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    nome pg: Olga Ivanovska
    classe: Rogue Lame Mortali
    arma: set di coltelli
    punti salute a fine settimana: 35 PS
    punti attacco / punti difesa: 20 PA - 15 PD
  2. .
    OLGA IVANOVSKA
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    “No, non ci siamo illusi… forse il problema è che ci abbiamo davvero creduto.” Di essere abbastanza forti per sconfiggerlo. Loro, un’accozzaglia disorganizzata di persone, gente in grado di combattere ma senza un vero e proprio addestramento militare.
    Erano stati mandati allo sbaraglio per perdere tempo, per assicurare ai loro capi qualche istante in più, in attesa di un aiuto che non era mai arrivato. Non avevano avuto fortuna, le ricerche di Lancaster, Lafayette e Vasilov erano state vane: avevano atteso il loro arrivo alla prima luce dell’ultimo giorno. All’alba, avevano guardato ad est.
    Stupidamente, Olga aveva continuato a farlo, lo sguardo perennemente puntato lì dove desiderava apparisse qualcuno per dir loro che tutto quello che avevano fatto non era stato vano, che c’era ancora una possibilità, che non era andato tutto perduto.
    Aveva bisogno di credere che tutta la sua vita non fosse una farsa, che i suoi genitori non ci avessero visto lungo già vent’anni prima, che tutto il suo percorso era servito a qualcosa, a qualcuno.
    Rise ancora, Olga, questa volta sciogliendosi un po’, lasciando che l’eco delle sue emozioni si riempisse un po’, che si scorgesse la presenza di qualcuno dietro quel suono altrimenti piatto e vuoto, riflesso di come si sentiva in quel momento.
    Era svuotata, appunto, priva di ogni interesse per ciò che le accadeva attorno, pazientemente in attesa che la più grande delle catastrofi la travolgesse con le sue conseguenze.
    Avrebbe voluto aggiungere una che la guerra l’ha persa, ma quell’ironia avrebbe colpito troppo vicino casa, lì dove ancora faceva male. Non aveva idea se fosse l’orgoglio ad alimentare il senso di quella sconfitta o se fosse la consapevolezza di non avercela fatta, di aver dato il massimo ed aver comunque fallito.
    Non sapeva se fosse colpa dell’essersi illusi o se dell’averci creduto troppo. Se avevano sopravvalutato se stessi o se avevano sottovalutato il nemico.
    “Se chiudo gli occhi, se mi concedo di riposare, rivivo tutto.” Si lasciò sfuggire quella confidenza, perché non riusciva più a portarla dentro, perché non aveva abbastanza energie per fingere che il mondo non fosse in grado di scalfirla. “Rivedo Capitol, i cadaveri, il fascio letale degli incantesimi lanciati da entrambi i fronti.” Passò una mano sugli occhi, le labbra che avevano ormai perso l’illusione di ogni sorriso. “Vedo i cadaveri e la base a fuoco. Vedo bruciare i nostri effetti personali, le nostre tracce, così come vedo la convinzione dei nostri avversari ardere nei loro sguardi.” E per fortuna aveva passato la maggior parte del suo tempo a vedersela con dei pennuti che l’avevano quasi messa fuori combattimento.
    “Julie.” Ripeté piano, quasi quel gesto potesse avere il potere di aiutarla a dare un senso a tutto quello che era successo e a diramare i dubbi su ciò che li aspettava. Portò nuovamente lo sguardo verso il cielo, verso quella sterminata macchia d’inchiostro che aveva l’ingrato compito di vegliare su di loro. “Ho passato la vita a fuggire dai lab, a smantellarli, a dare la caccia ad ognuno di essi.” Abbassò le palpebre, piano, prendendosi il suo tempo per respirare e per continuare. “Adesso sono ministeriali.” Rise, ancora una volta, perché non riusciva a credere neanche alle sue stesse parole, perché ormai non riusciva più a trovare un senso alla sua storia, al suo passato. “Non so cosa ho sbagliato nella vita, non so neanche perché sono qui.”
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    OLGA IVANOVSKA
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    Le dita sottili erano ancora strette attorno alle sue lame quando la russa scoppiò a ridere dinanzi alla nuova arrivata. Era un suono vuoto, velatamente ironico, privo di ogni emozione. Eppure, l’istinto fu quello, perché la scelta di parole fu quanto di più paradossale avesse sentito in quei giorni.
    Ci sarebbe voluto ancora del tempo per far rimarginare le proprie ferite e ce ne sarebbe voluto molto di più per scendere a patti con la propria coscienza. In fondo, sapevano solo che avevano consegnato il mondo a un essere fortemente bipolare, narcisista e con manie di protagonismo. Cosa sarebbe potuto andare storto? Cos’altro poteva fare dopo una guerra in cui aveva raso al suolo decine di città e fatto milioni di vittime innocenti? Una guerra in cui aveva strappato la magia ad alcuni dei suoi avversari per farli diventare simili a lui? Non ci vedeva misericordia dietro quel gesto, solo pura crudeltà.
    Spostò le iridi chiare sulla ragazza davanti a sé, il petto ancora scosso da quella risata improvvisa. “Scusami è che… abbiamo fatto proprio un’enorme cazzata.” A perdere, in primis. Ma anche a combattere battaglia dopo battaglia come se avessero avuto qualche speranza.
    Lasciò qualche istante in più la mano sui suoi coltelli, perché ne aveva bisogno.
    No, non li avrebbe lanciati contro la Iglesias Mendoza, ma le servivano per riorganizzare i pensieri, per trovare conforto in quelle armi che l’accompagnavano ormai da diversi anni. Imparare a usarli era stato naturale, così naturale da non ricordare un preciso addestramento.
    Amava i coltelli ancor prima di essere venduta e il suo passatempo preferito nei lab era stato osservare una delle guardie giocare con uno di essi. Ricordava lo lanciasse in aria e che questo cadeva sempre, perfettamente, sul suo palmo, senza mai tagliarlo, sempre dalla parte del manico.
    Lo aveva guardato per ore, provando a rubare ogni suo trucchetto, prima di possederne dei propri, prima di specializzarsi, prima di fare le sue prime vittime, prima di doversi far strada nonostante tutto e nonostante tutti.
    “Non è occupato, puoi sederti.” Continuò facendo un po’ di spazio sulla panchina, osservando i lineamenti della ragazza alla fievole luce del lampione. “Non hai una bella cera.” Si sentì in dovere di dirle, perché era inutile mentire, dire quanto la trovasse in forma e in salute. L’aveva intravista ogni tanto nella base militare, ma non avevano mai combattuto insieme. Le bastava sapere fossero dallo stesso lato della trincea, che non ci sarebbe stato neanche il pericolo di un fuoco amico.
    “Anche tu non riesci a dormire?” Domandò ruotando il busto nella sua direzione, stupendosi di quante domande fosse ancora in grado di fare, di quanto fosse alla ricerca di qualcuno con cui parlare senza dover necessariamente farlo, senza dover necessariamente affrontare questioni più grandi di lei.
    “Io sono Olga.” Non stese il braccio nella sua direzione, non le offrì una mano da stringere. “Non credo ci fossimo presentate prima.”
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    Edited by so' lillo - 11/6/2023, 17:55
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    OLGA IVANOVSKA
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    Non riusciva più a uscire di giorno, la mercenaria, non riusciva a vedere le macerie di quel mondo che aveva sognato e agognato fin da quando era solo una bambina.
    Era doloroso lasciare che le sue iridi chiare vagassero sulla devastazione che si era lasciata dietro la guerra, sulle case diroccate, sulle macchie di sangue che ancora si riuscivano a scorgere, appartenenti a corpi ormai destinati all’oblio.
    Ci aveva creduto, ci aveva sperato con tutta se stessa… almeno fino a quando la radiolina non iniziò a parlare, frenando ogni entusiasmo.
    Mi dispiace.
    Lo sentirono tutti sul campo di battaglia, immobili, privati della possibilità di festeggiare per un’altra città liberata, il sollievo disintegrato sui loro volti.
    Era stato tutto inutile.
    Ricordava di aver portato lo sguardo stanco sulle proprie mani, per cercare conforto nelle proprie lame ancor prima di sollevarlo per cercare Ekate tra i commilitoni. Ricordava di aver visto il sangue macchiarne le dita e, a quel punto, sembrò quasi una visione, sembrò quasi profetico: il prossimo, sarebbe stato il suo.
    Non si concesse il tempo di crollare, la Ivanovska, non si arrogò il lusso di dare sfogo alla rabbia o di fuggire, lontano dalla guerra e da ogni responsabilità. Pulì i suoi pugnali e, stringendoli ancora tra le dita, si smaterializzò all’accampamento, pronta a ricevere nuovi ordini, pronta a bonificare la zona.
    Ferma su quella panchina, protetta dalla chiara luce della luna, lasciò che il peso delle sue azioni curvasse la sua schiena, perché portava la memoria di ogni oggetto distrutto, di ogni tenda smantellata, di ogni simbolo identificativo che aveva dovuto cancellare con un Ardemonio.
    Nessuno, alla fine del lavoro dei volontari, avrebbe potuto dire chi fosse stato presente lì quei giorni, cosa fosse successo in quella base militare.
    Eppure, per quanto avesse lasciato che il fuoco distruggesse la vita che si era consumata lì in quei giorni, la sua mente ne conservava ancora il ricordo di chi era caduto e di chi ce l’aveva fatta. Ma, anche qui, si poteva parlare solo una vittoria parziale.
    Viveva con la consapevolezza che sarebbero venuti a cercarli, uno ad uno, per punirli. Traditori di una dittatura che doveva ancora nascere.
    Lasciò che il suo corpo scivolasse sulla panchina, la testa che andava a poggiarsi lentamente sul freddo metallo dello schienale, le palpebre abbassate perché aveva visto orrori a sufficienza da volersi concentrare solo sui suoni della natura attorno a sé: il fruscio del vento tra le foglie, l’eco di alcuni bambini che giocavano nelle case in lontananza, il leggero gracidio degli insetti.
    E poteva sentirla ancora, se si fosse concentrata abbastanza, l’umanità dei giorni trascorsi in trincea, quella che animava i momenti in cui dimenticavano di essere soldati per brevi istanti, in cui ricordavano di essere vivi, che valesse ancora la pena combattere per qualcosa o per qualcuno: c’era la sensazione lasciata dalle labbra di Emilian sul proprio corpo, il calore di Miles, la presenza costante e rassicurante di Ekaterina. Tutto ciò le aveva permesso di non crollare, di andare avanti, stoicamente, incontro al proprio destino.
    Un destino di merda, se doveva proprio dirla tutta, che l’aveva lasciata ancora una volta in balia dei venti freddi e gelidi della Siberia. Perché era tornata ancora una volta lì, fisicamente e non. Perché ogni volta che pensava ai laboratori una furia indescrivibile accendeva il suo sguardo. C’erano odio e rancore, c’erano questioni non risolte, nodi che avrebbe dovuto sciogliere prima che fosse troppo tardi.
    Ma era proprio in quelle sere, quelle in cui la rabbia la privava di ogni energia, che si ritrovava a pensare al suo passato, a cosa sarebbe successo se non fosse mai scappata. Era riuscita a nascondere le cicatrici che gli esperimenti avevano lasciato sul suo corpo, era riuscita a coprire i segni che le torture avevano impresso sulla sua pelle, i marchi con cui veniva identificata quando veniva prelevata dalla sua cella; tuttavia, c’erano ferite che non era riuscita a curare, che non era ancora in grado di far smettere di sanguinare.
    Spesso si era ritrovata a pensare alla sua famiglia, si era chiesta se vendendola al miglior offerente fossero riusciti ad avere un futuro migliore, se vivessero ancora nei bassifondi, se avevano festeggiato sul cadavere di quella figlia che avevano ceduto per il vile denaro; si era chiesta se l’avevano dimenticata e se pensassero che lei avrebbe potuto dimenticarsi di loro.
    Un sospirò uscì dalle sue labbra, cercando con esso di allontanare quei pensieri, almeno per il momento, almeno per un altro po’. Forse avrebbe dovuto restare, forse avrebbe dovuto piegarsi a quel volere e diventare special, piuttosto che dedicare la sua vita a smantellare un laboratorio dietro l’altro, fino a perdere una guerra, la sua guerra.
    Riportò il suo sguardo sul parco attorno a lei, prima di irrigidirsi appena, le dita che correvano innocenti verso i suoi coltelli, in paziente attesa.
    Sapeva di non essere più sola in quel momento, c’era solo da capire se l’intruso fosse un amico...
    ... o qualcuno da uccidere.
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    Era rimasta a guardare le fiamme che avvolgevano i corpi degli ospiti del laboratorio fino alla fine, fino a quando la cenere non le aveva leggermente appannato la vista e il respiro si era fatto un po’ più pesante, un po’ più lento.
    Non aveva mai dimenticato l’odore acre dei cadaveri in fiamme, era come se fosse ancora lì, su quei vestiti ormai vecchi di anni, eppure così adatti a quel triste ritorno. Non pensava che avrebbe permeato ancora le sue narici, che il suo passato sarebbe tornato a farle nuovamente visita.
    Non aveva mai spolverato quel cappotto, permettendo soltanto al vento di allontanare dalle trame del tessuto tutto ciò che rimaneva di coloro che non ce l’avevano fatta; il pensiero di portarli ancora un po’ con sé, lontano dalla Russia, l’aveva tenuta a galla nei momenti più difficili. Per quanti chilometri avesse messo tra lei e la madre patria, il gelido freddo che le perforava le ossa non l’aveva mai abbandonata.
    Non avrebbe iniziato adesso a spolverare la cenere, non avrebbe iniziato adesso a smettere di credere in una seconda opportunità.
    “Un altro.” Ordinò al barista battendo il fondo del bicchiere ormai vuoto sul bancone, le iridi fredde incollate a quella collana da cui aveva fatto fatica a separarsi, cimelio di una missione suicida che era riuscita a portare a termine con non poca fatica e grazie a un gruppo di sconnessi sconosciuti su cui non avrebbe mai scommesso.
    La sua targhetta l’aveva barattata una vita prima, quando pur di avere qualche spiccio per mangiare era stata costretta a sacrificare il suo nome e la sua identità. Non ricordava quando era diventata Olga, non sapeva neanche perché, così come faceva fatica a pronunciare il suo nome, quasi fosse impossibile anche solo pensarlo.
    Mentre rigirava la placca tra le dita, si domandò se non fosse il caso di diventare qualcun altro, di evitare che anche quell’identità potesse andare perduta, che le persone si dimenticassero completamente dell’ennesima vittima di una rivolta che sacrificava i più deboli per rendere più forti coloro che già detenevano il potere.
    Buttò giù il liquido ambrato che riempieva nuovamente il suo bicchiere e respirò a fondo per qualche istante.
    Non aveva mai capito per quale motivo lei fosse ancora viva e gli altri bambini che erano con lei no, cosa le avesse dato la forza di scappare e di sopportare la fame, il freddo e la solitudine della fuga. Si chiese se fosse stata la paura di tornare nei lab, non di morire: la morte sarebbe stata solo una benedizione, il dolce miele dopo la più amara delle torture.
    “Un altro.” E la scena si ripeteva ancora. Era così abituata all’alcol russo che beveva quello inglese solo quando aveva voglia di ubriacarsi, di annebbiare la mente per porre un freno ai pensieri.
    Si voltò verso la sala alle sue spalle, i polpastrelli che disegnavano spirali continue sul legno, gli occhi che vagavano nella stanza alla ricerca di qualcosa che potesse attirare la sua attenzione.
    Spesso aveva scelto il SUB come meta notturna, perché la bellezza delle opere d’arte esposte leniva gli orrori che la sua mente le riproponeva a cadenza regolare, perché voleva ricordare a sé stessa che forse vivere non era poi così male, non se c’era un nuovo quadro o una nuova scultura da ammirare.
    Poggiò il mento sul gomito e inclinò piano la testa, osservando uno dei dipinti esposti nelle vicinanze, attratta dai colori vividi e vivaci, in pieno contrasto con i toni cupi dei suoi pensieri.
    “Forse dovrei comprarlo, ma temo sempre sia una fregatura.”
    Disse più a se stessa che a chiunque fosse in quel momento in ascolto.
    “Forse… forse dovrei continuare a bere.”
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    Edited by so' lillo - 15/5/2023, 19:58
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    Ogni passo che la allontanava da quel dormitorio improvvisato la faceva sentire meglio. Nei corridoi non c’erano memorabilia, non c’erano effetti personali, non c’erano riferimenti a delle vite innocenti, rinchiuse in quella prigione. Erano ambienti asettici, vuoti, tutti uguali. Le mettevano quasi calma, per quanto quella condizione glielo potesse concedere.
    Tre porte. Loro erano in sei. Dividersi non era una scelta saggia, non quella che lei avrebbe gradito o praticato, non in quelle circostanze almeno.
    “Spero tu non sia troppo dispiaciuto.” Disse osservando Ptolemy entrare in quello che sembrava potesse essere il bagno con Twat. Alla fine, dopo che Milena e Mackenzie erano entrati nella cucina, a loro due non era rimasta troppa scelta.
    La stanza misteriosa, inquietanti fruscii… “Morire non è un’opzione.” Aggiunse, più a sé stessa che all’elettrocineta, guardandolo fisso nei chiari occhi verdi, mentre gli faceva segno di posizionarsi dall’altro lato della porta, la Glock decisamente più utile dei suoi coltelli se ci fosse stato, a breve, un attacco a sorpresa.
    Contò i respiri, prima di aprire la porta, prima di accettare silenziosamente il loro destino e tutto quello che si nascondeva dietro essa.
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    «li avranno convinti che avevano una possibilità. la speranza è una brutta bestia»
    Strinse appena le labbra, imponendosi di non rispondere alle parole dell’elettrocineta. Se lei non fosse stata convinta di avere una chance fuori dalla Russia, adesso non sarebbe lì, da donna libera.
    Era stata lei a scegliere di rispondere a quella chiamata, era sta lei a scegliere di partire per tornare nuovamente a casa, era stata lei a scegliere di unirsi a quella missione. Si era detta che, essendo riuscita a scappare una volta, poteva riuscire a farlo ancora una volta, a dimostrare a sé stessa che era forte abbastanza per meritare quella vita per cui aveva lottato con le unghie e con i denti. Aveva le mani sporche di sangue – del suo, degli altri bambini che non era riuscita a portare con sé, delle guardie che aveva ucciso per tornare a respirare – e non avrebbe mai ricevuto perdono per questo. Tutti eseguivano ordini e rispondevano a dei comandi diretti e ben precisi. In quell’ambiente, nel contesto in cui lei era vissuta, l’elemento impazzito era costituito dalla sua insubordinazione, dalla sua testa così dura che non erano stati in grado di cambiare.
    Non c’era speranza in quelle stanze, non c’era neanche l’ombra di una prospettiva futura. Venivano tutti manipolati per servire uno scopo più grande, per sacrificarsi in nome di un qualcosa che ti costringevano a credere.
    Non poteva giudicare le parole del Telly, non poteva ribattere a tono: non lo conosceva, come lui non aveva modo di sapere del suo passato.
    Si limitò a togliere il sangue dai vestiti con la magia, a non guardare i corpi che giacevano sul pavimento, perché poco più di 10 anni prima, quella stessa sorte stava per toccare anche a lei.
    Non si riteneva una sopravvissuta, benché meno fortunata, consapevole di essere soltanto l’ennesimo danno collaterale di quella rivoluzione che nell’ultimo periodo stava prendendo sempre più piede e che stava lasciando dietro di sé l’ennesima scia di sangue, morte e distruzione.
    “Meritavano pietà da vivi, non da morti.”
    Fu tutto quello che ebbe a dire, mentre voltava le spalle alla stanza e chiudeva anche questa porta dietro di sé.
    “Mackenzie…” chiamò piano il ragazzo con la mappa, più o meno consapevole di quello cui andavano incontro avendo scelto di andare fino in fondo alla questione: nessuno poteva essere salvato, perché i traumi di quel laboratorio avrebbero accompagnato gli esperimenti per tutta la durata di quella che sarebbe stata una non vita. “… indicaci la via.”
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    Si lasciò sfuggire un сукины дети dalle labbra quando vide che le loro difese non erano bastate a deviare i colpi che gli avversari stavano infliggendo ai suoi compagni. Quelli che avevano davanti erano solo pesci piccoli, burattini nelle mani dei capi rivoluzionari, solo soldati che eseguivano gli ordini. Voleva di più, Olga Ivanovska, ma non per peccare di tracotanza, quando per poter dire di aver dato un nome e un volto a tutta quella follia, per dare un senso a tutto quello che aveva vissuto, che la sua gente continuava a vivere.
    Non c’era tempo per pensare, per chiedere di poter essere condotti dalle menti di tutta quell’operazione. Dovevano difendersi, attaccare e sperare che ogni colpo a loro inferto non fosse letale.
    Aveva smesso di essere lucida alla vista dei lettini, dei corpi dei bambini che giacevano sul pavimento; eppure una parte di lei urlava di reagire, di vendicarsi, di fare più male di quanto quelle guardie potessero sopportare.
    Non era un mostro, ma avevano provato a farla diventare, fallendo miseramente. Aveva lottato con le unghie e con i denti per poter tornare ad essere libera e non era certo così che avrebbe voluto morire. Sarebbe stata la chiusura perfetta di un cerchio che era convinta di aver distrutto. Tuttavia, la Siberia era il suo conto in sospeso, l’ultimo atto di una tragedia che andava ormai avanti da anni.
    Aveva ancora Ninel vicino, quindi, quando la vide puntare alla testa di Ptolemy, provò a pugnalarle il braccio, aggrappandosi alla sua lama per portare la ragazza giù con sé, sentì ugualmente lo sparo, ma non si voltò. Non voleva sapere se Javi sarebbe stato la loro prima vittima, l’ennesima persona che non era riuscita a salvare.
    Puntò la bacchetta contro Tyoma, sfogando tutta la frustrazione che sentiva nella maledizione dell’urlo che gli scagliò contro. Non avrebbe urlato, Olga, non avrebbe lasciato che i suoi ricordi prendessero il sopravvento, e così avrebbe anche impedito all’avversario di farlo, privandolo della parola, privandolo della possibilità di sfogarsi, di ribellarsi, di emettere alcun suono. Le sue urla non erano mai state ascoltate, così come quelle di tantissimi bambini che aveva visto sparire, inghiottiti, finiti nella pancia della grande balena russa. Sperava che la maledizione gli lacerasse le corde vocali, la gola, l’esofago, che lo portasse allo stremo così come aveva fatto con lei. Lesioni invisibili che nessuno aveva mai visto, che non avrebbe permesso a nessuno di curare.
    Poi, rendendosi conto di essere anche lei bersaglio di una maledizione, avrebbe provato ad ereggere attorno a sé una barriera magica con il Protego Maxima.
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    ATTACCO TYOMA (mac + olga): Maledizione dell’urlo
    Maledizione dell'Urlo ◆
    Formula: Vociferans. sigilla le labbra della vittima, e causa in questa strilli continui e prolungati, che tacciono solamente per permetterle di respirare, silenziosi dato che la bocca non si riesce ad aprire. La maledizioni causa anche lacerazioni interne ed esterne alla gola. Il colore del fascio di luce è giallo ocra.

    (19) DIFESA OLGA (twat + olga): Protego Maxima (ci riproviamo)
    (19) DIFESA JAVI (javi + olga): pugnala il braccio per fargli mollare il fucile
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    Lasciò che la collana scivolò dalle mani dell’uomo alle sue. Sfiorò le incisioni con i polpastrelli, i lineamenti più rigidi del solito. Quelle linee le erano più familiari di quanto non volesse ammettere, ma non era ancora pronta a parlare di sé, a raccontare il suo passato a dei perfetti sconosciuti che avrebbero potuto passare l’eternità con lei, sepolti in quella bara gigante.
    La mise in tasca, la concentrazione che vacillava appena mentre si spostava silenziosa verso l’altra stanza.
    Respirò piano. Osservava i letti a castello, le lenzuola sdrucite, le pareti di quella che più che un dormitorio era una prigione. Si sentì quasi soffocare: non pensava sarebbe mai rientrata in una di quelle stanze, non indossando quegli stessi vestiti.
    Chiuse gli occhi, la Ivanovska, provando ad alienarsi un momento, provando a non farsi sopraffare dal suo passato. Quando li riaprì, ebbe solo un istante, un brevissimo attimo prima di agire, in cui fissò il suo polso liscio e pallido.
    Poi… poi prese la rincorsa e si lanciò su Ninel, cercando di tirarle prima una spallata per farle deviare la traiettoria della maledizione, seguita dal tentativo di darle una gomitata per sbilanciarla e farle sparare altrove, ovunque ma non sul ragazzino. Sul loro ragazzino. Non voleva vedere in volto, non voleva sapere se fosse una bambina, una ragazzina, un’adolescente o una giovane adulta. Ormai era solo un cadavere rianimato, una stortura della stessa magia. Non era più umana.
    Per questo non ci avrebbe pensato troppo, per questo non avrebbe esitato nell’estrarre le sue lame. Le avrebbe sollevate e avrebbe provato a conficcargliele nella carne morbida in prossimità della clavicola.
    Porre fine alla sua vita, o quanto tentarci, era l’unica cosa che poteva fare per lei.
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    (12) DIFESA JAVI (olga + twat): prova a dare una spallata a Ninel per deviare l'incantesimo.
    (18) DIFESA TWAT (olga + Mac) Prova a dare una gomitata per sbilanciarla.
    ATTACCO NINEL (olga + mac): prova a ficcarle un coltello tra le scapole. O forse due.
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    La rivoluzione.
    Un concetto interessante, quanto privo di ogni possibile utilità: era dall’alba dei tempi che gli uomini si uccidevano tra loro, fossero guerre, rivoluzioni, battaglie. La storia era stata scritta dai vincitori e i vinti erano stati destinati all’oblio, quasi non meritassero di essere ricordati. I semi dei loro ideali, tuttavia, prima o poi attecchivano e germogliavano, attiravano verso di loro nuovi seguaci, modificandone il pensiero, facendo nascere una nuova corrente più o meno violenta. Era un circolo vizioso, una spirale di violenza che non avrebbe mai avuto fine.
    Sorrise a Mackenzie, accettando il pugnale del fu Fyodor. Saggiò la sua pesantezza e lo rigirò tra le dita, come se volesse prendere le misure. Pulì la lama, un gesto inutile, dettato più dall’abitudine che dalla necessità e lo agganciò alla cintura, sempre a portata di mano.
    “Se lei faceva parte di tutto questo, è possibile che la situazione in Inghilterra sia più grave del previsto. Era ancora in servizio?” Domandò al ragazzo, in realtà rivolta a chiunque potesse darle una risposta. Sussurrare, dopo il combattimento che avevano appena sostenuto, sarebbe stato irrilevante. Guardava l’Hale negli occhi, concentrandosi su di lui per non volgere l’attenzione alla morte che li circondava o al presagio di essa. Non voleva guardare il sangue sul pavimento, l’acqua che aveva quasi annegato i suoi compagni, o il fluido corporeo fuoriuscito a causa della maledizione. “Dovremmo ripulire. Non devono sapere che siamo stati qui.” Non avrebbero potuto far sparire del tutto i corpi, ma potevano nasconderli alla vista con un incantesimo di disillusione.
    “Se è come dici, è possibile che Abbadon abbia scelto determinati laboratori per i suoi esperimenti? Scegliendo luoghi dove la sua magia potesse essere più forte e facilmente utilizzabile ai suoi scopi? In questo caso, è come se fossimo vicino a un velo…” Tra un mondo e l’altro, tra una dimensione e l’altra. Per generare certi abomini, certe distorsioni, la loro magia non sarebbe mai stata sufficiente.
    “Abbadon potrebbe essere partito dal Regno Unito e aver esteso la sua rete di seguaci in questi anni, fino ad arrivare qui, in un luogo dimenticato anche da Dio.” E, per questo motivo, la situazione iniziava ad essere più grave del previsto. “Se lui dovesse essere qui…” sfiorò una delle sue lame, interrompendo la frase, lasciandola sospesa per non dover affrontare la realtà che tutti potevano essere dei dead men walking.
    “Se riuscite a reggervi in piedi, è il momento di seguirlo.”
    Ptolemy e Milena avevano chiaramente i postumi delle maledizioni subite, ma non era il suo compito quello di consolarli e dire che sarebbe andato tutto bene. Non era suo compito fare false promesse.
    Se avessero voluto avere risposte ai loro dubbi e alle loro domande, non avrebbero avuto altra scelta che proseguire.
    Ripulì velocemente la stanza, accantonando i cadaveri all’angolo e mimetizzandoli con l’ambiente circostante, prima di lasciarsi la stanza alle spalle e andare incontro a quelli che si prospettavano nuovi orrori.
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    Fa domande e prova a darsi delle risposte, ripulisce la scena, segue Mac - ma non troppo - nell'altra stanza.
  11. .
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    Nel caos del momento, era riuscita a sfuggire all’attacco di Fyodor e a ricambiare, con poco affetto, il torto quasi subito. Spinse la lama nella carne, girandola appena, prima di estrarla. Voleva assicurarsi di fargli del male, di fargli provare un minimo quello che la gente che serviva aveva inferto a delle vittime innocenti.
    Ripulì velocemente i pugnali, studiando velocemente la situazione attorno a lei, provando quanto meno a prevedere alcune possibili mosse e ad anticiparle, agendo prima che qualcuno della squadra potesse farsi male. Tutti erano utili lì in mezzo, nessuno indispensabile, ma anche solo una persona in meno, in quelle circostanze, avrebbe potuto fare la differenza. Proteggerli equivaleva a proteggere se stessa.
    Sfilò la bacchetta dalla custodia e la puntò dapprima in direzione di Mackenzie, lanciando un sortilegio scudo al fine di difenderlo dal lampo rosso dello Stupeficium. Se la magia funzionava per la Bulstrade, c’erano buone possibilità funzionasse anche per lei. Poi, si voltò seguendo nuovamente il catalizzatore magico della strega, e castò un protego maxima verso Milena. Aveva il sentore potesse avere delle rimostranze nei suoi confronti per le sue origini, ma il suo odio le scivolava addosso. Non avrebbe mai potuto odiare la Russia quanto la Ivanovska. La politica cambiava, era opinabile, dava a tutti diritto di esprimere il proprio parere e di schierarsi da un lato o dall’altro delle due fazioni, in attesa che una prevalesse sull’altra, facendo il tifo come se si stesse partecipando a una corsa di cavalli.
    Olga odiava la Russia per quello che rappresentava, perché aveva subito il suo marcio, perché era convinta che non ci fosse redenzione per quelli come loro. Chi, come lei, non era nato in ambienti altolocati, era destinato a soccombere, schiacciato dalle pretese di quella Madre Patria che altro non faceva che divorare i suoi figli fino all’osso.
    “Cosa fate qui?” Levò la bacchetta verso la ex Ministeriale, puntando il suo petto, lo sguardo di ghiaccio fisso sul suo volto. “Qual è il vostro scopo?” E poi, giusto per chiarire non fosse una tipa particolarmente amichevole, complici alcuni flashback del suo passato, si sarebbe fatta prendere leggermente la mano, pagando la Bulstrade con la stessa moneta con cui li stava attaccando. Un crucio non sarebbe bastato per pareggiare i conti con quello che il laboratorio rappresentava, ma poteva essere un ottimo inizio.
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    (3) difesa mac (olga + moka): Protego
    (22) difesa lena (mac + olga): Protego Maxima
    attacco bulstrode (javi + olga + lena): Maledizione Cruciatus
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    “Hai la fortuna di crescere se non finisci in posti come questo.” La bionda spostò lo sguardo sul mezz’uomo, la cui domanda l’aveva colpita. Poteva essere una questione di semantica, potevano stare lì a discutere su cosa l’europeo intendesse per crescere, ma non era certo quello che succedeva in quel laboratorio, tra quelle mura. “Qui vieni allevato fino al macello.” Diventavi un essere a cui cercavano in ogni modo di portar via l’umanità, degradato allo status di animale e forse neanche quello. Numeri, elementi di un’equazione, cavie da laboratorio: era tutto quello a cui potevi ambire lì dentro; ti tenevano in vita solo fino a quando eri ancora utile per raggiungere il loro scopo, fino a quando il tuo corpo era ancora in grado di reggere nuovi tagli e di essere sottoposto a nuove torture.
    Niet Scosse piano il capo, rivolgendosi a Ptolemy. “Non posso dirlo con certezza, ma ogni leggenda metropolitana nasce da fatti realmente accaduti. Bisognerebbe cercare nel folklore di tutta Europa per trovare storie simili.” Un compito abbastanza dispendioso di energie, improbabile, ma non del tutto impossibile. “Sopravvivere è estremamente raro, ma non escluderei ci possano essere state fughe di informazioni, dottori che hanno deciso di aprire il loro laboratorio per portare avanti diverse filosofie di pensiero, oppure Special che sono stati catturati e poi studiati altrove. Come saperlo? Bisognerebbe chiederlo e capire perché hanno costruito il laboratorio qui e se ce ne sono altri che rispecchiano le stesse caratteristiche”.
    Non era più sul suolo russo da diversi anni ed era difficile entrare in contatto con le spie russe. Non era più considerata una di loro e questo era il prezzo da pagare per aver voltato le spalle alla sua patria.
    Seguì gli altri in silenzio e percorse il lato del corridoio opposto a quello occupato da Ptolemy e Moka per il loro affair. Li superò sollevando piano un sopracciglio, ma non spettava a lei stabilire quali dovessero essere le priorità di tutti.
    Più andavano avanti, più iniziava a sentirsi a disagio, a sentirsi oppressa da quei corridoi tutti uguali, da quel silenzio, da quell’ambiente così spoglio da ricordarle… No, non poteva pensarci, non in quel momento. Era stata addestrata meglio di così.
    Una volta entrati nella stanza nr. 2, non riconobbe il personaggio che avevano davanti. Come avrebbe potuto? Non aveva mai frequentato Hogwarts. Non aveva neanche capito perfettamente quello che la donna aveva detto loro, se proprio doveva essere sincera.
    Eppure, per quanto potesse non interessarle, aveva qualcosa di più importante da fare al momento: sopravvivere.
    Quando sentì i passi arrivare da dietro di loro, si piegò fulminea a prendere le sue lame. Le diedero quasi un senso immediato di calma, estensioni letali del suo corpo.
    Vedendo l’uomo puntare nella sua direzione, si sarebbe spostata al lato, quel tanto che bastava per evitare di essere colpita e per ficcargli uno dei coltelli nella carne morbida dietro al ginocchio, l’intento chiaro di recidergli qualche nervo, vena, arteria, tutto quello che avrebbe potuto impedirgli di riprovarci di nuovo.
    Mossa dall’istinto, avrebbe fatto un altro passo, una mezza piroetta che le avrebbe potuto concedere di allungarsi e puntare al pugnale dell’avversario: in quel caso, avrebbe ruotato appena la mano, tentando così di recidergli le vene del polso.
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    (12) COMBO DIFESA MOKA (olga + lena): prova a recidere le vene del polso della mano che ha il pugnale diretto a Moka
    (4) COMBO DIFESA OLGA (Olga + lena): si sposta
    COMBO ATTACCO FYODOR (lena + Olga): prova a infilzare la lama dietro il ginocchio del tipo per fare quanti più danni possibili
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    Il volto imperturbabile di Olga non lasciava trasparire alcuna emozione. Non sarebbe stata la morte di un bambino a sconvolgerla. Non era il primo, non sarebbe stato neanche l’ultimo. “Solo i mercati illegali di armi, qui in Russia, sono i posti più sicuri.” Un’informazione apparentemente inutile, ma che nascondeva al suo interno una delle più drammatiche verità: o avevi la fortuna di crescere in quell’ambiente, di nascere da quel lato della ricchezza, o saresti stato la prossima vittima da sacrificare all’altare di una persecuzione silenziosa. Non potevi essere pio e coscienzioso in Russia, non senza correre il rischio di sparire. Le uniche opinioni valide erano quelle del regime, l’unica disciplina quella dell’esercito. Se volevi vivere, allora, dovevi imparare a sopravvivere. E a farlo in fretta.
    Si chinò in avanti, sollevando la manica della divisa del prigioniero e osservando il marchio che aveva posto una lama di Damocle sulla testa del ragazzino. “Il nome del gruppo. Chi a capo di questo Laboratorio?” Domandò lasciando il polso del bambino, continuando a guardarlo negli occhi. “In nome di che cosa vi hanno torturato?”
    Si voltò verso i suoi compagni, i lineamenti irrigiditi da quello che l’ustione rappresentava. “Non esistono molti special come lui. Muoiono prima, durante il processo.” Ci tenne a precisare, perché non era tipa da girare troppo attorno alle questioni spinose. “Sono talmente rari che… beh, è difficile credere che esistano. Il marchio serve per ricordargli, in modo permanente, le sue origini da senza poteri.” Sempre poco classisti e inclusivi, un popolo veramente invidiabile. Gli inglesi erano fortunati ad essere lì solo di passaggio. “Non tutti i laboratori sfregiano i loro esperimenti marchiandoli col fuoco. Solo i più estremisti. Solo i peggiori.” Una risata ironica sfuggì dalle sue labbra, alzandosi in piedi. “Che figli di puttana… noi siamo esattamente in uno di quelli.”
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    Fa domande al ragazzino su chi è il capo lì e a che gruppo di estremisti appartiene. Spiega agli altri la situa, per quel che ne sa.
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    Olga Ivanovska aveva giurato a se stessa che non avrebbe mai più messo piede in Russia. Quanto valeva, però, il giuramento di una bugiarda, traditrice e mercenaria? Non voleva pensarci, non quando stava per riaffrontare il gelido inverno di quella madre patria che aveva sempre odiato, che l’aveva privata della capacità di provare emozioni, di essere empatica, di essere una persona migliore.
    Un po’ per pigrizia, un po’ per una questione di principio, un po’ perché era la soluzione più semplice, si era convinta di essere cattiva, falsa, meschina; di poter indossare perfettamente i panni della mercenaria e di fare fortuna altrove, possibilmente sulla pelle di coloro che non conoscevano il suo nome e che avrebbero fatto presto a dimenticare il suo volto.
    Era stata una reietta nella sua terra, era un fantasma a Londra, nel Kent, ovunque. Sperava che la sua buona – ma offuscata – stella fosse dalla sua parte anche lì.
    Indossava gli abiti di quando aveva lasciato la Russia anni prima. Un po’ sdrucidi, leggermente corti di gamba e manica, vissuti al punto da continuare ad odiarli come quando aveva scelto di varcare il confine e di sparire, di cambiare nome e identità. Eppure, nonostante il cambiamento fosse tutto quello che aveva cercato da ragazzina, era ancora facile sentire la cadenza russa nella sua parlata, vedere la rigidità e la freddezza russe nei suoi movimenti. Non aveva mai voluto abbandonarle del tutto.
    Seguì il gruppo in silenzio, affilando le lame scelte per quell’occasione e posizionandole lì dove sarebbe stato più facile reperirle. Mosse le dita piano nei guanti, testandone la mobilità mentre entrava nell’edificio, percependo quasi immediatamente che qualcosa non andava, che c’era qualcuno di troppo, lì ad aspettarli.
    Spostò lo sguardo sui presenti, sperando di decifrare correttamente quel gioco di sguardo e gesti confusi che stavano facendo tra loro.
    Si posizionò dietro il gruppo, cercando di mescolarsi tra le ombre alla ricerca del punto perfetto per castare l’incantesimo. Estrasse la bacchetta e prese la mira.
    Non avrebbe saputo se fosse stata vista o meno dal tipo fino a quando non lo avrebbe visto immobilizzarsi sul posto, pietrificato dal suo incantesimo. Non lo voleva morto, non quando poteva essere l’unico elemento a far la differenza tra la vita e la morte in quella che aveva tutta l’aria di essere una missione suicida.
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    Usa un immobilus per bloccare il tipo. Non vi dice ancora il suo nome e non si presenta, forse lo farà dopo. Ciao.
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    Non aveva fretta, Baudino, aspirò con calma, assaporando il gusto dolce-amaro che la sigaretta gli lasciò in bocca, soffiando con fare leggermente provocante sul volto di Amarello. Le labbra si incurvarono in un sorriso colpevole e complice, mentre si scioglieva davanti alle parole dell’altra. Era un piacione, sempre alla ricerca di nuovi stimoli e passatempi, viveva in maniera estremamente libertina, ma questo non lo rendeva meno vulnerabile alle attenzioni altrui. Tutt’altro, ne era quasi dipendente.
    “Possiamo bruciare insieme.” Sussurrò sulle labbra di Heather, il corpo proteso nella sua direzione, in tensione. La baciò a sua volta, un contatto decisamente più deciso e un po’ più approfondito. Iniziava a sentire il profumo della ragazza, a vederla in HD e non solo pixelata. “O potrei sempre ricambiare il massaggio.” Le baciò il dorso della mano, le iridi scure a scrutarle il viso per chiedere qualcosa in più.
    Poi… poi erano riusciti a trovare il PIN di CdM per sbloccarlo e… “Amo, fino a mezzanotte, possiamo parlarne quanto vuoi, oppure…” Si interruppe de botto quando si sentì chiamare per nome. LO VEDEVANO. Oh meo deo, finalmente anche i presenti potevano essere folgorati dalla sua mise sempre sul pezzo, fatta di colori poco sobri e molto appariscenti.
    “Oh Python, prima o poi dovevamo provare qualcosa insieme” e chi meglio di Ezra “Ciruzzo” Nott Linguini poteva essere l’esperto del settore? Per questo, durante l’abbraccio, non perse l’occasione di testare (e tastare) la tonicità dei muscoli del ragazzo, più o meno dal fondoschiena in giù, mentre ricambiava il bacio con rinnovato entusiasmo.
    “Bestia di Satana, ascendente testa di cazzo.” Rispose con un sorriso, prima di specificare per i miscredenti: “Capricorno, ascendente Sagittario.”

    teoria
    cuginodeimaneskin
    amarello
    bubbletea


    You just put your lips together
    and you come real close
    Can you blow my whistle, baby, whistle, baby?
    Here we go


    abbinamento
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    6BAUDI9
    Stiamo verificando
    le tue compatibilità.
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