in una silenziosa Sala Grande drappeggiata di velluto nero, pochi giorni dopo, erano rimasti soltanto i ricordi da commemorare – non abbastanza, ma tutto ciò che avevano. Quella di intagliare nella pietra nera il nome dei venticinque caduti per quella causa non era stata una decisione presa a cuor leggero. Sapeva che avrebbe fatto male a molti, quando la scuola sarebbe stata riaperta, vedere la propria famiglia, o i propri amici, od i propri amanti ridotti a mera scritta su di un muro. Sapeva che meritassero di più, che tutto quello poteva parere come una mancanza di rispetto nei loro confronti – che meritavano statue, e che i loro nomi fossero scritti sui libri di storia; che questa, loro, l’avevano effettivamente fatta quel giorno: era sempre un po’ isterico, rendersi conto di come la storia venisse scritta con il sangue di chi non avrebbe mai potuto leggerla. Per primo al Winston, aveva stretto il cuore nel petto dover fare quella scelta; ma cos’altro poteva fare? Non poteva riportare indietro nessuno – ed averla avuta, lui, quella possibilità, rendeva tutto quanto ancora più complicato.
    Un monumento ai caduti, civili in una guerra che non avevano scelto od alla quale non avrebbero mai dovuto partecipare.
    La cosa ancora più esilarante, era che il Mitchell ribelle ancora ci credeva, che quella avrebbe potuto essere l’ultima di una lunga serie; che, buon Dio, prima o poi avrebbero davvero cambiato le cose e reso quel mondo un posto più vivibile per i loro figli.
    Perché era ingiusto, che su quella parete ci fossero i nomi di Sehyung e Kamikaze, di Eloide ed Heather, di Barrow e Jess ed Erin – erano solo bambini, ed era per loro che combatteva da ormai dieci anni.

    Un mese.
    Un mese, da quando il Lago Nero si era tinto di rosso sangue, le difese erano state distrutte e le mura del Castello crollate – ma sembrava un eternità, ed appena il giorno addietro. Ancora gli sembrava di sentire il peso del corpo di Marcus tra le braccia, i pugni di Scott contro il petto, le iridi chiare di Will incupite sull’increspatura delle acque.
    Un mese, da quando aveva mandato studenti e professori a casa anticipatamente, rimandando esami e quant’altro a data da definirsi: le motivazioni logistiche erano palesi, bastava guardarsi intorno, ma per quanto lo riguardava il ventottenne avrebbe potuto far svolgere G.U.F.O. e M.A.G.O. anche all’interno di una rovina Inca depredata dai conquistadores mezzo millennio prima; era tutto il resto, a metterlo nella condizione di chiudere i battenti di Hogwarts i primi di giugno.
    Un mese, da quando il mondo magico aveva iniziato a riassestare il proprio asse, e di stravolgerlo laddove meglio credeva. Mentre una molto più anziana Jeanine Lafayette riprendeva il proprio trono a Beauxbatons, e William Lancaster recuperava la sgualcita poltrona di Salem, la tanto agognata dipartita di Dragomir Vasilov aveva lasciato diversi buchi da colmare. Se la scuola scozzese ancora si trovava con il seggio vacante, con il Winston a fare le veci della presidenza, quella scandinava aveva trovato un nuovo capo in Ivan Lamovsky e Kimiko Oshiro era di nuovo Ministro della Magia inglese. Paranoico di natura, Mitchell non si fidava di quella pace apparente, di quella calma piatta che si era insinuata nelle vite del popolo magico dal momento in cui Seth aveva fatto il suo ritorno – ma potevano approfittarne.
    Potevano leccarsi le ferite.

    Ed era passato un mese, un solo mese, da quando il Quinto Fondatore aveva espresso il desiderio di un ballo di fine anno.
    Un
    dannatissimo
    ballo di fine anno.
    Aveva creduto scherzasse, Mitchell.
    Aveva pensato fosse soltanto un modo di dire, che non intendesse sul serio; lo aveva sperato, perché dubitava che molti avrebbero partecipato ad una festa dopo così poco tempo.
    Ma, sapete – più passavano i giorni, più si ritrovava a credere non fosse un’idea così… stupida.
    Sbagliata, forse sì. Poco consona, magari – che alle porte di una ricorrenza simile, l’idea di ballare e brindare alla fine di un anno scolastico non pareva essere il massimo delle aspettative.
    Però, forse e tutto sommato, ne avevano bisogno.
    Così aveva iniziato ad organizzare, a spargere la voce – o meglio, aveva aiutato a spargere la voce: a conti fatti era la festa di Abbadon, la festa da lui richiesta, ed era stato egli stesso a preoccuparsi di far recapitare inviti a tutti coloro che credeva potessero essere… interessati; non si chiese, Mitch, se avessero scelta o meno di partecipare, di farlo preoccupare per la poca affluenza, perché temeva sinceramente che la risposta non gli sarebbe piaciuta. Aveva chiesto a sua sorella se lei ed il suo gruppo avessero (in repertorio della musica country) intenzione di esibirsi ad un evento simile, ed aveva fatto tutto il possibile nelle ultime settimane per rendere i cortili di Hogwarts adatti all’occasione. Presentabili – trasformando le macerie rimaste in pezzi di storia incastrati nell’erba, pulendo di proprio pugno le macchie che la magia non era stata in grado di rimuovere.
    Voleva che tutto fosse perfetto, per quel giorno.
    Voleva che i ragazzi danzassero sotto le tiepide luminarie sospese a mezz’aria, che i più grandi alzassero calici di punch ed idromele, che solo per un giorno il peso nel petto fosse quantomeno sopportabile.
    Almeno per una sera, almeno per loro.
    Erano trascorsi quindici minuti dalle otto pomeridiane, ed altrettanti ne sarebbero dovuti passare affinché in quel primo di luglio gli invitati iniziassero a varcare i cancelli di Hogwarts, e Mitchell Trevor Winston aveva già tutto pronto – luci, palcoscenico, una lunga tavolata per il buffet e tanti tavolini rotondi disseminati per i cortili del castello; si era premurato di prendere anche due corone, il vicepreside, oramai avvezzo ai prom statunitensi per non riproporre anche in Scozia l’elezione di un re e di una reginetta del ballo. Diverse aree della scuola erano ancora precluse alla visita, le scale ancora distrutte dalla battaglia e non ancora ricostruite, ma almeno la Sala Grande e quella d’Ingresso erano state agghindate a festa.
    Ma era in quest’ultima, che il ribelle ancora sostava immobile – il sorriso mesto, le mani affondate nel mantello.
    Ed era dinnanzi alla lapide, che gli risultava difficile muoversi. Fece scivolare gli occhi sul nome di Marcus; lo fece scivolare sul nome di Erin, e su quello di Barrow e Jessalyn; su quello di Richard, e di Kamikaze ed Eloide ed Heather e Sehyung, su chi in quel luogo nemmeno avrebbe dovuto esserci – figurarsi morirci -, e su quelli che ci avevano provato, ma nemmeno erano riusciti a superare il varco per arrivare lì.
    Perché se voleva che tutto fosse perfetto, era per quelle venticinque vite scolpite sulla pietra.
    Perché avevano pianto la loro morte, avevano sofferto la loro assenza.
    Era giusto, ad un mese dalla loro scomparsa, festeggiarne la vita – celebrarne il ricordo.
    E per quanto fosse forzata quella festa, per quanto il volere di Seth era che fosse in suo onore, avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per renderla la loro festa.
    Glielo doveva.



    Una mezz’ora dopo, buona parte degli invitati era già entrata ad Hogwarts. Non si interrogò su quanti ne dovessero ancora arrivare, non si chiese chi fosse già giunto; si limitò ad osservarli da sopra il palco mentre si confondevano nella massa, scivolando da un abbraccio all’altro con gioviale cortesia.
    La si percepiva, la tensione; poteva quasi sentirli quei silenziosi cosa ci faccio qui, o i tanti dio!, ma perché sono venuto: li capiva tutti, Mitchell.
    Non era certo che avessero così tanta scelta, e continuava a credere che fosse in qualche modo terapeutico per tutti quanti loro – ma li capiva.
    Si puntò la bacchetta alla gola, biascicando un sonorus prima di schiarirsi la voce ed ottenere l’attenzione del pubblico. O una sorta: si accontentava di poco, in situazioni del genere.
    «signore e signori» forzò il sorriso sulle labbra, allargando le braccia ai propri fianchi. «buonasera a tutti, e grazie di essere qui oggi.» e scusatemi, se non avete avuto scelta; mi dispiace, se avreste voluto essere da tutt’altra parte stasera. «non intendo tediarvi con alcun discorso, ma solo darvi qualche direttiva. innanzitutto,» non pensate: semplicemente, non pensate a nulla. Congiunse le mani tra di loro. «non ci sono orari» se non quelli degli elfi domestici delle cucine, che già gli avevano detto ad un certo punto avrebbero smesso di rifornire di cibo e bevande il banchetto: assolutamente lecito; in realtà, non era nemmeno certo ci sarebbero stati quel giorno. «ma i dormitori non sono ancora attualmente raggiungibili, quindi è impossibile restare a scuola a dormire: ad ogni modo, per tutti coloro che non potessero tornare a casa dopo il ballo,» sbronza? Sbronza: una delle poche certezze di quell’evento. «le locande di hogsmeade hanno dato la loro completa disponibilità ad ospitare per la notte chiunque ne avesse bisogno.» chissà come, non voleva saperlo.
    «come già accennavo, e come ben sapete,» rivolse uno sguardo soprattutto agli studenti ivi presenti, ai professori. «il castello non è ancora completamente agibile: sono raggiungibili solo la sala grande, quella d’ingresso e poche aule del pianterreno.»
    Avrebbe magari potuto dire di non esagerare con gli alcolici, di non fare casini e non aizzare risse, ma decise di non farlo. Si fidava dei suoi ragazzi, e confidava non avrebbero distrutto una scuola già rasa al suolo.
    Probabilmente faceva male.

    «di qualsiasi cosa abbiate bisogno, non esitate a chiedere – a me, o agli altri docenti di hogwarts. detto ciò, vi lascio a-» -lla festa?
    Idealmente sì.
    In pratica, al buio.
    Denso e pesto, quasi solido al tatto: non si erano semplicemente spente le luci, non erano state soltanto oscurate quelle naturali. Sembrava di essere letteralmente stati ingurgitati dalle tenebre, e se non avesse sentito le voci concitate sotto il palco avrebbe creduto d’essere l’unico a vivere quell’incubo. Perché, per un attimo, di quello aveva pensato si trattasse.
    Di panico.
    Rapido estrasse la propria bacchetta, tentando di illuminarne la punta, e sebbene percepisse il potere fluire e funzionare, continuò a non vedere nulla – così tutti gli altri maghi e streghe, e gli special che avrebbero avuto la possibilità di vedere al buio in un modo o nell’altro.
    Dove siete?
    Non è divertente.
    Chi cazzo ha spento le luci?
    Vaffanculo, ci mancava solo questo.
    Cosa sta succedendo?
    Tienimi la mano.
    «yeah,» una luce illuminò un solo uomo, dall’altro lato dei cortili; un faro ad occhio di bue, se solo ne avessero avuto uno, che lo seguiva ad ogni lento – … lentissimo – passo verso il palco. «i’m gonna take my horse to the old town road, i’m gonna» inhale. «ride till i can’t no more.»
    Inarcò un sopracciglio, Mitchell, ed il panico lasciò spazio alla confusione. «i got the horses in the back /
    horse tack is attached / hat is matte black / got the boots that's black to match»
    si umettò le labbra, continuando ad osservare sbigottito l’avanzata dell’uomo; c’era addirittura la musica, ed onestamente il vicepreside non voleva sapere come funzionasse tutta quella roba. «riding on a horse, ha / you can whip your porsche / i been in the valley / you ain't been up off the porch, now - can’t nobody tell me nothiiiiing» nemmeno avessero voluto, sapete?, avrebbero potuto dire alcunché. «you can’t tell me nothing»
    Era così che Abbadon aveva deciso di fare la propria entrata in scena alla sua festa: cantando old town road mentre sfilava fino al palco, salendovi sempre a ritmo di musica. Due minuti e mezzo davvero intensi, quelli.
    «beh,» batté le mani, ed immediatamente non fu più l’unico ad essere visibile – sebbene l’esagerato cappello da cowboy sulla testa catturasse l’attenzione collettiva.
    Non che questa, ai partecipanti, fosse concesso rivolgerla altrove. «non vi è piaciuta la mia esibizione? ao» piegò lo sguardo scuro sul Winston, la fronte corrugata. «perché non applaudono?» «signor abbadon…» come dirglielo, che probabilmente erano abbastanza scossi e traumatizzati? «oh, chiamatemi seth – comunque, dai: applaudite!» e la platea, forzata, applaudì; taluni fischiarono pure, entusiasti. «ah ochei, così va meglio. però c’è bisogno di un po’ più di iniziativa, eh!, non posso continuare a dirvi io cosa dovete fare. sono già stati fatti gli onori di casa, quindi non mi resta che dirvi benvenuti alla mia festa di bentornato!!!» e com’era felice, il pericolosissimo essere rinchiuso sotto il Lago Nero da un’antica magia per un migliaio d’anni.
    Un bambino in overdose di zuccheri. «vabbè balliamo – AH NO!, fermi, quasi dimenticavo» schioccò le dita, ed un enorme pacco scarlatto apparve sul palco. «ho portato un pensierino per voi! dai, scarta la carta»
    Arretrò, lo special, battendo le mani tra loro e congiungendole sotto al mento.
    Non si fidava, Mitchell Winston, mentre sapeva di essere costretto ad aprire il pacco.
    È una trappola, ma cosa poteva fare?
    Nulla: disobbedire non gli sembrava l’idea migliore, in quel preciso istante.

    Così, slegò il nodo.
    Così, le pareti di cartone crollarono a terra.
    Così, fece due passi indietro.
    Così –

    voci e sospiri,
    urla e silenzio
    .

    «abbassa la bacchetta, scott»
    «no. non se non la abbassa prima lui»
    «oh, andiamo, non vi fidate?»
    Mitchell tenne sollevato il catalizzatore magico, non distraendosi a cercare l’odio negli occhi verdi del Chipmunks: non gli avrebbe detto di non puntargli la bacchetta contro, non gli avrebbe impedito di colpirlo. Voleva solo chiedergli di aspettare, ma non lo fece.
    Perché la risposta a Seth era che no, non si fidava.
    Strinse l’arma con più sicurezza, fingendo che le mani non stessero affatto tremando.
    Ed ancora di più, quando vide l’oltraggio nelle iridi ambrate, le lacrime umettare quelle più chiare; ancora di più quando qualcuno si mosse appena, avanzando per frapporsi tra la bacchetta e la ragazza, le iridi celesti indignate e tristi.
    Non si fidava.
    Come poteva farlo?
    Paranoico? Senza dubbio. Avrebbe voluto poter dare la colpa unicamente ai suoi trascorsi, alle controindicazioni del proprio sacrificio di tre anni prima, ma sarebbe una menzogna attribuirli solo a quella causa.
    Perché era impossibile. Era semplicemente impossibile.
    «cos’è che ti ho detto, quando sei entrato in casa mia per la prima volta?»
    Perché era passato un mese, da quando aveva parlato a Marcus Christopher Howl – almeno, da quando lo aveva fatto guardandolo negli occhi.
    Un mese, da quando aveva visto Erin e Jess, Richard, Barrow e Kamikaze, Eloide ed Heather e Sehyung e Jason e tutti quanti.
    Un mese, da quando erano morti.
    Non potevano essere lì.
    Non poteva essere vero.

    Rincarò la presa, la punta del legno d’abete puntato alla testa di Marcus, negli occhi azzurri una sola supplica: dammi la risposta corretta, Howl.
    Dimmi che sei davvero tu
    .
    rebel | 28 y.o.
    deputy headmaster
    hogwarts' promenade | 01.07.19
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 00:37
     
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    It's fate, not luck.

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    Benvenuti, studenti e non, al ballo di fine anno di Hogwarts!
    Si tratta di un evento in cui non esiste un limite di partecipanti, ed al quale potrete intervenire con tutti i vostri PG, siano questi provvisti di scheda o work in progresss o, ancora, fittizi.
    Come già scritto nel post d'apertura, sebbene la discussione sia nella sezione dei Cortili (sede principale del prom), i vostri personaggi potranno dire di essere nella Sala d'Ingresso, nella Sala Grande o in una delle poche aule agibili del pianterreno - ma sempre postando in questo topic.
    La role resterà aperta fino al 05.08, alle 23:59 - dopodiché, non sarà più possibile postare.

    INFORMAZIONI DI SERVIZIO:
    - il prom ha luogo il 01.07 alle 20:30, un mese dopo la battaglia. Da quest'ultima fino al giorno del ballo, gli studenti sono stati rimandati a casa e la scuola chiusa; gli esami di fine anno sono stati spostati all'inizio dell'anno scolastico 2019/2020.
    - sebbene si tenti di farlo passare come un evento per gli studenti, è a conti fatti la festa richiesta da Abbadon: è stato lui a pubblicizzarla, e non è realmente concesso agli abitanti del mondo magico non prendervi parte - ciò non significa però che siate costretti a postare ogni vostro personaggio.
    - okay, va bene, passiamo a ciò che davvero volete sapere. Il regalo:
    -- sì, quelli all'interno del pacco portato da Seth sono davvero coloro che sono stati sacrificati da Vasilov, o dal Passaggio, durante la scorsa quest. Non sono copie, non sono illusioni: sono loro. Ergo, potete dare per scontato Marcus abbia risposto correttamente alla domanda e sbizzarrirvi: unleash the beast.
    -- dopo essere stati uccisi, Seth ha portato tutti i cadaveri in un bunker, molto lontano e molto nascosto, e li ha riportati in vita dopo poco. Non è importante il come, non è importante il perché: così come non lo sanno i diretti interessati, non lo sapete neanche voi. Nel mese trascorso, hanno dovuto recuperare le forze, ricaricare le batterie: così Seth ne ha approfittato per fare amicizia con i morti, aggiornarsi con loro sulle newzzz degli ultimi mille anni e fare giochi (aka: esperimenti sociali) per capire la gente. Il buon vecchio Abbadon chiama i suoi nuovi bff4e "le sue Ombre". O anche Ombretti.
    -- sono vivi e vegeti (non senza trauma, ma insomma: #oblivion #onesto) e potete naturalmente muovere anche loro. Ora, vi chiederete (o forse no?): ma sono tutti vivi? Ebbene, la mia risposta è molto semplice: boh.
    In che sensoh? Nel senso che sta a voi la scelta. Volete che qualche vostro pg muoia davvero? Qualche fittizio che era predestinato a non farcela, o qualche poveraccio che non vedevate l'ora di far crepare? Sta a voi!
    Come sempre, è tutto nelle vostre mani.
    Il Fato si limita a vedere, ed a provvedere.

    NUOVA REGOLAMENTAZIONE REGIME ABBADON:
    - Abbadon, quinto fondatore di Hogwarts imprigionato (e dimenticato) fino al 01.06.19, data in cui è tornato nel nostro mondo, non si occuperà attivamente della politica del mondo magico, ma alle spalle di ogni decisione ci sarà sempre lui.
    - - Il Ministro della Magia (png) è nuovamente Kimiko Oshiro, fino ad ora tenuta prigioniera da Vasilov.
    - - il preside di Hogwarts è Leslie Chow (png).
    - - il preside di Durmstrang è Lamovsky (png).
    - - la preside di Beauxbatons è nuovamente Jeanine Lafayette (png).
    - - il preside della nuova Salem è nuovamente William Lancaster (png).

    - gli special possono tornare a lavorare al ministero e ad Hogwarts; per sapere quali lavori possono fare, controllare questo topic.

    - gli special possono tornare a vivere fuori da new hovel.

    - non sono più necessari i garanti (né abitativi, né lavorativi).

    - saranno riabilitate le lezioni di controllo, e gli special minorenni saranno maggiormente integrati nell'educazione ad Hogwarts.

    - gli special minorenni, se hanno alle spalle una famiglia di maghi (quindi sono esclusi i babbani), possono tornare a casa per le vacanze estive; gli altri, come ogni anno, saranno spostati a new hovel fino ad inizio anno scolastico.

    - i cacciatori, v livello del ministero, sono divenuti ufficialmente la polizia magica; oltre ad occuparsi di special fuori controllo, saranno di loro competenza anche i maghi che non rispettano le regole.

    - esiste un nuovo ordine segreto, un'élite di purosangue che vuole ristabilire l'antico ordine (precedente a Seth, successivo all'Oblivion). La loro esistenza è ignota anche al Quinto Fondatore, ed il loro compito principale è quello di spiare gli special; intervenire come e quando lo ritengono opportuno. Una sorta di Resistenza al Regime attuale, fedele a quello appena caduto. Nome in codice: pappacrepa.

    // REGIME: è un periodo di assestamento e di quiete - godetevelo finché dura - ma non di pace. Nessuno è al sicuro. Se prima i maghi potevano vantare privilegi ed una certa tutela, ora sono privati di questo lusso: maghi e special sono trattati allo stesso modo. Se conoscete i vostri polli, sapete che giustizia non rientra nel mondo oblivion, il che significa, papale papale, che sono tutti trattati a pesci in faccia.

    Watch your back, for the worst is yet to come.
     
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    Potentially evil.
    Potentially good, too, I suppose.
    Una mano teneva il gambo del bicchiere con nonchalance, colmo di Champagne, mentre l’altra era nascosta nella tasca dei pantaloni beige. Si guardava intorno, annoiato, come se tutto quello che avesse di fronte non fosse altro che un ricordo sbiadito di un’altra epoca, di una vita che aveva lasciato indietro quasi un mese prima. C’era da dire che l’organizzazione fosse, quantomeno, impeccabile e che tutti, nessuno escluso, fossero gradevolmente vestiti abbastanza bene da far intendere di non aver avuto scelta.
    Il che lo riportava al perché fossero lì quella sera e del fatto che, con tutta la buona pace del mondo, avrebbe preferito rimanere con i pittori che, diligentemente, gli stavano ridipingendo casa. Era tutto così artefatto in quella che, poco prima che tutto andasse in malora, era stata il suo rifugio; Hogwarts non era più la stessa da tanto tempo, forse da ben prima che la battaglia avesse distrutto le vite di tutti i presenti.
    Tranne la sua, forse, e quella di pochi altri.
    Ora, il pensiero di essere totalmente incapace di provare pietà o cordoglio o, meglio ancora, dispiacere era un dato di fatto. La sua espressione era sempre rimasta la stessa e persino il dolore degli altri gli era scivolato addosso come sapone; sapeva che reagire in modo tanto asettico avrebbe solo portato a far credere che fosse senza cuore (e forse lo era. Magari, piuttosto, avrebbero solo pensato che avesse dentro una sofferenza così grande da non riuscire ad esternarla. La verità era che fosse solo indifferenza) e quindi aveva messo su la smorfia più addolorata del suo repertorio, pregando di non doversi giustificare.
    Odiava essere così pragmatico, cinico, ma i morti erano morti e piangere era un buon modo di sfogarsi utile per i primi giorni; poi non serviva più a niente e il lutto, alla fine, diventava più facile da gestire. Da controllare.
    Questo non voleva dire che non si sentisse quasi in colpa nell’essere tanto piatto emotivamente in presenza di una Nicky, ad esempio, che pur facendo finta di niente, gli era sembrata più sciupata, pallida di quanto ricordasse. I cerchi rossi intorno agli occhi della ragazza, quel giorno in cui avevano deciso di riunirsi per farsi forza a vicenda (momento in cui era rimasto in silenzio, lo sguardo basso per non dover affrontare la consapevolezza di essere l’unico in quella stanza a non sentire niente) erano un chiaro segno che le lacrime fossero arrivate a bagnarle il collo, copiose come un fiume straripante dagli argini. Per non parlare di Meh a cui sembrava avessero strappato la gioia di vivere dal corpo, simile al bacio dei Dissennatori. Di Beh, poi, che era così piccolo e così maledettamente spento. Un po’ come Halley, o come Hunter. O come tutti in quella casa.
    La tristezza gli faceva salire lungo la schiena un brivido freddo, perché non aveva idea di come consolare gli altri, figurarsi stare in silenzio vicino a qualcuno che, con buona probabilità, avrebbe fatto a meno della sua presenza.

    Ah beh, in effetti, ora che ci pensava, qualcuno l’aveva perso anche lui in quel conflitto: Stiles. Il suo terapista. Brava persona, ottimo ascoltatore. Ne avrebbe sentito assolutamente la mancanza, soprattutto per il grandioso lavoro svolto per evitargli di commettere altri gesti avventati. Ogni volta che avrebbe visitato la scuola (quindi mai più, sperava) avrebbe guardato la lapide ai caduti, posando gli occhi su quei nomi conosciuti per fare una mini, breve, preghiera. Non credeva in nessun Dio in particolare, ma magari loro sì, quindi sembrava quasi doveroso farne almeno una prima di girare i tacchi e conservarli nella memoria.
    A proposito della grande pietra incisa, non si era assolutamente reso conto di quanti avessero perso la vita, non prima di quel momento perlomeno. Era stato così impegnato nell’occuparsi della propria, di vita, da dimenticarsi di tutto il resto; in primo luogo, la libertà acquisita in quanto Special era stata una benedizione. Non aveva più bisogno di un garante, poteva fare qualsiasi cosa volesse senza rendere conto a nessuno e senza sottostare a stupide regole imposte da un branco di dementi quali erano i Mangiamorte.
    Ma, cosa più importante, poteva vivere da Babbano. Aveva deciso di approfittare degli eventi per cambiare vita e darsi alla pazza gioia: insomma, poteva morire da un momento all’altro, quindi perché non osare? Ottima filosofia che aveva adottato dopo essere esploso e ritornato vivo dalle fiamme con un bellissimo, spendente, liscissimo corpo nuovo di zecca. Per non parlare del fatto che fosse l’unico figlio vivo dei Dallaire e che sua madre, nascosta nel buio degli anfratti londinesi, non potesse in nessun modo usufruire dell’enorme ammontare di denaro della famiglia. Era morta per le carte, come lo erano Mephistophele e Yves.
    Aveva venduto tutti i possedimenti francesi, ma senza perdere lo sfizio di demolire la casa in cui aveva vissuto, sperando che sopra vi costruissero un bellissimo centro commerciale; i compratori l’avevano accettato volentieri, ma solo perché aveva omesso sapientemente che lì ci fossero stati degli omicidi.
    Aveva comprato casa in un quartiere di lusso, si era prodigato per sistemarla a suo piacimento (che consisteva, per farla breve, in una bella villetta lussuosa, chiaramente fatta per esaudire ogni suo comfort) e, come ultima cosa, si era messo in testa che prendere la patente non avrebbe fatto male a nessuno. Forse ai passanti, ma non a lui di certo. I soldi che aveva avrebbero potuto garantirgli di vivere di rendita, così come ai suoi figli, i nipoti, i pronipoti e forse per altre quattro o cinque generazioni, ma essendo una persona abbastanza attiva, si era detto che tenersi occupato, magari, avrebbe giovato al suo naturale spirito competitivo. Per questo, a settembre, avrebbe cominciato a frequentare il Conservatorio per il puro e semplice desiderio di diventare primo violino nella Royal Philharmonic Orchestra. Per dimostrare di essere il migliore, sempre.

    Chiaramente non aveva detto niente a nessuno. Né ai Losers, né ad Hunter, né a Charles o Amélie che, tra parentesi, non vedeva da quasi più di trenta giorni, ma che aveva sentito regolarmente tramite lettere. A dire la verità, era stato quasi sollevato dal prendersi una pausa persino da loro. Non che non li volesse intorno (anzi, avrebbe messo a disposizione qualsiasi cosa, per loro), ma dubitava di contenere quella che poteva essere tradotta come soddisfazione di fronte a delle persone che avevano perso qualcuno di caro e che avrebbero faticato a essere felici. Non voleva mancare di rispetto e sminuire, così, i loro sentimenti.
    Il fatto che non ne provasse, non nella maniera convenzionale, non escludeva che gli altri, invece, ne fossero affetti.

    «Gli elfi domestici hanno scelto davvero un ottimo Armand de Brignac» che il cugino capisse a cosa si stesse riferendo era abbastanza inutile, d’altronde non aveva alcuna importanza. Erano solo chiacchiere, prima dell’inizio «non li facevo così raffinati» o forse era stato lo stesso vicepreside a occuparsi di tutto nei minimi dettagli. Con lo sguardo perso tra la folla, piatto come lo era il colore della sua camicia bianca, non ci aveva messo più di un secondo ad individuare i Losers fermi appena lontano dagli altri. Oh, da quanto tempo.
    «Se trovi qualcosa di buono da mangiare, fammelo sapere. Vado a salutare» accenna una smorfia a Charles, il suo accompagnatore della serata (salti di qualità rispetto a quello che era stato Halloween mesi e mesi addietro) dirigendosi verso i cinque cavalieri dell’apocalisse (non lo avrebbe mai detto ad alta voce, non in un momento tanto teso) prendendo un bel respiro dal naso per mettere su l’espressione più tranquilla che avesse. Con un gesto garbato, posa una pacca gentile sulle spalle di Meh e Beh, per poi passare, questa volta con più riserbo, una mano tra le ciocche corvine di Nicky, una dolcezza che pensava l’altra potesse apprezzare. Ma senza, ovviamente, scompigliarle i capelli. Con Halley un semplice cenno del capo, cordiale, perché dubitava che la bionda volesse un saluto diverso da quello, come una brava Grifondoro che si rispetti.
    Alla fine, si posiziona di fianco a Hunter, sorseggiando la bevanda «Buonasera, ma petite étoile» che non aveva perso il tono affettuoso di sempre, ma forse meno pregno di significati. Era solo un nomignolo che l’Oakes si sarebbe portato dietro, come un marchio di fabbrica.
    Avrebbe volentieri continuato la conversazione, ma la voce del Winston era sempre così interessante che avrebbe rimandato a dopo i convenevoli.
    Non ci sono orari” ottimo, sarebbe potuto scivolare via in un orario decente senza farsi notare troppo;
    Le locande di Hogsmeade hanno dato la loro completa disponibilità ad ospitare per la notte” anche quello non era male, avrebbe risparmiato la camminata notturna verso il treno di ritorno.

    Poi buio.
    «Oh, cielo» che non era propriamente l’esclamazione esatta (non era nemmeno un’esclamazione, solo un misero tentativo di risultare assolutamente sorpreso. Non lo era.). Aveva provato ad accendere il dito della mano libera, sfilandola addirittura dalla tasca del pantalone con una certa noia, per vedere se fosse utile per illuminare parte della folla, ma quell’unica fiammella sembrava inghiottita dalle tenebre. La sentiva crepitare, ma non riusciva a vederla. Beh, era stato bello sopravvivere un mese in più. Magari sarebbero morti tutti. Nessun dolore, nessun rammarico, nessun ricordo degli altri defunti. Poteva anche starci.

    Quando le luci abbaglianti del riflettore avevano colpito la figura estremamente longilinea del festeggiato, aveva pensato istantaneamente due cose: 1) da grande voleva diventare come lui. Non completamente svitato, ma non si poteva dire che gli mancasse il carisma; 2) che l’effetto teatrale dello spegnere le luci naturali e focalizzare l’attenzione solo ed esclusivamente sui suoi movimenti, accompagnati dalle note cantate (da Abbadon) con un certo trasporto, erano un’idea così narcisticamente geniale da fargli quasi male al cuore. Non avrebbe commentato per non sembrare un suo fan. Lo era.
    «perché non applaudono?» ah, beh, presupponeva fosse per i traumi. Una forza invisibile aveva spinto tutti, alla fine, a farlo; era stato attento a non versare lo Champagne sul pavimento, quella roba costava.
    «vabbè balliamo --- AH NO!, fermi, quasi dimenticavo. Ho portato un pensierino per voi!»

    Nel momento stesso in cui Mitchell aveva sciolto il nodo, aveva sentito la confusione farsi spazio nella sua mente: com’era possibile? In tutto questo, non aveva mica abbandonato il bicchiere. Oh, no. Aveva assolutamente bisogno di bere mentre, con sguardo stupito e le labbra appena poggiate sul cristallo, fissava la scena dei finti defunti sul palco, ringhingherati come se fossero stati costretti a farlo contro la loro volontà. Le urla erano solo un brusio generale che, per quanto si sforzasse, non recepiva bene.
    Da quell’angolazione vedeva chiaramente la mano di Scott con la bacchetta puntata verso il Winston, che a sua volta la teneva puntata verso i ragazzi risorti per precauzione. Il dubbio che non fossero loro era abbastanza comprensibile da parte del vicepreside.
    «Tanti piccoli Gesù» borbotta tra sé e sé pensando che, in effetti, piuttosto che tre giorni ce ne avessero messi ben trenta.
    Viktor Asmodeus Dallaire
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    Edited by Fancy|Bitch - 10/7/2019, 21:47
     
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    «oh, io – non…» ruotò appena il busto verso la porta della camera, le scure sopracciglia a schizzare verso l’attaccatura dei capelli scolorati. Strinse il filtro dello spinello tra le labbra, storcendole in un mezzo sorriso nell’osservare il costante, sebbene fosse oramai passato un mese da quando sua sorella aveva portato a casa quei ragazzi dal far west, disagio sul volto gentile di Mckenzie Hale. Quantomeno aveva iniziato a spiccicare qualche parola – non troppe, ma Jeremy Milkobitch non pretendeva nulla; a dire il vero, era proprio il suo essere così silenzioso che lo aveva fatto piacere da subito all’ex tassorosso. Se non avesse amato le persone rumorose e logorroiche avrebbe avuto seri problemi con sua sorella, con Bells ed Arci, con Stiles, ma di suo era sempre stato più mite del mondo circostante: immaginava – e per quel poco che aveva potuto vedere negli ultimi trenta giorni, sapeva - che parlare con il giovane dovesse essere interessante, ma lo aveva subito conquistato sulla quiete e su quel campo neutro sarebbe rimasto fino a quando la situazione lo avesse richiesto. Si era domandato, gli aveva domandato, se fosse soltanto malessere ed imbarazzo il suo – probabilmente sì, ma in quel preciso periodo non era sicuro gli interessasse davvero; si era risposto, che fosse semplicemente così, un po’ come lui. «scusami, io vado -» il diciannovenne grugnì, spostando completamente le iridi azzurre sul bodiotto e scivolando giù dal davanzale della finestra, dove fino ad allora era rimasto raggomitolato con le spalle al muro e le gambe al petto. «figurati, resta» non fu intenzionale l’enfasi sull’imperativo ma, nonostante i fumi dell’erba ad annebbiargli vista ed intelletto, riuscì comunque ad accorgersi di quanto quel leggero figurati sarebbe più tranquillamente potuto trasparire come un ti prego, e quella semplice concessione come una supplica. Nulla di personale; semplice deformazione personale, quella del non più così tanto moro – Mac si era soltanto trovato nella situazione, nel luogo e nel momento, nel mondo e nel tempo meno adatto per dover incappare in un Jeremy Milkobitch qualunque. «dovevo solo prendere un paio di cose per il viaggio» non un’impresa semplice, considerato il ritrovato ordine di quella stanza: inutile dire che nel proprio caos, avesse sempre trovato tutto subito; c’era da dire che almeno adesso sembrava ci vivesse davvero un essere umano. Sollevò in un’alzata di spalle la canna che teneva tra le dita, indicando al ragazzo che fosse quella, la roba che doveva recuperare prima di partire con i catafratti alla volta di Hogwarts sul pickup del Baudelaire – e della quale, quest’ultimo, non avrebbe usufruito. Ebbene, era ancora incazzato con il suo migliore amico: doveva scontare un fottuto anno e mezzo di maledetta assenza, e stava troppo male per permettergli di passarla liscia in sole quattro settimane. Già era tanto se non lo aveva preso a pugni – cosa su cui, per inciso, il Milkobitch non poteva mettere la mano sul fuoco: non aveva vergogna alcuna nell’ammettere di aver esagerato un po’ con i propri vizi, negli ultimi tempi, e che i propri ricordi fossero vagamente confusi. Archibald, in ogni caso, sapeva che qualunque cosa gli avesse fatto (se lo era completamente meritato) era stato fatto con amore: lo conosceva bene, e sapeva non fosse in grado di dimostrare affetto nel modo più giusto e socialmente accettabile.
    «mi sono distratto» continuò, tentando stupidamente di giustificarsi; non aveva alcun motivo per farlo – dopotutto, era casa sua: aveva tutti i diritti del mondo per stare lì a fumarsi tutta l’erba che voleva senza dover rendere conto a nessuno -, ma una delle cose che meno voleva fare era essere responsabile del disagio di chi, là, già di per sé si sentiva fuori luogo. Non era mai stata una gran bella persona, Jeremy, ma voleva provarci.
    Con tempi e modi sicuramente discutibili, ma non era quello il punto. E se persone come quella stronza di sua sorella si meritavano ancora il buongiorno con un “vaffanculo run” ed un dito medio su cui soffiare un sorridente bacio – dio! se le era mancata, ma non poteva farle passare liscia il fatto di essere sparita per la… quarta volta? aveva perso il conto; non tanto in fretta -, i piccoli Hale non avevano di certo bisogno di insulti gratuiti al mattino e prima di andare a dormire. Non avevano fatto niente per meritarsi tutta quella merda, ed avevano perso comunque troppo.
    Non c’entravano nulla, ma non poteva permettere che sentissero di non poterci mai entrare affatto.
    Ci voleva provare - anche solo, egoista fino all’ultimo, per tenersi la mente impegnata e rimandare ancora l’accettazione di ciò che era accaduto realmente; anche soltanto per potersi dire d’essere un essere umano di poco più decente.
    «ero… venuto solo a controllare – davvero, posso…» trasse un lungo tiro, il sapore amaro della marijuana a pungergli la lingua, soffiando una nuvola di denso fumo grigiastro verso la finestra. Ebbe appena il tempo di sedersi sul letto, prima di rimbalzare su di esso e rimettersi in piedi. «se cerchi il tuo papillon, l’ho preso io» e dall’espressione confusa dedusse che , era lì per quello. «perché?» «perché no?» ok, no, non aveva senso. «boh, così» ed in effetti, non aveva una vera motivazione alle spalle del proprio gesto: aveva solo bighellonato per la stanza alla ricerca della propria erba, e si era appropriato di qualche cosa a caso senza davvero sapere il perché. Forse, solo per poi rimetterli in giro alla rinfusa e dare a Mac qualcosa da fare; nella mente fatta del tassorosso, aveva senso. Prese il farfallino dalla propria tracolla, e con la canna stretta tra i denti scivolò di fronte al sedicenne, allacciandoglielo attorno al collo della camicia: non si chiese perché, ad un giorno dalla festa di Hogwarts, già si stesse mettendo il vestito – forse erano usanze antiche, chi poteva dirlo? Lui non di certo. «stai benissimo,» biascicò il commento in un mezzo sorriso, assestando pacche sulle spalle del giovane per sistemare l’abito – se più forti del dovuto, beh, era fatto. «ma la prossima volta ti porto io a fare shopping. il gusto estetico di mia sorella è rimasto all’ottocento» «forse intendevi novecento?» arcuò le sopracciglia, fingendo un’offesa inesistente per essere stato corretto. «no no, ottocento: era già una merda prima che sparisse, tranquillo» iniziò a ridere ancor prima di vedere l’«oooooh» dell’Hale incurvargli le labbra in un cerchio perfetto.
    Continuò a ridere, fino a quando non fece male - senza neanche un vero motivo, senza una causa che potesse realmente scatenare quel dolore al petto. Capitava e basta: una stilettata allo sterno rapida e gelida, dopodiché tutto come prima.
    Gli era più facile credere che capitasse così a caso, che pensare a quanto quell’innocente ed ingenua reazione gli avesse ricordato una replica qualsiasi – davvero, qualsiasi - di Stiles ai suoi discorsi da strafatto. Preferiva non attribuire alcun movente, piuttosto di dover dare la colpa allo Stilinski – ed ammettere che, cristo santissimo, gli mancava. Lo odiava troppo, per dargli quella soddisfazione.
    Non ce la faceva.
    «vuoi aiutarmi a finirla?»

    La sera seguente, un bicchiere di punch in un pugno ed uno spinello tra indice e medio dell’altra mano, non aveva davvero il coraggio di domandare al diretto interessato se lo avesse effettivamente fatto drogare, se stesse bene o se stesse ancora in preda alla paranoia: si sentiva abbastanza in colpa al solo pensiero, da ritenere necessario rimandare il discorso ancora per qualche manciata di minuti.
    Ad essere sinceri, aveva intenzione di rimandare qualsiasi discorso per più di qualche manciata di minuti. Era a quella stronzata di ballo (perché non aveva alternative) in quanto membro appena reintegrato dello staff del castello, e perché, benché amasse fare lo stronzo con i Viaggiatori, ogni scusa era buona per passare del tempo con Run e con Arci dopo quasi due anni di silenzio radio, ed una festa faceva al caso suo. Poteva ubriacarsi ed andare in botta quanto voleva, scivolare da uno stand all’altro per mangiare a scrocco, ed il tutto senza dover necessariamente spiccicare una parola. Non voleva farlo, e se avesse potuto se ne sarebbe rimasto sdraiato sul cofano della jeep di Stiles tutta la notte mentre gli altri facevano baldoria. «che ti avevo detto, brutta merda?» a proposito di bere; strappò dalle mani del Leroy un bicchiere di qualsiasi cosa fosse, bevendolo in un sol sorso fino all’ultima goccia prima di riconsegnarglielo vuoto. «non ti farò né bere né fumare.» si portò indice e medio sotto gli occhi, prima di puntarli contro il moro. Era ancora in punizione, ed al Milkobitch era mancato così tanto rompergli le palle che avrebbe sacrificato ogni singolo secondo della propria serata per rendere quella del migliore amico un inferno – con amore, sempre. «sia mai che ti lerci così tanto da cadere in un buco nero.» e non scherzava: inutile dire che la sua paura più grande fosse che perdendolo di vista per più di qualche minuti, questi potesse sparire di nuovo.
    Quando divenne improvvisamente buio, ogni suo terrore divenne palpabile.
    La prima cosa che fece nel momento in cui andò via la luce, fu cercare con le dita le braccia di Bells ed Arci, le iridi zaffiro a tentare invano di trovare la Crane. «run? porca troia, ru- ma che cazzo.»
    Ammetteva d’essere già fatto, e di aver già bevuto diversi bicchieri di altrettanto variegata natura, ma non credeva di essere già arrivato a quel livello di trip. O non aveva lasciato a casa, come si era reso conto ormai dopo tre ore di viaggio in autostrada, l’LSD, oppure il fottuto vicepreside aveva drogato ogni maledetto dolce e bevanda della serata; capiva che potesse avere delle allucinazioni, il Milkobitch, ma «lo vedete anche voi?» lo vedevano anche loro.
    Il terrore divenne confusione, e la confusione trascese ad un livello di affascinato interesse che, onestamente, lo turbava. «è più bravo di yale, c’è da ammetterlo» commentò sottovoce, avvicinandosi all’orecchio di quella che, presupponeva, doveva essere la Dallaire: eh, l’estate da caddy in Texas aveva lasciato diversi traumi nel cuore dei due ragazzi.
    Ora. Tralasciando il piccolo particolare dell’aver portato via da sotto le loro mani i cadaveri dei loro compagni di guerra, impedendo a tutti di dargli una degna sepoltura e costringendoli a piangere solo il ricordo che avevano di loro, contro il Quinto Fondatore Jeremy non aveva nulla. Fino a quel momento, perlomeno, si era comportato bene - che fosse un po’ schizzato era palese, ma non era stato lui il problema. Dragomir Vasilov, lo era stato.
    Ma quella maledetta cosa di muoverli come cazzo lo aggradasse, doveva un po’ smettere: che non lo vedeva, che aveva un fottuto bicchiere ed una fottuta canna, in mano? Come pretendeva che applaudisse bene?
    Trasse un tiro quando Seth parlò di un regalo, e rilasciò quando questo apparve davanti ai loro occhi.
    E nel momento in cui il Winston si avvicinò al pacco, e sputò fumo quando le pareti caddero.
    Ed ancora, quando vide le bacchette alzate; ancora, quando vide i volti – e quando udì le domande, quando sentì le risposte, quando fu palese la realtà dei fatti.
    Con la gola secca, bruciata dal tabacco e l’erba, decise che fosse il caso di bere – e bere, ed ancora bere.
    Ricordava di non aver pianto, Jeremy.
    Ricordava di aver sentito gli occhi bruciare, ed il petto tremare, ed un buco allo stomaco fare tanto male da dargli l’emicrania; ricordava di aver voluto piangere, di aver voluto dire all’Osborne che aveva ragione: era comunque una merda, ma un cazzo di modo per sfogarsi la gente doveva pur averlo. Ricordava di aver taciuto il fatto di essere talmente troppo stanco, da non riuscire a prendere a pugni nulla per scoppiare come meglio sapeva fare.
    Ricordava d’essersi sentito vuoto, e di aver saggiamente deciso di colmare quello spazio con la rabbia, il rancore, l’odio - che chiamarlo abbandono, faceva ancora più male.
    Sapeva, di non averlo mai smaltito. Di non averci nemmeno provato, perché era meglio così. Perché si sentiva meglio, così.
    Rabbia e felicità, non erano due elementi che si miscelavano bene nel calderone – non in quello di Jeremy Milkobitch, almeno.
    Sapeva che avrebbe dovuto essere soltanto contento, nel vedere i volti di chi, a quanto pareva, non era davvero morto. Lo era, e Dio soltanto sapeva quanto avrebbe voluto saltare su quel palco ed assicurarsi che stessero tutti bene, che fossero realmente tutti lì. Quanto… quanto cazzo avrebbe voluto, prendere la faccia di Stiles tra le mani e (togliergli quell’orrendo cappello dalla testa) spingerlo contro di sé, fingere che non fosse passato un mese dall’ultima volta che lo aveva fatto.
    Ma non era così – ed un mese, era effettivamente passato.
    Un mese in cui s’era davvero convinto d’odiare tutti loro.
    Quando vide Jayson saltare addosso a Stiles, decise che dopotutto era meglio per lui voltarsi.
    Perché per quello poteva dare la colpa a lui, e senza ammettere che gli mancasse: lo odiava troppo, per dargli quella soddisfazione.
    Non lo aveva mai fatto, non lo avrebbe mai fatto – ma non ce la faceva, Jeremy.
    Non ce la faceva, e basta.
    Cercò istintivamente lo sguardo di Nicole, forse la persona con cui quel sentimento più lo aveva esternato – maledetti psicologi, li odiava tutti; sì, quello del diciannovenne era un continuo detestare la qualunque: era diventata la sua vita, con poche eccezioni a confermare la regola -, senza nemmeno sapere se dovesse sorriderle o meno, se dovesse o no abbassare lo sguardo o indicarle il palco, suggerendole silenzioso di correre lì sopra.
    «ho bisogno di bere,» sussurrò, scivolando cauto al fianco di Eugene ed infilandosi un’altra canna tra le labbra: non se la sentiva di rompere le palle agli altri, avevano tutti da salire lì sopra e prendere a pugni la gente, o abbracciarla – insomma, dipendeva dal contesto; già brindava al cappottone dei freaks su Barrow -, ma il Jackson faceva decisamente al caso suo.
    E chissà, magari se si fosse ubriacato meglio sarebbe riuscito a mettere da parte tutto ed essere soltanto felice. Vaffanculo, lo voleva.
    Ma non voleva più essere lasciato indietro, Jeremy, e Stiles questo lo aveva sempre saputo.
    Eppure era morto, ed anche lui lo aveva abbandonato.
    «davvero molto.» doveva metabolizzare.
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    «cioè ma-- sei sicura che va stretta così tanto? no, dico. zen non mi vuoi soffocare, vero?»
    poteva anche sembrare stupido, mehan tryhard, ma nella realtà lo era molto di più.
    una vera fortuna per il grifondoro che zenith campbell avesse sempre un sorriso pronto sulle labbra, le iridi verde chiaro costantemente illuminate da una luce di quiete e pacatezza; si era aspettato ben altro, dopo le raccomandazioni di phobos in merito. tutto quel 'non statele troppo addosso, se vi sembra strana chiamatemi,
    non stressatela con le solite domande inopportune'
    gli era sembrato estremamente esagerato, soprattutto considerato che durante il mese in cui i gemelli erano stati ospiti dei Campbell la ragazza si era sempre dimostrata gentile e disponibile. Come si poteva immaginare che dietro a quel viso angelico potesse nascondersi un pericolo? evidentemente il prof - papà - ci dava troppo giu con l'alcol, ecco come.
    «su su, non fare il bambino. si portano così, le cravatte.» e quando con una piccola spintarella lo fece ruotare su se stesso, mehan si ritrovò a fissare nello specchio una persona diversa, da quella che si era aspettato. troppo, perché fosse solo colpa della camicia bianca ben stirata, della cravatta perfettamente annodata attorno al collo o dei capelli finalmente pettinati. Si guardava negli occhi, il grifondoro, quell'unica certezza sempre solida negli anni, la stessa sfumatura nocciola che sapeva di poter trovare sempre nello sguardo del fratello, e non riusciva a riconoscersi: si era spezzato qualcosa, nel profondo, e lo sapeva. «visto? stai benissimo! mandami halley, le ho promesso di aiutarla con i capelli.» annuí, distogliendo in fretta l'attenzione da quel se stesso riflesso nello specchio che poco aveva del ragazzino spensierato entrato ad hogwarts con in testa l'assurda illusione di poter salvare il mondo, affrettandosi ad indossare sul volto un imbarazzato sorriso di gratitudine vero solo a metà.
    «fiiuuu, bro! che figurino!» fece un giro su se stesso, il diciassettenne, mettendo così piede nella stanza che condivideva con il fratello e - almeno per quell'occasione - gli altri losers. tutti estremamente indaffarati in quel rituale magico e terribile che era la preparazione al ballo; e se fosse stata una festa qualunque, solo l'ennesima tradizione da far rispettare tra le mura di hogwarts, forse l'entusiasmo di mehan sarebbe apparso più naturale, sentito. «aawww bro» si avvicinò a beh tenendo uniti gli indici e i pollici di entrambe le mani formando un cuore sghembo, prendendo infine posto accanto a lui sul bordo del letto - lentamente e con movimenti cauti, perché di pantaloni ne aveva già strappati due. più iperattivo del solito, mehan tryhard, al limite di un nervosismo che persino lui faticava a spiegarsi.
    anche se in fondo lo sapeva, cosa fosse quel groppo in gola che proprio non ne voleva sapere di andare giù, il retrogusto acido della bile sulla punta della lingua. avevano deciso di partecipare perche non c'era alternativa, e avevano deciso di andarci tutti insieme perché invitare qualcuno fuori dal loro gruppo, quando nell'ultimo mese avevano passato quasi ventiquattro ore su ventiquattro uno accanto all'altro, sarebbe stato irrispettoso, ma questo non cancellava il fatto che fosse sbagliato. né tanto meno la rabbia che il grifondoro sentiva dentro, quasi sempre mascherata con quel suo solito sorriso ingenuo e un po' beota, un lieve spostamento del capo verso destra come un cucciolo di cane. arrivava a ondate, a volte così forte a battere nel petto che meh dimenticava persino come respirare: phobos l'aveva scambiata per un attacco di panico, ma solo la prima volta.
    «anche tu te la cavi bene bro. e, signore!, siete una gioia per gli occhi!» la mano destra poggiata ad arte sul cuore e un sospiro a fior di labbra, mehan si prese una spugna in faccia, per gentile concessione di una nicky winston molto impegnata a disegnare con mano ferma e precisa una linea sottile di matita sulle palpebre di halley. EUUUU nemmeno un complimento! «E CHE MIRA! CHE POTENZA! CHE MERAV-» e no, quella non era una spugna.

    «guarda, jade! sono arrivati i bambini!» tra i tanti, c'era un motivo se eugene aveva individuato subito i losers. difficile dimenticare i loro volti dopo che se li era ritrovati seduti diligentemente uno accanto all'altro sul proprio divano, le schiene dritte e dita a tamburellare sulle ginocchia. all'epoca - due settimane prima - non capiva perché si fossero presentati tutti insieme ad un colloquio per baby sitter, ma gli era bastato parlare con loro due minuti per capire che si muovevano come un unico individuo. inevitabilmente, il serpeverde aveva pensato ai casta, a come fosse impossibile separarli anche quando rea passava tutto il tempo pregando di liberarsi di loro al più presto, e la presenza di quei ragazzini ammassati nel suo salotto aveva assunto finalmente un senso. e poi erano così carini???? due coppie di gemelli, una nicky winston seduta tra di loro a fare da collante, espressioni tese sui volti stanchi.
    da una parte li capiva: erano giovani, affrontavano la morte di una (o più) persona cara per la prima volta; faticavano a credere che esistesse un dopo, che il resto della vita non fosse semplicemente merda spalata random sulle loro teste da un fato infame. e eugene jackson, che quella sensazione l'aveva provata sulla sua pelle più volte di quanto fosse umanamente possibile, sapeva che nessuna parola di conforto sarebbe bastata a lenire quel dolore. che mentire, raccontando loro la cazzata del tempo che sistema le cose, era solo uno spreco di fiato.
    «per favore, jackson, non offrire loro da bere come l'ultima volta.» ah! ancora a rigirare il coltello nella ferita per quel piccolo errore di valutazione - non era colpa sua se era abituato ad avere a che fare con i freaks e tirare fuori l'alcol gli era venuto spontaneo! aveva già fatto uno sforzo colossale nel farsi trovare vestito per il colloquio conoscitivo, non si poteva pretendere troppo da una persona anagraficamente e cerebralmente limitata come lui. «OHMIODIO JADE. lo dici come se girassi con dell'alcol in tasca pronto a far ubriacare dei ragazzini!» che mancanza di fiducia! si piegò verso la bionda, il jackson, occhi spalancati ed espressione sconvolta sul volto in parte ricoperto da una fitta barba tagliata con cura, senza provocare nella beech la reazione desiderata.
    eh, lei sì che conosceva i suoi polli.
    «ah, perché, non è così? allora cos'è che ti tintinna nelle tasche da quando siamo usciti di casa?!» certo non bottigliette formato minibar di alcolici assortiti.
    accompagnato da un rumore inequivocabile di vetro contro vetro, euge incroció offesissimo le braccia al petto, stringendo a sé il bavero della giacca leggera di lino nelle cui tasche aveva accuratamente sistemato le sopracitate bottigliette, allontanandosi da jade di un passo. «monetine jade, sono monetine. ho un sacco di monetine. okAY?!?» infilò entrambe le mani sotto le ascelle, gli occhiali scuri a scivolare inesorabili verso la punta del naso «e adesso vado a cercare jeremy per vedere se ha bisogno di piangere un po' sulla mia amorevole spalla.» si perchè in quell'ultimo mese il compito principale di eugene jackson era stato il suddetto: consolare il suo lil' bro - nemmeno più tanto little per la perdita di stiles. mancava anche all'ex pavor, lo stilinski, così come quella patata di erin e quel muso lungo di marcu howl, ma per una fottuta volta non si era ritrovato a dover piangere tutte le sue lacrime sul corpo straziato di un membro della sua famiglia, il che forse spiegava perchè jer lo avesse scelto come solido rifugio. stava molto meglio di tanti altri, eugene jackson. certo meglio di murphy skywalker o jayson matthews, per il quale nate ultimamente si era preoccupato non poco, per non parlare di scott chipmunks; anche lì, sapeva cosa volesse dire perdere una gemella, il jackson.
    jade guardò euge.
    euge guardò jade.
    jade roteò gli occhi al cielo.
    euge le diede un bacio in fronte.
    «VA BENE HAI RAGIONE HO L'ALCOL A DOPO!»


    «non intendo tediarvi con alcun discorso, ma solo darvi qualche direttiva. innanzitutto, non ci sono orari» BOOYAAH! «ma i dormitori non sono ancora attualmente raggiungibili, quindi è impossibile restare a scuola a dormire: ad ogni modo, per tutti coloro che non potessero tornare a casa dopo il ballo, le locande di hogsmeade hanno dato la loro completa disponibilità ad ospitare per la notte chiunque ne avesse bisogno.» eh. diciamo che sperava di non dover affrontare il problema, mehan tryhard. puntava a distrarsi, non lerciarsi come un cammello: gli erano bastate due dita di whiskey servito da phobos per rivelare tutti i dettagli della sua vita sentimentale ad un professore, preferiva non pensare a cosa avrebbe potuto fare da ubriaco. probabilmente piangere.
    sicuramente piangere.
    «di qualsiasi cosa abbiate bisogno, non esitate a chiedere – a me, o agli altri docenti di hogwarts. detto ciò, vi lascio a-» teneva ancora la spalla premuta contro quella di behan, il grifondoro, quando tutte le luci appositamente sistemate nei cortili si spensero in contemporanea, rendendoli ciechi mentre la voce ferma di mitchell winston scemava nel nulla. «euu, è già l'ora del concerto?» mhhh. magari no. se fosse arrivato il momento per nicky e gli altri di salire sul palco e rubare la scena al vicepreside, probabilmente quest'ultimo non avrebbe messo mano alla bacchetta, il corpo irrigidito da ansia e preoccupazione. «non è.. non è divertente.» un sibilo, questa volta, appena un sussurro tra le labbra improvvisamente asciutte, la lingua incollata al palato. poteva quasi sentire la pelle dietro il collo accapponarsi, mentre nel buio più completo qualcosa sul palco mise a muoversi. qualcuno, forse.
    nel dubbio, mehan afferrò il braccio del gemello dando all'arto una bella stretta compulsiva, unendosi a beh come le sempre citate rob e sara davanti al treno in partenza di ari: con la missione di recupero, il tryhard aveva perso buona parte del suo sangue freddo, come se qualcosa in seguito a tutto quel sangue, i morti, le persone che lui stesso aveva ucciso, si fosse spezzato. sperava solo non definitivamente, il diciassettenne. neo, fresco fresco di un compleanno che non aveva trovato il coraggio di festeggiare, non con quel peso enorme di troppe assenze a gravare sul petto dei vivi; i sopravvissuti, come li chiamava qualcuno. che per meh erano solo i più fortunati scelti nel mucchio, che la sorte aveva deciso di scartare per puro capriccio. bella merda.
    «non vi è piaciuta la mia esibizione? ao» ad una ad una le luci si riaccesero, costringendo il ragazzino a chiudere gli occhi abituatisi al buio. riconobbe la voce, ancora prima di vederlo in faccia, il quinto fondatore, nei confronti dei quali mehan non sapeva ancora cosa provare. un essere terribile e osceno, che però a loro non aveva fatto nulla.
    non era stato lui a colpirli, ferirli quasi ankorte lasciando corpi riversi al suolo.
    non era stato lui a uccidere erin e stiles e innumerevoli altri, senza nemmeno lasciare il tempo per dire addio.
    tutto ciò che aveva fatto abbadon, quello che persino meh aveva sognato di fare, era stato uccidere vasilov una volta per tutte.
    e quelli era un favore, non un torto.
    le labbra dischiuse per la sorpresa e gocce di sudore freddo a scivolare lungo la schiena, il più giovane dei tryhard - due minuti possono sembrare un'eternità per una partoriente - prese ad applaudire suo malgrado quando l'uomo lo richiese, un disagio crescente a crescere nella bocca dello stomaco. poteva quasi sentirne il sapore sulla lingua, senza però riuscire a dargli un'origine: nemmeno l'aveva vista l'enorme scatola alle sue spalle, scambiandola per una decorazione di scena. «ho portato un pensierino per voi! dai, scarta la carta» credeva di sapere, mehan tryhard, fino a che punto quella serata avrebbe potuto prendere una piega inaspettata. era davvero convinto di aver percepito la gravità della situazione quando Viktor dallaire gli aveva posato con delicatezza la mano sulla spalla, e al grifondoro era venuta voglia di abbracciarlo. ma nessun sesto senso (o peter prurito), o astratta intuizione avrebbe potuto prepararlo all'apertura del pacco gigante, alle pareti di cartone che cadevano come un castello di carte, ai respiri improvvisamente mozzati delle persone attorno a lui.
    o al suo, di respiro, incastrato nel petto.
    era passato un mese, ma sembrava molto di più.
    era passato un mese, ma sembrava solo un giorno.
    nemmeno mise mano alla bacchetta, il diciassettenne, pietrificato sul posto, le dita a stringere quelle del fratello un po' di più, mentre davanti alle iridi nocciola i fotogrammi di quella scena surreale continuavano a scorrere imperterriti, senza pause: mitchell e scott sul palco pronti ad affrontare i loro peggiori timori, occhi troppo grandi ad osservarli di rimando. avrebbe potuto seguire il cuore, mehan tryhard, e correre sul palco fregandosene della concreta possibilità si trattasse di una trappola per stringere erin tra le braccia, oppure quel neurone che evidentemente condivideva con suo fratello, perché quando si voltò verso di lui - in slow motion, come nei film -, lo vide fare la stessa cosa. sul volto, la stessa espressione.
    terrore, panico, poche certezze nella vita.
    «zombie?»
    «zombie??»
    «ZOmbIEEEEEHHhhhh»
    «ZOmbIEEEEEHHhhhh»
    anime gemelle, cuori affini.
    insomma, il dubbio veniva, no? li avevano visti morire e ora eccoli li, a pochi metri, belli come il sole. si ritrovò a gridare come sua madre ad una svendita al grande magazzino, mehan, il suono acuto soffocato solo dalle urla ancora più strazianti di suo fratello, perfettamente mescolati nel caos generale. stretti stretti uno all'altro, evidentemente dimentichi delle regole base in caso di invasione degli zombie - mai stare fermi, colpirli due volte alla testa -, mentre intorno a loro il brusio pian piano si trasformava in risate isteriche e pianti incontrollati, qualcosa che nessuno dei due gemelli avrebbe associato alla presenza di mangia carne umana senza più una coscienza. riaprí gli occhi giusto in tempo per vedere murphy skywalker che menava un ceffone sulla faccia di shot, forse la prova più schiacciante che non si trattava di zombie ma... «sono loro?» cristo, era quasi più facile credere di essere finito dritto dritto sul set de La notte dei morti viventi, piuttosto che concedersi anche solo un briciolo di speranza. «beh sono.. sono loro! EEEeeeeEeRIn!» si scusate, le priorità sono chiare (?).


    eugene jackson, che aveva visto risorgere dal regno dei morti giusto quel paio di persone facenti parte integrante della sua vita proprio ad un palmo di naso, nel posare le iridi grigio azzurre sui volti imbellettati degli ormai ex defunti si limitó a sollevare entrambe le mani battendole tra loro con moderato entusiasmo, quasi si trovasse di fronte ad un trucco di magia nemmeno tanto originale. «con trenta galeoni il mio lancaster lo faceva meglio.» semicit. figurarsi, insomma, era ben lieto di vederli tutti vivi e vegeti, ma non riusciva a fare a meno di osservare la scena come un film già visto, il cui colpo di scena finale perde il suo effetto una volta svelato: avete mai provato a guardare il sesto senso più di una volta? ecco. altro discorso era, ovviamente, il vestito da principessa con cui era apparso marcus howl sul palco, l'espressione deadpan con cui probabilmente aveva mandato a cagare mitchell vedendosi puntare contro la bacchetta. «Aww, che bello l'amore quando sboccia in tutta la sua purezza!» perché c'era gente che si abbracciava, altri che piangevano, alcuni picchiavano istericamente quelli tornati in vita - murphy e i freaks, soprattutto -, e poi c'era jeremy.
    «ho bisogno di bere, davvero molto.».
    beh non tryhard, insomma, cosa credeva che fosse li a fare? spalancó i lembi della giacca come un maniaco in impermeabile, svelando ad un decisamente troppo biondo milkobitch i colli delle bottigliette a spuntare dalle tasche interne dell'indumento, per la maggior parte vodka smirnoff (blows a kiss in the air for alexei) e gin. «here we go!» un vero amiko, eugene.
    magari un padre discutibile, con abitudini discutibili e una capacità intellettiva discutibile. ma sempre e comunque un vero amiko.

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    «hai finito? se vuoi posso -» darti una mano, ma la sua voce si spense prima che potesse completare la frase. Ultimamente era così: faticava a mettere insieme le parole, come se ciascuna le costasse un'immensa fatica. Però continuava a provarci Nicole, un po' arrancando e sentendosi morire ad ogni passo, ma andava avanti come se il mondo fosse stato sempre lo stesso, come se non ci fossero state guerre, o ferite, o perdite. Come se, in fondo, un prima non fosse mai esistito, come se ogni cosa fosse rimasta immutata, un buco allo stomaco impossibile da richiudere ma che, sforzandosi di non pensare, diventava un po' più sopportabile. Dall'altro lato della port un «no» secco, deciso, che non ammetteva repliche. E Nicole arretrò di un passo, calando lo sguardo sul pavimento per seguire la trama delle mattonelle ed imporsi di non restarci male, neanche un po', perché non aveva senso. Si morse un labbro, e ricordò a sé stessa che quello non era suo figlio, che averlo preso sotto la sua protezione non significava che mgk le dovesse qualcosa, che anzi aveva il diritto di odiare lei, di odiare Sin e di odiare chiunque altro quel giorno si trovasse ai sotterranei perché anche lui, lì sotto, aveva perso qualcuno. E, in un silenzioso sospiro, si era già allontanata la Rivera, lasciandosi scivolare sulla poltrona del salotto e chiedendosi se vi fosse una scappatoia per restare a casa, per non dover tornare ad Hogwarts - non così presto. Lo aveva detto a Sin, glielo aveva ripetuto più e più volte, incapace di aggiungere altro: non così presto. Ma neanche lui poteva far niente - nient'altro che non fosse stringerla, con quella rassegnazione che oramai era diventata parte di entrambi, e un po' di tutti, ma che almeno le ricordava che no, non era sola ad affrontarlo. Non stavolta. E magari era più semplice così, indiscutibilmente lo era, ma restava comunque difficile, tanto difficile da mozzarle il fiato ogni volta che qualcosa, anche la più piccola, contribuiva a ricordarglielo. A ricordargli che l'aveva perso. Stiles.
    «nicole?» sollevò la testa con uno scatto, il suo nome a salvarla da quell'abisso da cui, lo sapeva, uscire sarebbe stato più complicato della volta precedente, e di quella prima ancora. Posò le iridi chiare su Marcellius e, senza accorgersene neanche, le sue labbra s'incresparono in un leggero sorriso. Forse era diventata debole, forse lo era sempre stata ma, senza sapere neppure come, aveva cominciato a provare una certa tenerezza nei confronti di quel ragazzo che, alla fine, con lei non condivideva niente, tanto meno il sangue - eppure, a volte, non riusciva a non sentirlo quasi come un figlio. Uno un po' cresciuto, e certo con parecchi problemi da risolvere, eppure gli voleva già bene come se lo fosse davvero. Forse era solo colpa di quel suo disperato bisogno di famiglia, o forse era del tutto impazzita. «stai benis -» «non so come si allaccia questo affare» le parò il braccio ad un palmo dal naso, mostrandole il polsino sbottonato della camicia. E Nicole sorrise ancora, sentendosi persino un po' in colpa nel farlo - come osava sorridere, ora che suo fratello non c'era più a farlo con lei? - ma si mise ugualmente ad armeggiare col bottoncino, sollevando poi soddisfatta il capo verso Marcellius. Con le labbra piegate in una leggera smorfia, mgk pareva sinceramente a disagio, come fosse in piena lotta con sé stesso. «grazie» borbottò alla fine, spostando lo sguardo oltre la spalla di Nicole. E lei non disse niente, non osò farlo. Si limitò ad alzarsi, ad accennargli alla porta con un cenno del capo ed a prendere l'ennesimo profondo respiro: forse poteva farcela per un'altra sera. Forse.

    Posò una mano sul braccio di Sin, stringendo tra le dita la stoffa del suo vestito e bloccandosi per un istante, esitando dal proseguire. Il fatto era che, sì, aveva continuato a lavorare e ad uscire di casa e, suo malgrado, a vivere, ma di lì a credere di poter affrontare una festa nel luogo in cui ogni cosa era cambiata, circondata da occhi screziati dal suo stesso dolore, occhi che le avrebbero costantemente ricordato ciò che lei si sforzava da settimane di dimenticare - era pretendere troppo. Aveva passato quel mese occupandosi degli altri, cercando di pesare il meno possibile alle persone che tenevano a lei, di sembrare forte, ma la verità era che non sentiva di esserlo, neanche un po'. A volte guardava Sin e si chiedeva se fosse reale, se non si trattasse di un delirio allucinogeno provocato dal trauma dell'ennesima perdita. Vedete, il fatto era che lei non credeva di meritarselo. L'istinto, probabilmente per via dell'abitudine, non faceva che suggerirle di fuggire, di tornare a isolarsi come aveva fatto fino ad un anno prima, di rifiutarsi di accettare l'ironia della sorte che continuava a toglierle e a darle senza alcun apparente criterio logico. Eppure, per una volta, Nicole non gli stava dando ascolto. Non perché fosse facile, o perché cercasse di dimostrare al mondo di poterlo fare, ma perché lo voleva. Perché continuare a vedere Sin era l'unica cosa che avesse mai davvero voluto per sé stessa negli ultimi, quanti?, dieci anni.
    Che poi, a pensarci, era un po' assurdo. Nicole aveva questa specie d'ossessione per l'ordine, lascito degli anni passati tra la polvere dell'orfanotrofio ed il caos dei laboratori, e viveva nella costante ricerca di equilibrio, di stabilità. Secondo questo principio, l'assenza di confini in quella relazione - se così poteva definirsi - con l'idrocineta avrebbe dovuto quanto meno spaventarla, se non ineluttabilmente allontanarla. Invece le andava bene così. Per questo, alla fine, gli rivolse un debole sorriso e lo lasciò andare, affondando le mani nella borsa alla ricerca di qualcosa. Ne tirò fuori una piccola bottiglia di vetro, il liquido color caramello a riflettere le luci del castello. Marcellius, al suo fianco, sollevò un sopracciglio. «penso che tu ti sia fatto un'idea completamente sbagliata di me» ed ingollò un sorso di rum, passando poi la bottiglia all'Hansen. Era una maledetta festa? Tanto valeva bere.

    Appena un paio di sorsi, ed era già brilla.
    Magari il fatto che avesse iniziato ben prima di arrivare al castello aveva di per sé contribuito, ma un tempo avrebbe resistito molto più di così. Non era mai stato un vizio o una dipendenza, ma l'aveva aiutata più di una volta a superare i momenti peggiori - momenti come quello, per intenderci. Era più facile sorridere con quel lieve ottundimento ad annebbiarle la mente, parlare di roba assolutamente priva di senso con Syl come aveva già fatto centinaia d'altre volte prima, lasciare un bacio veloce sulle labbra di Sin e pentirsene l'istante dopo, ma sorridere ancora. Ma poi c'era la voce di Mitchell, difficile da ignorare mentre snocciolava informazioni su informazioni, sforzandosi di sorridere come se fosse davvero tutto normale, e con lui c'era il ricordo di Marcus, ancor più difficile da tralasciare. E c'era Jeremy, che era difficile da non individuare con quei dannati capelli ossigenati, e non che Nicole volesse evitarlo - solo che Jeremy significava Stiles, e Hogwarts non era la jeep di suo fratello, e lì non era il caso di lasciarsi andare. «non è abbastanza forte» commentò, posando lo sguardo sulla bottiglia di rum ormai quasi vuota. E la stava ancora fissando, quando scese il buio. «o magari sì?» soffiò, cercando istintivamente Sin vicino a sé. «yeah» sì, era decisamente forte, o non avrebbe saputo spiegare il altro modo - quello. Non provava rabbia nei confronti di Abbadon, non rancore, non disprezzo; era solo la stessa, placida rassegnazione. Era finita un'era, ne sarebbe cominciata un'altra, ma alla fine ci sarebbe sempre stato qualcuno a muovere le fila di quel mondo che, alla fine, giusto non era mai stato. E sarebbero sempre stati loro a perdere. Loro, non Vasilov, per cui la morte era stata troppo poco, non Abbadon, che si prendeva gioco del loro dolore come fosse stato polvere. E se la sua esibizione non fosse stata sufficiente, ciò che venne dopo non lasciò a Nicole alcun dubbio: doveva essere davvero tanto ubriaca.
    Stavolta cercò consapevolmente lo sguardo di Jeremy, perché ormai ci aveva fatto l'abitudine a crollare col Milkobitch. E avrebbe voluto raggiungerlo, davvero, dirsi che l'ex-tassorosso in quell'istante avesse più bisogno di lei di quanto non ne avesse Sin, o Mitchell, o...
    «ho finito il rum» e non si era neanche accorta di come fosse accaduto, ma era ben conscia di non essere in grado di muovere un solo passo. Non verso Jeremy, non certo verso il palco. Non verso Stiles. «ho... finito il rum» mormorò ancora, dando le spalle a tutto il resto e sventolando la bottiglia vuota sotto al naso dell'Hansen. Le bastava fissare lo sguardo su di lui, fingere che fosse tutto come sempre, non lasciarsi illudere - e sarebbe andata bene, doveva andare bene.
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    «Questo è un ospedale, Wayne, qui salviamo vite. Se non riesci a stare attento sul lavoro è meglio che tu vada a casa» Mordendosi il labbro Dakota accelerò, saettando con la bicicletta gialla fra i pedoni e le macchine mentre la voce della dr.essa Derwent gli rimbombava in testa. Odiava essere obbligato a uscire prima dal lavoro (con una ramanzina, per giunta! manco avesse avuto dodici anni) e odiava ancora di più dover ammettere che la donna avesse ragione a non volerlo tutto quelle ore al San Mungo, se non riusciva a dare il massimo: confondeva i nomi delle medicine e delle pozioni, abituato ad un anno di lavoro nel futuro, cercava di parlare con i propri colleghi il meno possibile per paura gli chiedessero che cosa avesse fatto per tutti quei mesi in cui era scomparso (raccontare delle novità mediche del 2119 era bello, ma a loro importavano cose di cui a Dakota non andava di parlare), e capitava anche troppo spesso che si spegnesse, la testa altrove e stremata dalle troppe ore di veglia per riuscire a restare concentrata. «Ma ogni tanto dormi?» gli aveva chiesto una volta un altro guaritore ritrovando Dakota dove l'aveva lasciato la sera prima, e lui aveva risposto scherzando che lo faceva «solo ogni tanto». L'altro aveva riso, ma non era una battuta quella di Dakota: ogni tanto dormiva - e anche quando lo faceva, lo faceva male. Non sapeva se a togliergli il sonno fossero in generale gli incubi (erano dodici anni che soffriva di parasonnia, sebbene fosse migliorata andando a vivere con Mae anni prima), o non riuscisse a disabituarsi all'idea di avere qualcun altro nel letto con sè, oppure semplicemente gli mettesse ansia l'idea stessa di andare a coricarsi e rischiare csì di passare altre ore a fare niente e fissare il soffitto mentre la mente era libera di portarlo su pensieri che non voleva affrontare, ma restava il fatto che non riuscisse a dormire, e che fosse sempre più stanco. Fisicamente, mentalmente, emotivamente. Invece che diventare più facile, andare avanti come uno dei sopravvissuti diventava più difficile col passare dei giorni. Sentiva una sirena, e pensava al grido felice di Callie. Una testina bionda, e subito credeva fosse Barry. Vedeva un nuovo fumetto in vetrina, e non vedeva l'ora di parlarne a Stiles. Aveva un momento difficile, e contava fra quante ore sarebbe potuto tornare a casa per abbracciare Jason e sentirsi dire che sarebbe andato tutto bene.
    Si rendeva conto dell'errore sempre un attimo troppo tardi.
    La vita andava avanti senza di loro, e sapeva che prima o poi sarebbe stato più facile, che avrebbe smesso di mettersi a piangere in un angolo nella camera stringendo la chitarra di Jaz che aveva ritrovato al banco dei pegni, che avrebbe smesso entrando al Captain Platinum di avere l'istinto di chiedere a Niamh e Isaac «Stiles non è ancora arrivato?», che avrebbe trovato il coraggio di accettare che Erin e Jess (Erin e Jess!) non c'erano più a dargli il benvenuto al Quartier Generale o che non avrebbe mai più potuto promettere ai mini reb che lui e Mae si sarebbero presi cura di loro. Prima o poi lo avrebbe accettato, ma non quel giorno, non quella settimana, probabilmente non quel mese. Avrebbe continuato a guardare Melvin e a sentirsi in colpa all'idea che Callie e Tokyo se ne fossero andate mentre lui era ancora lì, a sentirsi in colpa perchè Amalie e Scott dovevano soffrire e lui non sapeva come aiutarli, a sentirsi in colpa perchè potendo scegliere avrebbe scambiato la propria vita con una qualunque di quelle dei morti del primo giugno- e invece non poteva fare niente. Niente. Non aveva mai pensato sarebbe sopravvissuto a Stiles o agli altri, non l'aveva messo in conto e ora non sapeva cosa fare per andare avanti.
    Curvò di scatto per non investire una vecchietta che attraversava la strada. «SCUSI» "Concentrati. Concentrati. Concentrati". Ma già ripensava a Jason che gli diceva ridendo che era un pericolo pubblico su quel trabiccolo, e la fitta al cuore si faceva di nuovo insopportabile; più degli altri, Jaz era ovunque. Ovunque. La dinamo sulla bicicletta che gli aveva montato, un ragazzo che suonava per strada, una tazzina sbeccata in cucina- qualsiasi cosa riusciva a ricordargli lui. A farlo sorridere, a farlo piangere, a ricordargli che non c'era più.
    Arrivato a destinazione Dakota legò come al solito la bici con una catena babbana ad un palo, e preparandosi un sorriso entrò in casa, pronto a fingere fosse tutto una meraviglia e a far vedere che ce la potevano fare- che forse, a recitare il ruolo della persona felice, prima o poi lo sarebbe diventato davvero; le persone che amava ed erano rimaste meritavano quel Dakota, e non quello che non sapeva come affrontare l'ennesima difficoltà. E lui, non per se stesso ma per loro, lo sarebbe stato.



    «-stiles E ne aveva viste tante Dakota, aveva visto di tutto; sapeva del 2043, e aveva sentito di come Lancaster avesse fatto resuscitare un manipolo di persone a Brecon... ma quello che stava guardando sembrava oltre ogni logica.
    Deglutì, gli occhi fissi sulla scena di fronte a sè, la mano pronta a recuperare la bacchetta ma senza trovare il coraggio di tirarla fuori come invece Mitch o altri. Combatteva nella resistenza da quanto aveva quindici anni, era andato in missioni suicide, era stato incastrato in piani più grandi che l'avevano portato vicinissimo alla morte e sapeva che non sempre la scelta più facile equivale alla scelta più giusta... ma non aveva la forza, non più, di armarsi anche solo di sicurezza, preventivamente, contro quelle persone; neanche se erano solo copie come quelle di un anno e mezzo prima a Beauxbatons, anche se erano i mostri di Frankestein. Dopo averli visti morire, non avrebbe trovato il coraggio di cancellare come se niente fosse la minuscola possibilità che quelli davanti a lui fossero - almeno in parte, per favore - i suoi amici. Arrivavano da un altro universo? Da un altro tempo dove erano ancora vivi? Abbadon, i cui poteri erano infiniti, li aveva davvero salvati? «Niamh...» strinse le labbra. Riaprì la bocca cercando le parole giuste. «Quanto ho... bevuto?» Avrebbe voluto guardare intorno a sè la reazione degli altri invitati, capire se era l'unico stupito dal regalo di Abbadon, l'unico abbastanza stupido da crederci, ma aveva paura che distogliendo lo sguardo sarebbero spariti tutti, e non era pronto a quell'eventualità; era sempre stato un ragazzo ottimista, per quanto pragmatico e più improntato sulla logica che sui sogni (e in quello che vedeva, non c'era niente di logico), e Dio quanto voleva che fosse tutto vero. Passò lentamente lo sguardo sulle persone elegantemente vestite dietro il cowboy, più belle di quanto le ricordasse. Si coprì la bocca. Erin, il professor Dick, Swing, Jess, Stiles, Shot-
    Jason.
    Poteva essere una trappola. Poteva- essere uno scherzo di cattivo gusto. Potevano essere fantasmi, o inferi, o che ne sapeva, addirittura robot. Abbadon nell'AU era un mostro, e per quanto fosse da un lato giusto concedergli il beneficio del dubbio era difficile per Dakota credere non si sarebbe rivelato un dittatore; li aveva obbligati a sorridere, a applaudire.
    Non si fidava di lui.
    Eppure, il cuore agì prima della testa.
    Probabilmente non fu il primo, sicuramente non fu l'ultimo, ma mandando all'aria anni di paranoie e sospetti, gettando all'aria ogni più basilare regola di sopravvivenza, corse in avanti, e in pochi secondi stringeva Jason fra le braccia, con più disperazione che felicità, le dita a premere sulla sua schiena con un gesto possessivo. Neanche gli importava se era reale, sul momento, o se gli sarebbe costata la vita quel gesto: ne sarebbe valsa la pena per poterlo riabbracciare una sola volta.
    Si rese conto di essersi messo a piangere solo quando, staccandosi leggermente, vide la camicia dell'altro bagnata. Alzò lo sguardo su Jason, senza permettersi di staccare le mani dal suo corpo neanche un nessuno uno di secondo nemmeno zitto per asciugarsi il viso dalle lacrime, alzando invece le dita per accarezzargli la guancia mentre cercava nel suo sguardo la conferma che non si stesse inventando tutto, che non fosse una copia, che non fosse un incubo che sarebbe finito male.
    «è reale?» e non era certo di aver mai sperato tanto in qualcosa.
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    «ok, le cose al momento sono un po'... incasinate» Nicky si passò una mano fra i capelli, prendendo un grosso respiro mentre si obbligava a guardare la ragazza di fronte a sè negli occhi. "Stai calma: ce la puoi fare. Non riceverai mica un rifiuto, tanto". «la nostra vita è- cambiata, nell'ultimo mese, e noi non siamo più le stesse, nessuno è più lo stesso. Non voglio chiederti di far finta che non sia accaduto niente, che loro-» distolse lo guardo un secondo, cercando di trattenere un singhiozzo «non siano morti. È giusto ricordarli, e gli faremmo un torto a non farlo. Però-...» accennò ad un sorriso nervoso. «però penso sia giusto fare le diciassettenni, per una volta» si era già persa il compleanno perchè il sei giugno era ancora troppo vicino alla morte di Erin e degli altri e (giustamente) nessuno, lei compresa, aveva voglia di festeggiare... però ora voleva una serata vagamente normale; già era triste vedere Niamh e Mitch in quello stato e non sapere come comportarsi, perchè erano loro gli adulti, loro avrebbero dovuto confortare lei, già era difficile- vivere, in generale. Voleva approfittare di quella festa per essere solo un'adolescente che andava ad una festa; Erin e Stiles le avrebbero detto di farlo, ne era... ne era piuttosto sicura. Al loro posto, l'avrebbe fatto. «Ho già organizzato di entrare con i losers - neanche hunter ci andrà con vik -, ma- ma vorrei che questo prom fosse bellissimo, e- e andarci- sì, andarci con te aiuterebbe a renderlo tale. Quindi in modo lowkey per gli altri ma ufficiale per noi-» rossa in viso, porse in avanti il bracciale di fiori che aveva nascosto dietro la schiena. «Choukovuoivenirealballoconme?»
    Nicky non si mosse, stiracchiando il sorriso imbarazzato, e la pausa che seguì l'invito fu eterna.
    Principalmente, perchè di solito gli specchi non parlano. «era una prompose terribile, vero? Già, anche io mi sarei detta di no. Amiche come prima? Sì ok grazie»
    Sbuffando, la ragazza buttò il bracciale di fiori sul letto e poco dopo lo raggiunse, nascondendo la faccia nel cuscino.
    Sarebbe stata una bugia dire che Nicky avrebbe chiesto a Chouko di andare al ballo insieme se non avesse deciso prima di farlo con i losers, ma sarebbe stata anche una bugia dire che non riuscisse a smettere di fantasticare sull'eventualità in cui avesse trovato il coraggio di farlo, così come che una parte di lei non avrebbe preferito entrare al prom con lei al braccetto, invece che Beh.
    Insomma, era stata felicissima dei promposal dei Tryhard, davvero, ma- era il prom. Non era il suo sogno andarci con loro. Li amava, sperava avrebbero passare il resto della loro vita insieme, non la stancavano mai e l'appartamento su più piani losers era l'ideale di una vita... ma moriva dalla voglia di rendere i propri filmini mentali realtà: lei e la sua ragazza a farsi le foto all'entrata, con i fiori abbinati, a ballare un lento abbracciate (quando di solito Nicky i lenti li evitava come la peste ma dai, nelle fantasie tutto è bellissimo), e poi il dialogo smielato alla «sei tu, sei sempre stata tu» (ok su quello doveva lavorarci, ma contava che arrivata al Momento avrebbe saputo cosa dire), a seguire il bacio lento e romantico...
    Si sentiva una merda per questi pensieri, ovviamente. Se fosse stata il protagonista di un libro gli avrebbe dato dell'arrapato per preferire una ragazza ai suoi migliori amici, che c'erano sempre stati e ora avevano bisogno di lui e di stare insieme... ma desiderare di essere un'amica migliore non la rendeva tale, non nei pensieri almeno.
    Voltò la testa di lato sul cuscino, allungandosi per prendere il cellulare e aprire l'ultima chat digitando rapida. "pensi che sia egoista a non avere come prima scelta il voler passare la serata con i miei migliori amici? sono una cattiva amica?" Premette invio, e rimase a osservare lo schermo per qualche secondo. La ragazza, conosciuta secoli prima sul FRAT, non gli rispondeva da un mese, eppure Nicky continuava a sperarci, a scriverle i fatti propri. "Sei Erin?" le aveva scritto una notte "Non mi risponderai mai più, vero?", ma era stata l'unica volta in cui si era permessa di ammettere a voce (per iscritto, vabbè) quel pensiero; ormai immaginava la propria internet friend la faccia della Aguilera (chipmunks) ma preferiva credere che fosse da qualche parte viva e magari col cellulare rotto, piuttosto che andata per sempre.
    Era un po' come quando nei film ti dicono di scrivere una lettera per qualcuno che è morto, e leggerla davanti alla sua tomba, solo che Nicky ancora sperava che la tomba le rispondesse prima o poi.
    Una notifica occupò lo schermo - ma non era ovviamente Erin. "Sto arrivando; cinque minuti"
    Nicky lanciò uno sguardo all'ora, poi aprì la chat per rispondere mentre già rotolava via dal letto. Shokkante, era in ritardo! "Anche io" rispose ai losers mentendo sapendo di mentire, e via verso il tramonto.


    «ho portato un pensierino per voi! dai, scarta la carta»
    Il primo pensiero di Nicky, fu che si trattasse di una bomba (Abbadon era decisamente abbastanza strano da "salvarli" da Vasilov solo per farli saltare in aria quando erano vestiti di tutto punto).
    Il secondo, che si trattasse di un cavallo. Andiamo, aveva appena cantato old town road, aveva un cappello da cowboy... forse il suo regalo era farsi vedere mentre trotterellava in giro su un maestoso pony. Forse, avrebbe reso Hogwarts il suo rodeo personale, trasformandola in una scuola di equitazione? Insomma, Nicky non si sarebbe lamentata, da bambina (giovane adolescente) (ok anche adesso) amava il gioco per pc di Barbie cavallerizza, e non le dispiaceva in generale l'ambientazione far west (ci sarebbero state le tipelle vestite da can can??). Certo, l'importante era non essere obbligati a suonare country ogni giorno e-
    Ah.
    Non era un pacco regalo pieni di cavalli magici pronti a trottare via dal proprio nuovo padrone per un legame che è più forte dell'amicizia e anche dell'amore e destinate a stare insieme in una realtà utraterrena per sempre; no, Nicky mica si era già fatta tutti i propri film, non aveva certo dato in tre secondi un nome al proprio familio immaginario, figuriamoci, che dite.
    «ciao fiocco d'avena, ti porterò per sempre nel cuore» se non aveva visto le persone comparse dal nulla che non sarebbero dovute essere lì? Beh oddio, era difficile non notarli, tanto più che un fracco di persone aveva alzato le bacchette per attaccarli, altri si erano dati all'alcol, e in generale c'era un gran puttanaio (non aiutato da Tryhard che cantavano, aiutati dalla Winston «ZOOMBIEEE EH EH EH» perchè non si può non cantare quando passa ok??? è contro natura)... però sapete, era difficile accettare fossero lì, come premio o come minaccia, vivi o morti.
    Insomma non... non aveva nessun senso??? cosa avrebbe dovuto pensare la tassorosso? Essere felice? Mettersi sulla difensiva? Gridare all'apocalisse (again: «ZOOMBIEEE»)?
    Chi erano davvero? Come potevano essere lì? Come ci erano arrivati? No davvero, come aveva fatto Abbadon a portarli ad Hogwarts? Come c'erano stati tutti in quella scatola? Guardò i suoi amici, il cuore che batteva all'impazzata, cercando supporto morale. Cosa ???? doveva ???? fare ????
    «abbassa la bacchetta, scott»
    «no. non se non la abbassa prima lui»
    «oh, andiamo, non vi fidate?»

    Nicky non poteva vedere l'espressione del fratello, ma avrebbe voluto anche lei una risposta da Mitchell a quella domanda, sicura che lui sapesse cosa fare. Mitchell sapeva sempre cosa fare. "Ci fidiamo, Mitch?"
    «cos’è che ti ho detto, quando sei entrato in casa mia per la prima volta?»
    Strinse le labbra, gli occhi di nuovo sui morti e accennò un passo in avanti con aspettativa (un po' istintivamente, un po' per sentire meglio), rendendosi conto in quel momento che stava stritolando la mano di Vik, il più vicino a lei in quel momento. Non sapeva la risposta corretta a quella domanda, ma poteva immaginare come avrebbe reagito Mitch in caso di errore di Marcus, che parlò senza tante cerimonie - nonostante fosse vestito da principessa ics dì. "Ti prego fa che sia la risposta giusta, fa che sia la risposta giusta, fa che sia-"
    La risposta giusta.

    «sono loro?» «SONO LORO!» «beh sono.. sono loro!»
    Erano loro.
    Stringeva ancora il Dallaire? L'aveva mollato? Probabilmente no, e se lo portò dietro verso quando corse verso il palco, spintonandosi fra gli altri che avevano avuto la sua stessa idea, e una volta lì si buttò addosso al primo volto amico trovato. «SIETE QUI» gridò- pianse? Insomma, disse, le dita a stringere vestiti e a cercare mani e il cuore a impazzire e il fiato a mancare. «ERIN COME SEI BELLA MI SEI MANCATA UN SACCO- STIII/IIIII/IILESSS!!! MARCUS COME STAI COME SEI TUTTO CARINO JESS LO SO CHE DOVREI FINGERE DI CREDERE TU SIA UN FANTASMA MA ORA ABRACCIAMI» what is happening
    boh (non il pg) (ma anche visto che è lì)
    Troppe emozioni tutte insieme. abbraccioni di gruppo? Dai conto che prima o poi tutti si siano sciolti e nicky voleva stritolare tutti. «CI SIETE MANCATI COSI TANTO PENSAVAMO FOSTE MORTI» in realtà erano effettivamente morti, ma vabbè «GRAZIE SIGNOR ABBADON» oh era uno psycho ma li aveva prima liberati di vasilov, poi di un sacco di leggi razziste e ingiuste, e poi riportava loro persone che era CERTISSIMA di aver visto morire uccise dall'altro psycho di turno??? Insomma, anche se non era tutto centrato, un grazie ci stava- perchè no, magari avrebbe anche cantato più tardi la canzone country che mitch li aveva obbligati a preparare senza la morte nell'anima. «SIETE TORNATI DAVVERO» e visto che le priorità sono molto chiare: «ci siamo presi cura dei vostri pokemon!!!» parlava anche per altri ora, sì, ma ovviamente era andata un sacco di volte a controllare da Murphy che la squadra di stiles mangiasse, e si era assicurata che quelli di erin e jess crescessero sani e forti e non avessero la sindrome di hachiko. «siete mancati un sacco anche a loro» e via di lacrime, di nuovo
    1st july '19
    hogwarts
    prom night
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco


    oh lo dico ovunque: scusate se non cito vostri pg, o non so descrivere sentimenti ??? vi voglio bene comunque anche senza saper scrivere ma o posto così o non posto mai più cc
     
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    Nome: «kosmo…»
    Meglio conosciuto come: «GRAN PEZZO DI MERDA!» e quello era tutto ciò che Troy Bolton Hawkins aveva da dire nei confronti del suo capo, in quel momento come nei quindici anni precedenti. Serrò le palpebre e strinse i denti, le unghie a conficcarsi nei palmi nell’ennesimo tentativo di placare un istinto oramai così omicida, da essere disposta a ricorrere al suicidio: perché il Contratto TM, come Kosmo non mancava di ricordarle ogni trenta secondi di poco civile convivenza, implicava, oltre ad altre migliaia di clausole che uscivano, letteralmente!, dalle fottute pareti, che se lui fosse morto in circostanze misteriose o violente, ella ne avrebbe seguito l’infausto destino, e soffrendo il triplo. Quindi sì, oltre ad essere la sua puttanella tuttofare, le toccava pure il ruolo di guardia del corpo, malgrado fremesse dalla voglia di vederlo impalato come una delle vittime di Vlad (grande fan, Troy; non ne facevano più, di uomini così). Doveva assicurarsi che nessuno, malgrado – del tutto lecitamente – avesse un miliardo di nemici, sgozzasse quel «nano del cazzo
    Uno avrebbe potuto ingenuamente pensare che quindici anni fossero bastati, ai due (tre contando Pornhub, l’orso di peluche; lunga storia, stessa merda) per creare un rapporto di amicizia; quasi paterno, se si fossero esclusi i molteplici tentativi dell’uomo di entrare nelle sue mutande, perché figurarsi se non si faceva infinocchiare da un pervertito arrapato – eh! – o il fatto che ogni anno, vendesse un pezzo del suo corpo al mercato nero. Letteralmente. A sedici anni, le aveva fatto il regalone di vendere le sue ovaie ad un Maharaja indiano. Non che a Troy mancassero particolarmente, ma sti cazzi? Il Contratto TM la metteva nella posizione di non potersi ribellare a nulla di quel che il Negriero, come amava chiamarlo, decideva per la sua sorte. Ragazzi, ascoltate un consiglio dall’esperta: mai firmare nulla, se vi viene chiesto di farlo con il sangue. Una Troy di dieci anni, aveva pensato fosse super kool; aveva pensato fosse un minuscolo sacrificio, in visione del Grande Potere che avrebbe ricevuto ad essere l’apprendista dello Stregone (lo stregone più potente del mondo, recitava la locandina del Circo: e che fai, non ci credi?): s’era fatta accecare dalla propria ambizione, dal bisogno di essere superiore ai suoi fratelli, e dimostrarglielo. A conti fatti, era stata una gran stronzata – ma che ne sapeva, l’allora ragazzina. Impulsiva lo era stata da che ne aveva memoria, quando il suo primo istinto era ringhiare ai bambini che si avvicinavano ai suoi giochi, piuttosto che condividerli. Insomma, già da cucciola d’uomo era particolare, volendo usare un gentile eufemismo.
    Non era migliorata con gli anni. Se poi se ci si mettevano d’impegno, a farle girare i coglioni, non si salvava più nessuno. Sapeva di non essere la ragazza più simpatica in circolazione, ma che poteva farci? Viveva una vita miserabile, un sim nelle mani di uno stra cazzone (solo metaforicamente; c’erano dettagli che non erano disposta a sapere) di dimensioni bibliche a cui piaceva giocare a fare Dio. Ogni giorno era una nuova missione di Kosmo; ogni missione, era un premio che andava al mago, elogi che andavano al mago, mentre lei – l’originale Troy Fuckin Bolton – era destinata a rimanere l’ombra. Quando fortunata, s’intendeva, perché quando svolgeva un ruolo attivo nelle lusinghe al mago, solitamente le toccava soffocare sotto mantelli nei quali Kosmo la costringeva per salirle in spalle, ed apparire più alto.
    Capite.
    Riaprì gli occhi, schegge nocciola a conficcarsi nel post it attaccato sul frigorifero.
    Niente, era ancora lì.
    ”CHI VINCE? WILDCATS! XD
    (un incubo)
    Cmq, sono andata in vacanza alle Maldive per ricaricare la mia potentissima mAgiA riTUAlE
    (aka: cercare gnocca; pura illusione, senza l’aiuto del Rohypnol)
    Ti ho lasciato una lista di cose da fare, affrettati!! Abbiamo delle scadenze!!!!
    (pure. Minchia se ti meno)
    Portati sempre dietro Porfirio
    (sempre sconvolgente sapere che Pornhub avesse un nome reale; un altro apprendista dell’era – e si parlava almeno del paleolitico – adolescenziale di Kosmo, maledetto da un Nemiko dello stregone e costretto a vivere nella forma di un peluche: tranquilli, rompeva il cazzo uguale)
    Così posso tenerti d’occhio ; ) ; )
    (i brividi ogni volta; Troy era abbastanza certa che il loro rapporto non avesse nulla di platonico)
    1: comprami le pringles, le ho finite : (
    2: alle 17 di ogni giorno, fai la danza del sole; non voglio mica il brutto tempo! XD
    3: trova e sconfiggi un drago; così, perché mi va : D

    (quando uno era figlio di una mignotta, c’era poco da fare)
    4: trovaci altri clienti, in questo periodo siamo un po’ a secco
    (i clienti, ovverosia dei minchioni che si facevano incitrullire dalla magia di serie B dello stregone, e per i quali – chiaramente – doveva sempre rimetterci lei: tipo quando nel 2015 ha venduto la sua magia, e la sua faccia, a dei ricconi di merda, e per sopperire la mancanza di magia, l’aveva invitata ad andare nei Laboratori giurando che sarebbe andato a riprenderla: ovviamente, non l’aveva mai fatto. tipo, eh)
    5: ah, e devi tornare nei laboratori per prendere twat!!!! LOL
    (cioè doveva recuperare una persona stupida e fastidiosa? Qual era il senso, quando poteva tranquillamente andare a prenderla alle maldive: “lol”)
    6: leggi la saga di after, e fammi un riassunto!!!
    (sperava che le manie ossessivo compulsive del mago si fossero placate dopo twilight; non c’era fine al peggio)
    7: crea una statua di ghiaccio per ogni animale del sudamerica!!! Quando torno facciamo una festa a tema!!!!
    8: guarda almeno una volta al giorno HSM; non sai ancora i passi di getcha head in the game XD

    «am I a joke to you»
    Risposta: sì. Sempre
    Passò le dita sul labbro inferiore, respiri profondi che, in circostanze simili, non aiutavano a mantenere la calma, ma le davano una parvenza di sanità. C’erano giorni in cui pensava davvero che l’unico modo per uscire da quel loop infinito, fosse un omicidio-suicidio – ma le piaceva troppo, vivere; perfino in un modo, ed un mondo, così di merda, a Troy piaceva essere viva, ed ancora confidava che un giorno i suoi sacrifici sarebbero stati ripagati, ed ella sarebbe diventata la non-più-strega-ma-special più potente dell’universo: ed ecco cosa accadeva a nascere millenials, e crescere guardando i pokèmon.
    Fottuto Ash, ed i suoi esempi di vita del cazzo.

    «non puoi tenermi in braccio?»
    «manco per il cazzo»
    «almeno in borsa? ouch.»
    Ignorò le proteste di Pornhub, sorridendo sorniona ogni volta che il peluche veniva trascinato per puro caso XD sulla ghiaia al fianco del marciapiede. Sì che doveva portarselo dietro, ma non significava che la Bolton ne fosse lieta: aveva adottato la tattica di ogni madre che odiasse il proprio bambino ma fosse forzata a sopportarlo, ovverosia un guinzaglio legato in vita. Se non avete mai visto madri del genere, frequentate posti migliori rispetto a quelli di Troy. Non che ci volesse molto. Si fermò nel punto indicato dal KPS, kosmo’s position system, guardandosi attorno alla ricerca dell’entrata nel Laboratorio. Non aveva le skills adatte per affrontare una missione del genere con le sue sole forze; non era una ninja, sapeva fare a botte solo in modo crudo e disorganizzato, e sapeva che non si trattava d’altro che di una delle mission impossible che Kosmo amava affibbiarle. Le portava sempre a termine, eh, ma a quale prezzo: aveva più cicatrici di orologi e bracciali, il che, conoscendo un minimo la Bolton, era tutto dire.
    «che bastardo.»
    «ti sembra il modo di rivolgerti al Grande Kosmo?»
    Piazzò un piede sul corpicino in cotone della Belva, denti strizzati fra loro e ringhi a sgusciare dalle labbra. «t’ammazzo» minacce vane, considerando che non poteva morire, ma uno non smetteva mai di sperarci. Lo osservò truce, rammaricata – come sempre – di non poterlo lanciare in un bidone della spazzatura, ed accidentalmente dimenticarlo: era come Annabelle, quel pezzo di merda; tornava sempre. Con la coda dell’occhio, colse una distorsione nella realtà circostante: bingo.
    Scrocchiò le dita. Rivolse una preghiera a Buddha (non credeva in Dio, ma se avesse dovuto scegliere, il Buddha a cui battere il cinque vinceva su tutti), modellando il ghiaccio così da formare una stilosissima, ed assolutamente inutile considerando che non sapeva usarla, katana.
    Ok. «ok» era pronta.
    Si era aspettata che nel momento in cui avesse messo piede nell’area protetta, sarebbe suonato l’allarme, mettendo in allerta Guardie, Dottori ed Adescatori; quel che invece accadde, fu –
    Niente. Nichts, rien, nada, snoll, nic.
    Piegò gli angoli delle labbra porpora verso il basso, un sopracciglio corvino a scattare verso l’alto. Se l’ambiente non fosse stato tenuto così bene, avrebbe creduto di essere arrivata post smantellamento, ma quello non pareva un luogo disabitato. Cauta, si appiattì contro la parete ed iniziò ad avanzare, la katana (inutile, vorrei ricordare, caso mai l’aveste scordato) stretta di fronte a sé. Ed ancora non accadde nulla, fino a che: «AAAAAAAAAA» ???
    «aaaaaaaAAAA»
    «sei venuta per twat???» bisbigliò il Dottore, fra uno strillo inarticolato e l’altro.
    «cosa?»
    «AAAAA KE DOLORE, AAAA MI HA COLPITO, KE!!! NINJA!!!» Troy osservò impassibile l’uomo accoltellarsi ripetutamente con la lama. Aveva visto troppe cose strane - cose che voi umani non potete neanche immaginare - per potersi stupire, ma un po’ sconvolta la era. «cosa sta succedendo» «AAAA, OHMIODIOOOH, FUGGITE, è TROPPO FORTE – scuoti la katana, eddai, vienimi incontro» indossando l’espressione più neutra del suo repertorio, confidando che prima o poi tutto avrebbe acquisito senso, brandì la katana in modo assolutamente casuale di fronte a sé: «uattà» «inviNCIBILE, AAAA» «sì ma, amico, ti sei – pugnalato sul ser-» «oh meo deooo» Ed era
    Era morto?
    No. Le stava
    Le stava…«mi stai facendo l’occhiolino?»
    «è uno spasmo post mortem, genio»
    «stessa roba» si strinse nelle spalle, immobile mentre attorno a lei scoppiava il caos: gente che correva, gente che si rotolava nel sangue del collega e rimaneva immobile al suolo, gente che le si inchinava innanzi ringraziandola. Okay, stava decisamente raggiungendo la top ten delle cose assurde capitate nella sua vita. «è nell’ala ovest» «ma chi» «TWAT» «scusa a chi hai dato della fiketta? EHI PORNHUB, QUESTO STRONZO BIANCO MI STA SPORCANDO IL PAVIMENTO» che millenials sarebbe stata, se non avesse citato il trash della sua generazione? Non sapeva un cazzo della situazione nel mondo magico, o del mondo punto, relegata all’ignoranza dal suo Boss Supremo TM, ma datele una frase di Scary Movie, ed inizia a rapparvi tutta la scena: cOnOsCeNzA. «ti prego, portacelo via»
    Uellà. Seguendo le indicazioni dei Doc, aveva creduto che si sarebbe trovata di fronte ad un Mostro, un perikolo d-d-danger, una qualche genere di creatura leggendaria….non si era aspettata Dexter, ciuffo biondo, naso all’insù ciuffo «password ochei» Osservò il ragazzino con cipiglio critico, volgendo poi gli occhi nocciola alle sue spalle alla ricerca del twat. Non poteva essere quell’affarino lì, no? Con il senno di poi, e con poi intendo pochi minuti, avrebbe compreso il perché da quelle parti morissero (letteralmente) dalla voglia di liberarsene, ma in quel momento le pareva…piuttosto innocuo.
    Beh. Anche se non fosse stato lui, uno stronzetto sarebbe valso l’altro. Gli indicò il corridoio dal quale era appena giunta, un secco cenno con il capo invitandolo a proseguire. «non ho tutto il giorno, ragazzino»
    E l’uscita dal Laboratorio fu costellata da: sì, puoi tenerlo quello; aggiusta quel cazzo che ti pare; a casa ho un tostapane che non funziona da tre anni; vuoi aggiustare la macchina? Toh (e ruppe la macchina con un bel assestato pugno, strappando fili un po’ a caso senza preoccuparsi di poter esplodere) aggiustala.
    La breve storia di come Troy Bolton Hawkins, un quarto di secolo su quella terra da lì ad un mese, il primo luglio si ritrovò a fare da babysitter ad un norvegese dai passatempi particolari. «toh, fine corsa,» parcheggiò l’auto nei pressi della charing cross road di Londra, chiudendosi la portiera alle spalle con un tonfo definitivo. Assurdamente, per quella sera aveva dei progetti – lo so, davvero stranissimo: era più improvvisatrice naturale che meticolosa organizzatrice, e raramente apprezzava la compagnia o la folla. Quella notte, però, si sarebbe tenuto il prom di Hogwarts al quale, per un motivo che Troy non aveva compreso, erano invitati tutti: vi rendete conto, di cosa volesse dire? Cibo gratis. Per chi come lei viveva di noodles istantanei, pizza congelate e risotto al tonno (…con risotto al tonno, s’intendeva risotto bianco con, plop, una nuda vaschetta di tonno: che vi credevate), quello era un invito a nozze: Kosmo non la pagava (punto) abbastanza, perché Troy potesse permettersi un pasto come si deve. Come aveva detto a Twat, il suo tostapane non funzionava da anni, quindi manco quelli poteva mangiarsi. «ora sei libero di fare il cazzo che ti pare, yay! Nn 6 felice (:» lei al suo posto lo sarebbe stata, ma i gen Z erano degli stronzetti ingrati: valli a capire. Per un motivo non meglio specificato, mentr’ella si destreggiava (male) fra i vari passaggi segreti (oh meoo deoo ma chi li aveva progettati, Picasso? Tutti sversi, oh) che l’avrebbero portata al castello (era troppo extra per la strada principale, ed abituata a ricorrere alle vie secondarie da sempre: fatele causa) il nanerottolo aveva ben pensato di seguirla. Non aveva, boh, degli hobby? Una casa a cui tornare? Una stazione della metro dove aggiustare le obliteratrici? ke voleva da lei. Se anche nel tragitto le avesse raccontato la sua vita, Troy non avrebbe saputo dire un cazzo, ai posteri, di quel ragazzino: non aveva ascoltato mezza (mezza) parola. «il kapo mica ti ha dato il permesso di andare ad una festa» do i look like i give a fuck. «sh00k» si premurò di calpestare ancora pornhub, giacchè, ignorando i bassi grugniti del peluche. Nient’affatto positivo che la criocineta fosse l’unica in grado di sentirlo ciarlare, date le volte in cui la gente aveva assistito in diretta alle botte con lo quale lo gonfiava: immaginava non fosse roba di tutti i giorni vedere una ragazza picchiare un orsetto di peluche. Fortuna che non avesse dignità, ma anche un quarto di palle con il quale sbattersi di quel che gli altri potessero pensare di lei: sarebbero stati dalla sua parte, se solo avessero saputo. «non puoi presentarti vestita così, troya» pornhub, o enzo miccio che dir si volesse, s’era convinto che troy non fosse un nome maschile, e troya fosse più adatto -li mortacci sua. In ogni caso, non si sarebbe fatta dare consigli di moda da un pupazzo di pezza: con la sua collezione di gummywatch (non funzionanti) a tutti i gusti + 1 ai polsi, i pantaloni (un tempo integri, poi drago happened) strappati, ed un(a canotte ria, ma ho già detto drago? lo ripeto) toppino da urloh, era super in mood gen z. Una giacca per coprire i graffi ed i tagli alle braccia (..d r a g o, ve ne avevo accennato? sì? Beh, sempre meglio ripeterlo) l’avrebbe rimediata, confidava; pareva così innocua dal basso del suo metro e sessanta, con i corti capelli scuri a scenderle appena sulla fronte ed i liquidi occhi muschio a esprimere GIOIAH DI VIVEREH!!. Una conquistatrice nata, Troy Bolton.
    Poi di solito bastava presentarsi, perché qualcuno le lanciasse vestiti – almeno, un tempo, al boom di high school musical, funzionava così: ora alle ragazzine che piaceva, ancora justin bieber? Non era aggiornata. Tempo di arrivare davvero alla festa, oltre ad essersi dimenticata dell’esistenza di Twat una volta ogni metro (…aka sempre; ogni tanto con la coda dell’occhio lo vedeva, si ricordava di lui, e poi puff, niente più nanerottolo: eh, la demenza senile; il lavoro da tirocinanti a tempo indeterminato sciupava anche gli animi più vivaci. Stupida crisi, mezze stagioni una pippa, due piccioni non con una fava, eccetera eccetera), Troy aveva racimolato:
    - una maglia di un qualche gruppo metal e satanista color verde fluo da un ragazzino smunto e dall’aria malata;
    - una spilla a forma di alieno che, in caso la situazione fosse precipitata, sarebbe stata la sua scusa per /sparire/: gli alieni adducevano quando meno te lo aspettavi, e l’area 51 attendeva solo lei, da una ragazzina felice di esistere;
    - una giacca di venti taglie più grande da un pornhub dimensione umana, e meno maniaco.
    Top.
    «ora sì che -» «sembri una puttana di basso borgo alla walk of shame mattutina» aveva già detto di odiarlo? No?
    «vaffanculo» non specificò al ragazzino non a te, perché si era di nuovo dimenticata di lui! poteva benissimo essere incluso. Una grande filosofia di vita, quella di mandare a farsi fottere quanta più gente possibile – non si sbagliava mai; prendete nota, giovani.
    Ed infine, la famosa oguorz: lucine, musica, persone tristi.
    Persone tristi.
    Che razza di festa era. «di merda» era così abituata a parlare solo con pornhub, che ogni tanto (sempre) concludeva ad alta voce i pensieri iniziati fra sé e sé. Nessuno se n’era mai lamentato (anche perché…#ki) so what.
    [nanananananaanaananananaNANA SO SO WHAAAAT.mp3]
    Gli occhi della Bolton, come avrebbe detto il grande Ungaretti, s’illuminarono d’immenso nel posarsi sul tavolo con il cibo. Cibo vero, cucinato da qualcuno; cibo con del sapore. Sarebbe stato troppo lame, mettersi a piangere? Perché si sentiva ad un passo dalle lacrime da commozione – ma d’altronde, chi non pareva ad un passo dal pianto, in quella scuola? Forse anche loro avevano fame. La crisi c’era per tutti. «tartine al salmone?» si coprì la bocca con una mano, gli occhi lucidi nel mettere a fuoco i salatini; in quel momento, nella stanza avrebbero tranquillamente potuto esserci solo loro.
    Aveva fatto bene, a portarsi dietro il borsone.
    Si fiondò sui piatti («POLPETTINE? gAmBeRi») senza guardarsi attorno, danzando sul posto mentre si riempiva (la borsa, ma anche) la bocca di cibo come un ebreo appena liberato dai campi di concentramento: metafora non troppo lontana dalla realtà, data la sua situazione. Non gliene fregava niente di apparire fuori luogo, con quegli abiti da pezzente e l’orsetto legato in vita: si meritava di essere lì; citando un vecchio saggio, ci sono anch’io.
    Non il progetto di servizio civile di sara ma anche, la canzone degli 883: oh, ma bisogna dirvi tutto. Era così impegnata a ingozzarsi, che a malapena si accorse delle voci provenienti poco distante da lei. Si distraeva facilmente, ma aveva l’innata capacità di cogliere le cose importanti, dopo anni di allenamento a cercare rincoglioniti da portare a Kosmo. Le cose interessanti.
    «n-nel mio s-secolo, il p-p-punch era p-più b-buono»
    «nel mio secolo, il punch non esisteva più: e v o l u z i o n e»
    in che secolo. Sollevò sguardo nocciola sui due che avevano appena parlato, trovando sailor moon e maurizio impegnati in una conversazione assai particolare: 1) va un po’, pareva di vedere le sue due personalità parlare fra loro; 2) avevano appena detto –
    «salutala, tanto sta sentendo tutto»
    Busted.
    Battè le ciglia, la bocca gonfia come quella di un criceto, e salutò suadente il suo pubblico: sì, li aveva conquistati, non le avrebbero sicuramente chiesto nulla. «p-p-problemi?» ma chi, lei? «ti ho già vista da qualche parte» mayday mAYDAY. Erano ben pochi i motivi per i quali potesse averla vista, e nessuno (uno, di secondo, nemmeno zitto) positivo. «no hablo tuo idioma» e stava per esibirsi in un fantastico ice drop sparendo dalla circolazione con il suo bottino, quando giunse la cavalleria.
    Letteralmente.
    Approfittò del buio per rotolare il più lontano possibile dai due, schiantandosi contro [gente] con la quale non si sprecò a scusarsi; era quasi a quella che credeva essere l’uscita, quando: «i’m gonna take my horse to the old town road, i’m gonna…ride till i can’t no more.» no, ti prego, non il «C O U N T Ry» ecco.
    Ora chi l’avrebbe schiodato più, quell’orsetto del cazzo. Era come fare da badante ad un vecchio a che se non veniva soddisfatto delle sue voglie (alle persone normali, doppia dose di budino; a lei, il country ed i Toys center), faceva la spia ai figli dicendo che avevi rubato l’argenteria.
    Mignottone formato tascabile.
    [esibizione da standing ovation]
    Ma Troy era troppo pigra per batter---eeee stava battendo le mani?
    «pornhub, sei t-UH» cristo santo, l’orso stava battendo le zampe? NON AVREBBE NEANCHE DOVUTO ESSERE POSSIBILE. Prima che qualcuno potesse accorgersene, calpestò il peluche con (più) violenza (del necessario), osservando sbigottita il cowboy in scena.
    Che strane feste di fine anno, a oguorz.
    Bloccata sul posto dalla curiosità, osservò il pacco da scartare sul palco.
    Persone.
    Uau: «che regalo di me-UELLA»
    Bacchette sguainate.
    Gente che gridava.
    Gente che cantava.
    «mission abort MISSION ABORT» non ne voleva sapere nulla di quelle stronzate – sicuro come l’oro, non voleva crepare per un sandwich ai cetrioli.
    O forse sì: c’erano modi peggiori di morire, no?
    TROY
    BOLTON,
    *inhale*
    Getcha…
    *exhale* HEAD IN THE GAME.
    E quando la sua coscienza citava HSM, significava che era proprio fottuta. «mission abort» confermò, in un panic moonwalk di classe che nei film funzionava sempre una bomba, e che spinsero invece la Bolton ad inciampare, prevedibilmente, su qualcuno.
    E allora vaffanculo. «TUA MADRE è» alzò gli occhi, correggendo diplomaticamente il tiro con un sorriso affabile ed un finger gun: «una gran brava signora, tante care cose» voilà.

    troy bolton hawkins
    cryokinesis - 24 y.o.
    make shit awkward
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco

    non fa niente?? racimola i vestiti da hunter + lauren + phobos GRAZIE AMIKI, se nel buio volete essere colpiti da palla bolton fate pure, ed alla fine - ancora? sempre - si schianta contro qualcuno: olè!
     
    .
  10.     +7    
     
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    dressed to kill

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    Oh ma, non ci si poteva proprio fidare di nessuno. Jericho Karma Lowell osservò accigliata il palco, impassibile al caos generale che il regalo aveva creato fra gli sfigati del prom. Forse merito dell’adrenalina ancora in circolo per l’improvviso blackout, forse le giravano già troppo le palle dal dover essere ad una maledetta festa (una festa di fine anno scolastica, poi, l’incubo di qualunque Jericho Lowell), forse old town road aveva smorzato l’effetto, ma la Lowell, di fronte a quel dono, non riusciva a provare le forti emozioni che sembravano aver travolto gli animi dei più, e dei meno, intrepidi: si sentiva semplicemente ancora più incazzata, caso mai uno scenario del genere potesse essere umanamente possibile.
    Cioè. La stavano prendendo per il culo? Erano forse finiti guest star di una stagione di supernatural? In quel di Londra la gente tornava in vita con la frequenza di un Gesù Pasquale: manco i morti erano più attendibili. Strinse le labbra e la palpebre, i pugni serrati lungo i fianchi. Dov’è la fregatura - che era certa, da qualche parte dovesse esserci. Quando i primi morti erano tornati a camminare fra loro, tacchete, Jericho era stata privata ufficialmente della possibilità di eliminare Heidrun Ryder Crane dalla faccia della terra senza uccidere anche Euge e quel pirla di suo cugino: cosa la attendeva con quei nuovi zombie di serie B? Carillon country ogni volta che Seth entrava in scena? Incrociò le braccia al petto, emanando l’aura oskura che già gli abiti promettevano: malgrado fosse estate, Jericho indossava un mantello nero (per nascondere la guaina della katana dietro la schiena) abbinato ad una gonna nera (per avere i pugnali a portata di mano) ed una camicia nera (con i taschini straripanti di shuriken, non si sapeva mai nella vita). Se avesse potuto esprimere maggiormente quanta poca voglia avesse di essere lì, l’avrebbe fatto - ma ahimè, la moda dei sicari aveva i propri limiti. «EHI, PRINCIPESSA BITCH» peach, bitch, same thing: mentre Marcus Howl scambiava inutile convenevoli angst con quel fricchettone del Winston, Jericho emerse, dall’alto del suo neanche metro e sessanta, come uno tsunami pronto a distruggere qualunque cosa sul proprio cammino – ed il tutto, con un sempre di classe accusatorio indice contro il corpetto del suo EX!!! AMICO!!! Così imparava a morire, merda. «le armi restano comunque mie, RICOMPRATELE» perché il testamento (quale? Orale, scritto, a chi importava) di Marcus Christopher Howl, aveva detto chiaramente che l’armamentario dell’uomo fosse divenuto di sua proprietà: non c’erano clausole per gli zombie.
    If you die like a bitch
    You risorgi like a bitch.
    Degli altri regalini XD non poteva fregargliene di meno: se n’era sbattuta in vita, li aveva ignorati nella morte, non vedeva perchè essere ipocrita e fingere che il loro ritorno le scuotesse l’animo di giubilo. Il mondo mica girava attorno i Gesù, c’era gente (jericho) che viveva bene anche senza morire una volta l’anno, per poi resuscitare con magici riti satanici che avrebbero finito per infilarla nel culo a tutti, eppure nessuno applaudiva ai loro sforzi da sopravvissuti: così, per dire.
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    «sailor moon, uccidimi»
    Alcool
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    Strilli.
    Silenzio.
    Silenzio. Non reale, di gente che strillava continuava ad esserci, ma per Jericho Lowell tutto smise. Perfino il tempo parve fermarsi, mentre a rallentatore volgeva il capo bruno in direzione di Gemes Hamilton, e Heidrun Crane. «in che senso» ruvida, sputata fra i denti in un grumo d’oltraggiato ossigeno e bile.
    How
    Dare
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    Detective Diaz
    «in che senso vi sposate» pausa drammatica.
    «ma con chi» altra pausa, le ciglia a battere lente sugli occhi zaffiro.
    «FRA VOI??»
    BOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOONE.
    jericho karma lowell
    telepathy - 20 y.o.
    @jklowell
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    odia tutti vale come? davvero, non parla con nessuno, chiede a eddie / barbie di ucciderla, e avvisa marcus sul suo destino #quale
     
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    «in che-... senso» Mads si grattò dietro l'orecchio, sguardo confuso sull'uomo. «è latino giusto? è una... preghiera?» L'uomo a braccia incrociate di fronte a lei non sembrava contento dalla sua risposta. «Mi stai prendendo in giro?» «cos- no! Certo che no!» anche se se lo sarebbe meritato, per quanto era inutilmente scorbutico. «solo non so cosa sia questo... curricularum vita» «curriculum vitae» «eh»
    L'uomo sbuffò. «Ragazza, mi stai facendo perdere tempo»
    E così, come se niente fosse, le chiuse la porta in faccia. Mads aprì la bocca prendendo fiato, la richiuse non sapendo neanche lei cosa avesse voluto dire. Ah ochei.
    Se ne andò senza attendere oltre, e ripescando dalla tasca l'indirizzo che si era scritta su un foglietto la mattina lo buttò nel primo cassonetto che trovò sulla strada di casa. «stupido 2019»
    Non poteva crederci che dopo tutti quei giorni e quei tentativi, ancora non avesse trovato uno straccio di lavoro in una qualsiasi officina. Voleva solo lavorare in quello in cui era brava, ci voleva tanto? Parlandole del ventunesimo secolo mentre mettevano a posto il vecchio pick up nero a bodie, Arci le aveva detto che forse la situazione per le donne negli anni duemila non era perfetta, ma era molto meglio rispetto a quella del 1919; le aveva assicurato che non avrebbe avuto problemi lì a farsi pagare come meccanica... e invece HERE WE ARE! Senza un lavoro, senza quindi un soldo, senza quindi indipendenza. Nel mondo magico essere meccanici non esisteva come professione («i maghi vecchi e puristi sono un po' antiquati, credono sia da filobabbani usare la tecnologia e oggetti creati senza alcuni utilizzo di magia»), nel mondo babbano le chiedevano testimonianze o contatti di esperienze passate, indirizzi, attestati, e l'unica volta in cui era riuscita a farsi fare un vero e proprio "provino" pratico, dimostrando il suo talento, alla richiesta di documenti Mads non aveva potuto fare a meno che ridere nervosamente. A quanto pare, era considerato illegale e lavoro in nero assumere qualcuno senza avere i suoi dati, pensa te. Dov'era finito il buon vecchio: sei bravo, ti assumo? Mica era una trafficante di organi, solo una profuga!!
    «Lo sai, potrei benissimo usare la magia per farti assumere», le aveva detto Arci un giorno guardandola divertirsi sotto il pick up «non ci vorrebbe neanche tanto. A Bodie ho imparato un incantesimo che-» «no»
    Mads sapeva di essere brava, e sapeva di meritarsi un lavoro senza bisogno di trucchi. «...però puoi farmi avere dei documenti?» «mary madelaine wesley, mi stai chiedendo se io possa procurarti dei documenti falsi? Rischiando, insieme a te, la prigione babbana e multe che non potrei pagare neanche in tutta la mia vita?» «io-» «sì, posso. Dammi... un mese? E dovrai usarli solo nel mondo babbano - non che ti servano da noi, in ogni caso, ma hashtag i nuovi cacciatori mi fanno così paura»
    Avrebbe dovuto avvisare Arci di prepararle anche quel curr- curricula cosae.
    Arrivata a casa (casa; chiamiamolo pure campo profughi: lì mads aveva una camera da letto, una cucina, e anche mobili pieni di abiti vecchi da poter indossare liberamente, ma non era sua; dopo un mese, ancora ci si sentiva ospite nonostante Nicky e Mitch fossero stati più che gentili con lei e Barbie a lasciargliela loro), la prima cosa a darle il benvenuto sulla porta fu una scatola. Tenendola sotto il braccio la portò dentro, la posò sul tavolino, e la aprì.
    Gemette.
    «davvero, arci?» tirò su la fascia nera che il ragazzo aveva osato chiamare "vestito" quando le aveva detto che ci avrebbe pensato lui ad aiutarla per la festa, visto che lei non aveva abiti adatti, e fece per rimetterla con due dita dove l'aveva trovata (Mads non avrebbe mai puntato il dito su qualche ragazza perchè troppo svestita ma ANDIAMO! Non era decisamente da lei un abitino simile) quando notò il bigliettino dentro la confezione: "sei proprio sicura non ti piaccia? sicura SICURA??!!! Secondo me staresti bene a mostrare un po' più di pelle, ma se proprio ti va di vestirti come mia nonna, la scatola ha un doppio fondo. Ringrazia Mac".
    Mads guardò confusa la scatola, e trovando una linguetta in un angolo la tirò, rilevando davvero un secondo vestito che prese in mano sorridendo. Non era particolare, o scollato; non era decisamente un abito che Arci sarebbe stato felice di vederle, ma lo adorava già. Carino nella sua semplicità e nel taglio, divertente per la fantasia della gonna che richiamava il suo potere. Si posizionò di fronte allo specchio, lasciando il vestito avanti a sè per guardarlo meglio. Istintivamente, si chiese se a Floyd sarebbe piaciuto; se sarebbe rimasto qualche secondo di troppo a fissarla come successo alla festa da Gallagher, stupito di vederla con qualcosa di diverso dagli abiti da lavoro o il vestito della domenica; se le avrebbe chiesto di ballare.
    Portò alle labbra la croce, e prima di portare in camera il vestito recitò una preghiera ignorando le lacrime a rigarle le guance.

    ...


    «meh» Arci passò lo sguardo intorno a sè nella sara, e ripetette (nel caso qualcuno non lo avesse sentito): «MEH»
    «...Vuoi che te lo chiami?»
    «non lui. "Meh" intercalare» La ragazzina che gli aveva risposto lo guardò stranita qualche secondo, poi con una scrollata delle spalle se ne andò. Arci neanche si voltò a guardarla andare via, lo sguardo invece sulla sala addobbata a festa.
    Ok, non è vero: lo sguardo sulla tavola delle bevande. «sei davvero ingiusto, Geremia. Mi sento preso per il culo» insomma, oltre al danno di dover stare senza i propri migliori amici per quasi due anni, doveva anche sorbirsi la beffa del loro odio?? VOLEVA SOLO BERE NORMALMENTE AD UNA FESTA CON I SUOI BFF!! «Ma lo sai che nel 1900 c'era il proibizionismo?? DEVO RIFARMI» ok a Bodie il probizionismo era una leggenda metropolitana, e l'alcol distillato dalle barbabietole era una favola (e lo aveva detto pure più volte a Bells e jer)... ma questo non voleva dire che non gli andasse un cicchetto in quel momento, soprattutto dopo un fucking mese di lutto e di riassestamento. Aveva dovuto riabituarsi ad una casa nuova, un meteo nuovo, una routine nuova, un lavoro nuovo, persone nuove, vocabolario nuovo-... era davvero tutto troppo stressante per il povero Leroy che voleva soltanto una serata (organizzata dallo psicopatico di quartiere) tranquilla. Senza contare che aveva fatto un viaggio di otto fucking ore e si meritava alcol gratis.
    Afferrò un bicchiere, sperando che la manfrina fosse bastata a convincere Jeremy a lasciargli l'alcol (DAI!! MITCH AVEVA ANCHE DETTO CHE POTEVANO DORMIRE LI!!! NON DOVEVA NEANCHE GUIDARE PER TORNARE A CASA!!!!!!!!!!!) ma nope, il milkobitch glielo prese di nuovo dalle mani. «che ti avevo detto, brutta merda?» «DAJE» «non ti farò né bere né fumare. sia mai che ti lerci così tanto da cadere in un buco nero.» «JEREMY CAZZO» due parole che stavano sempre bene vicine nella stessa frase, ma che da quando era tornato non aveva ancora usato in senso stretto. A quanto pare, in quei mesi il Milkobitch si era preso una ?? cotta ??? per stiles ??? (o così narravano le storie); Arci non se l'era sentita di chiedergli spiegazioni o di offrirgli un po' di sesso senza pensieri per paura di gettare sale su qualche ferita.
    Alzò gli occhi al cielo sbuffando sonoramente mentre si metteva a braccia incrociate. Se fosse davvero offeso o stesse recitando? Certo che era davvero offeso, e ancora più certo che stesse recitando. Non gli importava così tanto di bere, altrimenti l'avrebbe fatto senza farsi vedere dal Milkobitch con ben poche difficoltà (Jeremy era fatto come un cocco già prima di arrivare a hogwarts), ma allo stesso tempo gli pesava di essere visto come il cattivo. Era lui la vittima, il cata rimasto solo, quello che aveva costantemente paura di addormentarsi e svegliarsi nel secolo sbagliato di nuovo da solo.
    E a proposito di paure del tutto razionali: chi aveva spento la luce?

    ...


    «Barbie» la mano di Mads cercò quella del ragazzo immediatamente, stringendola protettiva. «cosa-» pensi. Cosa facciamo. Cosa sono.
    Lo sguardo della ragazza era fisso sulle figure che erano apparse con Abbadon, e se la risposta positiva dell'uomo chiamato Marcus a Mitchell aveva rasserenato molti, lei ancora era dubbiosa. Aveva già visto una copia perfetta di Floyd, non aveva intenzione di farsi fregare. Fece apparire fra le mani un bastone di oscurità, in caso ci fosse stato bisogno di lottare, e prima che Nicky, i suoi amici, Mac, i vippini o altri ragazzini si facessero avanti pronti a dare baci e abbracci si fece avanti lei, l'alma puntata in avanti e puntandola sul petto di quello che era identico a Floyd ma senza toccarlo. Il cuore batteva all'impazzata, ma non aveva intenzione di farsi ingannare da Abbadon così facilmente; lo aveva visto all'opera nell'AU, sapeva quanto fosse potente.
    Abbastanza da resuscitare una ventina di persone.
    «quindi?» tese l'altra mano, creando una seconda asta, pronta a colpire mentre sollevava il mento per guardare meglio il Villalobos negli occhi; deglutì, sperando di apparire molto più sicura e coraggiosa di quanto non si sentisse. «dovremmo davvero fidarci? Perchè?» E sinceramente? Sperava che le avrebbe detto di sì, che l'avrebbe convinta. Aveva dovuto combattere già una volta contro un falso Floyd, ma era stato prima di vederlo esangue e morto a terra per davvero.
    Un miracolo, in quel momento, gli avrebbe fatto piacere.
    1st july '19
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    Edited by calm like a bomb - 31/7/2019, 01:49
     
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    «quel cazzone là è il nostro cazzone?» Joey portò il bicchiere alle labbra, mantenendo la calma mentre intorno a loro il mondo andava a catafascio fra armi, bacchette, pianti, grida, alcolisti anonimi che si rintanavano in un angolo a bere perchè cazzogliene che fossero tornati dal regno dei morti ventiqualcosa sconosciuti.
    Posò il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, portando la mano in tasca per sentire fra le dita il freddo familiare del coltellino mentre lo sguardo studiava il Barry redivivo, Swing, Yelena, Floyd-... ueppa c'erano quasi tutti, e di quelli che mancavano non gliene fregava una sega. Ciao, eh, Mrs Yellow, tanto lo so che sei rimasta all'inferno per rendere Satana un uomo onesto. Chissà quante bestie di Satana avete dato alla luce, chimere, idre, segugi infernali.
    In ogni caso... che dire. I morti erano tornati, Joey non sapeva se era più confuso, felice, o arrabbiato (ma un mese ci mettevano a resuscitare?????? sticazzi, Gesù ci aveva messo tre giorni, e in duemila anni non erano riusciti a migliorare quel trucchetto? ABBADON SEI UN FALSOOOO ESCICI GESùùù) e per qualche secondo si chiese se avrebbe dovuto andare ad assicurarsi col resto della folla che i Morti fossero proprio i Morti e non qualche scherzo poco divertente, così, giusto per non rischiare di uccidere una povera copia innocente invece che quei balordi che si erano fatti uccidere da Vasilov o delle stupide rocce... ma il suo flusso di pensieri (un costante "vaffanculo a te e a te e a te e a te e a te e a te-") venne interrotto da un sacco di patate che gli finì addosso, quasi ribaltandolo (sì che Joey era badass e muscoloso grazie agli allenamenti, ma era comunque ancora alto un metro e un biscotto). «TUA MADRE è» cosa «una gran brava signora, tante care cose» ???? cosa
    «????»
    ?????
    cosa
    sì ok l'ho già detto un sacco di volte ma nel caso ve lo foste persi COSA?
    «sunday, tu non conosci mia madre» e poi esattamente cosa c'entrava con- la situazione? Mica Beatrice (pace all'anima sua) era fra i resuscitati. Giusto? No, impossibile, li aveva guardati bene uno per uno per ricordarsi le loro facce di merda e decidere chi far tornare nel regno dei morti per primo (Floyd. Così, a sentimento, nel caso non gli avesse spaccato prima la testa la Wesley) (DAI LO AVEVA ILLUSO E- no niente lo odiava di nuovo come il fuego RIP floyd se ti mette le mani addosso). Beatrice non c'era, e quel commento era davvero troppo random.
    ...
    ...
    ... ma poi. «perchè sei... sun» aggrottò le sopracciglia; che il ragazzo sentisse la nostalgia della vagina? Joey una volta aveva sentito spiegare da Run a dei ragazzini bodiotti che il genere non si dovrebbe basare solo sull'organo gentile con cui sei nati, bensì che a volte hai il pene ma ti senti femmina e viceversa; che Sunday fosse non binary? Meh, non
    che gli importasse troppo, a Joey: testa di cazzo o testa di minchia, la storia non cambiava con sandy; se proprio gli faceva piacere, poteva chiamarlo testa di culo e via il problema.
    A confonderlo, comunque, c'era anche un secondo fattore: «e perchè sei così vecchia?» Voleva fare uno scherzo a Barry merda? A volte i Freaks facevano scherzi strani o battute assurde che lui non capiva, magari era uno di quelli?
    In ogni caso, c'era qualcosa di strano in quel sunday; era... diverso. Fra Bodie e l'ultimo mese, vivendo (a sbafo) a casa sua, joseph aveva imparato a osservarlo da lontano non visto, e c'era qualcosa che non lo convinceva. Ad esempio: «hai il reggiseno» un dato di fatto, quello, non da poco: una volta sandy si era lamentato che le tette gli sballonzolavano in giro senza («ics dì serscia tu non puoi capire NON UCCIDERMI SONO TROPPO BELLO PER MORIRE») ma anche che era troppo scomodo e trovasse più sexy (secondo qualche criterio???) mettere in mostro i capezzoli sotto la maglietta. Com'è che ora lo aveva? Ma lo indossava anche prima, da ragazzo??????
    Oh, contento lui.
    1st july '19
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    parla a troy. Non fa niente di utile. Molestatelo pure.
     
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    «a chi devo darlo per avere un po’ d’erba?» Reclinò il capo verso il molto basso in direzione delle due ragazze allacciate alle sue braccia, un sorriso languido a pungere le labbra sottili: poteva non essere un’amante del melodramma come Fitz, ma anche Jane sapeva apprezzare un’ottima entrata in scena da pappone di classe con le darko’s bitches strizzate ai fianchi. Majestic. «il cinque.» specificò alzando il palmo, notando il rossore iniziare a farsi largo sulle guance caramello di Narah.
    Ma le pareva che andasse a vendere il culo ad un prom? Che bassa considerazione aveva, di lei. O lui che dir si volesse: non le importava che pronome, o nome, usassero; aveva accettato da un pezzo di essere sia Jane che Gabriel, d’altronde non erano gli attributi sessuali a definirla. Il cinismo ed il trash, la definivano; la fotografia e netflix, la definivano. Un pene od un paio di tette, non facevano assolutamente alcuna differenza. In compenso, rendevano tutto più divertente. Fischiò fra i denti all’entrata di Hogwarts, ammirando il gusto pacchiano, e meraviglioso!, di una società convinta che piazzare delle lucine colorate potesse bastare a coprire le macerie fingendo non esistessero: amava l’ironia del mondo, Jane Gabriel Darko. Il sorriso sornione vacillò appena, scontrandosi con il monumento ai caduti; il fatto che non li conoscesse se non di vista, non era abbastanza perché il torpore e la tristezza non si facessero sentire, pulsando atoni dentro un petto sottile. Non era rinomata per la propria empatia, ma avrebbe dovuto essere ben più impermeabile di quant’era, per rimanere impassibile di fronte ai nomi delle persone morte il mese precedente. Visi per lo più sfocati nella memoria dell’elettrocineta, ma Heather ed Erin, le ricordava bene, marchiate – letteralmente! – a fuoco sul polso. Carezzò la cicatrice con la punta delle dita, tornando poi a posare le mani sul ventre nell’accompagnare nel kwore della festa, le sue [brenda di scary movie voice: puttanelle!] donzelle. Un vero peccato che la gente fosse troppo impegnata a bere o fingere di non essere lì, per rendersi conto della fantastica parodia riverdale che avevano loro appena offerto: non c’era più rispetto. Schioccò la lingua sul palato, lo sguardo ad abbassarsi sulla polaroid appesa al petto. Sapeva che un dettaglio simile fosse sgamo, dato che il mondo, fatta eccezione per pochi eletti, non sapeva che Gabriel e Jane fossero la stessa persona, ma come poteva lasciare a New Hovel la sua fotocamera durante un evento del genere? Un prom, leggenda di ogni serie tv teen e libro per ragazzi - punto di svolta. A Gabe non poteva, prevedibilmente!, fregare di meno, ma l’idea che dovesse in qualche modo essere importante, bastava a piazzargli sulla bocca un ghigno sbilenco e non particolarmente piacevole. Voleva i gossip, lui; voleva le storie scottanti su chi sarebbe andato a dormire con chi, chi avrebbe tradito chi, chi avrebbe domandato di ballare a chi – eccetera, eccetera. Narah non era una fonte abbastanza interessante di relazioni; Gideon era una palla cosmica, e Nah con e per Gideon, una lagna allucinante: ma come le andava di smettere di mangiare per un ragazzo? Che razza di priorità aveva? Inutile specificare che Jane, da vera amika TM, l’aveva cazziata più spesso di quanto le avesse offerto una spalla su cui piangere, lasciandola alle amorevoli curi di Fitz + Inferi prima di fare qualcosa di stupido tipo tirarle un pugno, o regalarle la testa di Gideon così che non sentisse più la sua mancanza. Beh? Amava il drama, ma solo quando non la riguardava. Quelle robe…adolescenziali che stavano titillando gli ormoni della Bloodworth, non erano cose per cui valesse la pena entusiasmarsi.
    E poi dai, la telepata diventava invisibile (letteralmente.) ogni volta che la Darko iniziava ad interrogarla sui dettagli (inesistenti.) sessuali della sua relazione con il mcpherson: e allora dov’era, il divertimento. Non che, invero, potesse sbattersene qualcosa; sesso ed affini non erano sul carnè dell’elettrocineta, più interessata a cosa rappresentasse per gli altri, che all’atto in sé. Si, aveva sedici anni e non era una fanatica del sesso, né era guidata dai suoi ormoni: can we play d & d now? Le piaceva flirtare, ma il suo modo di farlo non era lo stesso universalmente concepito dall’universo: ahimè, le persone tendevano a non cogliere i suoi HINT (okay, forse si lasciava un po’ andare e tendeva ad esagerare solo per godersi le reaction: fatele causa, se amava rompere il ghiaccio mostrando foto di uccelli morti) tanto quanto non coglievano il suo senso dell’umorismo.
    Lo so, incredibile.
    «guardate ke fiko, mio fratello» dai, non tiriamola per le lunghe, e facciamo che Jane ed Euge in questi mesi hanno saputo di essere fratelli. Quella sera era in incognito, quindi nessun maturo BROfist segreto con il falso adulto responsabile (eh, Euge era fratello di Jane, non di Gabriel: solo i suoi amiki sapevano la verità, anche perché – a quanto pareva – avevano conosciuto Fergie), ma gli rivolse comunque un cenno con il capo, ammiccando poi a Nathaniel che noi vogliamo fingere fosse al suo fianco: va come sono bello con l’abito che mi hai prestato, prof.
    Meraviglioso.
    E non aveva avuto ancora tempo di scattare foto a tradimento a nessuno, né di appostarsi all’entrata per accogliere le coppie con una polaroid ricordo, che –
    Old town road!
    Abbadon!
    Regalo!
    Persone felici!
    Persone tristi!
    Persone alcolizzate!
    E, macchinetta fotografica alla mano: «SELFIE CON IL MORTO»
    Perché come poteva farsi sfuggire un occasione del genere? Quando gli sarebbe ricapitato?
    Conoscendo l’oblivion, presto: ma che ne sapeva, Jane Gabriel Darko.
    (jane) gabriel darko
    electrokinesis - 16 y.o.
    ivorbone - vega
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    But now I'm sitting on the floor
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    «stiles…» umettò le labbra, la voce a uscire sottile e sbagliata nell’angusta stanza sotterranea nella quale si erano svegliati…quando, ore, giorni, mesi?, prima. Non ricordava di aver mai smesso di tremare, Erin Chipmunks; non ricordava se avesse mai smesso di piangere, o se fosse diventato così parte di lei da non essere più consapevole delle lacrime a bagnarle le guance. Dovette schiarirsi la gola, le gambe abbracciate al petto fino a far dolere le dita. «credi che usciremo mai di qui?» solo un sussurro, ma perfettamente percepibile nel silenzio tombale che li circondava. Si sforzava di tenere gli occhi chiusi, Erin - ci si obbligava, perché la prima volta che aveva aperto le palpebre e s’era ritrovata circondata da cadaveri, non aveva smesso di strillare fino a che non aveva perso i sensi. E c’era Jess, lì con lei. Non importava quante volte Stiles, o Barry, o perfino Heather le dicessero di averle parlato giusto cinque minuti prima, che stesse solo dormendo: sembrava morta, Jessalyn Goodwin, sul giaciglio sottile di cui tutti loro erano stati dotati come militari al fronte. E forse lo era. Non riusciva a togliersi dalla testa che quando Abbadon li spegnesse, togliesse loro molto più della coscienza. Sfregò il mento sulla spalla, stringendo i denti per soffocare un altro, l’ennesimo, singhiozzo. Sapeva che piangere non servisse a nulla; sapeva di aver promesso che non l’avrebbe più fatto.
    Ma Erin Therese Chipmunks, era terrorizzata. Avrebbe dovuto superare l’iniziale fase di paura giungendo quanto meno al diniego, o l’accettazione, ma era incastrata in un limbo di terrore che le strozzava il fiato in gola, ed accelerava battiti che non avrebbe neanche dovuto avere: che fossero morti, era la prima cosa che un sorridente Abbadon avesse loro detto. Sarebbe stato difficile da comprendere, considerando che Erin all’epoca s’era sentita abbastanza confusa da avere certezza di essere viva, se solo non ci fosse stato tutto quel sangue. Secco e raggrumato su pelle e vestiti, decisamente più di quanto ricordasse d’averne addosso nel momento in cui aveva scoccato l’ultima freccia. Ai più curiosi, in separata sede, aveva spiegato cosa fosse successo; la Tassorosso aveva preferito l’ignoranza, perché non voleva passare più tempo del dovuto da sola con lui. Non incuteva il timore di un Vasilov; non emanava un’aura di potere come Jeanine, e non aveva mai fatto loro del male, ma Erin sentiva, come ogni essere vivente dall’inizio dei tempi, di doverne avere paura. I suoi sorrisi, le strette amichevoli, le risate a scivolarle asciutte lungo la spina dorsale, erano una delle parti peggiori. Non quanto i vani tentativi di farli sentire meglio: quello era l’incubo di tutti, fra quelle mura.
    S’insinuava nei sogni e negli incubi. Riportava a galla i ricordi più felici, e li ammirava colpito contaminando così le memorie con la sua presenza; non c’erano più ricordi privati dove Seth non avesse lasciato la propria impronta. Non faceva nulla di disturbante, ma la sua orma bastava a cambiarne il senso - ricordare a tutti loro che non erano più padroni di loro stessi.
    Delle loro vite.
    Dei loro ricordi.
    Dei loro pensieri.
    Ogni tanto si presentava con l’aspetto di Scott, e le accarezzava i capelli chiedendole perché piangi? Era un genere di violenza diverso da quello cui la ribelle era stata abituata; una crudeltà smaliziata e pura, perché l’intento di Abbadon non pareva quello di mortificarli – ma oh, ci riusciva così bene, che perfino Erin dubitava non sapesse. Dovevano essere una specie d’intrattenimento, per lui. Un nuovo gioco.
    «perché, sei già stanca di noi? rude» Non era mai stato bravo a mentire, Andrew Stilinski; domande così dirette preferiva evitarle, girandogli attorno con sorrisi leggeri e strette nelle spalle: non poteva dirle non lo so, Erin - doveva almeno fingere di avere la situazione sotto controllo. Per lei, per Jess, per Barrow; per rimanere aggrappato a quel poco di sanità sul quale ancora poteva contare, smorzato giorno dopo giorno come roccia levigata dal mare. Stiles era stato l’ultimo a svegliarsi; Abbadon era chinato al suo fianco, un sorriso a curvare le labbra: «pensavo non ti saresti mai svegliato» ed aveva indicato con il pollice una figura riversa al suolo poco distante. «come lei. È proprio andata andata, kaput!» così, kaput. Ed Andrew Stilinski, mentre la voce ovattata di Seth gli diceva fosse fottutamente morto, non riusciva a staccare lo sguardo caramello dai ricci biondo cenere della Signora. Kaput.
    Il resto, era arrivato dopo. Nelle ore, giorni, anni successivi, quando riprendeva coscienza trovandosi circondato da sconosciuti – o peggio, conosciuti. Il peggio era arrivato quando Seth gli aveva domandato cosa facesse per vivere: lo psicomago, uau! Ho sempre voluto un terapista! e Dio, quello era davvero un incubo.
    Perché poteva essere cristallino a chiunque, ma a Stiles un po’ di più, quanto fosse instabile l’uomo che li teneva prigionieri nei sotterranei di Hogwarts. Perché sapeva si trovassero lì; studiando i muri in pietra e respirando l’aria rarefatta che solo fino a qualche, maledetto!, secondo prima gli aveva riempito i polmoni al fianco di Jeremy e Nicole, l’aveva detto subito e senza alcuna esitazione, dove fosse situata la loro cella. Non che ci fosse modo di fuggire, ma era carino avere almeno una minima idea di dove si trovassero.
    Ed era stanco, ed era stanco, ed era sempre così stanco, che aprire gli occhi gli costava sempre un enorme, maledetto, atto di fede: ma lo faceva comunque, e l’avrebbe fatto sempre, perché significava poter pungolare con il gomito Barrow Skylinski, e chiedergli come avesse fatto a conquistare Amalie Shapherd: ”Obi, è così fuori dalla tua portata” ”senti chi parla, mamma”. Perché significava poter domandare a Shot come se la passasse Murphy; perché significava poter chiedere a Floyd, e i gemelli A’Chapelle, cosa avesse combinato Jay; perché significava mettersi spalla contro spalla con Jason, ed accontentarsi di rimanere in silenzio sapendo che ci fossero dentro insieme; perché significava sospirare a Jess, coprirsi gli occhi con le mani, e sottovoce confessarle che con jeremy stava andando bene, credo?, sapendo che quell’interrogativo sarebbe rimasto tale, e che di tanto avrebbe dovuto accontentarsi. Perché significava, mentre tutti gli altri dormivano, decretare quale fosse il miglior starter di rosso fuoco con Heather Morrison; perché significava sussurrare a Marcus, com’era Nicole ai tempi di Hogwarts?, che non gli avevano dato il tempo di chiederlo direttamente a lei; perché significava poter dire, agli occhi scuri di un Richard Quinn fissi sulle nuche di Elodie o Sehyung Park, che non è colpa nostra, almeno ci abbiamo provato.
    Perché significava
    Fingere
    Che fosse tutto nella norma, e che davvero – davvero – avrebbero potuto uscire di lì. Uno avrebbe anche potuto pensare che parlare dei vivi fosse solo sale sulle ferite; ed avrebbe avuto ragione, ma quale altra scelta avevano per ricordarsi chi fossero? C’erano giorni in cui si svegliava, e non era certo di quale fosse il nome del suo criceto; altri in cui rimaneva ore in silenzio perché non riusciva a riportare a mente come si chiamassero i suoi compagni.
    C’erano
    Giorni
    In cui era certo
    Di non essere affatto vivo.
    Di aver smesso d’esistere, quel primo giugno duemila diciannove, e che quello fosse una specie di purgatorio. Non riusciva più a distinguere realtà da finzione, sonno da veglia; non si sentiva più padrone dei suoi pensieri, che raramente lasciava vagare a piacimento. La costante, l’unica costante che lo teneva ancorato a terra, era il senso di colpa, e sapeva che in parte era ciò che incollava tutti loro a quella cella: i morti non avrebbero dovuto avere la possibilità di rendersi conto di essere fottutamente morti, ma loro quel privilegio non l’avevano. Dovevano esistere sapendo di essersi lasciati alle spalle famiglia, amici, un intero cazzo di mondo convinti che loro se ne fossero andati per sempre.
    E non potevano
    Farci
    Un cazzo.
    «stiles.»
    «erin?»
    Riuscì a strapparle l’ombra di un sorriso, e tanto se lo fece bastare. Capiva il terrore, Stiles; capiva le lacrime, e quel vuoto a masticarli costantemente dall’interno ricordando che ogni loro respiro, era un battito in meno a chi aveva smesso di aspettarli. «posso abbracciarti?» tendevano a farlo di rado, mai consapevoli di quando sarebbe stato il momento in cui Abbadon li avrebbe spenti: non era mai piacevole ritrovarsi fra le braccia un corpo assente. Definirlo sonno, era davvero un eufemismo. Deglutì, spostandosi per farle spazio al proprio fianco.
    «giusto perché sei te.» sussurrato appena sui capelli castani della ragazzina, la voce resa soffocata da quelle lacrime che sentiva bagnargli il collo, ma che non poteva condividere: c’era stato un tempo in cui Erin Chipmunks, facendo una scelta, era stata coraggiosa anche per lui; era il momento di ricambiare il favore.

    Buio.
    Stretto.
    Erin annaspò alla ricerca d’ossigeno, gli occhi spalancati ma ciechi all’ambiente.
    Rumori. Dopo tanto, quanto? Troppo, tempo passato in quasi assoluto silenzio, quei suoni ovattati bastarono a farle salire il cuore in gola, le mani ad allacciarsi alle braccia di chi aveva vicino.
    Seta.
    Tulle?

    Sfiorò con le dita i tessuti, un attacco di panico a pungere le corde vocali.
    Non erano più nei sotterranei.
    Non erano più nei sotterranei?
    «jess?»
    «ricordatevi di sorridere»
    Sorridere, perchè ad Abbadon lacrime e bronci non piacevano; perché era diventata una tattica di sopravvivenza, quella di essere suoi amici - ma cielo, a quale prezzo le labbra si tendevano in sorrisi. Nervosi ed impacciati, tristi e bui.
    Luce.
    Troppa luce.
    Battè le palpebre rapidamente cercando di abituare la vista, di abituare il cuore, all’ambiente circostante, finendo poi per spalancare gli occhi color muschio sulla bacchetta di Mitchell Winston.
    Di Mitchell Winston.
    Di Mitchell Winston?
    Smise di respirare, dimentica del ricordatevi di sorridere di poco prima, una patina acquosa ad impedirle di mettere a fuoco il severo sguardo blu del vice preside. Si strinse istintivamente ai suoi compagni, le spalle a tremare e la lingua a ballonzolare nervosa sui denti. Era uno scherzo?
    Cosa –
    «stiles cercò lo psicomago, aggrottando poi le sopracciglia nel notare gli abiti del ragazzo. Solo a quel punto abbassò lo sguardo sul proprio, di vestiario, facendo scivolare le dita sul tessuto giallo che si allargava morbido ai fianchi.
    Solo
    A quel
    Punto
    Alzò gli occhi di fronte a sé, ricordandosi che in fondo, di respirare, ancora valesse la pena.
    «no. non se non la abbassa prima lui»
    «…scott?»
    Stiles, dal canto suo, non guardava nessuno di particolare. Battè le palpebre osservando il bastone stretto nel palmo, concentrandosi sulla respirazione per impedirsi reazioni che davvero sarebbero state poco utili alla causa, tipo scappare o piangere. Tipo. Era un incubo diverso dal solito, quello, malgrado sarebbe una menzogna dire che le feste di fine anno scolastico non rientrassero negli incubi di Andrew Stilinski. Era diverso perché - perché c’erano tutti. C’erano Barrow e Shot, c’erano Heather e Eloide, c’erano Kamikaze e James, c’erano Jason e Jess. Tutti. Era capitato che in piccoli gruppi finissero vittime degli studi sociali di Abbadon, i quali li incastrava in bolle illusorie e fallaci di una vita che non potevano più permettersi, ma tutti? «strano» toccò le labbra per assicurarsi di aver parlato davvero, privo di qualsiasi certezza, puntando poi accusatori occhi caramello sul Winston.
    Illusione o meno
    Vaffanculo.
    Fortuna che c’era Marcus, con «…sai che ti dona?» un bellissimo vestito da principessa, a ricordargli il posto dove quella bacchetta avrebbe dovuto trovarsi.
    Strano.
    Assurdo
    .
    Posò distrattamente lo sguardo su Seth, supplicandolo silente di smetterla. Prima o poi anche lui avrebbe dovuto capire non fosse divertente, giusto?
    Sbagliato.
    E non voleva guardarsi attorno, Stiles. Non voleva seguire lo sguardo di Erin su Scott, non voleva cercare il volto di Mehan o Nicky malgrado ne sentisse la voce, e solo Dio sapeva quanto non volesse alzare il capo, e ritrovarsi un identico paio di occhi caramello a ricambiare la sua occhiata. E non voleva vedere Isaac, Andrew Stilinski, lasciato al Cap Platinum con la mite promessa che ci avrebbero messo poco; non voleva vedere Sin, la cui voce riusciva ancora sentire riecheggiare al di là della porta.
    Non devi morire, hai capito?
    Ma abbiamo quasi finito, mh.

    Davvero, per favore, riportatemi indietro.
    Perché se Erin, fino a quel momento, aveva avuto paura di non rivederli mai più, Stiles aveva conosciuto un terrore tutto diverso: quello di rivederli. Quando alla fine fu costretto ad alzare lo sguardo, smarriti occhi chiari a vagare distratti sulla folla, avrebbe davvero - davvero - preferito non averlo fatto. Perché parte del timore che Stiles aveva covato, non era senso di colpa; non sapeva quanto tempo fosse passato, se si fossero dimenticati di lui. E sollevando il capo di fronte a sé, cogliendo Nicole Rivera impegnata a voltarsi e sventolare una bottiglia vuota, o Jeremy con il capo chino impegnato a scambiarsi fiaschette, non poteva che dirsi visto? Avevi ragione, Stiles. Ed un pensiero che avrebbero condiviso in pochi, ma che lo Stilinski sentiva pungere sulla lingua dalla prima volta in cui, i compagni addormentati sul serio al suo fianco, e non spenti da Seth, avevano iniziato a parlare nel sonno chiedendo di tornare a casa: avrei dovuto rimanerci, morto.
    «non farlo» istintivo e repentino come il passo all’indietro, come il battito rimasto fra lingua e palato nel ritrovarsi di fronte Jayson. Scosse la testa, palpebre serrate.
    Non è reale.
    Ma se lo fosse?
    Non è reale.
    «per favore, non farlo»
    Non è Jay.
    Ma se lo fosse?
    Non è Jay.
    Ed anche se lo fosse?

    Rimase immobile, respiri brevi e veloci a gonfiare il petto. «non-» ma prima che potesse concludere, ancora, quella supplica, si era ritrovato stretto fra le braccia di quel fratello che non vedeva da anni, e che non credeva avrebbe mai più rivisto.
    Un secondo.
    Forse due. «jay, mi -» dispiace, sei mancato - ma che senso aveva dirlo, quando poteva stringerlo ed almeno sperare, almeno fingere, che fosse reale. Che fossero a casa.
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    Aveva mai detto quanto trovasse strani i Gen Z? Una razza evidentemente diversa, forgiata dal fuoco di mille like. Lasciò che la propria confusione trapelasse dagli occhi nocciola, mentre lenta batteva le palpebre ricambiando l’occhiata del ragazzino: «sunday, tu non conosci mia madre» la cui replica sorgeva spontanea: «e tu che ne sai» ma pensa te, quanta presunzione questi ragazzini. Allungò una mano per cercare di farsi aiutare a rialzarsi, dopo i vent’anni si sapeva che ci fosse bisogno di una gru, ma ovviamente il nano biondo decise di sbattersene il cazzo.
    Non c’era più dignità, nei giovani.
    «perchè sei... sun»
    Buddha, se ci sei, non dirmi che mi hai fatto cascare su un ritardato: tutto, ma non la violenza sugli handicappati. Ci si finiva in galera, per roba del genere. «è una citazione di Shakespeare?»
    ??? oh, uno ci provava sempre a credere che i fanciulli masticassero letteratura con la stessa fluidità con la quale masticavano pasticche. «e perchè sei così vecchia?» SCUSA? Si alzò, imponendosi con il suo scarso e metro e sessanta su uno dei pochi gen zì che non raggiungevano i tre metri e quaranta, un minaccioso pugno sui fianchi e l’indice direttamente contro la sua fronte: «SENTI, PISKELLO» schioccò pollice ed indice, occhi chiusi nell’enunciare la «prima regola dei millenials: solo noi possiamo definirci vecchi; vige la stessa norma del nigga per le persone di colore» mancavano proprio di cultura base, quegli sgagni lì.
    Ma pensa te.
    «hai il reggiseno»
    MANIACO PERVERTITO MA CHE FAI, «mi guardi le tette??» e gli avrebbe anche dato un potentissimo scappellotto sulla nuca, se quel nano ingrato non fosse stato un ninja: ma manco subivano più, i nuovi adolescenti? Dov’era la gerarchia? ALLUCINANTE. «certo che ho il reggiseno, ho i capezzoli sensibili - ti disturba Lo indicò vaga con un cenno della mano, sopracciglia a schizzare verso l’alto. «ed immagino – spero. - che tu abbia le mutande, ma mica lo faccio notare, no? qual è il vostro problema» vostro, perché a Troy Bolton piaceva fare di tutta l’erba un fascio, e giudicarli plebei a prescindere. «cosa -»
    «- sta succedendo.» poco distante, nella sua ominous tenuta nera con la quale pregava di confondersi nelle ombre così da non dover intrattenere conversazioni futili e noiose, Hyde Joyce Crane Winston osservava immobile la fauna della festa di fine anno. Non si era scomposto all’apparizione dei morti, lasciando che fossero altri – gente a cui, tipo, importava – ad emozionarsi anche per lui, ma c’era qualcosa in quella situazione che lo turbava nel profondo. Credevate forse che in un mese Hyde si fosse interessato sui Viaggiatori? Figurarsi, al massimo li aveva evitati.
    Ma ora che si li ritrovava di fronte, e tutti insieme, non poteva che «cosa sta succedendo» ancora, caso mai la prima volta non fosse stato abbastanza chiaro nella propria contrarietà.
    Scott e Erin originali. Levi.
    Savannah e Sander. Tamburellò con l’indice sul labbro superiore, intrecciando poi le dita sotto al mento. Se per i secondi sapeva si trovassero nel far west, e non poteva che apprezzare l’ironia del viaggio nel tempo che aveva portato la squad lancaster proprio sotto al loro naso, i primi non potevano che essere una sorpresa. Inutile specificare che Hyde, quando nel 2043 li aveva visti sparire, aveva creduto fossero morti.
    Si, tutti e tre. Erin e Levi attaccandosi a caso a Sav e Sander, Scott cercandoli.
    Cioè
    Ma poi
    Come aveva fatto la Vigilante a trovarli? Lui e Jekyll si erano persi, eppure loro sapevano con certezza dove trovare i Messaggeri: a chi aveva venduto la sua anima, Bucky, per rintracciarli? Che glielo facesse sapere il prima possibile, Hyde era pronto alla contrattazione.
    Dell’anima di suo fratello, la sua l’aveva smarrita nell’utero.
    «tutti a bodie» piegò le labbra verso il basso, agitando lento le mani nell’italianissimo ma ke stai a di - nulla meglio di quello poteva esplicare quanto fosse confuso dalle circostanze. «ti pare normale?»
    Uran rispose con una bolla di saliva, facendola poi scoppiare con entusiasmo.
    Esattamente. «sapevo che saresti stato d’accordo.»
    Brofist con il cugino di due anni, e via ogni paura.
    jack + troy
    20 y.o. - 23 y.o.
    university of keeping it real
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