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  1. .
    If you can't handle me at my worst, same! But at least you get to leave.
    Che non ci fosse più tempo, Hans lo aveva capito da un po’.
    Che non ne avessero mai avuto affatto, lo aveva sempre saputo; che fosse solo il suo (pragmatismo) pessimismo, quello a spingerlo a cedere a quella verità, o una vera cosapevolezza a bruciare nel petto e a premere contro la gabbia toracica, non faceva differenza; l’aveva saputo, e non l'aveva condiviso con nessuno, perché non era un problema suo se gli altri non fossero giunti alla sua stessa (o a nessuna) conclusione.
    (Se poteva evitare a Taichi quell’informazione, anche solo per un’altra manciata di minuti, lo avrebbe fatto; che lo odiasse pure per non aver condiviso con lui quanto teorizzato, era davvero l’ultimo dei problemi di Hans, e il meteorologo poteva mettersi in fila e attendere il suo turno per gli insulti.)
    Quando anche l’ultimo blob era caduto, Hans lo aveva saputo.
    Quando la barriera era sparita, come se non fosse mai stata lì, e aveva lasciato intravedere gli altri (sacrificisacrificisacrifici) compagni, Hans lo aveva saputo.
    Quando la piattaforma aveva iniziato a muoversi, e quando avevano raggiunto gli ostaggi, Hans lo aveva saputo.
    Quando Mac era corso incontro a lui e a Taichi, quando l’aveva abbracciato inchiodandolo sul posto con le braccia lungo il corpo e la schiena rigida, incapace di ricambiare quel gesto, e quando le iridi ghiaccio avevano fallito a trovare la figura di Twat, Hans lo aveva saputo.
    Lo aveva sempre fatto, era la condanna di avere una mente fin troppo acuta nascosta dietro uno sguardo (non solo) in apparenza impassibile.
    Non c’era più tempo.
    Ma quel poco che gli era stato concesso, se lo erano presi. Tutto, fino all’ultimo secondo. Avevano trovato le persone che due mesi prima gli erano state strappate via — amici, fratelli, qualcosa di più e, perché no, anche qualcosa di meno; erano lì, stanchi, emaciati ma sollevati. Erano vivi. Erano reali. Non erano più solo una voce nascosta dietro le pareti, o un ricordo ancora vivido nella mente che li aveva spinti fino a lì.
    Avevano trovato la via per uscire da quel labirinto di corridoi e stanze, e avevano trovato la strada per ricongiungersi con gli altri; che qualcuno avesse voluto che la trovassero, quella strada, era solo un problema marginale per l’empatico. Se nessuno voleva sottolineare quell’ovvietà, non sarebbe stato di certo lui a farlo — non quando il suo unico pensiero era portare Mac via di lì, e dove cazzo sei Twat, e trascinare Taichi il più lontano possibile da quella che, fino a pochi minuti prima, il Belby aveva seriamente temuto finisse con il diventare la loro tomba. Il pensiero che qualcuno li stesse guidando, mano invisibile a trascinarli fuori da lì, era davvero, ma davvero!, l’ultimo dei problemi.
    Avrebbe dovuto pensarci due volte.
    E saperlo, che una fregatura c’era.
    C’era sempre.
    Ma non gli interessava, non gli interessava, non gli fottutamente interessava; perché erano fuori, erano salvi (lo erano davvero?), e — Twat. In piedi, una divisa addosso che Hans aveva visto indossare solo a quelli che, per due giorni interi, aveva classificato come nemici; gli dava le spalle, e forse era meglio così, perché se lo avesse visto in quel preciso momento, l’ennesimo coltellino dell’emocineta sarebbe finito direttamente tra gli occhi del Belby, lo sapeva.
    (Sapeva davvero un fottio di cose, Hans Belby; e nessuno sospettava mai nulla.)
    Da una parte, però, sperava che l’amico si voltasse, che lo colpisse, che gli facesse capire di essere vero e non un’allucinazione; Hans aveva ancora difficoltà a credere che stretto a lui, battito del cuore frenetico e tutto quanto, ci fosse davvero Mckenzie, non poteva semplicemente farsi bastare la presenza di Twat a pochi metri e darla per buono. Aveva—
    Battè le palpebre stanche, rese appiccicose dal sangue e dal sudore e dai residui di golem ancora appiccicati alla pelle. Battè le palpebre e cercò Mac, occhi leggermente distanti e voce bassa. «l’ho solo presa in prestito» disse distrattamente all’Hale, restituendogli la mazza com’era giusto che facesse. Era sempre stata un prestito da restituire; e in quel momento lo colse la cosapevolezza che— ci siamo; questo è il momento dei saluti. Pur senza aver dato peso alle parole di Lancaster, senza sapere assolutamente nulla di una fazione o dell’altra, Hans aveva deciso. E così anche Mac. Non riusciva a lasciarlo andare via; arrivare fin lì solo per perderlo di nuovo.
    Perché andare via?
    Perché rimanere?
    Perché—
    Alla fine, fu solo un attimo: gli occhi a lasciare solo un attimo il viso di Mac, per cercare istintivamente la figura del norvegese ancora al centro del campo di battaglia, e a trovare quelli freddi e impassibili di Twat, anziché la nuca bionda come aveva (sperato) immaginato. Non aveva nemmeno le forze per dirgli… cosa, che gli dispiacesse? Che non se ne pentiva? Che l’avrebbe rifatto altre dieci volte pur avendo letteralmente zero competenze? No, fanculo Twat, non si sarebbe scusato.
    Poi la sensazione di perdere nuovamente tutto, la stessa che aveva provato nella stanza insieme al golem, quando il Mai Nato aveva spento qualcosa (tutto) in lui; il silenzio, l’assenza di dolore, il vuoto. E l’istante dopo un dolore così improvviso e lancinante che quando finì, quando tutto si fece nuovamente buio (per l’ultima volta?) Hans ringrazio, e si lasciò andare.


    Col senno di poi, sarebbe stato meglio rimanere sulla radura ed essere lasciato indietro da tutto — dai pro, dai contro, dalla bolla, dal tempo.
    E invece il conto delle volte che si era ritrovato tu-per-tu con la morte e ne era uscito per poterlo raccontare, era salito a sei e Hans era ancora lì, che respirava. Non si sarebbe azzardato a dire che fosse vivo e vegeto, infondo non lo era mai stato, ma non era… mh, beh non era rimasto morto, ecco. Era abbastanza certo di aver smesso di respirare (di nuovo!) per chissà quanto tempo, o così gli avevano detto al suo risveglio; lo avevano salvato, perché lui, e gli altri quindici sfigati che come l’empatico avevano combattuto il golem, avevano salvato la Bolla. Sì beh, anche sti cazzi, non lo aveva fatto per loro, lo aveva fatto per Mac e Twat.
    Dov’erano?
    Dove— «venite, devo farvi conoscere una persona.»
    Un. Fottuto. Scherzo.
    Non poteva essere altrimenti, no?
    Hey Mac, look; guarda chi è tornato.
    Non lo aveva mai visto in faccia quell’Asdrubale lì, il Belby, ma non gli serviva riconoscere il viso di quell’entità per sapere che fosse la stessa che un anno e mezzo prima aveva rispedito indietro lui e l’Hale, dopo averli chiamati a Tottington (DI NUOVO!!) senza il loro consenso.
    Odiava che la sua presenza lì lo facesse sentire… così tranquillo. Sereno. Con un senso di appartenenza che non poteva e non voleva spiegare, alieno nel cuore e allo stesso tempo giusto. Di quella storia raccontata da Michael, l’empatico ascoltò solo qualche parte: l’aveva già sentita, e pur non avendola ricordata quasi affatto fino a quel momento, d’improvviso gli tornò in mente tutta insieme, dal primo sparo di quell’imbecille di Harrison alla faglia che li aveva risucchiati e all’incantesimo meschino di Mac per trascinarlo da Barbie. Tutto.
    «le mie capacità sono limitate su questo piano,»
    Immaginava, dunque, che fosse ancora incatenato all’altro reame, quello dove continuava a trascinare persone a caso solo per avere un po’ di compagnia; ugh, odiava che anziché detestarlo per quello, riuscisse quasi a comprenderlo. A mettersi nei suoi panni, e a trovare in sé la forza di perdonarlo. Capirlo.
    Non riuscì ad odiarlo nemmeno quando spiegò loro (Tai, Corvina, Amaranth, Kul, un perfetto sconosciuto e lui) degli effetti collaterali di quello che, ah! lo aveva sempre saputo, a conti fatti era stato il loro sacrificio. Una magia impura la loro, inutile e necessaria solo per bilanciare qualcosa come tutto in natura doveva essere; una magia di cui la Bolla non sapeva che farsene, e che gli era stata rispedita indietro in maniera diversa da come l’aveva rubata in origine.
    Difettosa.
    Stupidamente, perché certe volte Hans aveva bisogno di esserlo per poter sopravvivere, l’empatico credette intendesse in una maniera molto semplice e banale: ogni tanto funzionerà, ogni tanto no. Tottington docet! Non poteva pensare alle ramificazioni di quella parola, difettosa, non in quel momento. E possibilmente mai.
    Guardò istintivamente in direzione di Taichi, pallido come un cencio e in condizioni pietose, e pensò che nemmeno lui doveva avere una bellissima cera: non con le spalle sempre più curve, il fisico magro, il viso smunto, e l’ustione che ancora fresca a deturpare il volto (avrebbero fatto qualcosa più avanti, gli avevano detto, perché prima avevano avuto altre priorità — quelle di evitare che il loro gioco del cazzo lo facesse morire, immaginava. Va beh, poteva sopportare uno sfregio sul viso, non si guardava comunque abbastanza allo specchio da sentirsi diverso. Ma tanto c’era già la luce diversa nello sguardo, a fregarlo).
    Guardò Taichi, e pensò che quella volta l’avevano combinata davvero grossa, e che persino Nah avrebbe avuto difficoltà a perdonarli.
    «a tal proposito… ci sono delle ultime cose di cui rendervi partecipi. chi è all’interno della bolla, così come la bolla stessa, è stato cancellato dalla memoria collettiva: non esiste più. chiamatelo oblivion se preferite, ma è una versione… diversa.»
    O… o magari no.
    Non sapeva se fosse una benedizione o meno, quella lì; sapeva solo che da una parte era sollevato di sapere che fuori da lì, nessuno lo ricordasse. Dominic e Joey e Narah e Bri e Mac e Joni e quelle altre poche anime che avevano avuto la sfortuna di incrociare il suo cammino si meritavano un po’ di pace; li aveva fatti preoccupare già abbastanza. Poteva cacciare Twat a calci e rimuovere quel fardello anche dalle sue spalle? Chiedeva; era un’opzione che valeva la pena prendere in considerazione. Gli rimaneva solo Taichi, e che non sarebbe rimasto lo sapeva; magra consolazione il fatto che anche lui l’avrebbe dimenticato, quando doveva comunque portarsi addosso il peso di tutto il resto.
    «non sarà facile rimanere lì fuori, voglio essere del tutto onesto con voi.» Fottuta onestà; Hans Belby non era mai stato capace di vivere senza e al contempo accettare la propria.
    Quando, allontanandosi dall’aula dopo il discorso di Michael, Hans fermò il Lìmore per un ultimo (forse l’ultimo per sempre) saluto, gli disse solo «non farlo. non tornare qui.» se davvero aveva la possibilità di dimenticare, di ridurre tutta quell’esperienza a delle stupide voci nella sua testa e qualche incubo, che lo facesse; non sarebbe stato il primo al mondo, né la prima volta. «cerca–» cosa? non era mai stato bravo con le parole, o con i saluti, o con le persone in generale. Persino (soprattutto) con quelli che reputava amici. Il migliore, se proprio. «va’ avanti, Tai. lasciatelo alle spalle.» ingenuamente, stupidamente, Hans Belby ci credeva davvero a quelle parole. «salutami–» mh, nessuno immaginava, perché nessuno si sarebbe ricordato di lui. Nessuno, tranne gli animali; in quell ci credeva. «pentacolo, e orion» ancora non ci credeva che gli avessero impedito di uscire per prendere il dannato cane. Era offesissimo.
    (Twat l’aveva presa molto peggio di lui.)
    Aveva messo le mani in tasca, poi, affondate lì perché non sapeva cos'altro farci e di certo non le avrebbe strette intorno alla figura allampanata del cinese, e aveva guardato Fake stringere le spalle del cugino e tirarlo via, ma non aveva aperto bocca, Hans, quando anche l’ultimo dei lost kids se n’era andato.


    Non se ne era reso conto subito, convinto che l’intermittenza e il continuo alternarsi di momenti troppo vuoti a momenti troppo… troppo, fosse solo la conseguenza di quell’improvviso e radicale cambiamento, la consapevolezza di dover iniziare una nuova vita, e il continuo brusio in sottofondo che da giorni (da quando aveva riaperto gli occhi) non lo lasciava in pace. Eppure avrebbe dovuto saperlo, perché Michael era stato chiaro ed onesto con loro: i poteri avrebbero dato dei problemi. Ma con tutto quello che stava succedendo, ogni tanto Hans dimenticava di ricordare quel particolare. Poteva convincersi ancora un po’ di essere solo stanco, prima di accettare il fatto che fosse rotto.
    Si rifugiava nei momenti di calma piatta, di totale assenza, perché facevano da cuscinetto quando quelli più intrusivi e sfiancanti tornavano a bussare; in quei momenti era impossibile, per lui, stare in mezzo alla gente. Che fosse la mensa, i giardini, o addirittura le stanze del Lotus, richiedeva davvero uno sforzo immane per l’empatico rimanere concentrato e non lasciarsi sopraffare da quella tempesta emotiva che si abbatteva contro di lui; dopo aver perso il controllo più volte di quante fosse disposto ad accettare (due. Ed erano due di troppo), aveva deciso che per affrontare quei momenti c’era un’unica soluzione: l’auto-isolamento. E per sua fortuna era un pro, ormai, in quello. Anni e anni e anni di allenamento alle spalle lo avevano reso un campione nello sfuggire e non farsi più trovare.
    Aveva solo dimenticato di tenere in considerazione una variabile, nell'equazione.
    «tranquillo, è tranquillo»
    Non aveva nemmeno bisogno di chiedersi come facesse, il Vibe, a trovarlo sempre; c’era l’opzione più ingenua (quella che sottolineava un certo interesse da parte del maggiore a sincerarsi sempre delle condizioni di Hans), quella realistica (il fatto che fosse effettivamente un predatore e conoscesse la sua scia perfettamente) e quella preoccupante (che fosse, alla fine dei fatti, davvero uno stalker).
    E poi c’era quella che le mischiava un po’ tutte e tre.
    «ma agli squali ci hai pensato?»
    No, aveva pensato solo a quale fosse il luogo più tranquillo e remoto possibile, dove attendere con trepidante attesa che il momento passasse per riuscire finalmente a concentrarsi di nuovo sui propri pensieri. C’era riuscito? Boh, sembrava e sperava di sì; l’ultima cosa di cui aveva bisogno era la presenza di Check in uno dei suoi momenti peggiori. Non si fidava più di se stesso.
    Mai fatto, in effetti, ma perlomeno era sempre stato bravo a fingere il contrario, vuoi grazie al muro di impassibilità della droga, vuoi per il fatto che a chiudere a chiave tutto quanto fosse sempre stato una delle sue abilità più grandi.
    Ora come ora, non ne era più certo.
    «sono quasi sicuro li abbiano tolti. servivano solo come ostacolo. ora non ce n’è più bisogno.» la Bolla era al sicuro, loro erano al sicuro. Lui…? Un po’ meno, forse. Ma chi ci pensava più.
    Strinse le ginocchia al petto, e le braccia contro le ginocchia, poggiando la guancia in modo da osservare Check lateralmente, e mostrando solo la metà di viso non sfigurata.
    «perchè sei rimasto, hans»
    Se lo chiedeva dal primo giorno, da quando aveva capito che per rimanere lì avrebbe dovuto salutare quelle poche persone che gli erano rimaste, e che erano fuori — e si chiedeva anche se avesse fatto la scelta giusta. Poi si ricordava di aver ceduto una parte di se stesso (o forse tutto) per quella cazzo di Bolla, e che Twat fosse lì dentro, e si domandava come avrebbe mai potuto pensare di uscire e vivere con il costante presentimento di aver dimenticato qualcosa, un pezzo di sé, qualcosa di terribilmente importante. Preferiva stare lì, e ricordare, piuttosto che uscire e credersi di nuovo pazzo. Aveva vissuto con i ricordi di Tottington a tormentarlo per anni, con il peso sul cuore di chi sapeva di aver vissuto qualcosa che non poteva fottutamente essere vera, e non voleva che la Bolla lo portasse nuovamente ad essere uno zombie di ricordi confusi, legato ad una corda invisibile che tirava verso l’ignoto.
    Non sapeva cosa dirgli, e non era mai stato un fan delle menzogne; preferiva piuttosto il silenzio. Non gli avrebbe chiesto perché fosse rimasto anche lui: Mood era lì, ed era tutto ciò che Hans doveva sapere per comprendere la scelta di Check.
    Che poi, in effetti, anche l'empatico ce l’aveva una motivazione, in realtà; una risposta che cercava da sempre, e che nessuno gli aveva mai dato. O, perlomeno, non gli avevano mai dato la risposta che cercasse. Sperava che, se davvero il potere che scorreva nelle sue vene nasceva dalla stessa matrice di quello di Seth, fermando lui avrebbero anche trovato il modo di far sparire per sempre dal suo sistema anche quella condanna; credeva nella scienza.
    Puff, cancellato. Spazzato via. Non la voleva più, la magia. Mai voluta.
    A Check non lo disse, però.
    Disse solo, un bisbiglio appena accennato che rivolse alla superficie del lago, quando distolse lo sguardo, «non aveva senso non farlo» almeno quella non era una menzogna; rimanere, o andarsene, avevano quasi lo stesso peso sulla bilancia, in quel frangente.
    E con tutto quello a cui avrebbe avuto da pensare da lì a lungo termine, dubitava avrebbe trovato anche il tempo per sentire la mancanza del fuori, o rimpiangere quella scelta. Di tutte le cose fatte nelle ultime settimane di cui avrebbe potuto pentirsi, scegliere di rimanere era davvero l'ultima della lista.
    Rivolse un altro sguardo veloce al maggiore, ancora in piedi e a debita distanza, e se da una parte era grato per quella parvenza di privacy concessa, dall'altra non riusciva a non pensare a quel momento condiviso con Check sulla barca dei pirati della bolla, e la confusione tornava prepotente a fare capolino in quel groviglio di emozioni (sue, non sue, chi le distingueva più) e rendeva molto più difficile rimanere razionale e distaccato.
    Solo rendendosi conto di aver indugiato con lo sguardo per un attimo di troppo sulla figura del Vibe, decise di tornare ad osservare lo specchio d'acqua di fronte a loro e pensare ad altro: aveva appena (appena!) ripreso controllo di sé, non poteva permettere alla presenza di Check di scombussolare tutto quanto.
    Avrebbe volentieri scelto il silenzio, se solo non avesse saputo per esperienza personale che fosse molto peggio; parlando di qualcosa, invece, poteva distrarsi e fingere di essere normale.
    (Ah!)
    Non senza una punta di sarcasmo, chiese «hai già scelto quale sarà il tuo ruolo nella società?» che era un po' l'equivalente nella Bolla del parlare di meteo, o delle ultime notizie in fatto di economia, sport, politica; l'organizzazione della comunità che stavano mettendo su era la priorità di tutti, ed era chiaro che ciascuno di loro avrebbe dovuto prendere il proprio posto e fare qualcosa per contribuire e per aiutare.
    Hans non aveva idea di quale fosse il suo, preferiva non scoprirlo e rimanere sulle sponde di quel lago il più a lungo possibile.
    hans
    belby

    he was pointing at the moon,
    but I was looking at his hand
    immolation
    “to sacrifice; to destroy by fire.”
    special born
    empathy
    the martyr — 2004, defective, chosenhead fuck, won't go;
    so tired of being tired, you know?
    I wish I could make it easy, oh
    (I'm still a broken machine, babe)
    keeping you around
    nothing but thieves
    moonmaiden, guide us
  2. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    irish
    slut
    un-holy
    aidan kenneth gallagher-lestrange
    Strizzò le palpebre, combattendo attivamente contro una sensazione che era certo di saper controllare. Che aveva controllato innumerevoli volte, e se non era l’ennesima punizione, quella di sentirsi così lontano da corpo e mente da riuscire solo a vagare tra i contorni sbiaditi della voce di Arci. Ansimante e rotto oltre ogni limite; li percepiva, i polmoni che faticavano a stare al passo con l’aria che cercava disperatamente di accogliere e sputare fuori. La nausea, il dolore che s’insidiava con prepotenza tra le tempie. Quella strana contrazione al petto, a stringere e stringere e stringere.
    Boccheggiò, e alla fine si concesse di focalizzare le iridi chiare su Archibald. Il peggior errore e un miracolo al contempo: non era ancora pronto a vedere tutte quelle emozioni scivolare sul suo volto — non era certo lo sarebbe mai stato. Avrebbe voluto odiarlo. Era stato così facile, a Bodie, tradurre l’energia statica in qualcosa di più semplice da maneggiare. Scansarlo e scansarsi, e ridurre quel contatto genuino che non sapeva come trattenere senza sentirsi esposto in qualcosa di più crudo. Ma non ricordava più come si facesse. Schiarì la vista dalle lacrime ancora raccolte tra le ciglia, e lo guardò, e permise di essere visto. Rimosse i guanti con dita tremanti, e strinse un palmo freddo sul braccio di Arci, l’altro a cercare il dorso della sua mano. Una preghiera silenziosa: non lasciarmi andare. Non era certo che sarebbe stato in grado di tenersi in piedi da solo, altrimenti.
    «Risolveremo tutto. Ci siamo dentro insieme»
    Spinse la fronte contro la sua. Debole, finché non fu troppo da sopportare; e allora scivolò giù, nascondendo il volto fra spalla e collo e infondendo i sensi con il profumo della sua pelle. Uno spazio comodo e protetto dove poter ricominciare; casa, ancora una volta. Nonostante ogni parte di Aidan fosse stata strappata e ricucita in tutti i posti sbagliati, quello non era cambiato.
    Non ci credeva, ovviamente. Non potevano risolvere niente; di certo non potevano farlo insieme. Quella era una croce tutta speciale che doveva trascinarsi dietro da solo.
    Nel bene e nel male.
    Lasciò la presa sulla sua mano così da potergli premere i polpastrelli contro il petto, in cerca di un battito gemello che lo cullasse.
    «non sai di cosa parli.» e come avrebbe potuto, d’altronde. Non c’era in quello stomaco di pietra. E quella, privatamente, la riteneva una fortuna. Il suo unico premio; sapeva che li avrebbe persi entrambi, in caso contrario.
    Si sistemò meglio tra le sue braccia, accucciandosi come un felino per rubare tutto il calore che di suo non era in grado di produrre. Gelido fino alle ossa dal momento in cui la lama aveva toccato il suo polso. «crederai che io sia pazzo.»
    E si rese conto del suo sbaglio solo dopo aver pronunciato quelle parole. Quanto sarebbe stato facile scansare la questione con una bugia; premere le labbra contro le sue clavicole e mormorare tutte le frasi giuste. Ho avuto paura, pensavo sarei morto in quella stazione, ho solo bisogno di sentirti vicino, portami a letto. Ma a quale scopo? Il suo passo falso lo aveva fatto nel momento stesso in cui era crollato davanti ad Arci. Un pensiero che in momenti come quelli lo terrorizzavano più di ogni altra cosa: lo conosceva troppo bene. Non c’era angolo o curva che il Leroy-Baudelaire non avesse catalogato e accolto. Quasi un’estensione di se stesso — un gioco nullificato dalla rapidità con cui i suoi occhi scuri avevano cercato chiavi d’appiglio, e trovato delle risposte. Nessuna via di fuga.
    «un mostro.» ma era forse così sbagliato? Avevano entrambi fatto una scelta. Ci aveva provato. Voleva vivere, Aidan. Recuperare ciò che gli era stato strappato via una volta di troppo — voleva Archibald. Stringere qualcosa senza che questa si sgretolasse tra le sue mani. Ora che finalmente aveva un motivo per cui tornare e rimanere.
    Corrugò la fronte, e lo guardò di nuovo. «cosa vedi?» raddrizzò la schiena; poi si allontanò il giusto necessario da poter stringere le mani nelle sue, trascinandole nello spazio a dividerli come l’arma di un crimine. «cosa senti?»
    Una richiesta chiara, la sua. Difficile e crudele, ma necessaria. Ignorò la voce spezzata, e con un gesto secco spinse via l’ennesima lacrima, prima di racchiudere nuovamente il palmo attorno alle sue dita. «concentrati. cos’è rimasto?» anche se la risposta, ormai, già la conosceva.
    Who made you like this? Who encrypted your dark gospel in body language?
    Synapses snap back in blissful anguish
    Tell me you met me in past lives, past life
    Past what might be eating me from the inside, darling
    Half algorithm, half deity, Glitches in the code or gaps in a strange dream
    Tell me you guessed my future and it mapped onto your fantasy
  3. .
    I don’t give a f**k
    uno scricchiolio, un suono ovattato che accompagnava le notti al dormitorio serpeverde, mura sommerse dalle oscure acque del lago simbolo della scuola.
    un malessere che le impregnava le membra da giorni, un malessere che non c’entrava nulla con le ferite che squarciavano la pelle candida della Parker.
    avrebbe lasciato correre, se quel malessere le si fosse presentato mentre era avvolta tra le morbide lenzuola del suo letto scolastico. ma non si trovava a scuola.
    si trovava in un letto asettico d’ospedale, dopo essere stata colpita da dei detriti, molti detriti di un edificio che era lì vicino, tornava tutto in effetti, ma perché si sentiva come se le mancasse un pezzo?
    era già la terza volta in quella notte che sognava cose che al suo risveglio, cruento e immotivato, non riusciva a ricordare, ed era strano, lei non aveva mai sofferto di insonnia, nemmeno quando le suore per punirla la facevano dormire in uno scantinato putrido nel quale la sua unica compagnia erano i topi; si sentiva strana, quasi triste, forse… di quei sogni riusciva a ricordare unicamente il viso di Paris, distrutto, e lei che gli carezzava il capo consolandolo, ed ogni volta si svegliava con una sensazione terribile allo stomaco.
    sospirò, spostando le gambe dal materasso al pavimento, quest’ultimo poteva sentirlo, freddo e tagliente sotto le piante dei piedi, con fatica si tirò su, una mano sullo stomaco, dove poche ore prima aveva scoperto di avere tanti… fori. avrebbe proprio voluto sapere che tipo di detriti le avevano lasciato quelle strane ferite.
    aprì la porta e iniziò a trascinarsi lungo il corridoio buio e quasi inquietante, erano pur sempre le tre di notte ed era quasi certa che non avrebbe trovato nessuno lì fuori a farle compagnia, beh in effetti quasi certa «…Paris» lo chiamò con tono piatto, fermandosi sul posto, pigiama a quadroni, capelli neri sciolti sulle spalle fino ad arrivarle ai fianchi, una faccia stanca e piedi scalzi «non riesci a dormire?» lui, che era stato coinvolto nel suo stesso incidente, lui che occupava i suoi sogni, unica cosa che rammentava di quei probabili incubi «come ti senti? sei ancora ammaccato?»
    si poggiò al muro, stanca di tenersi in piedi, quel maledetto dolore al torace a ricordarle che era lì per un motivo
    «sappi che…» «sappi che qualsiasi cosa sono lì» «qualsiasi cosa sono lì » disse, indicando con un cenno della testa la camera in cui l’avevano sistemata, com’era crudele il destino, le prime parole che rivolgeva a Paris erano come le ultime che gli aveva rivolto sul campo di battaglia.
    ma questo lei, non poteva saperlo

    Delilah
    Parker


    It takes my breath away
    Soft hearts, electric souls
    hothead
    “what are you looking at?”
    amnesia — 17 y.o, slyterin, confusedTake my picture now, shake it 'til you see it
    And when your fantasies become your legacy
    Promise me a place
    in your house of memories
    house of memories
    panic! at the disco
    moonmaiden, guide us
  4. .
    A little bad luck has taught me how to stand
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Avrebbe potuto farlo per ogni presunta frequentazione che portava a casa dai genitori, soltanto per far loro un dispetto o per reclamarne l’attenzione, quando non per trasformare la rabbia celata dietro il trucco sempre impeccabile in divertimento fine a sé stesso. Non lo aveva mai fatto: non era un suo diritto tanto quanto non lo era di nessun altro; si limitava ad essere un buon fratello nel terrorizzare tutte le compagnie che sapeva non essere opportune per Liz, stringendo i ranghi attorno alla maggiore per proteggerla dalle sue stesse scelte – sempre che questo significasse esserlo, un buon fratello. Aveva sempre sperato di sì – aveva sempre creduto che esserlo volesse dire prendersi cura di lei, e non soltanto amarla per com’era; rispettare ogni decisione che la facesse stare bene e anche quelle che facevano il contrario, fintanto che fossero state prese da lei e non dai demoni nella sua testa. Ma non c’era mai stato giudizio negli occhi cioccolato, né nelle mani a sfiorarle le ciocche dorate ad ogni rottura.
    Avrebbe potuto giudicarla quando era caduta in una spirale senza fine, vorticando attorno ad un buco nero dal quale solo ultimamente era riuscita a tirarsi fuori, aggrappandosi al primo fascio di luce disponibile. Chi in un modo e chi nell’altro, tutti lo facevano – tutti, gli dicevano che avrebbe dovuto farlo anche lui. Non ci era mai riuscito, non ci aveva nemmeno mai provato: si era lasciato trascinare sul fondo con lei, piuttosto, sciogliendo una pasticca dietro l’altra sotto la lingua e non potendo fare altro che capirla, e sentirglisi un po’ più vicino. Perché non c’era mai stato nulla di capriccioso o vizioso nei gesti della ragazza – piuttosto un bisogno, ed il modo più semplice per soddisfarlo; e tutte le volte che aveva potuto, l’avevano condiviso. Non c’era mai stato giudizio nei sorrisi poco lucidi, né nei glitter appiccicati tra un abbraccio e l’altro.
    Avrebbe potuto farlo quando era partita per la guerra. Avrebbe voluto farlo, nel momento in cui si era ritrovato con un semplice biglietto – un messaggio, niente più, per comunicargli fosse andata dove non poteva raggiungerla, e dal quale forse nemmeno sarebbe tornata. Ma anche allora, non ci era riuscito: si fidava di Liz più di quanto il buonsenso potesse suggerire di fare, e se l’aveva reputato necessario lo accettava. L’aveva odiata, forse; l’aveva voluta odiare perché non gli aveva detto niente, perché se aveva pensato alle conseguenze aveva ponderato anche l’ipotesi di rimanere nel fuoco incrociato e non aveva reputato opportuno salutarlo come si doveva, ma non era certo di essere stato in grado di fare nemmeno quello. Ed aveva fatto l’offeso, ovviamente aveva fatto l’offeso, perché era suo fratello ed era suo obbligo morale farle pagare in qualche modo il fatto di non avergliene parlato: era la sua vita, poteva fare quello che più riteneva giusto per sé; Balt voleva soltanto essere avvertito, finché poteva. Ma non c’era stato giudizio nel broncio appuntato sul viso del diciassettenne, né tantomeno nel silenzio che le aveva riservato per quei pochi giorni.
    Non avrebbe iniziato ad esserci, quel sentore di giudizio che chiunque poneva con tanta superficialità su Lissette Monrique, nemmeno in quel momento. Aveva pensato di sì, ed avrebbe voluto che fosse vero. Sarebbe stato più facile stare lì, davanti a lei, con i pugni affondati nei jeans e la visiera di un cappellino da baseball a coprire lo sguardo puntato sui fili d’erba ai propri piedi, se solo avesse deciso di riservarle tutto il proprio sdegno – perché avrebbe significato l’essere andati oltre all’odio, ed aver sublimato tutto il proprio rancore nell’indifferenza: non aveva mai creduto d’essere capace di una cosa del genere, ma c’era sempre una prima volta.
    Se chiudeva gli occhi, poteva ancora sentire ogni singola, e fottuta, cosa provata tre giorni prima.
    La felicità di aver ritrovato Wren, ed il non aver reputato importante il fatto che fosse stato messo a dormire per due mesi interi: stava bene, glielo avevano assicurato, e tanto gli bastava per portarlo fuori di lì tirandoselo sulla spalla – malgrado non ce la facesse, e la magia fosse più semplice in una situazione del genere; voleva stringerlo, e sentirlo vivo contro di sé, e tenerselo lì perché magari si sarebbe svegliato mentre lo trascinavano fuori ed avrebbe avuto lui al suo fianco.
    Lo sbigottimento, quando aveva visto Kaz e Clay impugnare le armi in favore dell’uomo che li aveva rapiti due mesi prima – un sentimento prettamente egoista, e superficiale: era andato lì anche per loro, il tassorosso; era andato lì per riportarli a casa, e non sarebbe successo.
    Il sollievo, perché tutti i suoi amici (i tibiavorio compresi) erano sani e salvi.
    La paura ad ogni battito troppo potente o troppo debole contro lo sterno, perché non voleva morire, e non aveva un singolo muscolo nel proprio corpo che lo aiutasse a tenersi in piedi come avrebbe dovuto.
    Il dolore di quelle mani premute sulle spalle, di quelle parole a fare più male di ogni colpo ricevuto – persino della pugnalata al petto. La sofferenza della propria voce a rompersi contro le pareti della gola, e ad uscire come singhiozzi privi di forma e senza lacrime a solcare tracciati tra il sangue.
    Cosa stai dicendo, Liz. Non potrei mai dimenticarti. Perché dovrei farlo? Cosa vuoi fare? Non mi lasci da solo, vero? Non puoi lasciarmi da solo, ti prego.
    Ricordava ancora il momento in cui gli era stata tolta la magia, la libertà, la sua scelta; quello in cui era caduto a terra, e di non essere riuscito a provare niente che valesse la pena di essere ricordato – confusione, vuoto, abbandono.
    Ma faceva più male sollevare gli angoli delle labbra, ed il capo per cercare le iridi chiare di Liz. Non perché fosse forzato, ma perché piuttosto era l’unica cosa che volesse fare: voleva che se lo ricordasse così, suo fratello. Voleva non sentirsi abbandonato, per quanto partendo per lo Sri Lanka avesse perso più di quanto avrebbe mai potuto immaginare; voleva rimanere stoico, con i denti stretti ed i nervi tesi per bloccare il prurito agli angoli degli occhi.
    Annullò quella poca distanza che c’era tra loro, e non le diede modo di allontanarsi per qualche stupido motivo che poteva funzionare solo e soltanto nella sua testa: le strinse le braccia attorno alle spalle prima che potesse opporsi, e nascose la testa nell’incavo del collo per qualche istante.
    In tutta la sua vita, Balt non aveva mai giudicato sua sorella.
    Non avrebbe iniziato a farlo per una scelta del genere; non se sarebbe stata bene, in pace con le proprie decisioni. Si era sempre preso cura di lei, ma mai quanto il contrario – non l’avrebbe potuta lasciare in altro modo, se non in quello.
    «te quiero, noona.» soffiò sulla pelle della bionda, occhi strizzati per impedire che uscisse anche solo una singola lacrima. Non le disse che non l’avrebbe mai dimenticata, né che non gli sarebbe mancata: non faceva promesse che non poteva mantenere, il Monrique. «vedi di diventare l’imperatrice di questo stupido posto. fatti valere.» deglutì, lasciando che il suo profumo gli si imprimesse addosso quanto più possibile prima di staccarsi da lei. «ci vediamo presto, va bene?» quelle parole uscirono un po’ più secche, ma non poté controllarlo: sapeva sarebbe tornato lì, e che non dipendesse da lui.
    Posò lo sguardo su Kaz, arretrando fino ad essere ad un passo dall’uscita della Bolla, due dita premute sulla fronte ed il sorriso stampato sulle labbra: non gli interessava cosa avessero scelto, era felice fintanto lo fossero anche loro; sperava soltanto che il lumocineta tenesse fede alla promessa, e che si prendesse cura della sorella al posto suo.
    Quando la Città scomparve alle sue spalle, dovette passare il palmo contro il viso e spingere sugli occhi: a quanto pareva, le lacrime non avevano più motivo di stare al loro posto.

    La cosa peggiore, fu credere fino all’ultimo che salutare Liz e gli amici rimasti al fianco di Lancaster sarebbe stata la cosa più difficile.
    Si era sbagliato, e se ne era reso conto quando la realtà che aveva deciso di ignorare gli si era abbattuta addosso con tutta la forza che il golem che avevano combattuto nel teocalli poteva soltanto sognare di possedere.
    Aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, quando lo aveva accolto in un’aula del Castello. Lo conosceva per la nomea che si era fatto nel corso degli anni all’interno della scuola, e perché non c’era una singola persona che il Monrique non conoscesse, ma dopo essere stato tra quelli che avevano contribuito a portarli fuori dalla piramide mesoamericana trovava terribilmente ironico – giusto, eppure così sbagliato – che fosse proprio lui a dirgli che non potesse più rimanere lì. Che non avrebbe più frequentato le lezioni di Hogwarts, che non si sarebbe mai diplomato, che non poteva più passare ogni istante della sua vita con i propri amici.
    Che doveva tornare a casa, parlarne con i suoi genitori, spiegare cosa fosse successo.
    Che era il loro unico figlio, che erano sicuramente preoccupati per lui.
    Allora aveva rischiato di sbottare a ridere in faccia a Mac, e di scoppiare in lacrime senza riuscire a fermarsi. Non voleva sembrare un pazzo nel dirgli che non fosse figlio unico – che sua sorella era lì dove il legionario aveva passato gli ultimi due mesi della sua vita, dove era andato per riprendersi un fratello che nessuno sapeva avesse tranne lui –, né disperato nel tranquillizzarlo – era più facile che i suoi genitori lo lasciassero in mezzo ad una strada, piuttosto che preoccuparsi di quel che gli era successo. Aveva chinato il capo perché non voleva che lo vedesse piangere, ma da qualche parte doveva aver fallito – forse nella superficialità con cui aveva creduto che all’ex battitore dei Corvonero non potesse fregare di meno: il suo era un copione, in fin dei conti, frasi fatte e di circostanza da riadattare in base alle esigenze; aveva sentito il sentimento con cui aveva condito quelle parole, ed aveva voluto che fosse per lui, ma crederci era un altro discorso. «non è la fine, balt.» annuì, ma senza alzare lo sguardo sul maggiore. «non sarà facile, ma non sei da solo. hai un gran bel gruppo di amici, no?» a quello assentì con più convinzione, felice al solo sentir nominare i Ben – ma.
    «è stato bello quello che avete fatto in bangladesh.» furono forse le prime, sicuramente le ultime, parole che rivolse al Hale, alzandosi dalla sedia sulla quale si era affossato sempre di più con un sorriso caldo sul volto tirato e stanco. «grazie.»
    Quello aveva fatto male, sì.
    Ma non quanto andare nel dormitorio mentre tutti gli altri erano a lezione di Incantesimi e fare davvero le valigie. Non quanto aspettarli laddove si erano incontrati prima di partire, senza voler guardare fuori dalla grande finestra oltre al pendolo, rimanendo con la testa affossata nelle ginocchia strette al petto – meno guardavano un volto che non riconosceva più nemmeno lui, e meglio era. Non doveva dir loro addio: avrebbe semplicemente vissuto fuori dal Castello, non lo avrebbero dimenticato una volta oltrepassato il cancello – «venite da me quest’estate? ad ibiza.» caso mai pensassero volesse tornare a Barcellona dai suoi –; allora perché lo sembrava? Un anticipazione di quello che Michael aveva profetizzato, che sentiva vibrare nel petto – torna a casa.
    Parlare con Mac non aveva fatto nemmeno male quanto far cadere tutte le valigie nel scontro, chiedere quello «scusa!» prima di rendersi conto a chi lo stava rivolgendo, e che questo lo guardava come se fosse uno studente qualunque? Alla fine quello era Balt, per il guardiacaccia: cosa ne poteva sapere Galen Acharya del fatto che in un giorno, un solo fottutissimo giorno, si fosse fidato più di lui che di quanto avesse mai fatto con Adam Monrique.
    Né aveva fatto male quanto passare davanti all’Aconitea, e sentire sulla bocca dello stomaco e nel petto che ci fosse qualcosa di sbagliato – come se poi se ne sarebbe sbattuto più di tanto le palle, il diciassettenne, che qualsiasi cosa fosse Wren facesse a pugni con qualsiasi cosa fosse lui ora: non avrebbe perso l’unica cosa che era riuscito a riportarsi a casa.
    Non aveva fatto minimamente male quanto lo aveva fatto tornate nella casa che aveva preso con Liz quando si erano trasferiti a Londra, e trovare tutte le sue cose ancora lì: a quel punto, non aveva potuto evitare di cadere a terra e piangere – e piangere, e piangere, fino a quando non ebbe più fiato in corpo per singhiozzare o acqua nei dotti lacrimali per irrigargli il volto.
    Trasse un profondo respiro, ed iniziò a raccogliere quello che aveva lasciato in giro sua sorella. Svuotò il proprio baule, e mise tutto quanto lì dentro, scrivendoci sopra il nome di lei: poteva pur finire per dimenticarla, ma prima o poi quegli averi avrebbero significato qualcosa. Così come avrebbe significato qualcosa quel diario di viaggio, tutte le informazioni e i vari Kaz è pompatissimo e Paris + Theo = </3 ma andrà meglio.
    Avrebbe significato qualcosa anche il ciondolo infilato nella collana – e anche non lo avesse fatto, l’importante era che in quel momento sapesse che la stellina appuntata al collo voleva dire che la avrebbe sempre avuta con sé.
    Fu nel sistemarsela, che posò lo sguardo sul suo viso riflesso nello specchio. Non lo aveva fatto davvero da quando si era risvegliato nella bolla; avrebbe preferito non farlo nemmeno lì. C’era... qualcosa di sbagliato. Fece scivolare le dita sulla pelle del viso, sulle labbra, sul naso, sugli occhi – forse non era nemmeno così sbagliato, soltanto tremendamente diverso; eppure uguale a com’era prima di partire, se non si consideravano le occhiaie e il colore meno acceso dell’incarnato. Chiuse con prepotenza gli occhi fino a sentire il dolore alla radice del naso, e quando li riaprì non guardavano più la propria immagine riflessa, ma una piccola scatolina abbandonata sul mobile.

    Ricordava la prima pasticca che aveva fatto sciogliere sotto la lingua, ma non se ce n’erano state delle successive. Supponeva di sì, perché non era ben certo di come fosse arrivato seduto sul prato dell’Aetas sotto il cielo stellato di Maggio.
    Aveva pianto? Ancora? Anche lì, poteva darsi una risposta soltanto premendo il polso sul viso: sentendolo umido, immaginava di sì – immaginava di aver solo creduto avesse finito, in casa, e che ne avesse ancora bisogno.
    Ma soprattutto: aveva chiamato lui Mimmo? O era stato l’italiano a chiamarlo? Oppure era lì di passaggio anche lui, a vagare senza alcuna meta? Battendo il palmo sull’erba accanto a sé per invitarlo a fargli compagnia, occhi liquidi e sorriso ebbro sul viso, decretò che non gli interessasse affatto.
    «sgodiamo?»
    baltasar
    monrique

    mom, dad
    i failed again
    chosen
    sacrifice
    what did
    you expect?
    nothing but an angel — hufflepuff — 2006It's taken my spirit
    It's taken the words out of my mouth
    I feel like I'm disappearing
    And all I ever seem to say is-
    down with my demons
    Lø spirit
    moonmaiden, guide us
  5. .
    più razionali e metodici dei berserker, i cacciatori studiano attentamente
    le loro prede prima di passare all’attacco, considerando ogni punto debole
    In bilancio, c'era più da guadagnarne che da perderne. A dirla tutta, se fosse stato per i soldi avrebbe probabilmente evitato di arrivare al punto di prendere un incarico come quello - immischiarsi in quel casino epocale non valeva tutti i soldi del mondo - ma per riscuotere un favore in famiglia, si sarebbe impegnata a tornare viva con le unghie e con i denti.
    E poi c'erano anche le richieste del committente, naturalmente.
    Quanto poteva essere difficile ripescare due persone scomparse da così poco tempo?
    Molto, in realtà, visto quanto era stupidamente complicata tutta quella faccenda.

    Sbuffò, passandosi una mano fra i capelli mentre sbatteva pigramente i fascicoli sul tavolino da caffè. Era seduta a terra, perché il divano aveva iniziato a starle stretto mezz'ora prima e preferiva di gran lunga stiracchiare le gambe sulle piastrelle.
    C'era da guadagnarne, sì, ma ne valeva la pena?
    Forse era solo lei che non sapeva quando smettere di dire di sì. Come se quella vita non fosse già pericolosa di per sé - la vita che si era scelta, cercava di rammentarselo il più spesso possibile. Avrebbe potuto fare la bella vita campando di rendita ma alla fine aveva deciso che voleva guadagnarsi l'esistenza, che il mestiere di famiglia le piaceva e via discorrendo, tutte cose che si possono bene immaginare.
    Non che avesse rimpianti. Diciamo solo che aveva avuto committenze migliori in termini di sicurezza dell'esito, da quando aveva iniziato, il che era tutto dire. La ciliegina sulla torta, per capirci, era arrivata quando il cliente l'aveva contattata saldandole un'extra per provare, se le circostanze l'avessero permesso, a guardare le spalle a un suo familiare che si sarebbe arruolato in quella missione per conto dello stupido Ministero inglese.
    Insomma, un casino? Un casino.

    E poi Cal le aveva chiesto quel favore.
    E ancora una volta non aveva saputo dirle di no, forse perché per tutte le dritte che le aveva dato e i favori che le aveva fatto senza mai chiedere un contraccambio, sentiva di doverglielo.
    Doveva incontrare una persona, le aveva detto. L'ennesima che aveva perso un familiare per colpa di quei rapimenti, l'ennesima che si sarebbe messa in mezzo in prima linea pur di fare tutto il possibile per riavere un proprio caro. Sapeva che avrebbe dovuto provare un minimo di distacco verso quelle situazioni, che sarebbe stato molto più sano, ma per una volta non ce la faceva davvero - era un'idea stupida a dir poco, ma avrebbe fatto la stessa identica cosa se si fosse trovata in una posizione del genere, avrebbe potuto scommetterci una mano.

    Ekaterina era stata invitata direttamente dalla Desjardins a raggiungerla nella sua stanza d'hotel, quel pomeriggio. Un albergo come tanti se ne trovavano a Londra, dal medio decoro, anonimo. Inutile dire che entrambe erano abituate a tanto di meglio, ma per quella volta Serah si stava accontentando, in attesa di tempi migliori.
    Qualora fosse arrivata attorno all'elastico orario stabilito, le sarebbe bastato chiedere alla reception, ove era già noto che Sherry Glasgow attendeva un'ospite con un preciso nominativo. Naturalmente Serah non andava in giro a lasciare il suo nominativo, o qualunque altra traccia documentale o meno del suo passaggio che rimandasse alla sua identità autentica, come se nulla fosse. Nemmeno Ekaterina, per forza di cose, sapeva chi di preciso stesse per incontrare. Le avrebbero indicato il piano e il numero della stanza, poi le sarebbe stato sufficiente bussare.
    Inutile specificare che la mademoiselle non teneva d'occhio l'orologio da almeno un'ora e mezza e, assorta com'era a ripassare sulle sue scartoffie solite, si sarebbe beccata un infarto alla prematura età di ventotto anni.
    séraphine
    desjardins

    why be a wallflower when
    you can be a venus fly trap?
    GUERRIERO CACCIATORE
    [ rimuove 5-10 pd da difesa avversaria ]
    SPECIAL
    MAGO
    rich girl — hitman — mercenaryi got the beauty, got the brains
    got the power, hold the reins
    i should be motherfucking crazy
    nothing in this world could change me
    venus fly trap
    marina
    moonmaiden, guide us


    Edited by .izével - 6/4/2024, 01:46
  6. .
    Olga Ivanovska
    MATRICOLA
    Rogue lame mortali

    Coltello
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali (nzomma, sono vicina al TSO)
    prendo i pe per: gruppo II (credo)


    Edited by O' Tir a Cir - 5/4/2024, 22:21
  7. .
    AMARANTH NOTT
    Apprendista
    Guerriero Cacciatore

    Ama: pirocinesi/ Pistola
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
  8. .
    Delilah ParkerIvette Beaumont
    mago
    guerriero cacciatore

    delilah : mazza chiodata
    ivette: mitragliatrice
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    Myrtille RouxErisha Byrne
    Mago
    difensore anatema

    myrt: balestra, licantropo
    erisha: google dice spada, geocinesi
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    Liz MonriqueEkaterina VITALYEVNA VOLKOVA
    Mago
    sentinella seguace di arda

    liz: rhino revolver
    kat: arco e frecce, manipolazione del ghiaccio
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    Lilith nightshadeKul Oh
    apprendista
    rogue sanguinario

    Lilith: stella del mattino, emissione di onde sonore
    kul: ak-47, ombrocinesi
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo II


    Edited by chamomile.tea - 5/4/2024, 18:04
  9. .
    MIMMO MALATESTALelouch blanchard
    Apprendista
    Difensori Anatema

    mimmo: scudo
    lelouch: spada corta/ARTEMOKINESIS
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
  10. .

    PRELEVI?
    (portfolio attualmente inattivo:
    basta un pollice alzato in questo post!)



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    per qualsiasi problema, contattami!
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    prima di fare cambiamenti drastici, avvisami.





    vrs. scura



    Warlocks in service to fiends work towards corrupting, destructive ends,
    intentionally or otherwise, and receive hellish blessings in turn.
    No live organism can continue for long to exist sanely under conditions of absolute reality; even larks and katydids are supposed, by some, to dream. Hill House, not sane, stood by itself against its hills, holding darkness within; it had stood so for eighty years and might stand for eighty more. Within, walls continued upright, bricks met neatly, floors were firm, and doors were sensibly shut; silence lay steadily against the wood and stone of Hill House, and whatever walked there, walked alone.
    Dr. John Montague was a doctor of philosophy; he had taken his degree in anthropology, feeling obscurely that in this field he might come closest to his true vocation, the analysis of supernatural manifestations. He was scrupulous about the use of his title because, his investigations being so utterly unscientific, he hoped to borrow an air of respectability, even scholarly authority, from his education. It had cost him a good deal, in money and pride, since he was not a begging man, to rent Hill House for three months, but he expected absolutely to be compensated for his pains by the sensation following upon the publication of his definitive work on the causes and effects of psychic disturbances in a house commonly known as "haunted." He had been looking for an honestly haunted house all his life. When he heard of Hill House he had been at first doubtful, then hopeful, then indefatigable; he was not the man to let go of Hill House once he had found it.
    Dr. Montague's intentions with regard to Hill House derived from the methods of the intrepid nineteenth-century ghost hunters; he was going to go and live in Hill House and see what happened there. It was his intention, at first, to follow the example of the anonymous Lady who went to stay at Ballechin House and ran a summer-long house party for skeptics and believers, with croquet and ghost-watching as the outstanding attractions, but skeptics, believers, and good croquet players are harder to come by today;
    Dr. Montague was forced to engage assistants. Perhaps the leisurely ways of Victorian life lent themselves more agreeably to the devices of psychic investigation, or perhaps the painstaking documentation of phenomena has largely gone out as a means of determining actuality; at any rate, Dr. Montague had not only to engage assistants but to search for them.
    wyll ravengard
    the blade of frontiers

    Those people look at me, and they see a hero.
    Imagine how bad they'd feel if they were wrong.
    warlock
    the fiend
    human
    lvl 12
    hailing from baldur's gate — folk hero — romanceableWhen I was a child, I never felt like a child
    I felt like an emperor with a city to burn
    I got down on my knees, begged the men in the trees
    To give me an answer, je ne peux pas comme ça
    caesar on a tv screen
    the last dinner party
    Mother of Night, darken my step


    HTML
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    <td colspan="2" align="center" style="font-size:9px;text-transform:uppercase;font-weight:bold;border-radius:5px;border:1px solid #222" bgcolor="#101010">DESCRIZIONE DEL BONUS QUI. PER CAPIRCI, è QUELLA CHE TROVI SU SFONDO BIANCO NEL REGOLAMENTO COMBATTIMENTI.
    </td>
    </tr>

    <tr>
    <td style="text-align:justify;padding:0"><div style="overflow:auto;height:153px;padding-right:3px"> SCRIVI QUI LA ROLE
    <span style="color:#COLOREPG;font-weight:bold">«PARLATO»</span>

    </div></td>
    <td rowspan="2" width="50%" style="border-radius:5px;border:1px solid #222" bgcolor="#101010"><table width="100%" style="font-size:9px" cellspacing="0" cellpadding="10">

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> <span style="color:#COLOREPG">NOME</span>
    COGNOME </td>
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    <td colspan="3" align="center" style="text-transform:lowercase"> <i class="fas fa-quote-left" style="font-size:16px!important;line-height:25px;color:#333"></i>
    MINIQUOTE
    RIMANI SU 2 RIGHE
    </td>
    </tr>

    <tr>
    <td width="42%" style="padding:10px 0"> <div style="background:#222;height:1px;width:auto"></div> </td>
    <td width="16%" style="padding:10px 0" align="center"><div style="border-radius:100%;padding:3px;border:1px solid #222"> <i class="fas fa-ICONPG" style="padding:10px;background:#COLOREPG;border-radius:100%;font-size:11px;color:#eee"></i> </div> </td>
    <td width="42%" style="padding:10px 0"> <div style="background:#222;height:1px;width:auto"></div> </td>
    </tr>

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> <span style="color:#COLOREPG">CLASSE</span>
    BONUS </td>

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> MAGO/SPECIAL
    MATRICOLA/APPRENDISTA/MAGO/LEADER/MASTER </td>
    </tr>
    </tr>

    </table></td>
    </tr>

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    QUOTE
    QUOTE
    <span style="color:#COLOREPG;font-weight:bold">QUOTE</span>
    </td>
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    TITOLOCANZONE
    NOMEARTISTA
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    <td colspan="2" align="center" style="font-size:9px;text-transform:lowercase"><span style="border:1px solid #222;background-color:#101010;padding:2px 8px 4px 4px;border-radius:9px;">[URL=https://lia.blogfree.net/]<i class="fa-solid fa-moon" style="font-size:6px;padding:3px 4px;background:#COLOREPG;color:#eee;border-radius:100%"></i>[/URL] Mother of Night, darken my step</span></td>
    </tr>


    </table>


    vrs. chiara



    A domain shared by wicked, chaotic, and mischievous deities alike,
    those who channel Trickery specialise in deception and illusion magic.
    No live organism can continue for long to exist sanely under conditions of absolute reality; even larks and katydids are supposed, by some, to dream. Hill House, not sane, stood by itself against its hills, holding darkness within; it had stood so for eighty years and might stand for eighty more. Within, walls continued upright, bricks met neatly, floors were firm, and doors were sensibly shut; silence lay steadily against the wood and stone of Hill House, and whatever walked there, walked alone.
    Dr. John Montague was a doctor of philosophy; he had taken his degree in anthropology, feeling obscurely that in this field he might come closest to his true vocation, the analysis of supernatural manifestations. He was scrupulous about the use of his title because, his investigations being so utterly unscientific, he hoped to borrow an air of respectability, even scholarly authority, from his education. It had cost him a good deal, in money and pride, since he was not a begging man, to rent Hill House for three months, but he expected absolutely to be compensated for his pains by the sensation following upon the publication of his definitive work on the causes and effects of psychic disturbances in a house commonly known as "haunted." He had been looking for an honestly haunted house all his life. When he heard of Hill House he had been at first doubtful, then hopeful, then indefatigable; he was not the man to let go of Hill House once he had found it.
    shadowheart
    the daughter of darkness

    two gods tugged at her soul,
    but she managed to keep it for all herself in the end.
    cleric
    domain of trickery
    high half-elf
    lvl 12
    house of grief — shar's favorite princess — acolyteWhen I decided to wage Holy War
    It looked very much like staring at my bedroom floor
    But, oh God, you're gonna get it
    You'll be sorry that you messed with me
    girls against god
    florence + the machine
    moonmaiden, guide us



    HTML
    <table bgcolor="#fafafa" cellpadding="5" cellspacing="5" width="100%" style="width:500px;color:#666;font-size:11px;line-height:14px;font-family:nunito, sans-serif">

    <tr>
    <td colspan="2" align="center" style="font-size:9px;text-transform:uppercase;font-weight:bold;border-radius:5px;border:1px solid #e9e9e9" bgcolor="#f4f4f4">DESCRIZIONE DEL BONUS QUI. PER CAPIRCI, è QUELLA CHE TROVI SU SFONDO BIANCO NEL REGOLAMENTO COMBATTIMENTI.
    </td>
    </tr>

    <tr>
    <td style="text-align:justify;padding:0"><div style="overflow:auto;height:153px;padding-right:3px"> SCRIVI QUI LA ROLE
    <span style="color:#COLOREPG;font-weight:bold">«PARLATO»</span>

    </div></td>
    <td rowspan="2" width="50%" style="border-radius:5px;border:1px solid #e9e9e9" bgcolor="#f4f4f4"><table width="100%" style="font-size:9px" cellspacing="0" cellpadding="10">

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> <span style="color:#COLOREPG">NOME</span>
    COGNOME </td>
    </tr>

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="text-transform:lowercase"> <i class="fas fa-quote-left" style="font-size:16px!important;line-height:25px;color:#ddd"></i>
    MINIQUOTE
    RIMANI SU 2 RIGHE
    </td>
    </tr>

    <tr>
    <td width="42%" style="padding:10px 0"> <div style="background:#e9e9e9;height:1px;width:auto"></div> </td>
    <td width="16%" style="padding:10px 0" align="center"><div style="border-radius:100%;padding:3px;border:1px solid #e9e9e9"> <i class="fas fa-ICONPG" style="padding:10px;background:#COLOREPG;border-radius:100%;font-size:11px;color:#e9e9e9"></i> </div> </td>
    <td width="42%" style="padding:10px 0"> <div style="background:#e9e9e9;height:1px;width:auto"></div> </td>
    </tr>

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> <span style="color:#COLOREPG">CLASSE</span>
    BONUS </td>

    <tr>
    <td colspan="3" align="center" style="font-weight:bold;text-transform:uppercase"> MAGO/SPECIAL
    MATRICOLA/APPRENDISTA/MAGO/LEADER/MASTER </td>
    </tr>
    </tr>

    </table></td>
    </tr>

    <tr>
    <td style="padding:0;background:url(LINKGIF) center;border-radius:5px;height:130px;background-size:cover">[URL=CREDITIGIF]<div style="width:242px;height:130px"></div>[/URL]</td>
    </tr>

    <tr>
    <td align="center" style="font-size:9px;text-transform:lowercase;border-radius:5px;border:1px solid #e9e9e9" bgcolor="#f4f4f4"> INFORMAZIONE — INFORMAZIONE — INFORMAZIONE </td>
    <td rowspan="2" align="center" style="font-size:9px;text-transform:lowercase;border-radius:5px;border:1px solid #e9e9e9" bgcolor="#f4f4f4"> QUOTE
    QUOTE
    QUOTE
    <span style="color:#COLOREPG;font-weight:bold">QUOTE</span>
    </td>
    </tr>

    <tr>
    <td align="left" style="font-size:9px;text-transform:lowercase;border-radius:5px;border:1px solid #e9e9e9" bgcolor="#f4f4f4"><table width="100%"><tr><td width="15%" align="center"><i class="fa-solid fa-volume-low" style="font-size:10px"></i> </td><td width="85%">
    TITOLOCANZONE
    NOMEARTISTA
    </td></tr></table></td>
    </tr>

    <tr>
    <td colspan="2" align="center" style="font-size:9px;text-transform:lowercase"><span style="border:1px solid #e9e9e9;background-color:#f4f4f4;padding:2px 8px 4px 4px;border-radius:9px;">[URL=https://lia.blogfree.net/]<i class="fa-solid fa-moon" style="font-size:6px;padding:3px 4px;background:#COLOREPG;color:#eee;border-radius:100%"></i>[/URL] moonmaiden, guide us</span></td>
    </tr>


    </table>
  11. .
    PRELEVI?
    (non troverai assolutamente nulla in questo pf.
    basta un pollice alzato in questo post!)

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    per qualsiasi problema, contattami!
    * sconsigliato se non si ha una conoscenza base di html.
    prima di fare cambiamenti drastici, avvisami.


    grazie a lia per questo modulino




    Tvättbjörn Cömmstaj
    22.12.2003
    modalen, no
    special muggle
    neutral
    nome & cognome: Che Agnes Cömmstaj non avesse tutte le rotelle al proprio posto, avrebbero dovuto tutti – laddove, per tutti, si intende la discreta popolazione di Modalen, Norvegia – comprenderlo sia dalla sua smania di avere più figli che mucche nelle stalle del marito (e ne aveva tante, Sal-Hund), sia dai peculiari nomi che aveva deciso di appioppare ad ogni nuovo arrivo nella famiglia. E sempre quei tutti, avrebbero dovuto intuire che fossero dei cuccioli sperduti ed accalappiati dalla coppia nordeuropea – anche fosse solo per il fatto che venivano chiamati come delle bestie. Letteralmente: Tvättbjörn, nella lingua dei fiordi, è traducibile come procione comune; almeno gli ha detto meglio di altri figli dei Cömmstaj, a cui è toccato chiamarsi Ragno o Mosca, ma in norvegese. Scarse sono, invece, le informazioni riguardanti la stirpe di cui il babbano porta il cognome: poco comune, nuovo nel comune del Vestland, ma sicuramente più noto dato il quantitativo di giovani leve che lo portano come condanna. Per quanto, nonostante tutto, ami il proprio nome – soprattutto data la sua unicità, l’insita impossibilità ad essere confuso con altri in quel di Londra od Hogwarts –, Tvättbjörn è più solito presentarsi come Twat, diminutivo trovato per lui da altri che avevano troppa difficoltà a cimentarsi con il linguaggio nordico.
    data & luogo: Gli aneddoti familiari narrano che non fosse previsto: i coniugi, in attesa del loro quarto figlio, non avevano mai fatto dei veri e propri controlli riguardo quella gravidanza. Giusto quelli strettamente necessari, ma era sempre una toccata e fuga; come potevano sapere che non ci fosse solo una bestia a nutrirsi della matriarca, ma bensì due? Certo, non potevano – lo scoprirono direttamente quando il primo disgraziato, Björn, fu espulso dal corpo di Agnes ed il medico disse loro che, herregud!, c’era un’altra testolina lì, a fare capolino. Erano le 07:04 del 22 dicembre del 2003, nel minuto esatto in cui il solstizio d’inverno aveva luogo, quando i gemelli vennero al mondo in quel di Molden, un piccolo comune dimenticato da Dio e dalla stessa contea del Vestland. E sarebbe stato tutto vero, se solo Tvättbjörn ed il gemello – come la stragrande maggioranza degli altri fratelli, escluso Edderkopp – non fossero stati adottati, o per meglio dire trovati, anziché essere stati partoriti.
    razza: Babbano fino al midollo, Tvättbjörn Cömmstaj, ed in qualsiasi vita egli abbia vissuto: nessuna discendenza magica a poter istillare il dubbio di un gene sopito, nessuna generazione spontanea di poteri da mezzosangue nato babbano; nulla di nulla. Se non fosse stato trascinato nei Laboratori, probabilmente avrebbe vissuto e sarebbe morto felicemente come tale.
    potere: Emocinesi, la capacità di manipolare il sangue proprio ed altrui a proprio piacimento; per il Cömmstaj, una vera e propria maledizione. E non soltanto per i diversi disturbi che ha portato con sé: soprattutto, anzi, perché la gente continua a chiedergli se, per caso, al sole brilli come il professor Quinn. Giusto per informazione, la risposta è no.
    allineamento: Twat non si identifica in nessun allineamento – dal momento che, a dire il vero, l’unico a cui potrebbe essere interessato è quello planetario ed al quale, essendo nato troppo presto di quattrocento anni (o troppo tardi di millecinquanta), purtroppo non potrà mai assistere. Si ritiene neutrale, ancora troppo estraneo al mondo magico per poterlo analizzare da un punto di vista più razionale; a voler essere onesti, nemmeno gli interessa più di tanto.
    istruzione: Purtroppo, la vita grama gli ha impedito di conseguire gli studi che più avrebbe potuto approfondire – ingegneria aerospaziale, così da potersi costruire uno shuttle monoposto con cui lanciarsi nello spazio e non fare mai ritorno sulla Terra. In compenso, una volta uscito dai Laboratori, gli è stata donata una casacca viola ad Hogwarts ed una bella spilla a forma di lira, che lo colloca tra le file dei Vega, negli Ivorbone.
    Semplice, ordinario: basterebbero davvero questi unici due aggettivi per descrivere fisicamente Tvättbjörn Cömmstaj. Magari poteva non esserlo a Modalen, Norvegia, dove lo standard era fissato sull’individuo alto, chiaro come un raggio di luna, con fili dorati al posto dei capelli e zaffiri o smeraldi nei bulbi oculari – ma anche lì la propria famiglia era sempre un po’ stata l’eccezione alla regola, tanto che spesso e volentieri gli veniva chiesto da dove si fossero trasferiti i genitori e tutto il resto della mandria.
    Non c’è nulla nell’estetica dell’emocineta che enfatizzi la sua presenza tra la folla, ed è sempre molto propenso a nascondersi dietro felpe più lunghe e larghe di lui pur di mimetizzarsi al meglio, piuttosto che risultare appariscente in alcun modo possibile; semplicemente perché non si confà all’indole del giovane, di per sé discreto ed anonimo. D’altronde, dovrebbe davvero esagerare per mettersi in mostra – e già ritiene che il portare un orecchino e tutti quei gingilli ai polsi sia eccessivo in tal senso –: alto appena un metro e sessantotto, Twat ha sempre dovuto preoccuparsi maggiormente delle gomitate in faccia casuali che non del fatto nessuno lo notasse; si sarebbe fatto considerare per i propri meriti, prima o poi, e non perché alto nella media o poco più.
    L’incarnato olivastro era forse ciò che più poteva richiamare l’attenzione altrui, ma solo se si pensava alle sue origini nordeuropee: i tratti meridionali, dal taglio degli occhi al colore degli stessi – di una morbida tonalità tra l’ebano ed il cioccolato fuso, caldo più di quanto Tvättbjörn avesse mai compreso in due intere vite, e più espressivi di ogni parola uscita dalle labbra del ragazzo o delle smorfie a tirarne la pelle –, alle sfumature di castano più soffice tra i bruni capelli mossi, scuri quanto le folte sopracciglia, finanche alle labbra piene, carnose; nulla di tutto ciò, potrebbe ricondurlo alla penisola scandinava. Il fisico è fin troppo asciutto, privato di un’adeguata nutrizione per sette anni, ma tonico quanto basta da non essere spazzato via da una violenta folata di vento – seguiva lezioni di ballo durante la propria infanzia, ed il tenersi in allenamento durante la prigionia lo aiutava a non uscire fuori di testa.
    Alla fine, potrebbe tranquillamente passare invisibile ed inosservato; uno come tanti, nascosto senza doversi celare – e va bene così, fintanto che gli consenta di sopravvivere.
    (fam: tvättbjörn cömmstaj) Agnes e Sal-Hund, meglio noti come la Matrona e l’Uomo, sono le due Entità che hanno allevato il biondo ed i suoi fratelli – anche definiti genitori dagli altri; Løve, Edderkopp, Mygg – i fratelli (e sorella) maggiori: gente decisamente troppo strana, a volte piacevole ma nemmeno troppo – ; Björn, il presunto fratello gemello ma con il quale, nonostante di sangue non ne condividessero nemmeno una singola goccia, aveva sempre avuto un legame speciale ed unico; Sauer, Geit, Esel, conosciuti come le bestie minori – ma non per questo, le meno problematiche. Fun fact: per quanto ne sapeva Twat, erano tutti morti. (2043!fam: dexter chesterton stilinski-milkobitch) Suzanne e Ken Chesterton, i genitori biologici di Dexter – due comunissimi saccheggiatori babbani, che durante il sesto anno di vita del figlio hanno ben pensato di abbandonarlo in un camioncino a fare l’hacker improvvisato, facendosi uccidere in una rapina andata male. Jeremy Milkobitch e Andrew Stilinski hanno senza dubbio fatto più da genitori, adottandolo, di quanto non abbiano fatto quelli naturali. Levi (Mckenzie Hale), suo coetaneo e come lui adottato dai #bitchinski, è uno tra gli esseri umani preferiti da Dex, se non il preferito: non lanci i tuoi fratelli - Sander (Barnaby Jagger), Juno (Reagan Lynch), Ray (Zachary Milkobitch), Julie: vi si vuole bene - da una catapulta con una persona qualsiasi. E poi ci sono un sacco di cugini. (animals) escludendo parenti vari e di cui non sa l'esistenza? okay. Una stupida capra, e nemmeno sua. Alejandro Pastina era la Bestia di suo fratello e di Roan – di chi altri poteva essere, con un nome simile? – ai loro tempi di Hogwarts, e che disgraziatamente è passata in eredità al babbano ed a Willow Beckham. Tra le abilità dell’ovino, troviamo: la capacità di rompere il cazzo a qualsiasi ora; l’espulsione di feci poco profumate sui letti di poveri disgraziati qualsiasi; raccapriccianti urla nel cuore della notte e nel buio più totale. Il Cömmstaj, convinto che Björn sia morto, è alquanto certo che Pastina sia posseduta dallo spettro del defunto gemello, tornato dall’aldilà solo per tormentarlo fino alla fine dei propri giorni. Fortuna che quella di Twat non è una lunga aspettativa di vita. (particular signs) Tvättbjörn è cleptomane da che possiede una memoria cui attingere: un’ossessione, un disturbo nevrotico, che ha dal momento nel quale ha imparato a stare in piedi ed a manipolare gli oggetti con facilità, piuttosto che affidarsi ad una blanda e semplice prensione. I motivi gli sono ancora oscuri; forse un feedback della sua vita passata, nella quale era stato allevato come un piccolo ladro ed in cui aveva usato certi insegnamenti per sopravvivere fino a che qualcuno non gli aveva mostrato potesse fare meglio di così – essere meglio di così. Quel che è assai più probabile, se non certo, è che s’incastra perfettamente con quel principio di disturbo antisociale della personalità che, dal tardo duemiladiciotto, ormai lo attanaglia sempre più marcatamente – non abbastanza da essere completamente invalidante, o diagnosticabile alla giovane età di sedici anni, ma comunque presente. Si definisce asessuale, mancando di qualsiasi impulso che contraddistingue invece la stragrande maggioranza dei suoi coetanei, nonché agnostico: avendo una mente che fa affidamento al metodo scientifico per ogni aspetto dell’esistenza, ritiene semplicemente di non avere abbastanza prove concrete né per credere in una fede piuttosto che in un’altra, né per affermare con assoluta certezza l’inesistenza assoluta di una qualsiasi divinità. Ciononostante, è fortemente affascinato dall’occulto, e se c’è da prendere parte a qualche rito – che sia satanico o meno, fa differenza fino ad un certo punto –: tutta colpa dei norvegesi da cui proviene. È un discreto collezionista, che ben si abbina al furto frenetico ed incondizionato; al momento, ciò che più lo affascina sono i coltelli di ogni genere e forma – e c’è chi dice addirittura ne abbia fin troppi –, i gioielli e la bigiotteria – in particolar modo, anelli e bracciali. Ha una cicatrice che gli percorre il busto da poco sopra lo sterno fino all’ombelico, nell'inquitante forma di una runa che non ha interesse di studiare. Ama la danza in ogni sua forma e stile, potrebbe tranquillamente cimentarsi in ogni tipo di ballo con facilità; l’unica in cui eccelle, però, è quella moderna.
    blood's thicker
    “Du er annerledes.” tre parole, scandite con estrema semplicità e naturalezza, ogni volta che da più piccolo alzava il capo a cercare gli occhi della madre – senza mai trovarli; facendosi per forza di cose bastare la larga schiena della donna impegnata in chissà quale attività casalinga: il massimo che aveva mai ottenuto da lei erano stati sguardi vaghi da sopra la spalla, ma mai veri o realmente rivolti al Cömmstaj. Se non fosse sempre stato così attento ai dettagli, minuzioso non solo nei gesti ma anche nelle occhiate rivolte ad un intero mondo da scoprire e conquistare, avrebbe potuto chiedersi quali fossero le sfumature dell’iride di Agnes senza mai riuscire a trovare una risposta. Se Tvättbjörn avesse considerato l’accontentarsi come una valida alternativa nella propria vita, se non ci fosse stata quella cocente ambizione e fervente curiosità ad alimentare ogni suo anelito di fiato, sarebbe probabilmente rimasto soddisfatto – come il resto dei suoi fratelli – delle attenzioni e premure che i genitori davano loro tutti, ritenendole genuine e spontanee. Ma uno dei migliori pregi, nonché forse il peggior difetto che potesse mai ambire d’annoverare nella lunga lista delle proprie imperfezioni, era proprio quell’insoddisfazione che non gli permetteva, in alcun modo possibile, di bearsi di quel che l’occhio vedeva; doveva, deve continuamente, scavare sempre un po’ più a fondo per raggiungere le vette più alte – su cui mettere lo stendardo di una nuova occupazione, o dalla quale osservare meglio il creato.
    Per questo quelle singole tre parole non avevano mai sorbito davvero alcun effetto in Twat: di essere diverso, l’aveva sempre saputo; strano dicevano alcuni, ma non gli importava. Lo aveva capito quando si era messo in piedi per la prima volta, a dispetto di un Björn che a malapena aveva compreso di avere delle appendici alla fine di quei salsicciotti che volgarmente considerava gambe; nell’istante seguente, l’epifania era divenuta un dato di fatto – consolidata, se non altro, dagli sguardi sorpresi ed allibiti dei vari Cömmstaj presenti alla sua prima corsa camminata verso le braccia aperte del padre. Di non essere come tutti gli altri, ne era felice. Se ciò significava che a differenza loro non riusciva ad accontentarsi di quel che gli veniva posto davanti, ma aveva la costante e fremente necessità di allungare la mano verso quel che teneva il suo vicino – non per gelosia, ma per semplice piacere nello scoprire cosa ci fosse di diverso dal suo, nel conoscere profondamente tutte le varie sfaccettature della realtà che non si confinavano ad una vista con il paraocchi –, a lui andava bene essere quello strano. Disinteressato alle normali attività dei suoi coetanei perché più avanti di tutti loro; non più intelligente quanto più sagace e lungimirante, più svelto nell’apprendere e nel capire il funzionamento del mondo; scientifico al limite dello snervante, sempre pronto a sperimentare a costo dell’etica e del buonsenso pur di annoverare un altro successo nella propria lista di vittorie. Se significava essere un emarginato, se tutto questo giustificava gli sguardi mancati con gli altri ragazzi quando era lui ad alzare il capo – solo per poi risentirli puntati contro la nuca mentre era lui a distoglierlo –, poteva farselo andar bene.
    Poteva, tutto ciò, oscurare quanto di negativo ci fosse nell’essere trattato come un utstøtt sin da bambini, e dalla propria famiglia. Poteva fingere di ottenebrare – ed addirittura riuscire a farlo, almeno in alcuni casi – tutti i lati svantaggiosi di quell’incontentabilità, dai motivi scatenanti agli effetti provocati.
    Come, ad esempio, quel senso di solitudine perenne che lo rende bisognoso di affetto e attenzioni che non vuole: non li cerca, né l’uno né le altre, perché non ha alcuna idea di come farlo. Non sa come guadagnarseli, perché sente di non essere capito il più delle volte; non sa come rapportarcisi, perché nessuno glielo ha mai spiegato. Autonomo da quella prima volta in cui si è reso migliore tra gli altri, Tvättbjörn Cömmstaj non è mai più stato considerato come qualcuno a cui andassero spiegate le cose basilari – come essere sociali, per dirne una. Come inserirsi in un contesto che prevedesse interazioni che non si basassero unicamente sulla scienza, quanto più sulla connessione umana; come essere in grado di rapportarsi all’altro.
    Erano tutte cose che, per quanto ne leggesse e ne avesse letto al riguardo, il giovane Cömmstaj sentiva di non comprendere – d’altronde lo dicevano tutti, che non erano argomenti che potessero essere studiati solamente nella teoria; nella pratica, ne era sempre stato carente. Prima perché troppo distante, poi perché troppo isolato: se in partenza Twat non era mai stato davvero stimolato dai propri genitori ad intraprendere dei rapporti interpersonali, sentendosi allontanato dagli stessi tranne quando avevano da premere su quei punti del suo intelletto per cui risultava importante, la reclusione forzata all’interno dei Laboratori non ha fatto altro che renderlo ancora più solitario, incapace anche solo di dire se ci sta provando.
    Fondamentalmente, il norvegese non può definirsi né buono né cattivo – certo che comunque non esista nessuno dei due estremi e solo sfumature tra loro. Si colloca nel mezzo, in quella sottile linea di perenne crepuscolo, perché troppo consapevole di se stesso: è quel tipo di persona che punta sempre al premio più alto, perché sa di essere il peggiore; sa di non essere prevedibile, non più, nemmeno al proprio sguardo riflesso nel vetro, per cui l’idea di non doversi standardizzare ad alcun canone lo fa vivere meglio – per quanto concesso. Ma forse deve anche a questo suo aspetto, la capacità di adattarsi a qualsiasi situazione gli venga posta davanti.
    Può essere tutto e può essere nulla, Tvättbjörn Cömmstaj.
    Di solito, sceglie di esserli contemporaneamente – come un maledetto gatto di Schrödinger.
    21.12.2012

    «nome e cognome,» il giovane norvegese cercò di sporgersi, sollevando entrambe le castane sopracciglia in direzione dell’uomo – ragazzo, per la precisione – con il camice; dati i diversi cavi che lo collegavano ad un macchinario che non aveva mai visto in precedenza, e che lo costringevano contro la sedia d’acciaio inossidabile, la sua fu una pretesa stupida: poté a malapena portare in avanti l’esile busto, senza minimamente riuscire ad avvicinarsi.
    Alla sua richiesta, Tvättbjörn Cömmstaj non rispose: perché avrebbe dovuto? Non gli era concesso parlare agli estranei, e anche se così non fosse stato aveva abbastanza buonsenso, malgrado la tenera età, da non fidarsi ciecamente di uno sconosciuto in una stanza sterile ed asettica. Si limitò a spingere le spalle contro il duro schienale, un velo d’incertezza e dovuto timore a piegargli le labbra in un broncio infantile; le iridi celesti, però, non lasciavano mai il profilo dell’adulto.
    «allora?» deglutì. Gli faceva male la testa; gli facevano male le braccia e le gambe, e qualcosa – sesto senso, o semplice intuito – gli suggeriva che quel dolore non era che l’inizio di una terribile esperienza. Magari, rispondendo, avrebbe fatto finire tutto molto più velocemente: se avesse detto a quel tipo quel che voleva sapere, magari l’avrebbero rimandato a casa dalla sua famiglia. Purtroppo per lui, era troppo sveglio anche soltanto per crogiolarsi nelle vane speranze di un bambino: «lo sai» masticò quelle due parole in inglese come fossero un pasto troppo stoppaccioso tra i denti, distogliendo debolmente lo sguardo. Il dottore – o infermiere, o ricercatore, o quel che era – tentennò, guardando verso la parete alle proprie spalle.
    «s-sì, ma devi dirmelo.» «perché?» una delle prime parole che aveva imparato a pronunciare in ogni lingua possibile: fosse mai che le barriere linguistiche potessero fermare la sua curiosità. «perch酻 si morse le labbra e sospirò, già arreso, allontanandosi un secondo per far poi stridere le gambe di una sedia verso il centro della stanza; gli si sedette di fronte, abbandonando la cartellina sul proprio grembo: sembrava aver già capito che quel colloquio gli avrebbe portato via loro molto tempo. «devo accertarmi tu lo ricordi, ok? che tu non abbia… traumi, ecco. ci stai?»
    Che non avesse… traumi. Perché mai avrebbe dovuto? Non capitava a tutti i bambini di 8 anni e 364 giorni di venire cloroformizzati e rapiti durante una cena di famiglia, mentre avevano il solo compito di recuperare del fieno ed un capretto dalla stalla così da adempiere al sacrificio che Freya meritava per il nono compleanno di due gemelli? Ah no? Assurdo. Allora si strinse tra le spalle, squadrando con un accenno di sfida l’altro: «tvättbjörn cömmstaj». Ovviamente il dottore non lo trascrisse, rimanendo con le labbra dischiuse a fissarlo – probabilmente, maledicendo chiunque lo avesse mandato lì dentro a prendere le generalità del bambino senza nemmeno un briciolo d’informazione basilare. Angelico com’era sempre sembrato ma mai stato, il ragazzino gli sorrise innocentemente, senza nemmeno pensare di avere la premura di ripeterglielo – fosse mai scriverglielo; non che potesse, date le corde a legarlo, ma non lo avrebbe comunque fatto. «mh, ok…» «scarabocchi?» con un cenno della testa, gli indicò la cartellina – dove era evidente che, al posto del suo nome, aveva fatto dei ghirigori privi d’alcun senso o scopo; contento lui. «cos- nO.» sì, certo. «ascolta, sai perché sei qui?» Twat aggrottò le sopracciglia, e piegò appena la testa di lato per espletare in pieno la propria confusione; naturalmente, non ne aveva alcuna idea. Gli ritornò alla mente l’altro bambino con cui si era brevemente incrociato quando aveva ripreso conoscenza: sembrava provato, stanco – ferito. Non sapeva perché fosse lì, non voleva davvero saperlo, ma era alquanto certo non fosse una gita di piacere.
    «no» mentì con voce tremula; perché una parte del giovane Cömmstaj sapeva, ma non aveva la parole adatte per esprimersi.
    «meglio così», rispose invece il dottore – Zeke, avrebbe poi scoperto il suo nome –, non sentendosela di dire una bugia al ragazzo.

    16.06.2018

    Erano passati cinque anni, cinque mesi e venticinque giorni da quando aveva fatto la conoscenza dei Laboratori, e da allora Tvat (così lo chiamavano i Dottori, sempre troppo affaccendati per ricordarsi che il quattordicenne avesse un nome completo) aveva visto entrare ed uscire un discreto numero di residenti come lui – chi più grande, chi della sua stessa età; raramente più piccoli. Aveva avuto ben dodici coinquilini, che solitamente parlavano, piangevano o si muovevano troppo per i suoi gusti, ma di pochi di questi ricordava la faccia, o il nome: la metà era morta durante il soggiorno nel Residence degli Orrori, l’altra era stata o Schiantata o Obliviata prima di essere lasciata libera di andarsene – Dio solo sapeva dove – e a lui veniva suggerito di dimenticarsene, cosa che non mancava mai di fare. Se non lo aveva già capito nel momento in cui era stato rapito, l’aveva fatto tre anni più tardi quando gli era stato detto che la sua famiglia – tutta, da Björn a quella bestia di Edderkopp, fino al più piccolo Esel – erano stati uccisi, chi a Modalen chi altrove: tutto era effimero, e così lo sarebbero stati i suoi stessi ricordi o forse la propria vita. Se non gli avessero cancellato la memoria prima di farlo andare via, sarebbe stato unicamente perché da lì non ci sarebbe mai uscito. Ogni iniezione faceva più male, ed ogni elettroshock era talmente più potente da lasciarlo stordito per ore ed ore: in tutto quel tempo gli esperimenti su Tvättbjörn Cömmstaj non avevano mai prodotto alcun esito, ed era sempre più convinto che il prossimo sarebbe stato l’ultimo.
    Così, quando Zeke gli disse che lo avrebbero spostato in un altro appartamento, non esultò né protestò. Prese i suoi pochi averi (qualche cambio all’ultima moda made in lab, ma soprattutto libri: era un abitante stabile e con un certo grado di anzianità, aveva dei privilegi) e lo seguì lungo quel labirinto di corridoi e stanze. In tutti quegli anni aveva imparato ad affezionarsi al Dottore, e sapeva che anche questo gli volesse bene – era buono, nonostante tutto e soprattutto se paragonato al resto dell’entourage, e sapeva che fosse sempre una sua premura quella di far spostare l’ormai quattordicenne per fargli avere compagnia, sebbene al sistema importasse poco o niente di chi fosse in isolamento e di chi condividesse la cella –, ma ogni volta che lo faceva spostare gli veniva voglia di ucciderlo. «Perché non fai venire direttamente da me i nuovi?» domandò, con l’accento nordico a smussare l’inglese che aveva imparato.
    Zeke parve non sentirlo, e piuttosto fece scivolare il proprio badge sul sensore di una porta. «Tvättbjörn Cömmstaj, ti presento Garrison Gates…»
    «Posh,» lo corresse subito il ragazzo, ancora mezzo addormentato e steso al buio sulla sua brandina. Twat rimase al proprio posto, senza minimamente scomporsi. «Gates come quelli della Microsoft?» fu il suo unico commento, dopodiché lanciò un’occhiata al dottore ed andò ad occupare il letto ancora libero dall’altra parte della suite. L’altro mugugno in assenso.
    Ci rifletté sopra qualche istante, poi decise di liquidare la questione con un secco «okay», prima di sdraiarsi e riprendere a leggere da dove aveva lasciato. Non gli interessava davvero chi fosse o chi fosse la sua famiglia, ma immaginava che per circostanza dovesse farlo; in ogni caso, prima o poi si sarebbe dimenticato anche di lui.
    «Garrison Gates, ti presento Tvättbjörn Cömmstaj.»

    21.12.2018

    Lo sguardo di Twat guizzava dalle spalle del dottore che era stato costretto a seguire alla propria stanza, dove aveva lasciato un Posh confuso quanto lui sulla porta.
    «Dove stiamo andando?» gli domandò, senza ricevere alcuna risposta. Nel giro di qualche ora – qualche minuto – avrebbe compiuto quindici anni, nonché sei da quando era stato rapito e portato lì dentro, ed a quel punto aveva bene o male capito chi lavorasse lì per puro sadismo e chi invece perché realmente credeva in un mondo migliore, in una risoluzione alle disparità che affliggevano la società magica: per le torture a cui era sottoposto avrebbe dovuto, eppure non riusciva a condannare realmente tutto il personale dei Laboratori.
    Ralph Adler, l’uomo che lo aveva interrotto quella sera, apparteneva senza dubbio alla prima categoria; per di più, era uno tra gli esseri umani più odiati dal Cömmstaj – una classifica colma di nominativi a dire la verità, ma sul podio il cinquantenne era presente. Non soltanto era un sadico bastardo, ma aveva anche uno strano luccichio negli occhi neri che trasudava cattiveria pura ogni volta che toccava a lui divertirsi con le cavie. Non un briciolo di pietà o compassione, né rimorso, ma quelle erano cose che avrebbe potuto leggere negli occhi di chiunque vestisse un camice dentro quella struttura: immaginava, il ragazzo, che ad un certo punto anche il più tenero dovesse diventare insensibile davanti agli Esperimenti, per non avere un crollo nervoso tre volte al giorno. In Adler c’era… altro. Come se fosse lì per fare del male e basta, senza un vero scopo a muovere bisturi ed elettrodi – di certo, non scienza o progresso.
    Ripeté la domanda quando svoltarono l’angolo, ignorando una prima sala operatoria.
    Lo fece di nuovo, quando non entrarono nella sala dei macchinari (per quanto fosse giovane e soltanto carne da macello, aveva un indiscutibile dono nei confronti della meccanica, e non era passato inosservato: allo staff, faceva sempre comodo qualcuno che aggiustasse le cose per loro senza doverlo pagare).
    Deglutì, e quando domandò per la quarta volta la loro destinazione lo fece con una certa, aliena preoccupazione a gravargli nel petto, gli occhi chiari puntati su quella che aveva tutta l’aria d’essere una via d’uscita da quell’inferno. Questa volta una risposta giunse, ed a quel puntò Twat comprese che non stava per essere liberato come aveva brevemente osato immaginare: dopotutto non erano ancora arrivati a nessun risultato con lui, sarebbe stato stupido sbarazzarsi di lui in quel modo.
    Arrivò sotto la forma di una parola in latino e di un lampo di luce scarlatto, accompagnati da un ghigno sul volto glabro e, poco dopo, dal buio più totale.

    Quando riprese totalmente conoscenza, sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime che non ebbe modo di versare. Non per la paura, per quanto alzando il capo sarebbe stato naturale essere terrorizzati: una dozzina, forse più, di individui incappucciati teneva delle fiaccole tra le mani, ed erano disposti in cerchio attorno a dove si era svegliato; a terra, sicuramente tramite la magia, erano stati disegnati dei simboli all’interno di un cerchio (simboli che non riuscì a riconoscere, ma che dubitava fortemente non avessero a che fare con dei rituali: aveva passato troppo tempo a guardare Sal-Hund sgozzare capretti per ingraziarsi Freya per non sapere certe cose). Non che non fosse spaventato, ma quella che pungeva gli angoli delle palpebre era sincera emozione. Gioia, quasi. Non vedeva un cielo stellato da così tanto che non era più certo di ricordarsi come fosse fatto, così come temeva non avrebbe mai più sentito il vento carezzargli il volto e scompigliargli i capelli chiari; sensazioni alle quali non credeva di essere mai stato tanto attaccato fino a quel momento.
    Si guardò attorno, sebbene ogni fibra del corpo e tutto il proprio buonsenso gli suggerisse di chiudere gli occhi ed aspettare che, qualsiasi cosa fosse, finisse – in un modo o nell’altro. Ma per Tvättbjörn era impossibile non essere spettatore, anche se impossibilitato a partecipare in prima persona: doveva sapere, doveva conoscere.
    Sapeva che di avere una ragazza accanto, sdraiata nella direzione opposta alla sua: poteva vederne solo il viso, il profilo, ma non aveva la certezza che anche lei fosse legata a terra come aveva scoperto di essere lui.
    Sapeva, appunto, di non poter muovere liberamente gambe e piedi, ma non capiva se per funi reali che lo incatenavano o se a causa della magia.
    Sapeva di avere nove persone nel proprio campo visivo, quindi dovevano essere minimo il doppio di quel numero.
    Sapeva che fosse notte, e che probabilmente si trovavano in una radura in qualche bosco dimenticato da Dio e dagli uomini.
    Sapeva che erano circondati da fuochi fatui, e che i mormorii che presto iniziarono a cantilenare le figure incappucciate né promettevano nulla di buono, né erano in una lingua che il norvegese avesse mai studiato.
    Sapeva di essere nella merda, ma non il perché.
    Non che, ad ogni modo, avesse il tempo di scoprirlo. Evitò di domandare alla ragazza chi fossero – una setta – o cosa stessero facendo – un rito –, o tanto meno il perché; erano tutti quesiti ai quali egli stesso poteva darsi una risposta, o ai quali sapeva che nessuno dei due potesse averne. Perciò, quando si volto nella sua direzione, lo fece solo per chiederle chi fosse.
    «Reggie. Tu?» rispose in un sussurro, udibile solo grazie alla vicinanza tra le loro teste: il vociare dei cultisti si era fatto più intenso, ed il vento aveva iniziato a turbinare così forte da fischiare nelle orecchie. Annuì, come se avesse importanza scambiarsi i nomi in quel momento. Non ne aveva, ed in realtà non era certo gli interessasse davvero sapere nulla di Reggie – eppure, sorrise. Una piega amara, gli occhi più umidi, e senza conoscerne il motivo. «Twat.» che ne poteva sapere, lui, che fosse sua sorella la coprotagonista di quell’orribile situazione?
    Quando Adler li raggiunse, il viso appena visibile alla fioca luce delle torce e sotto il cappuccio, lo fece con un coltello strano: una manifattura antica, quelle che credeva essere rune disegnate sia sul manico che sulla lama. Non si era reso conto di essere senza alcun indumento fino a quando la punta d’argento non aveva incontrato la carne del petto, spingendo così tanto da tagliarla e sporcarsi di sangue e bruciare e farlo desiderare di urlare con quanto più fiato avesse nei polmoni – cosa che non fece, serrando soltanto la mandibola e le palpebre, sapendo che tanto nessuno l’avrebbe mai sentito gridare. Strinse così forte da far male, e smise solo nel momento in cui la lama finalmente si scostò dal suo ventre. Aveva il cuore in gola con il battito estremamente accelerato, il respiro affannato da chilometri di corsa che non aveva mai fatto, e per quanto potesse voler alzare il capo per guardare cosa gli avesse fatto quello psicopatico, tutto ciò che vide attraverso lo sguardo appannato fu sangue. Tanto sangue.
    Sangue che cominciò a scivolargli addosso, cadendo a terra ed andandosi ad insinuare nelle rune disegnate in precedenza, splendendo di uno scarlatto così intenso da illuminare la zona più dei fuochi fatui. Lo osservò scorrere come un fiume in piena, sentendo la testa già pesare del trauma e dell’emorragia, e quando sentì gridare Reggie lo fece distante, sovrappensiero, ma si voltò comunque.
    Non sapeva dire se fosse peggio di ogni altra tortura per la quale era passato negli ultimi sei anni, ma si avvicinava parecchio al podio: forse, si disse, tra un po’ lo scoprirò.
    La terra, bagnata dal sangue della ragazza, iniziò a tremare. Le fronde sopra le loro teste cominciarono a muoversi forsennate, così come anche il circolo di spettatori tutt’attorno. Le voci si fecero distorte e gravi, come se provenissero da un altro mondo.
    Magari era tutta una sua impressione, un’allucinazione.
    Come la voce di Adler, appena un sussurro, ora inginocchiato al suo fianco.
    «Non sei contento? Ti ho regalato una lezione di alchimia, dovresti ringraziarmi.» fece per rispondergli, per mandarlo a farsi fottere, ma quando il coltello tribale gli venne conficcato nel ventre il fiato gli morì in gola, soffocato da altro sangue a salire fino alle labbra. «Buon compleanno, Tvättbjörn.»

    22.12.2018

    «T-twat?»
    Alzò lo sguardo, ma non vide davvero molto. Doveva essere sorto il sole da poco, dato il chiarore che filtrava tiepido tra le foglie, ma non lo aiutava più di tanto: aveva la vista appannata, ed i capelli che gli cadevano davanti gli occhi complicavano ancora di più. Respirava pesantemente, aveva freddo, si sentiva appiccicoso, ma soprattutto la testa pulsava come un fottuto martello pneumatico. Da un momento all’altro, e di ciò era abbastanza sicuro, gli sarebbe esplosa.
    Non aveva riconosciuto la voce che l’aveva chiamato, ma aveva sentito i passi concitati a schiacciare le foglie, sebbene il tutto fosse ovattato; quando sentì un tonfo davanti a sé, riconobbe Zeke – uno Zeke terrorizzato, per la precisione, che tremava per entrambi.
    Quando gli strinse le spalle, trovò la forza di vederlo meglio. Di vedere meglio tutto: il proprio corpo, nudo e macchiato di scarlatto, così come lo erano le mani; l’erba che premeva sotto le proprie ginocchia e sotto quelle del Dottore; il sangue. Oh, quanto sangue. Piegò appena la testa, e subito riprese a fargli male qualsiasi cosa oltre alla testa: non aveva mai visto così tanto sangue, né così tanti corpi riversi a terra privi di vita, e – «hey.»
    Gli prese la testa tra le mani, facendolo tornare con gli occhi su di sé. Non chiese nulla, ed il Cömmstaj ne fu molto felice, anche perché non avrebbe saputo cosa rispondere oltre a non averne la forza.
    «Reggie...» mormorò soltanto contro il suo petto, accorgendosi solo in quel momento che lo stava abbracciando. Assaporò la densità del sangue sulla lingua, ma non poteva immaginare che non fosse soltanto il suo. «Aiutala...»
    Quando Zeke chiese di chi stesse parlando, Twat era già svenuto.

    25.12.2018

    «Buon Natale – credo?» Twat aprì gli occhi, e ci mise un po’ a capire che era Posh a parlargli, seduto sul suo materasso. «Merda, sono tre giorni che dormi, pensavo non ti saresti più svegliato.» Provò a mettersi seduto, ma rinunciò subito dopo.
    Faceva ancora male – il petto, il ventre, le gambe, la testa.
    E lì, sdraiato su una brandina che ormai era casa sua, sentendosi più al sicuro con il Gates al suo fianco di quanto avesse mai potuto pensare, iniziò a piangere come non aveva mai, e non avrebbe più, fatto.

    01.07.2019

    «hO uNa LaUrEa!!!» «in cosa, stronzate avanzate?» Tvättbjörn Cömmstaj, occhi celesti spalancati e sopracciglia sollevate, scivolò sul carrello d’acciaio più scomodo che avesse mai provato – non che, negli ultimi quattro anni passati all’interno dei laboratori, avesse avuto l’ebbrezza di poterne montare uno più ergonomico e meno spacca schiena – per permettere alla testa di fare capolino oltre al macchinario, l’olio del motore di quella cosa (qualsiasi essa fosse, al norvegese non era dato saperlo) a macchiargli da cima a fondo il camice pallido. Armando («mi chiamo zeke, porca troia. zeke!!!, come fai a sbagliare così tanto??» «herregud, armando, calmati») stava evidentemente perdendo le staffe, ed il sedicenne non riusciva davvero a comprenderne il motivo. Lo stava liberando di un sacco di lavoro, ed il tutto gratuitamente – avrebbe soltanto dovuto ringraziarlo, anziché alterarsi nei momenti in cui gli faceva notare quanto il proprio operato da ingegnere meccanico fosse andato a farsi benedire. Quando lo diceva, lo faceva per il suo bene: sebbene passasse metà del suo tempo lì dentro a fargli presente quanto fosse un incapace, sia come Dottore Estremista che come uomo di scienza, Twat si era affezionato al ragazzo ed alla troupe che quotidianamente lo sottoponeva a più test e prove di resistenza del dovuto. Davvero, davvero, non lo capiva perché ogni volta tutti loro parevano essere sull’orlo delle lacrime. «hai una laurea, armando, e non sei riuscito a capire che il fusibile si era staccato, e che il bullone centrale della centrifuga si era allentato quel tanto che basti a renderla semovibile» rotolò a terra, solo per arrampicarsi in un secondo momento sul macchinario e guardare all’interno del cestello. «praticamente,» alzò lo sguardo, puntando un’inquisitoria chiave inglese contro Armando e tutta la sua squadra. «siete riusciti a mandare a puttane ricerche alchemiche di chissà quanti anni e quanti pazienti, premendo un solo tasto. uno solo!!» sì che non aveva idea dello scopo di quella roba, ma ad un occhio attento e scientifico come quello del Cömmstaj era palese che doveva trattarsi di una sorta di estrattore microbiologico: non gli interessava cosa ci facessero, gli importava soltanto che lo avevano distrutto – o meglio, che non avevano saputo come aggiustarlo. «idioter tutto ciò che per lui aveva valore lì dentro, era la macchina stessa: dopodiché, potevano davvero gestirsela come gli pareva là dentro.
    Li vedeva farlo da quando aveva appena compiuto dodici anni, non gli avrebbe detto di smetterla: voleva continuassero, ma con i giusti mezzi. Ed era per quello che, nonostante avesse avuto l’opportunità di andarsene tempo prima, aveva deciso di non schiodarsi da quella base – aveva stipulato una sorta di patto con il direttore della divisione in cui era stato “imprigionato”: sarebbe potuto rimanere, solo se avesse continuato a sottostare ai loro esperimenti e se avesse impiegato le proprie conoscenze nell’ingegneria e la meccanica per aiutarli.
    Era passato un anno da quando gli avevano detto che doveva uscire, che lo avrebbero ricollocato in una struttura magica inglese, e lui aveva rifiutato di alzarsi, dicendo che si trovava così tanto bene lì dentro. Nove mesi, da quando avevano tentato nuovamente di scortarlo fuori dal Laboratorio per mandarlo in branco ad una società che non capiva, ed alla quale non voleva mescolarsi: non lo vedevano, che faceva fatica anche solo a parlare con i compagni di cella? Sei mesi, da quando nauseati dai suoi modi di fare – lo definivano arrogante e saccente, fastidioso come un dito ricoperto di sabbia su per il deretano, ma Twat non aveva mai compreso le loro ragioni: viveva in un mondo tutto suo, e per lui quello era un modo normalissimo di relazionarsi ad altri esseri umani – , Armando ed un’altra decina di suoi colleghi avevano provato a trascinarlo fuori con l’inganno. Fallendo miseramente: dopo quella volta, smisero di provarci realmente – qualche tentativo di liberarsi di lui persisteva, ma ingenting å gjøre.
    Zeke, con la testa abbandonata contro le sbarre ed un esaurimento nervoso a pulsare comicamente contro la tempia, glielo aveva chiesto quale fosse il vero motivo per il quale non voleva andarsene di lì. Era stato nel settembre dell’anno precedente, a ridosso dell’inizio dell’anno scolastico e poco prima che provassero a farlo uscire di nuovo; la sua risposta, era stata la stessa che aveva dato al Dottore Capo.
    Forse non aveva una vita, quello lì, perché periodicamente tornava a chiederglielo: non riusciva a decifrare i suoi intenti, Twat, arrivando a sentirsi un esperimento sociale oltre che magico e scientifico. Una volta, per farlo contento, gli disse che quand’era piccolo avrebbe desiderato diventare un astronauta – un ingegnere, un macchinista; aveva tutte le carte in regola, sebbene fosse poco più che un semplice bambino – , ma che a quel punto immaginava di non avere più molte opportunità di andare nello spazio. Non era più un semplice babbano, ma non era nemmeno un mago come suo fratello: era uno stupido ibrido, e senza davvero una forma, senza un potere manifesto che gli permettesse di darsi un’etichetta. Non lo avrebbero mai lasciato libero di studiare, di partire, di andarsene davvero – ed a quel punto, allora, rimanere lì dentro a sistemare macchinari era il massimo che potesse immaginare per il proprio futuro a venire.
    Quando continuò a fargli domande, iniziò a dirgli che aveva rotto il cazzo.
    Voleva solo stare lì ed aggiustare cose, perché dovevano farla così difficile? «ma voi ci avete studiato pure per fare così male il vostro lavoro?» forse, per quello. «dovevate soltanto -» «shhhh» «- scUSA?» lo aveva appena zittito? «zitto un po’, 971» sì, lo aveva fatto. «qualcuno si è introdotto nel laboratorio» ma… «oh, quindi avete rotto anche il sistema d’allarme? du er veldig god» avrebbe anche iniziato a battere le mani, se non gli avessero puntato contro una bacchetta.
    Dopodiché, iniziarono tutti a disperdersi: Twat, rimase da solo con il suo bff4e.
    Udirono urla, tante urla, e per quanto fosse abituato a sentir strillare le altre cavie sapeva che quello era ben diverso.
    Stava succedendo qualcosa, e «twat, stavolta è meglio se scappi sul serio» cercò gli occhi scuri di Zeke, rimanendo però al proprio posto. «non voglio» «non è un’opz-» «non so dove andare»
    Quello, il vero motivo per cui non voleva andarsene.
    Lo avrebbero potuto sbattere nella famosa Different Lodge di Hogwarts, glielo avevano detto, ma non gli andava. Avrebbe potuto accettare, solo se avesse potuto rivedere Björn ed i suoi fratelli – ma non era uno stupido, e sapeva che nemmeno quella sarebbe stata una vera opzione.
    Erano in Norvegia, e lui aveva solo sedici anni ed una vaga idea di quanto lontana fosse dall’Inghilterra. Per quanto ne sapeva, la sua famiglia poteva essere morta – o non trovarsi più a Modalen, nei migliori dei casi.
    Uscito da lì, sarebbe stato da solo. Completamente, da solo.
    «facciamo che ci vediamo fuori da qui» e per la prima volta, vide il Dottore sorridere – quasi dolce ed amichevole, la piega sulle sue labbra. «ti aiuterò io.»
    Ma… successero cose.
    Molte, molte cose, dal momento in cui le loro strade si divisero.
    Tipo una ragazza con una katana ed un orsacchiotto, e «ernest?» morto dissanguato. «oh no.»
    «…perché ti stai buttando addosso il suo sangue»
    «precauzioni: penseranno io sia stato aggredito – DOVE ANDIAMO»
    Ovunque la ragazza strana lo stesse portando, comunque, fuori di lì non rivide Zeke.
    jake manley
    save your razorblades now, not yet



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    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> birthday:</span> SCRIVI QUI DATA E LUOGO DI NASCITA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> race:</span> SCRIVI QUI RAZZA
    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> power:</span> SCRIVI QUI POTERE SE SPECIAL
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    <span style="font-weight:bold; text-transform:uppercase; font-family:calibri; color:#COLORE;letter-spacing:0.50px"><i class="fas fa-long-arrow-alt-right"></i> school:</span> SCRIVI QUI ISTRUZIONE
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    <td>[URL=LINK_PINTEREST]<div style="float:left; background-color:#050505;text-align:center;padding:5px;width:100px;height:100px;color:#COLORE;font-size:45px;line-height:12px;"><i class="fab fa-pinterest" style="padding:25px;-webkit-transform:rotate(330deg)"></i></div>[/URL]<div class="imground" style="float:left;background:url(LINK_GIF) no-repeat center; background-size:cover; width:85px; height:85px; border-radius:90px; border:2px solid #e5e5e5; margin:10px"></div></td>
    <td><div class="imground" style="float:left;background:url(LINK_GIF) no-repeat 20%; background-size:cover; width:85px; height:85px; border-radius:90px; border:2px solid #e5e5e5; margin:10px"></div>[URL=LINK_PLAYLIST]<div style="float:left; background-color:#050505;text-align:center;padding:5px;width:100px;height:82px;color:#COLORE;font-size:45px;line-height:12px;"><i class="fab fa-spotify" style="padding:16px;-webkit-transform:rotate(30deg)"></i></div>[/URL]<div style="font-family:calibri; color:#e5e5e5; text-transform:uppercase; letter-spacing:1px; font-size:8px; line-height:10px; text-align:center; background-color:#050505"><i class="fas fa-user" style="padding:5px"></i> NOMECOGNOME_PV</div></td>
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    <td style="background-color:#050505"><table width="100%" style="padding:5px 20px 10px 20px" cellspacing="0" cellpadding="0">

    <tr>
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    </table></td>
    </tr>

    </table>
  12. .
    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    «e di cosa, hans? di essere ancora qui?»
    Già, di cosa gli dispiaceva, di preciso? Non di certo di essere sopravvissuto – il fatto che “fosse ancora lì” era superfluo, soprattutto quando non era certo di essere (o essere mai stato) presente in quel piano materiale al cento percento –, perché era sempre stato egoista e troppo chiuso, e concentrato, nella sua bolla per pensare agli altri; o alle conseguenze che le sue azioni potevano avere su gli altri.
    L'aveva capito, invece, a sue spese, qualche giorno prima.
    Di occasioni ne aveva avute fin troppe, a pensarci bene, ma in nessun caso era stato troppo lucido per rendersi conto di quanto le sue azioni avessero arrecato preoccupazioni a quei pochi individui che lo conoscevano e lo consideravano amico (ancora uno shock, per l'empatico, rendersi conto della cosa). Solo da quando aveva smesso, per forza di cose, di lasciare alla droga il pieno controllo sulla sua mente e sulla sua vita, si era reso conto del male provocato — non tanto a se stesso, quanto più a tutti gli altri. Degli spaventi, della rabbia, che certe sue azioni, che fossero state volontarie o meno, avevano suscitato in loro.
    Quando era sparito la prima volta per quattro mesi, non aveva scelto di farlo; era successo, e non si era assolutamente reso conto della gravità della cosa, neppure dopo. Neppure quando era tornato e aveva trovato la sua stanza sgombera dai suoi effetti personali e sguardi confusi al suo rientro, gente convinta che sia lui che Mac fossero ormai concime per qualche campo coltivato chissà dove.
    Ma aveva, inconsciamente o meno, deciso di buttare la sua vita una pasticca dietro l'altra, e non aveva nessuno da incolpare per l'overdose, se non lui stesso. Non ricordava quasi nulla di quei momenti, o del dopo; di certo non ricordava l'intervento reattivo di Twat, né il modo inconsueto con cui il cuore dell'emocineta aveva preso a battere sotto il peso di una preoccupazione che non voleva far diventare certezza, o gli sguardi stanchi e i respiri pesanti di un Dominic che non gli doveva nulla, eppure aveva passato ogni pausa e ogni secondo libero dei suoi turni, accartocciato su una poltrona scomoda al suo capezzale, durante i giorni di ricovero al San Mungo. E non ricordava nulla delle reazioni di Taichi, perché Hans aveva deciso che fosse meglio evitare ogni genere di contatto con l'altro special, fino a che non avesse riguadagnato una minima parvenza di controllo sulla propria vita, perché sì.
    Sapeva di aver fatto male ad ognuno di loro, e non solo, in un modo o nell'altro, ma non era mai stato in grado di processare quell'informazione, né aveva voluto farlo, perché troppo lontano da lui il concetto di affetto o di vicinanza; non apparteneva di certo ad uno come il Belby, che per un motivo o per un altro, aveva sempre tenuto lontano tutti prima che potessero abbandonarlo — come sapeva, senza sé e senza ma, che avrebbero fatto.
    Non aveva scelto,invece, di sparire di nuovo per dieci giorni. Era successo, e non sapeva come, non sapeva perché, ma ciò che sapeva era che l'intervento dei volontari che aveva sfondato il portone del Lotus per recuperarli, era un po' colpa sua. E di tutti gli altri, certo, ma ad Hans non fregava mai abbastanza degli sconosciuti — a malapena si interessava a quelli che, effettivamente, conosceva. Era stupido, ed era irrazionale, ma non poteva non sentirsi in colpa per il fatto che qualcuno fosse andato a cercarlo e fosse sparito nell'intento. Era un'ironia crudele, quella lì. Una alla quale il Belby non riusciva a smettere di pensare.
    Era terribile avere qualcuno che fosse abbastanza vicino al cuore da farlo stare così; non era una creatura programmata per provare cose (disse, l'empatico) e di certo non era fatto per i sensi di colpa e il rammarico e la consapevolezza di aver spinto, anche solo involontariamente, qualcuno a mettersi in pericolo per salvare la sua pelle.
    Che poi le persone in questione fossero un Mac (che sarebbe arrivato in capo al mondo per chiunque, a prescindere o meno dalla presenza di Hans all'interno del Lotus) o un Twat (legato, per motivi che ancora Hans faticava ad elaborare, ad altri ostaggi rinchiusi nel resort insieme a lui così come lui era legato suo malgrado a Joey e Dominic) non cambiava assolutamente nulla. Hans sapeva che sarebbero partiti per quella missione a prescindere da tutto, così come erano partiti per la Siberia senza pensarci due volte; ma non rendeva più leggero il peso sul cuore nel sapere di aver contribuito, ancora una volta, a preoccupazioni che si sarebbero potute evitare se solo non avesse gravitato nella loro stessa orbita. Ci pensava spesso, a quell'esito, e si rendeva conto di essere quel genere di persona si cui si fa meglio senza — era, dopotutto, quello che aveva sempre cercato di far capire a chiunque.
    Da una parte, era quasi grato al Vibe per il suo condividere, almeno in parte, lo stesso genere di egoismo che caratterizzava anche Hans — era una persona in meno da far preoccupare, e una in meno per cui preoccuparsi.
    Sentiva dal modo in cui il maggiore aveva impostato la domanda che ci fosse altro che volesse aggiungere, ma non lo fece, ed Hans tenne gli occhi bassi, e colpevoli, su Orion, lasciando, seppur controvoglia, la possibilità a Check di studiarlo in silenzio e trarre, dal suo, tutte le risposte che preferiva; non era certo di saper mettere a parole quei pensieri, o le motivazioni per cui fosse dispiaciuto, né l'avrebbe mai fatto. C'erano cose che preferiva non dire, Hans; era abituato ad essere un'isola chiusa su se stessa, e più spesso che non si ritrovava a pensare che fosse la soluzione migliore, per tutti.
    «non sapevo nemmeno che fosse sparita»
    Quello non lo sorprendeva affatto, era pur sempre di Check che ai parlava, chiuso nella sua roccaforte e incurante del resto del mondo; ma, anche se pochissimo, Hans conosceva Mood e gli pareva strano che non avesse saputo delle sparizioni, o informato suo fratello. Famiglie disfunzionali: Hans ne sapeva qualcosa, e comunque non abbastanza per impicciarsi di quello che accadeva in casa Vibe-Bigh.
    «stavo-»
    Così come era arrivato, il momento
    (– di cosa?)
    passò.
    Hans non seppe mai cosa Check stava — facendo? Pensando? Chissà, impossibile dirlo con il custode. E anche se Hans avrebbe potuto aspettare, cm pazienza, e poi domandare, si conosceva abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe mai fatto.
    Fosse stato chiunque altro, avrebbe potuto persino leggere quella risposta nella (non così vasta) gamma di emozioni del Vibe, e trarre da solo le sue deduzioni, oppure esortarlo a riprendere il discorso e finire la frase.
    Ma era lui, e non avrebbe fatto nessuna delle sue cose; le risposte gli piacevano solo quando non avevano il potenziale di toccare un po' troppo vicino casa, e non aveva bisogno della conferma verbale di Check per sapere che non si fosse accorto nemmeno della sua sparizione.
    La punta di fastidio, che Hans riconobbe subito come unicamente sua, non aveva modo di esistere — nulla di nuovo, no?
    Eppure.
    Piegò lateralmente le labbra, stringendo la morsa dei denti sull'interno della guancia già sanguinante, e l'istante dopo fu quasi grato all'interruzione improvvisa; qualsiasi cosa, pur di distrarsi da quei pensieri intrusivi e scomodi.
    Certo, avrebbe preferito un altro genere di distrazione, una diversa da un fottuto cadavere a esalare l'ultimo respiro proprio di fronte a loro, ma non poteva essere esigente nelle circostanze in cui si trovavano.
    Avrebbe anche voluto accorgersene prima, ed essere pronto, o quantomeno non seguire inconsciamente la figura del Vibe con lo sguardo, prima di posarlo suo malgrado sul viso pallido e incrociare quello spalancato, terrorizzato e distante, del ragazzo apparso dal nulla. Avrebbe voluto un sacco di cose, il Belby, ma non significava necessariamente che potesse ottenerle, o indirizzare il corso degli eventi secondo la piega che più lo aggradava.
    Registrò solo marginalmente il braccio di Check ad allungarsi nella sua direzione, invitandolo a non intervenire (come se avrebbe mai potuto farlo), perché le sue attenzioni erano ancora tutte per il corpo ormai esanime rivolto a terra, quella bocca leggermente dischiusa e l'impossibile sensazione di leggerezza che gli era sembrato di percepire subito prima che lo sguardo dello sconosciuto perdesse anche l'ultima scintilla di coscienza e vita. Sollievo, ancora più che paura; il conforto di chi, forse, sapeva di essere finalmente libero — non importava il prezzo da pagare.
    Avrebbe dovuto essere terrorizzato, o magari non aveva avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo; gli sembrava impossibile, comunque, specialmente con ancora appiccicata addosso la sensazione liberatoria che non poteva essere sua, e poteva quindi appartenere solo a quello che ormai era un corpo privo di vita come tanti altri, trascinato via dai cacciatori.
    Da dove erano arrivati?
    Con gesti meccanici, impegnato in una guerra contro se stesso per distogliere lo sguardo dal punto ormai lasciato vuoto e dove fino a pochi istanti prima c'era stato il ragazzo con i cappelli rossi e le lentiggini, Hans raccolse un Orion spaventato e lo strinse al petto, cercando di dare conforto al cane tanto quanto a se stesso.
    «un normale pomeriggio al parco»
    Solo a quel punto riportò le iridi chiare sul maggiore, ricordandosi dove fossero, quando, perché. C'era stata una punta di angoscia negli ultimi istanti del ragazzo morto; l'ansia e il timore di
    (– essere trovato di nuovo)
    qualcosa che Hans non sapeva, né voleva provare a spiegarsi in quel momento. Permaneva sulla pelle di Hans come se fosse sua. Magari, semplicemente, aveva amplificato solo qualcosa che era sempre stata lì pur senza che lo special se ne rendesse conto.
    Realizzò di aver osservato il Vibe in silenzio per troppi istanti quando sentì Orion tentare di divincolarsi dalla sua presa, e allora batté più volte le palpebre, risvegliandosi da quell'incubo ad occhi aperti.
    «è stata una pessima idea» venire (al mondo.) al parco, e se ne pentiva sempre di più quando era ormai troppo tardi.
    Non si era nemmeno accorto di essere scattato in piedi, chissà quando tra l'arrivo del cadavere ambulante e la smaterializzazione dei cacciatori, ma registrò perfettamente quando le gambe iniziarono a muoversi da sole, dirette verso casa — l'unico posto che conosceva in cui poteva illudersi di essere al sicuro, pur sapendo che non fosse assolutamente così, perché spesso era proprio da lì che fosse sparito, ma dove altro poteva andare?
    hogwarts
    ivorbone
    special bornempathneutralmessed up

    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
    i question every human
    who won't look in my eyes;
    scars left on my heart
    formed patterns in my mind.
  13. .
    Eddie Silverhand
    Apprendista
    Guerriero Berserker

    Mago&Ak-47
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    Adrian Carter
    Apprendista
    Guerriero Cacciatore

    Rivoltella&Emocinesi
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I/II/III/IV/V/V
    Mary Jane Hendricks
    Apprendista
    Sentinella Luminare

    Ascia bipenne & metamorfomagus (strega)
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    nomepg
    livellogruppo
    classe bonus

    arma & potere
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I/II/III/IV/V/V
  14. .
    LIAM O'SULLIVAN
    MATRICOLA
    Guerriero Cacciatore

    Liam: Emomanzia/Coltello
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
  15. .
    iris rouxsorta motherfucka
    MAGO
    rogue sanguinario

    iris: lanciafiamme
    sorta: frusta
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo I
    syria hollinsfinley lloyd
    MAGO
    difensori protettori

    syria: falce & cronocinesi
    finn: spray al peperoncino
    accetto le conseguenze delle mie azioni
    qui finisce il mio agire e inizia il mio silenzio
    sono nel pieno delle mie facoltà mentali
    prendo i pe per: gruppo II
153 replies since 27/3/2022
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