«Forse dovrei comprarlo, ma temo sempre sia una fregatura.» Non sembrava stesse parlando con Guadalupe (o con qualcuno, in generale), ma la guaritrice annuì comunque, distratta, occhi rivolti al quadro in questione senza realmente guardarlo.
Non era la prima volta che metteva piede al Sub, ma non poteva dire di essere particolarmente entusiasta del posto, o del genere d'arte che metteva in mostra; infatti, a distanza di anni dall'incontro con Ginevra, il punto di vista di Lupe sull'arte non era cambiato, trovandola ancora troppo interpretabile e, di conseguenza, troppo lontana dalla sua filosofia di vita per poterla apprezzare a dovere. Preferiva la concretezza, lei, e teorie inconfutabili e con radici che affondavano nelle certezze, nella ricerca scientifica. Sempre un controsenso, se detto da una strega, ma anche nella magia Guadalupe ci vedeva una scienza — non dico esatta ma quantomeno comprovata. Infallibile, per certi aspetti.
L'unica incognita, da sempre, erano gli special ed era forse per questo motivo che, pur non odiandoli e non condannandoli solo per convenzione sociale, la loro mera esistenza metteva a disagio la professoressa. Erano la prova che anche la scienza, nelle mani sbagliate, poteva fallire e dare vita a qualcosa di imprevisto e incontrollabile.
Contronatura.
Erano pensieri, tuttavia, che ultimamente si perdevano e confondevano sempre più nella psiche della dottoressa, specialmente quando da quasi due anni frequentava una di loro e non riusciva a vedere nulla se non perfezione nello sguardo vispo di Ginevra, nelle sue forme morbide e nei suoi gesti esagerati e italiani; convincersi che fosse anche lei, seppur costretta e contro la sua volontà, un qualche scherzo della natura era sempre più difficile, così come lo era però riuscire a smettere di pensare che gli special fossero, a tutti gli effetti, un difetto in una società altrimenti perfetta.
Ma quelli erano pensieri che, di solito, Guadalupe teneva per i giorni più difficili, quelli in cui la stanchezza permeava un ogni fibra del suo corpo e metteva a dura prova persino la mente, solitamente più lucida e affilata di così.
Quel giorno era esattamente uno di quelli.
Troppo lavoro nei laboratori del San Mungo, troppe incertezze fuori da quelle stesse quattro mura; troppa incompetenza nelle aule di Hogwarts. Certe volte le veniva di domandarsi chi glielo avesse fatto fare di abbandonare il Sud America e costituirsi una vita in un paese così… pieno di difetti e inidoneità. I laboratori dove aveva studiato e conseguito gli studi potevano anche non aver avuto la strumentazione d'ultima generazione, ma perlomeno i suoi colleghi erano stati tutti all'altezza delle aspettative e in grado di analizzare e risolvere con precisione ed esperienza qualsiasi problema.
Non poteva dire lo stesso di alcuni guaritori del reparto di tossicologia dell'ospedale inglese.
«Forse… forse dovrei continuare a bere.»
Alla donna al suo fianco rivolse ancora un cenno vago del capo, sempre più convinta che non stesse parlando con lei, ma più rifugiata in se stessa e nei suoi pensieri, proprio come la dottoressa messicana.
Tuttavia Guadalupe, pur da sempre portata al silenzio e, come dicevano i ragazzini della sua classe, a farsi gli affari suoi, si ritrovò suo malgrado ad alzare il bicchiere di vino che stava sorseggiando e a muoverlo appena in direzione della sconosciuta, in un gesto di solidale accordo. Un «forse» che sapeva più di convinzione che di dubbio, e un mezzo sorriso a piegare le labbra che però non raggiungeva lo sguardo scuro; non stava promuovendo l'alcolismo, ma per esperienza personale sapeva che un sorso o due di tequila aveva la tendenza a mettere tutto in prospettiva, a rendere tutto più chiaro.
Sperava il vino, invece, quella sera la aiutasse a mettere un freno a tutti i pensieri e lasciarsi dietro la mole di lavoro che, sapeva bene, avrebbe finito col protrarsi con sé anche a casa, perché finiva sempre così, con Guadalupe.