Posts written by traiten.

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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    Ora.
    C’era una differenza sostanziale tra l’essere fuori dal mondo – vivendo su un pianeta tutto suo che non veniva (solitamente.) scalfito da quanto succedeva intorno a lui e non avere idea di ciò che succedeva nel mondo perché, come una pandi qualsiasi, non accendeva la tv e non leggeva giornali e non si informava – e l’aver completamente rimosso (o, più probabilmente, non aver mai registrato) che in casa di Mac vivesse anche il vagabondo dimensionale recuperato a Tottington, perché Hans Belby non aveva abbastanza stracazzi di ricordarsi anche solo dell’esistenza del rosso, figuriamoci ricordarsi dove abitasse.
    Erano due casi ben distinti e separati, ma entrambi, per un verso o per un altro, voluti.
    Ciò che cambiava, se vogliamo, era solo l'effetto che, una volta venuta a mancare la piacevole ignoranza che li aveva avvolti a lungo, il sapere avrebbe avuto sul proseguimento della giornata dello special: nel primo caso, specialmente se riguardo eventi cataclismici come una guerra, o la sparizione di decine e decine di persone tutte insieme, le conseguenze tendevano ad avere un effetto appena più concreto sulla vita di Hans – o, perlomeno, quanto bastava per decidere se agire con quella nuova informazione o meno. Nei secondi, invece, non procuravano alcuna reazione: continuava a non interessargli assolutamente nulla del naufrago temporale che gli aveva aperto la porta, ma il ritrovarselo davanti aveva confuso Hans leggermente più di quanto si sarebbe aspettato (che era un’aspettativa pressoché nulla, quindi non voleva dire assolutamente nulla).
    Il punto era che quel viso, nell’ultimo anno, Hans lo aveva rivisto solo in alcuni dei suoi incubi — ricordandolo per giunta diverso; averlo lì, a un palmo dal naso, sulla porta di quella che era abbastanza certo fosse casa di McKenzie Hale (pur non essendoci mai stato), e non riuscendo a non ripensare inevitabilmente al loro primo (e ultimo, fino a quel momento) incontro, lo aveva sorpreso. Non per forza in maniera positiva.
    Assottigliò le palpebre rivolgendo un’occhiata gelida ma altrimenti impassibile allo sconosciuto, pensando che in effetti non aveva mai davvero preso in considerazione la possibilità di ricambiare il favore e sparargli a sua volta, perché a) troppo sbatti, b) non pensava l’avrebbe mai rivisto, b) fino a due secondi prima il rosso era rimasto solo un frammento onirico che popolava gli incubi dello special, perciò insomma.
    «ehi, come…»
    Del sorriso timido del tipo, Hans Belby non sapeva che farsene, e lo accolse con le braccia incrociate al petto e il più ostile degli atteggiamenti — che, considerando si trattasse di Hans Belby, l’occhiata truce e le labbra tirare in una linea sottile era già praticamente più di quanto avesse mai offerto a chiunque altro.
    «come posso aiutarti?»
    Poteva? Hans dubitava fortemente dell'utilità del tipo, a meno che, appunto, non fosse intralciare i piani improvvisati di due diciannovenni disperati che stavano solo cercando di sopravvivere all’inferno (per la seconda volta) e per fortuna non era quello il caso.
    Quando l’altro lo informò che Gaylord non fosse in casa, Hans strizzò le labbra in un’espressione delusa e valutò se girare i tacchi e tornare un altro giorno, o se approfittare del fatto che qualcuno avesse comunque aperto la porta per andare avanti con il suo piano. Riflettendo che difficilmente avrebbe trovato la voglia di percorrere quella strada una seconda volta, decise di testare l’utilità del rosso — magari in quel piano fisico risultava meno buono a nulla. «devo prendere una cosa.» quelle erano già più parole di quante Hans avesse voglia di condividere con l’altro, ma si costrinse ad usarne qualcuna di più per spiegare il cosa, ma non il perché (non erano cazzi di Harry) (wow, a quanto pareva conosceva anche il suo nome, informazione assolutamente indispensabile e necessaria…) «dalla stanza di Mac, presumo. la sua mazza.» forse, da una parte, la fortuna era dalla sua parte: era un bene che non ci fosse Gaylord, il quale avrebbe probabilmente fatto delle domande a cui Hans si sarebbe (stupidamente) sentito in dovere di rispondere, mentre Harry il Vagabondo Spaziale poteva essere ignorato bellamente. «sai dove la tiene?»
    johannes
    belby

    when it feels like you just slept
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    sentinella seguace di arda
    [dimezza attacco O difesa del nemico]
    special
    lvl leader
    2004 — empaticowhen the heart's beyond repair;
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    when your home consists of only you;
    is there anything worth holding on to?
    Anything Worth Holding On To
    Cynthia Erivo
    Mother of Night, darken my step


    Edited by traiten. - 10/4/2024, 19:26
  2. .
    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    Hans Belby non era di certo noto per l'interesse con cui si informava su ciò che accadeva nel mondo – fa ridere già così – eppure la notizia dei sei ostaggi ritornati a casa, smarriti e confusi, era arrivata persino a lui.
    Non li conosceva, e non li aveva riconosciuti come compagni con cui aveva condiviso l'esperienza del Lotus, pur cercandoli tra la folla, e nelle notizie, e nei pettegolezzi che arrivavano, suo malgrado, anche alle sue orecchie. Non gli interessava di loro come persone, ma di ciò che rappresentavano in quel momento: qualcuno che ce l'aveva fatta, che era scappato (era stato lasciato andare?) ed era riuscito a tornare in Inghilterra per raccontare quel poco che ricordavano. Tutto troppo vago, secondo le voci di corridoio che avevano riportato le informazioni fino al Belby, tutto troppo sospetto: stavano inventando tutto? Avevano solo perso il senno? Tutte cose che per settimane avevano detto anche di lui — comunque troppo Hans per fregarsene di ciò che diceva la gente sulla sua persona.
    Ma erano tornati, e l'empatico era stato così stupido da concedersi il lusso di sperare — e per qualche giorno aveva atteso che altri come loro spuntassero fuori, ritornando ad una normalità che avevano lasciato in stand-by per due mesi, e perché proprio le due persone che avrebbero potuto evitare allo special di lasciarsi coinvolgere ulteriormente.
    Non era successo; né Twat né Mac erano tornati a casa, e più i giorni passavano, più le speranze dello svedese svanivano sotto la consapevolezza che non c'era verso, quella volta, di tenere la testa nascosta sotto la sabbia e fingere che nulla di quella faccenda colpisse molto vicino a casa.
    (Lo avevano voluto sobrio? Se lo beccavano così.)
    Lo sapeva anche lui, sebbene ammetterlo o essere in grado di elaborare quell'informazione fosse ben lontano dalle sue priorità; sapeva fosse inevitabile, ma sperava di poterselo evitare. Nemmeno altri dieci mesi di sfiancanti allenamenti con Daveth avrebbero fatto di lui un combattente; cosa aveva, di preciso, da offrire? Delle braccia poco muscolose, un fisico esile, e dei riflessi non propriamente affilati? Non aveva nemmeno una vigorosa resistenza fisica, e non era bravo con nessun genere di arma, come i ripetuti tentativi fallimentari fatti insieme al suo nuovo, inaspettato, personal trainer, avevano dimostrato. Ma aveva qualcosa da perdere, e a quanto pareva era abbastanza per renderlo irrequieto e (ostinato) determinato. Era una follia, lo sapeva bene, ma non c'era verso di mettere a tacere la voce nella testa che gli diceva dovesse farlo. Sapeva anche che Twat lo avrebbe pugnalato con le sue stesse mani, quando l'avrebbe rivisto (perché lo avrebbe rivisto), ma aveva scoperto non gli interessasse così tanto, e che preferisse di gran lunga uno e due tagli più o meno profondi causati da mano amica, che rimanere chiuso nella sua stanza senza sapere cosa stesse succedendo fuori.
    Giurava che lui, più di chiunque altro, non avrebbe voluto trovarsi in quella posizione, ma ci si trovava; ed era la cosa giusta da fare, anche se la sua risolutezza veniva accolta con sguardi torvi o risate denigranti perché ma dove diavolo vuoi andare. Non erano affari loro; lui non era un problema loro. Di nessuno. Non doveva chiedere il supporto di nessuno, né l'approvazione. Aveva riflettuto sulla questione molto a lungo, sdraiato a terra con Orion seduto sulla sua pancia, e aveva passato settimane ad intensificare gli allenamenti con l'ombrocineta perché l'aveva sempre sentito che gli sarebbe toccato fare qualcosa, e non era così stupido da partecipare ad una missione (ministeriale, oltretutto, dove ogni cosa puntava a far capire che fosse pressoché suicida, e loro niente più che carne da macello) senza aumentare un po' la propria massa muscolare o resistenza fisica.
    Che poi i risultati fossero esattamente ciò che aveva temuto (ovvero: scarsi, e tutt'al più aveva imparato come resistere ore e ore nel nulla cosmico in cui Daveth lo spediva quando meno se lo aspettava) era un altro paio di maniche.
    Ecco perché aveva bisogno di qualcosa di concreto, qualcosa che, stretto fra le mani, lo avrebbe fatto sentire tranquillo. Aveva chiesto allo special di allenarlo all'uso di un pugnale, ma era un'arma troppo a corto raggio e c'era un limite all'utilità della sua bassa statura: troppo vicino, rischiava di prendere davvero troppi colpi (been there done that, Daveth l'aveva gonfiato come una zampogna in quelle occasioni) e non era davvero fatto, in generale, per stare troppo vicino alle persone, alleati o nemici che fossero. Il pugnale intarsiato che Twat gli aveva regalato lo avrebbe comunque portato con sé, come ancora emotiva e come peso familiare sotto i vestiti, ma non era l'arma giusta per lui. Non ancora.
    C'era solo un'altra opzione che gli veniva in mente e, pur sapendo benissimo che poteva comprarne una, non ne voleva una sua. Voleva una mazza da baseball, e voleva quella di Mac. Avrebbe voluto l'asse marcescente con cui l'ex corvonero li aveva salvato dalla furia di dieci frat-boys zombie, ma non era reperibile per ovvie ragioni, e Hans doveva accontentarsi della cosa più vicina emotivamente. Era abbastanza egoista da credere con risolutezza che potesse prenderla in prestito (tanto a Mac non serviva, ovunque fosse) mentendosi dicendo che lo faceva per il mago, che anche lì, una volta rivisto, l'avrebbe consegnata a lui com'era giusto che fosse.
    Ma prima di tutto sperava che potesse aiutarlo a sopravvivere fino a quel momento, una cosa decisamente non scontata.
    Certo, c'era anche il problema che non sapesse come usarla in maniera efficace, e solo dio sapeva quanta poca forza avesse nelle braccia, ma almeno la mira l'aveva migliorata, in quelle settimane! Un problema alla volta; avrebbe persino fatto un sospiro profondo e chiesto aiuto alla Peetzah, se fosse stato necessario.
    (Lo era. Molto.)
    Prima, però, doveva convincere Gaylord a dargli la mazza del suo coinquilino, una richiesta già stramba così, senza dover anche spiegare perché ne avesse bisogno.
    (Non erano affari del mago.)
    Socchiuse gli occhi, e strinse appena le labbra fra loro; uscire di casa non era mai stata la sua attività preferita, ma andare a bussare a quella altrui lo era ancora meno. Però, alla fine, batté il pugno chiuso sulla porta di legno, e si mise in attesa.
    johannes
    belby

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  3. .
    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    «e di cosa, hans? di essere ancora qui?»
    Già, di cosa gli dispiaceva, di preciso? Non di certo di essere sopravvissuto – il fatto che “fosse ancora lì” era superfluo, soprattutto quando non era certo di essere (o essere mai stato) presente in quel piano materiale al cento percento –, perché era sempre stato egoista e troppo chiuso, e concentrato, nella sua bolla per pensare agli altri; o alle conseguenze che le sue azioni potevano avere su gli altri.
    L'aveva capito, invece, a sue spese, qualche giorno prima.
    Di occasioni ne aveva avute fin troppe, a pensarci bene, ma in nessun caso era stato troppo lucido per rendersi conto di quanto le sue azioni avessero arrecato preoccupazioni a quei pochi individui che lo conoscevano e lo consideravano amico (ancora uno shock, per l'empatico, rendersi conto della cosa). Solo da quando aveva smesso, per forza di cose, di lasciare alla droga il pieno controllo sulla sua mente e sulla sua vita, si era reso conto del male provocato — non tanto a se stesso, quanto più a tutti gli altri. Degli spaventi, della rabbia, che certe sue azioni, che fossero state volontarie o meno, avevano suscitato in loro.
    Quando era sparito la prima volta per quattro mesi, non aveva scelto di farlo; era successo, e non si era assolutamente reso conto della gravità della cosa, neppure dopo. Neppure quando era tornato e aveva trovato la sua stanza sgombera dai suoi effetti personali e sguardi confusi al suo rientro, gente convinta che sia lui che Mac fossero ormai concime per qualche campo coltivato chissà dove.
    Ma aveva, inconsciamente o meno, deciso di buttare la sua vita una pasticca dietro l'altra, e non aveva nessuno da incolpare per l'overdose, se non lui stesso. Non ricordava quasi nulla di quei momenti, o del dopo; di certo non ricordava l'intervento reattivo di Twat, né il modo inconsueto con cui il cuore dell'emocineta aveva preso a battere sotto il peso di una preoccupazione che non voleva far diventare certezza, o gli sguardi stanchi e i respiri pesanti di un Dominic che non gli doveva nulla, eppure aveva passato ogni pausa e ogni secondo libero dei suoi turni, accartocciato su una poltrona scomoda al suo capezzale, durante i giorni di ricovero al San Mungo. E non ricordava nulla delle reazioni di Taichi, perché Hans aveva deciso che fosse meglio evitare ogni genere di contatto con l'altro special, fino a che non avesse riguadagnato una minima parvenza di controllo sulla propria vita, perché sì.
    Sapeva di aver fatto male ad ognuno di loro, e non solo, in un modo o nell'altro, ma non era mai stato in grado di processare quell'informazione, né aveva voluto farlo, perché troppo lontano da lui il concetto di affetto o di vicinanza; non apparteneva di certo ad uno come il Belby, che per un motivo o per un altro, aveva sempre tenuto lontano tutti prima che potessero abbandonarlo — come sapeva, senza sé e senza ma, che avrebbero fatto.
    Non aveva scelto,invece, di sparire di nuovo per dieci giorni. Era successo, e non sapeva come, non sapeva perché, ma ciò che sapeva era che l'intervento dei volontari che aveva sfondato il portone del Lotus per recuperarli, era un po' colpa sua. E di tutti gli altri, certo, ma ad Hans non fregava mai abbastanza degli sconosciuti — a malapena si interessava a quelli che, effettivamente, conosceva. Era stupido, ed era irrazionale, ma non poteva non sentirsi in colpa per il fatto che qualcuno fosse andato a cercarlo e fosse sparito nell'intento. Era un'ironia crudele, quella lì. Una alla quale il Belby non riusciva a smettere di pensare.
    Era terribile avere qualcuno che fosse abbastanza vicino al cuore da farlo stare così; non era una creatura programmata per provare cose (disse, l'empatico) e di certo non era fatto per i sensi di colpa e il rammarico e la consapevolezza di aver spinto, anche solo involontariamente, qualcuno a mettersi in pericolo per salvare la sua pelle.
    Che poi le persone in questione fossero un Mac (che sarebbe arrivato in capo al mondo per chiunque, a prescindere o meno dalla presenza di Hans all'interno del Lotus) o un Twat (legato, per motivi che ancora Hans faticava ad elaborare, ad altri ostaggi rinchiusi nel resort insieme a lui così come lui era legato suo malgrado a Joey e Dominic) non cambiava assolutamente nulla. Hans sapeva che sarebbero partiti per quella missione a prescindere da tutto, così come erano partiti per la Siberia senza pensarci due volte; ma non rendeva più leggero il peso sul cuore nel sapere di aver contribuito, ancora una volta, a preoccupazioni che si sarebbero potute evitare se solo non avesse gravitato nella loro stessa orbita. Ci pensava spesso, a quell'esito, e si rendeva conto di essere quel genere di persona si cui si fa meglio senza — era, dopotutto, quello che aveva sempre cercato di far capire a chiunque.
    Da una parte, era quasi grato al Vibe per il suo condividere, almeno in parte, lo stesso genere di egoismo che caratterizzava anche Hans — era una persona in meno da far preoccupare, e una in meno per cui preoccuparsi.
    Sentiva dal modo in cui il maggiore aveva impostato la domanda che ci fosse altro che volesse aggiungere, ma non lo fece, ed Hans tenne gli occhi bassi, e colpevoli, su Orion, lasciando, seppur controvoglia, la possibilità a Check di studiarlo in silenzio e trarre, dal suo, tutte le risposte che preferiva; non era certo di saper mettere a parole quei pensieri, o le motivazioni per cui fosse dispiaciuto, né l'avrebbe mai fatto. C'erano cose che preferiva non dire, Hans; era abituato ad essere un'isola chiusa su se stessa, e più spesso che non si ritrovava a pensare che fosse la soluzione migliore, per tutti.
    «non sapevo nemmeno che fosse sparita»
    Quello non lo sorprendeva affatto, era pur sempre di Check che ai parlava, chiuso nella sua roccaforte e incurante del resto del mondo; ma, anche se pochissimo, Hans conosceva Mood e gli pareva strano che non avesse saputo delle sparizioni, o informato suo fratello. Famiglie disfunzionali: Hans ne sapeva qualcosa, e comunque non abbastanza per impicciarsi di quello che accadeva in casa Vibe-Bigh.
    «stavo-»
    Così come era arrivato, il momento
    (– di cosa?)
    passò.
    Hans non seppe mai cosa Check stava — facendo? Pensando? Chissà, impossibile dirlo con il custode. E anche se Hans avrebbe potuto aspettare, cm pazienza, e poi domandare, si conosceva abbastanza bene da sapere che non l'avrebbe mai fatto.
    Fosse stato chiunque altro, avrebbe potuto persino leggere quella risposta nella (non così vasta) gamma di emozioni del Vibe, e trarre da solo le sue deduzioni, oppure esortarlo a riprendere il discorso e finire la frase.
    Ma era lui, e non avrebbe fatto nessuna delle sue cose; le risposte gli piacevano solo quando non avevano il potenziale di toccare un po' troppo vicino casa, e non aveva bisogno della conferma verbale di Check per sapere che non si fosse accorto nemmeno della sua sparizione.
    La punta di fastidio, che Hans riconobbe subito come unicamente sua, non aveva modo di esistere — nulla di nuovo, no?
    Eppure.
    Piegò lateralmente le labbra, stringendo la morsa dei denti sull'interno della guancia già sanguinante, e l'istante dopo fu quasi grato all'interruzione improvvisa; qualsiasi cosa, pur di distrarsi da quei pensieri intrusivi e scomodi.
    Certo, avrebbe preferito un altro genere di distrazione, una diversa da un fottuto cadavere a esalare l'ultimo respiro proprio di fronte a loro, ma non poteva essere esigente nelle circostanze in cui si trovavano.
    Avrebbe anche voluto accorgersene prima, ed essere pronto, o quantomeno non seguire inconsciamente la figura del Vibe con lo sguardo, prima di posarlo suo malgrado sul viso pallido e incrociare quello spalancato, terrorizzato e distante, del ragazzo apparso dal nulla. Avrebbe voluto un sacco di cose, il Belby, ma non significava necessariamente che potesse ottenerle, o indirizzare il corso degli eventi secondo la piega che più lo aggradava.
    Registrò solo marginalmente il braccio di Check ad allungarsi nella sua direzione, invitandolo a non intervenire (come se avrebbe mai potuto farlo), perché le sue attenzioni erano ancora tutte per il corpo ormai esanime rivolto a terra, quella bocca leggermente dischiusa e l'impossibile sensazione di leggerezza che gli era sembrato di percepire subito prima che lo sguardo dello sconosciuto perdesse anche l'ultima scintilla di coscienza e vita. Sollievo, ancora più che paura; il conforto di chi, forse, sapeva di essere finalmente libero — non importava il prezzo da pagare.
    Avrebbe dovuto essere terrorizzato, o magari non aveva avuto il tempo di realizzare cosa stesse succedendo; gli sembrava impossibile, comunque, specialmente con ancora appiccicata addosso la sensazione liberatoria che non poteva essere sua, e poteva quindi appartenere solo a quello che ormai era un corpo privo di vita come tanti altri, trascinato via dai cacciatori.
    Da dove erano arrivati?
    Con gesti meccanici, impegnato in una guerra contro se stesso per distogliere lo sguardo dal punto ormai lasciato vuoto e dove fino a pochi istanti prima c'era stato il ragazzo con i cappelli rossi e le lentiggini, Hans raccolse un Orion spaventato e lo strinse al petto, cercando di dare conforto al cane tanto quanto a se stesso.
    «un normale pomeriggio al parco»
    Solo a quel punto riportò le iridi chiare sul maggiore, ricordandosi dove fossero, quando, perché. C'era stata una punta di angoscia negli ultimi istanti del ragazzo morto; l'ansia e il timore di
    (– essere trovato di nuovo)
    qualcosa che Hans non sapeva, né voleva provare a spiegarsi in quel momento. Permaneva sulla pelle di Hans come se fosse sua. Magari, semplicemente, aveva amplificato solo qualcosa che era sempre stata lì pur senza che lo special se ne rendesse conto.
    Realizzò di aver osservato il Vibe in silenzio per troppi istanti quando sentì Orion tentare di divincolarsi dalla sua presa, e allora batté più volte le palpebre, risvegliandosi da quell'incubo ad occhi aperti.
    «è stata una pessima idea» venire (al mondo.) al parco, e se ne pentiva sempre di più quando era ormai troppo tardi.
    Non si era nemmeno accorto di essere scattato in piedi, chissà quando tra l'arrivo del cadavere ambulante e la smaterializzazione dei cacciatori, ma registrò perfettamente quando le gambe iniziarono a muoversi da sole, dirette verso casa — l'unico posto che conosceva in cui poteva illudersi di essere al sicuro, pur sapendo che non fosse assolutamente così, perché spesso era proprio da lì che fosse sparito, ma dove altro poteva andare?
    hogwarts
    ivorbone
    special bornempathneutralmessed up

    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
    i question every human
    who won't look in my eyes;
    scars left on my heart
    formed patterns in my mind.
  4. .
    johannes 'hans' belby
    Believe in me,
    believe in nothing;
    corner me && make me something


    2004 ✧ pyrokinesis ✧ 2043: wes
    I'm overwhelmed,
    I'm on repeat,
    I'm emptied out,
    I'm incomplete;
    You trusted me
    && I want to show you
    I don't want to be
    the hollow man
    Anche volendo decidere di applicarsi e prestare un briciolo in più di attenzione a quanto stava succedendo (e non era certo di volerlo, il Belby) avrebbe fatto comunque fatica a stare dietro agli sguardi e alle frasi a metà di un Cavendish chiaramente a disagio, o alle supposizioni di un Joey sempre pronto al peggio.
    Quest'ultimo, in verità, un po’ lo capiva.
    Si ritrovò a fissare il maggiore con intensità, prima di spostare lo sguardo per cercare quello (fin troppo simile al suo per non provare un vago senso di disagio nell’incontrare le iridi di una sfumatura appena più scura) di Joey, ma tenne quelle emozioni per sé, nascoste dietro un’espressione più confusa che altro; se c’era qualcuno, tra Joey e Dominic, che avrebbe potuto far chiarezza o fornire le risposte così come Hans necessitava, non era di certo l’ex infermiere. Troppe parole, troppi gesti vaghi, troppi dubbi e troppo poche certezze.
    Silenziosamente, Hans chiese al portiere di fare chiarezza al posto suo, traducendo in una maniera che fosse più comprensibile persino per lui, perché nonostante non avesse ancora preso una decisione su quanto confessato mesi prima dallo stesso Joey, sentiva fosse l’unico di cui potersi fidare, l'unico che avrebbe detto le cose così come stavano, senza arricchirle di inutili dettagli dettati dal sentimentalismo.
    Venne distratto da quella telepatica connessione solo quando percepì, nella visione periferica, Dominic muoversi e tirare fuori una busta, il cui contenuto poi iniziò a sparpagliare sul tavolo tra loro, in maniera delicata e, in qualche modo, ordinata.
    Nei visi che ora li osservavano dalle foto, Hans avrebbe dovuto riconoscere Dominic, Joey, se stesso, ma la sua mente non riusciva a suggerirgli nulla di più della spiegazione più banale e semplice: i sette sosia che, stando a qualche credenza popolare, abitavano la terra nel nostro stesso e preciso momento. Poteva essere solo un caso, nulla lo costringeva a credere che fosse vero, no?
    Non allungò le mani per prendere le foto, e le tenne strette tra loro, posate con fin troppa noncuranza sul tavolo di legno per non sembrare almeno un po’ teso, a disagio. E non smise nemmeno di osservare, accigliato, un Joey fin troppo svelto a stringere le dita intorno ai bordi delle pellicole, quell’«oh» a scivolare dalle labbra dischiuse quasi con abbandono. Hans rifletté che, oltre al messaggio scritto di suo pugno, e alle spiegazioni offerte mentre condividevano un muffin, Joey non gli aveva mai mostrato una foto, né qualsiasi altra prova tangibile a testimonianza del suo racconto; quelle diapositive ingiallite dal tempo, ma ben conservate, erano la prima cosa reale e concreta che supportasse quanto riferito dall’ex corvonero, e Hans non poteva non trovarlo almeno un po' destabilizzante. Poco ma sicuro, non facilitavano affatto il processo di metabolizzazione di quelle informazioni. Per niente.
    Aveva provato a parlarne con qualcuno (Twat, Twat era il suo qualcuno), ancora seduto tra le macerie di una bomba appena sganciata, e avvolto da una piacevole sensazione di nulla offerta dalla canna che aveva condiviso con il coinquilino; aveva lasciato cadere nella conversazione frammentata qualche dettaglio, qualche impossible domanda, perché nella sua mente quasi totalmente sgombra dai pensieri, quelli relativi ad un fantomatico viaggio dal futuro al passato avevano trovato un sacco di spazio per mettersi comodi, e gettare radici, pur contro la sua volontà. Ci aveva provato, lasciando che informazioni mai troppo specifiche si infilassero tra le crepe di una chiacchierata senza inizio né fine, più confuse e attorcigliate di quanto non fossero già nella sua testa, nulla che Twat avesse potuto prendere sul serio – o capire – senza considerarla il vaneggiamento di un trip.
    Non lo era stato.
    Ma quello era stato prima, quando un controllo sul proprio stato psico-fisico Hans non ce lo aveva avuto, e certi pensieri (certi tormenti) avevano sempre trovato il modo di riecheggiare in libertà, attutiti solo in parte dalle barriere ovattate e dense tirate su dalla droga; non dovevano avere senso, nella forma e nei colori, e tanto gli bastava.
    Ora che esisteva nel dopo, e volente o nolente era costretto a dare un senso o un significato persino a quei pensieri, non poteva più ignorarli; lo avevano trovato senza preavviso, un giorno, poche settimane dopo il suo rientro a new hovel, quando il foglietto consegnato da Joey era scivolato in terra mentre Hans sistemava dei libri, e la conversazione avuta col mago era tornata in superficie tutta insieme, quasi togliendogli il respiro. Era stato convinto di averlo solo immaginato, non sarebbe stata di certo la prima volta che la sua mente creava per lui scenari illusori, ma nello stringere quel pezzo di carta nel pugno dovette ammettere con se stesso che non lo fosse stato. Ma da lì ad accettare anche che fosse tutto vero era un bel salto nel vuoto.
    Una famiglia, Hans Belby, ce l'aveva già. Disfunzionale e rotta, ma ce l'aveva; una con cui non parlava più, ma che nel bene, e molto più profondamente nel male, l'aveva reso chi era. O, almeno, chi credeva di essere.
    Non sentiva il bisogno di aggiungerne all'equazione anche un'altra, non quando avrebbe significato ammettere ancora una volta di non sapere nulla su se stesso, e di non essere nient'altro che la somma di tante scelte sbagliate e la conseguenza di situazioni che sarebbero potuto andare diversamente, se solo il caso lo avesse permesso, o voluto.
    Di quei visi fin troppo uguali a quelli riuniti intorno al tavolo di legno, e delle loro espressioni che raccontavano una storia troppo lontana per essere ricordata, Hans non sapeva cosa farsene.
    «Ti è mai sembrato di avere sprazzi di ricordi non tuoi? Sapere cose che non avresti dovuto sapere?» glielo aveva chiesto Joey, il pomeriggio che aveva bussato alla sua porta per fargli sapere che, fratello o meno, ci sarebbe stato per lui se ne avesse avuto bisogno, perché aveva fatto una promessa a qualcuno che non era più, e voleva mantenere la parola data. «forse ora ci farai più attenzione»
    Non era stato così, e nell'osservare i volti di un Dominic che non era Dominic, e di un Joey che non era Joey, Hans non sentiva nulla, se non l'inspiegabile sensazione di essere fuori posto, un'incognita aggiunta all'equazione in un secondo momento, troppo tardi per trovargli un posto, e con l'unico effetto di costringere i partecipanti a rifare tutto da capo per trovare un posto in cui farla stare.
    Distolse lo sguardo e lo portò altrove, non importava il dove, purché fosse lontano da quelle foto e da quegli sguardi.
    Alle parole di Dominic prestò poca attenzione, ma colse quelle più importanti.
    Heatcliff.
    James e Wes.
    Fratelli.
    Prima che partissimo tutti.

    Era stato il caso, a farli ritrovare, o il loro legame speciale, in quel futuro di cui nessuno di loro aveva memoria, aveva fatto sì che potessero riuscirci, indipendentemente dallo spazio e dal tempo? Una domanda interessante quella, che Hans tenne per sé.
    Dominic aveva le sue foto, Joey aveva… qualsiasi cosa avesse raccontato a lui delle sue origini — una foto, una lettera, un ricordo; Hans non lo sapeva, non lo ricordava, ma non era importante. Lui, con le sue mani vuote e i cassetti della memoria completamente svuotati, era la risposta di cui aveva bisogno. Lo collocava perfettamente anche in quel presente, come la variabile esterna e anomala, estranea. Il fatto che non avesse con sé nulla, era un indicatore sufficiente, secondo lui.
    Ma non lo disse a Joey, e soprattutto non lo disse a Dominic, che sembrava credere a quella storia più del dovuto; come se ci avesse investito energie e tempo e cuore e temesse con tutto se stesso che qualcuno arrivasse per strapparlo via. Hans era un po' tentato di alzarsi e informarlo di non essere interessato, contribuendo così allo stringere una morsa metaforica intorno al cuore troppo delicato dell'infermiere, ma non lo fece — Narah Bloodworth lo aveva cresciuto meglio di così.
    «Qualcosa non funziona»
    Solo a quel punto spostò lo sguardo su Joey, prima di farlo scivolare sul foglio piegato che aveva tirato fuori dalla tasca. E dunque, aveva una lettera anche lui, uh. E delle foto. Hans non si stupì nel non esserne sorpreso, perché era sempre stato fin troppo intelligente per i suoi gusti, e sapeva perfettamente cosa aspettarsi. Era raro che si sbagliasse, persino quando avrebbe voluto tantissimo farlo.
    «James non sapeva che anche Heathcliff sarebbe partito. Lui se n'è andato in segreto, senza dirlo a nessuno, ma si aspettava Cliff sarebbe rimasto a casa a badare a- al resto. A chi sarebbe rimasto.»
    “A chi sarebbe rimasto”.
    Comprendeva forse anche Wes? Non sarebbe dovuto partire? Nulla di quella faccenda del viaggio era chiaro ad Hans, e con ogni probabilità quella era la sua occasione per fare domande e ricevere risposte, ma non aprì bocca.
    Guardò invece Dom, lo sguardo color ghiaccio a rimbalzare da una figura all'altra mentre, suo malgrado, provava a mettere insieme i pezzi di quel racconto per estrapolare un quadro che fosse un po' meno vago.
    «Heathcliff è tornato indietro per cercarvi, per trovarvi, e per assicurarsi che stiate bene, che siate felici, e che abbiate trovato qui quello che non potevate trovare in quell’era malata»
    La risposta di Joey lo trovò perfettamente d'accordo: «Avete fatto un lavoro un po' di merda.» ma nel sentire lo sguardo dell'altro posarsi su di lui, Hans rimase impassibile, se non per l'occhiata che rivolse a Joey, nella quale non si poteva leggere quasi nulla — di certo, non il senso di colpa inesistente per aver fatto sentire un perfetto estraneo in dovere di preoccupa per lui, e poi fallire.
    Moving on.
    «lo so da un paio d'anni. non ve l'ho mai detto perché non volevo intromettermi nelle vostre vite, e perché pensavo che il mio compito, quello che Heathcliff mi aveva chiesto di fare, fosse esaurito»
    Okay?
    «so che non cercate un fratello, e che tantomeno ne vedete uno in me, e lo rispetto — ma voglio che sappiate che voi avete comunque una famiglia qui. E non lo dico perché me l'ha detto Heathcliff, né perché me l'hai scritto tu, Joey, lo dico perché lo voglio io, come Dominic. Tutto qua.»
    Mh.
    Hans non aveva opinioni in merito — o comunque, nessuna che non lo facesse passare per l'esatta testa di cazzo insensibile che sapeva di essere. Perciò rimase zitto.
    «preferisco il concetto di squadra, a quello di famiglia» non lo sorprendeva affatto, ma per lui non valeva lo stesso discorso di Joey: era sempre stato un solitario, per scelta sua e perché sapeva con certezza quasi matematica, che nessuno sarebbe mai rimasto nella sua vita e, proprio per questo, aveva sempre allontanato chiunque prima ancora di poter dire di avere qualcosa da perdere. Nessun concetto, che fosse di squadra o di famiglia, aveva mai avuto un vero valore per lui.
    Non quando persino la persona più importante della sua vita, aveva trovato il modo di scivolare via e sparire nel nulla, lasciandosi dietro un Hans sempre più vuoto e solo. Se persio Elizavetha l'aveva abbandonato, che speranze aveva che gli altri non facessero esattamente la stessa cosa? Le probabilità erano così infime da non valere nemmeno la pena di essere prese in considerazione.
    «ma non mi dispiace poter parlare di questa cosa con qualcuno»
    Strinse le labbra in una piega tesa, sciogliendo al contempo le mani e portandole nelle tasche della felpa, sguardo basso e lontano da quello ancora troppo poco familiare dei due per potercisi rispecchiare; parlare con loro di quella cosa non rientrava necessariamente tra le priorità del Belby, al momento. Non sapeva come essere utile a quel discorso, né sapeva se volesse esserlo.
    Seguì con lo sguardo le foro allungate da Joey, e solo perché la curiosità suscitata dal movimento fu più forte di qualsiasi altro istinto, portandolo a reagire prima di riuscire a darsi un vero controllo.
    Osservò le facce dei due uomini ritratti, riconoscendo solo vagamente uno dei due — non era mai stato un grande fan (o assiduo frequentatore) dell'infermeria ai tempi della scuola, Hans, anche se avrebbe dovuto.
    Dell'altro uomo, sapeva nulla.
    Ma, intrusivo e improvviso, un pensiero vago lo colpì, facendogli domandare se fossero, in qualche modo, i loro genitori, e se quello facesse di loro fratelli di sangue, o se quei due uomini li avessero semplicemente adottati per dare forma e colore alla loro famiglia.
    Non era certo di voler conoscere quelle risposte, avrebbe significato provare interesse per qualcosa che, infondo, non aveva più importanza.
    «anche Cliff ti ha chiesto di tenerli separati?»
    Fu quella domanda, piuttosto, a catturare tutta l'attenzione di Hans, e a farlo parlare per la prima volta in svariati minuti. «perché?»
    E non era forse quella la sua domanda preferita al mondo.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
  5. .
    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    La sigaretta che stringeva fra le dita non stava sortendo affatto l'effetto placebo che Hans aveva, stupidamente, sperato.
    Il fumo, dall'odore troppo acre per poter essere scambiato con quello dell'erba, persino volendoci credere molto forte, gli pizzicava il naso e bruciava poi i polmoni quando Hans aspirava generosi tiri dalla paglia portata alle labbra, ma non spazzava via i pensieri e i ricordi la confusi del Lotus.
    E Hans ne aveva, francamente, le palle piene.
    Sospirò, e reclinò la testa all'indietro valutando se fosse stata una buona idea o meno quella di uscire.
    Probabilmente no, ma l'alternativa sarebbe stata quella di tirare fuori il regalo che aveva ricevuto al compleanno e perdersi con la testa fra le nuvole, nemmeno troppo metaforicamente, considerando che potesse decidere di rifugiarsi (di isolarsi) sul fottuto pianeta Nettuno, anche se non per davvero. Era comunque un ottimo meccanismo di (non) coping, uno che, lo sapeva, avrebbe finito con l'abusare.
    La riusciva quasi a sentire la voce atona di Twat nelle orecchie, ad ammonirlo esattamente come Hans sapeva avrebbe fatto (se fosse stato lì): «non si usa così, Hans.» e ancora, senza distogliere lo sguardo gelido dal coinquilino, «te lo tolgo».
    Ma una dipendenza era una dipendenza, a prescindere dalla sua forma, e Hans Belby trovava sempre il modo di trasformare una scusa in qualcosa in grado di distruggerlo se usato senza moderazione — Twat avrebbe dovuto saperlo meglio di così, piuttosto che regalargli un mezzo per scappare dai problemi.
    (E no, non parlava del pugnale che aveva trovato nella scatola regalo insieme al pianeta magico in miniatura. Checché ne dicesse la gente, non aveva istinti suicida lo special.)
    Socchiuse un attimo gli occhi, evitando di pensare a come lo stuzzicasse l'idea di riprendere Orion e tornare a casa, lottando contro se stesso per rimanere seduto immobile su quella panchina, le gambe incrociate e il guinzaglio incastrato al polso per evitare che il cane si allontanasse troppo.
    Forse un po' troppo concentrato su quell'intento, al punto da lasciar scivolare, senza rendersene conto, deboli ma consistenti filamenti di potere verso l'esterno, come capelli troppo corti o troppo ribelli che sfuggivano capricciosi alla presa asfissiante di un elastico molto stretto.
    Aveva imparato, in quei mesi, a controllare il nuovo potere; poco ma sicuro si era impegnato per farlo. Una volta tolto il disprezzo e il ribrezzo che da sempre lo aveva portato ad odiare la pirocinesi, per quello che aveva sempre rappresentato nella sua testa, e una volta accettato il fatto che non ci fosse una soluzione diversa al suo problema, che non potesse estirparlo alla radice come se fosse un'erbaccia cattiva e malata, non gli era rimasto altro se non imparare a conviverci.
    Aveva dovuto farlo, se non altro perché essere bombardato di emozioni per lo più asfissianti, ovunque andasse e qualunque cosa facesse, si era rivelato essere davvero qualcosa di molto poco piacevole.
    Non si sarebbe spinto così tanto oltre da reputarsi un maestro nell'arte dell'autocontrollo, ma poteva per lo meno andare in giro senza rischiare di venire sopraffatto da emozioni non sue, e sgretolarsi sotto il loro peso. Le sue spalle erano troppo magroline per poter sopportare quel genere di fatica; e lui troppo stanco di ogni cosa per non tentare almeno di darsi una possibilità di farcela.
    Riusciva a controllarsi quanto bastava da non rischiare di influenzare involontariamente chi gli stava intorno (non che provasse così tante emozioni da considerarsi un grande rischio per la società, andava detto) o, al contrario, di finire con il confondere emozioni altrui per sue.
    Qualcosa ancora tendeva a scivolare tra le pieghe di un controllo non ancora perfezionato a dovere (e temeva l'avrebbero fatto sempre), ma erano perlopiù rumori di sottofondo, dei ronzii che, col giusto impegno, poteva fingere di non percepire.
    Erano stati il modo in cui aveva iniziato a riconoscere la firma di chi lo circondava, e di percepirne la presenza ancora prima di vederli; un modo di classificazione al pari della cadenza di passi, o del respiro più o meno pesante.
    In quel caso specifico, avrebbe descritto quella di Check come un brusio basso e profondo, insistente; un ringhio silenzioso, o più semplicemente una rabbia radicata nelle ossa e impossibile da scrollare via.
    Un mix che, si rese conto il Belby in quel momento, quando non c'era finiva inconsciamente a cercare; e quando appariva, senza avviso e senza un pattern regolare che rendesse possibile prevederlo, aveva il retrogusto di qualcosa di familiare.
    Gonfiò i polmoni di aria e di fumo, e trattenne entrambi per qualche istante, gli occhi ancora – testardamente – chiusi.
    Non aveva bisogno di vederlo oer sapere che fosse lì, e se solo fosse stato un po' meno preso da tutto il resto, avrebbe potuto rendersi conto che ci fosse sempre stato, anche quando la figura del custode era ben lontana dal palesarsi.
    Poteva scusare quella piccola fuga di potere, quella quasi impercettibile perdita di controllo, con la stanchezza che sentiva pesare nelle ossa?
    Aprì gli occhi l'istante prima che Check parlasse, ma tenne le iridi ghiaccio su Orion — esattamente come il Vibe.
    «posso?»
    Si strinse nelle spalle, Hans; non era a lui che doveva chiederlo — Orion era una creatura (fin troppo) intelligente, e poteva decidere da solo se volesse essere accarezzato o meno.
    Non gli chiese da dove fosse arrivato, perché fosse lì, né tentò di spostare lo sguardo sulla figura ora accucciata del maggiore; c'erano delle scuse che aleggiavano su loro, pesanti come ogni altro loro scambio — perché fosse mai che quei due scambiassero qualche parola leggera e senza infiniti possibili risvolti da (non) analizzare in seguito.
    Scuse alle quali, mesi prima, Hans aveva risposto con un silenzio pregno di significato, e le spalle strette che sembravano esser diventati l'unica risposta che fosse in grado di fornire al Vibe. Come se avesse paura di aprire la bocca per dire qualsiasi cosa; come se temesse di dire quella sbagliata, o peggio, di non avere nulla da dire.
    «lo capisco, se preferisci che me ne vado»
    Lo sentì per un istante su di sé, lo sguardo penetrante del lupo, e gli concesse la grazia di non ricambiarlo; qualcosa gli diceva che fosse meglio così per entrambi, e non serviva sintonizzarsi sulle emozioni del maggiore per farlo.
    Quello di Hans, al contrario, scivolò sui fogli che stringeva ancora in una mano, mentre l'altra portava la sigaretta alle labbra per uno degli ultimi tiri che ne segnavano la fugace esistenza.
    Non gli aveva detto anche lui quasi la stessa cosa, quella notte di luna piena?
    E, per tutti i santi, avrebbe dovuto farlo; andare via, e non guardarsi indietro. Lasciare Check ai suoi demoni (non solo metaforici) e dare a se stesso più spazio per respirare. Un margine di errore.
    Ma non l'aveva fatto, no?
    Tirò le labbra in una linea sottile, e scosse appena la testa.
    No, non andare.
    Troppo (stanco, distrutto, rotto) codardo, per dirlo ad alta voce. Non si stava meglio nei silenzi? Perché da un anno scarso a quella parte, Hans parlava anche troppo — e solo quando non aveva assolutamente nulla da dire.
    «è scomparsa anche mia sorella»
    Solo allora, seppure dopo interminabili istanti, alzò gli occhi su Check, e per la prima volta dall'inizio di quell'incontro si permise di lasciarlo indugiare un attimo.
    Non gli sembrava diverso dall'ultima volta che si erano visti, ma era anche vero che Hans avesse preso già da tempo l'abitudine di non fidarsi di ciò che vedeva, non quando da praticamente tutta la vita lottava contro (non così) sporadici episodi in cui la realtà smetteva di avere un senso e si accartocciava su se stessa, lasciandolo confuso e vulnerabile.
    Tentennò lo stesso, nel prendere nota del profilo marcato, la mandibola serrata, il taglio degli occhi particolare e inconfondibile, e quella che sembrava essere una domanda che non riusciva a prendere forma a premere sulle labbra strette.
    Finì la sigaretta, e con un movimento lento la spense contro la panchina. «c'era molta gente,» ricordò più a se stesso, che all'altro; c'era stata pure troppa gente. E lui non era stato in condizioni di riconoscere nessuno di loro, trascinato in basso da un vizio a cui era stato ripresentato contro la sua volontà; aveva avuto pochi fari a far luce nel mare in tempesta che erano stati i suoi pensieri in quegli ultimi frangenti, e nessuno di loro era stato la sorella di Check.
    Non gli chiese se gli mancasse, perché se c'era una cosa che Hans aveva imparato del custode era che non avesse un rapporto così profondo con i suoi fratelli maggiori, e perché era Hans: non avrebbe presunto che, solo perché fratelli, in quelle circostanze Check si sentisse più vicino a lei. E non tentò nemmeno di frugare tra le emozioni del maggiore per cercare quella risposta, perché non era affar suo.
    Ma si sentì comunque in dovere di abbassare nuovamente gli occhi, sulle mani ora congiunte in grembo, e scusarsi per tutto quello che non aveva fatto. Non avrebbe mai potuto—
    Aiutare. Rimanere lì. Combattere.
    «mi dispiace»
    Aveva seguito l'istinto, e le minacce, e aveva cercato la via d'uscita convinto che gli altri avrebbero seguito poco dopo; il finale di quella storia nessuno avrebbe potuto mai prevederlo.
    Si rese conto di aver morso l'interno della guancia solo quando assaporò il gusto metallico del sangue — ed allora strinse più forte.
    Non era mai stato nulla se non un egoista, Hans Belby. Bravissimo a deludere le aspettative, e le persone, e a non preoccuparsene.
    «l'hai cercata?» in quei dieci giorni i cui, a quanto pareva, erano rimasti sequestrati da qualcuno ancora senza nome, e senza faccia.
    Mi hai cercato?
    Aveva già la risposta a quella domanda, Hans, e non si sorprendeva a sapere che fosse no; non era la prima volta che Hans Belby spariva nel nulla e senza lasciare alcun biglietto o traccia per essere trovato — ma, dio!, sperava vivamente fosse l'ultima. E dieci giorni, per Hans e Check, non erano nulla se non una parentesi di qualche istante tra un incontro e l'altro. Sapeva già, l'empatico, che Check non avesse avuto nemmeno il tempo per realizzare che fosse sparito.
    E poi, la domanda che non si azzardava a fare a nessuno, ad alta voce; né a stesso, in silenzio.
    Li ritroveremo?
    I risvolti alle possibili risposte non gli piacevano, e per una volta nella sua stupida vita, Hans Belby sceglieva volutamente di rimanere nell'ignoranza.
    Faceva meno male.
    hogwarts
    ivorbone
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    what a shame we all remain,
    such fragile broken things,
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    who won't look in my eyes;
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    formed patterns in my mind.
  6. .
    hans belby
    13.01.2004
    malmö , swe
    L'aveva visto di nuovo.
    L’aveva visto di nuovo: per quanto cercasse di scacciare l’immagine dalla mente, era sempre lì, che fosse sveglio o che provasse (inutilmente) a dormire.
    Le immagini erano sempre lì, impresse dietro palpebre strizzate tra loro, con ferocia e disperazione, e marchiate a fuoco nel libro dei ricordi che aveva pian piano ricominciato a scrivere. Erano lì, e così anche lui — fermo, seduto sul selciato fuori dal resort, con gli occhi fissi sull'intera struttura che si stagliava sul promontorio contro le prime luci del tramonto. Una struttura discretamente grande, su tre piani, con più stanze di quante potesse (o volesse) contare; una struttura che, a vederla da fuori, sembrava solida e stabile, ben piantata nelle sue fondamenta sin dal giorno della sua apertura, svariati anni prima come indicava l’insegna all’entrata.
    Non avrebbe saputo dire, né allora né oggi, come ci fosse arrivato fin lì — forza della disperazione, probabilmente. O paura che Twat lo prendesse a calci nel culo se non avesse corso veloce come mai in vita sua pur di uscire di lì. Terrore di riaprire gli occhi e rendersi conto fosse tutto un sogno, che nessuno fosse arrivato lì per salvarli.
    Quale che fosse stata la sua ragione in quel momento, Hans non aveva perso nemmeno un attimo a pensarci su, e non avrebbe mentito a se stesso dicendo di averlo fatto: non aveva mai avuto un grande istinto di sopravvivenza in sé, ma persino lui aveva saputo subito che rimanere lì fosse da folli. Da idioti. Certo che sarebbe andato via; aveva mai avuto forse la possibilità di compiere una scelta diversa? No, mai; non lui.
    In qualche modo, comunque, sulle sue gambe o forse guidato da chi era riuscito ad uscire precedendolo, era arrivato fuori; e, seduto, aveva osservato il Lotus per interminabili minuti. Cos’altro (poteva) aveva da fare? Non poteva tornare a casa, quando non sapeva nemmeno dove si trovasse e quanta distanza ci fosse dalla sua attuale posizione a New Hovel; e poi, l'aveva saputo subito che non sarebbe stato in grado di farlo da solo.
    E poi, anche volendo, anche potendo, non avrebbe potuto far ritorno lo stesso — non senza gli altri.
    Lo aveva visto di nuovo, accarezzato dalle luci rossastre del tramonto: il portone d’ingresso con il fiore di loto intagliato, e aveva atteso che Twat e Mac lo varcassero per raggiungerlo. Loro, perché degli altri Hans non aveva nemmeno registrato la presenza; nei suoi pensieri, densi come melassa, faticavano a starci tutti. A malapena ci stava lui<i>.
    Lo aveva rivisto, occhi spalancati nel buio di camera sua, il fiato corto come in quei lunghissimi istanti in cui, fuori dal Lotus, aveva atteso. E atteso. <i>E atteso
    . Ma il momento non era mai arrivato, e Hans se ne era rimasto lì, ginocchia strette al petto nel vano tentativo di scaldarsi e di proteggersi e di convincersi che andava tutto bene anche quando non andava bene un cazzo, e aveva osservato incredulo l'intero resort sparire davanti ai suoi occhi.
    L’aveva visto, ma non lo aveva necessariamente capito subito. La sua mente si era rifiutata di processare, di elaborare.
    Di accettare.
    Per un attimo, o forse per ore era stato certo di averlo solo immaginato; doveva essere stata un'allucinazione, no? Per forza, gli edifici non sparivano nel nulla da un momento all'altro. Non sarebbe stata certo la prima volta che Hans Belby vedeva qualcosa che non c’era — più. Che non c’era più.
    Ci era voluto un po’ più del necessario per far sì che quel pensiero mettesse radici e prendesse forma nella sua testa e, tutto sommato, se non fosse stato Hans, sparito lui stesso in circostanze misteriose poco più di un anno prima, e con la sua buona dose di esperienze inspiegabili e ai confini della fottuta realtà alle spalle, probabilmente ci avrebbe messo ancora un minuto in più per arrivare alla realizzazione che fosse tutto vero.
    Sobrio, non sobrio; non importava. Sapeva quello che aveva visto, ma rimaneva comunque difficile credere che fosse successo davvero. Non voleva accettarlo.
    Persino così, sdraiato nel letto con gli occhi chiusi e strizzati così forte da riuscire persino a vedere giochi di luci scoppiare dietro le palpebre serrate, aveva sperato fino all'ultimo di esserselo immaginato; persino dopo giorni, ancora una parte di lui provava a crederci.
    Uno scherzo della sua già provata psiche, si ripeteva, dettato dagli eventi, e dagli apparenti dieci giorni di prigionia di cui non aveva memoria, e della droga somministrata senza il suo permesso.
    C’erano così tante motivazioni che avrebbero potuto giustificare tutto quanto. Motivazioni alle quali Hans aveva cercato di appigliarsi con tutto se stesso per rimanere sano. Aveva immaginato tutto — glielo avevano detto – a lui, a loro, agli sfortunati (o fortunati, a seconda dei punti di vista) sopravvissuti. – e a momenti alterni ad Hans piaceva credersi abbastanza stupido da crederci. Avrebbe fatto meno male.
    Eppure, ricordava come quel maledetto giorno, quando aveva riaperto gli occhi – senza nemmeno rendersi conto di averli chiusi –, di fronte a sé aveva trovato solo il vuoto laddove avrebbe dovuto riconoscere la forma del resort svanito nel nulla.
    E il silenzio, rotto solo dal respiro pesante — lo stesso di quella mattina (e molte altre precedenti), nel suo letto, al risveglio dall’ennesimo incubo.
    L’aveva visto di nuovo.
    Aprendo gli occhi di soprassalto e scrollandosi di dosso le coperte, il suo primo pensiero era stato, familiare e per un attimo confortevole nella sua possibilità di essere per davvero, che avesse immaginato tutto.
    Che se lo fosse inventato.
    Qualcuno gli aveva dato del pazzo – ha chiaramente dei problemi, hai sentito che di recente è stato ricoverato per un'overdose? non il più affidabile, chissà cosa gli frulla nella testa, cosa non si fa per un po’ di attenzioni – ma Hans sapeva ciò che aveva visto. Lo sapeva. E ne aveva la conferma ogni volta che, come in quel momento , scivolava fuori dalla sua stanza e andava a bussare a quella di Twat senza ricevere risposta.
    Per giorni aveva resistito all'impulso di aprirla e infilarsi dentro, tenendo fede al tacito patto stretto tra i due special di non azzardarsi mai troppo oltre la linea di confine che entrambi avevano tracciato per la necessità di avere i propri spazi — patto che l'emocineta aveva rotto a causa di forza maggiori, l’anno prima, assumendosi di fatto l'ingrato compito di guardiano di Hans.
    Ma lui che diritto aveva di intrufolarsi nella stanza di Twat durante la sua assenza? Nessuno.
    Farlo, inoltre, avrebbe significato darla vinta ai pensieri intrusivi che suggerivano che l'altro non sarebbe più tornato.
    Era tutto diverso, in quell'occasione.
    Ogni volta che Twat aveva qualcosa da fare (e Hans non chiedeva mai cosa, non era affar suo saperlo) lasciava sempre scritto un messaggio — mai una data di ritorno, ma sempre una nota che facesse credere in un rientro. Prima o poi.
    non finire i miei biscotti
    ho scaricato il film di cui parlavamo
    lezione mercoledì sera
    Piccole cose, che il Belby spesso ignorava perché fuck you twat, mangio i biscotti che voglio quando voglio pur sapendo che non lo avrebbe fatto — era comunque un modo come un altro che spingeva l'empatico a credere che l'amico sarebbe tornato. Prima o poi.
    C'era solo un biglietto che non aveva mai aperto, e Twat glielo aveva dato mesi prima, dopo il rientro di Hans a New hovel post riabilitazione, ed era stato accompagnato da poche parole e da una stretta così forte intorno al braccio dell'allora ancora pirocineta, che Hans aveva saputo subito contenesse qualcosa di importante.
    «nel caso dovesse succedermi qualcosa» e il Belby aveva sentito l'irrefrenabile voglia di alzare gli occhi al cielo e commentare con un secco «cosa mai dovrebbe succederti» — ma era più intelligente di così e sapeva che le possibilità fossero infinite, in un mondo come il loro. Lui, poi, che era la prova lampante che gli incidenti o le sparizioni misteriose potevano capitare in qualsiasi momento, pur senza volerlo.
    Pur credendo, scioccamente, che non sarebbe mai servito. L'aveva accettato, e l'aveva messo via, credendo fermamente che non ne avrebbe mai avuto bisogno; di tutte le (poche) persone che gravitavano intorno alla sua orbita, l'ultima che Hans avesse mai immaginato potesse andare via, quella era stata Twat. Gli avvenimenti del Lotus avevano dimostrato l'esatto contrario, e avevano lasciato uno squarcio nel petto dello special, e un vuoto che andava ben oltre il silenzio che sentiva prevenire oltre la porta chiusa della stanza dell’amico.

    Non aveva perso tempo a confrontarsi con nessuno di quelli lasciati indietro — perché, onestamente, chi cazzo siete. Non li conosceva, e non aveva voglia di imparare a farlo solo perché si sentiva in dovere di, avendo condiviso qualcosa. Aveva già troppe amicizie nate in seguito a traumi, grazie tante.
    Erano confusi i ricordi che l'avevano accompagnato dal Lotus, a Londra. E poi di nuovo a New Hovel. Ricordava vagamente di aver visto Dominic — era lì per la sua amica, quella rossa e col carattere troppo irruento per far sì che Hans la trovasse gradevole e di compagnia. Aveva visto le facce dei suoi vicini nel quartiere special e aveva letto sui loro visi domande di ogni tipo, a cui aveva lasciato che rispondesse il suo aver fatto ritorno. Aveva ignorato tutto il resto, perché non aveva risposte da dare ai continui dove sono finiti di Joey, o di Gaylord, o di Taichi. O di chiunque altro provasse a fermarlo per chiedergli qualcosa. Pochi, è vero; dopotutto, era un pazzo. Gli edifici non svanivano nel nulla.
    Aveva passato più tempo in casa di quanto avesse creduto possibile, fin quando l'aria e il silenzio non si erano fatti opprimenti. Orion, sopravvissuto a quei pochi giorni di solitudine tra la partenza di Twat e il ritorno di Hans, era stato felice di avere nuovamente qualcuno contro cui premere il muso umido, un petto su cui acciambellarsi per riposare. Era stato forse la ragione per cui Hans aveva resistito qualche giorno anziché qualche ora, prima di non farcela più e uscire da lì come se ne andasse della sua sanità mentale.
    (Era esattamente così.)
    Doveva allontanarsi, o avrebbe ceduto e messo sottosopra la camera di Twat per trovare dell'erba che, lo sapeva, era nascosta da qualche parte in quella casa; non poteva credere che l'amico si fosse sbarazzato di ogni cosa, solo per non dare a lui modo di cadere nella tentazione di provarci di nuovo. Era combattuto a metà tra il desiderio di scoprire se si fosse sbagliato o meno, e quello di non darla vinta a una dipendenza che aveva passato l'intero anno precedente a combattere.
    Piuttosto, aveva afferrato un quadernino dal cassetto in cui l'aveva rilegato anni prima, aveva messo il guinzaglio ad Orion ed era uscito, senza una meta.
    Meta che, svariati minuti (od ore; non era troppo affidabile quando si trattava dello scorrere del tempo) si era rivelata essere il giardino pubblico di Diagon Alley, con i suoi viali alberati e le panchine e fin troppi passanti per essere una mattina random di una giornata altrettanto random, e gelida.
    Trascinato da un Orion entusiasta di vedere finalmente altri esseri umani e canini, e dall'avere la compagnia di qualcuno che non fosse solo ed esclusivamente Hans (comprensibile), lo special ignorò perlopiù chiunque incrociasse il suo cammino (una delle sue specialità) fino a trovare una panchina libera e in disparte, dove riposare le gambe stanche. E fumarsi una sigaretta — un'alternativa banale e poco soddisfacente a quello che avrebbe desiderato davvero, ma doveva farsela bastare.
    Gli occhi, intanto, evitavano con cura di posarsi sul quaderno che aveva arrotolato e stretto nel pugno, incapace di iniziare anche solo a pensare qualcosa da scriverci; sapeva non dovessero essere necessariamente frasi coerenti, e che lo scopo di quell'insieme di fogli fosse proprio quello di accogliere i suoi pensieri così come nascevano, confusi e ingarbugliati e sbagliati e distorti, ma aveva ancora problemi, anche dopo tutti quegli anni, a credere potesse essere una vera soluzione.
    Ma, d'altronde, cos'altro gli rimaneva?
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    indovinate? Role libera.
    Sorry not sorry, avevo bisogno di elaborare.
    Potete avvicinarvi (per accarezzare il cane.) ma non è detto che Hans dia segni di vita, non posso promettere nulla. Se siete dei sopravvissuti al Lotus come lui, stategli lontano (cosa?cosa.)
    Scherzo.

    Forse.
  7. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    aimless
    jan. 13th, 2004
    empath
    hans belby | thnx(4nothing)
    «certo che è strano farsi rapire così tante volte»
    Hans, deadpan: «è colpa di Jay», e se Avery conoscesse o meno il Matthews, non erano problemi di Hans. Era la verità; se ci pensate, tutto era iniziato dopo che Jayson Matthews aveva preso i bimbi sperduti sotto la sua (riluttante) ala, crescendoli a sua immagine e somiglianza. Tutti, prima o poi sparivano.
    Hans era l’unico che però (purtroppo per lui) faceva sempre ritorno.
    Chissà che quella fosse la volta buona?
    Ad Avery non diede altre informazioni per chiarire quella frase, né le raccontò di tutte le volte in cui, negli ultimi anni, aveva preso parte suo malgrado a qualcosa di inspiegabile: non c’era abbastanza tempo per farlo, e poi comunque i ricordi di quegli eventi erano un mosaico confuso di immagini e colori che la droga aveva reso praticamente irriconoscibile. Però la guardò con le palpebre ridotte a due fessure, non approvando granché l’entusiasmo che la sua proposta aveva suscitato in lei. E ancor meno bella fu il percepire, pur senza potere, quella stessa bolla di entusiasmo scoppiare all’idea che qualcuno avesse messo loro le mani addosso, cambiandoli in abiti sconosciuti. Forse non avrebbe dovuto farlo presente, ma era ormai troppo tardi per tornare indietro. Pazienza. Se ci pensava bene, le implicazioni erano delle più varie ed alcune più terribili di altre, e non voleva pensarci in quel momento; una volta fuori, avrebbero potuto (dimenticare tutto calandosi qualcosa, oh sì, vaffanculo) fare più luce su quanto successo.
    Perché sarebbero usciti, a costo di prendere a spallate la porta.
    Beh… per essere più realisti, forse, avrebbe dovuto dire che avrebbe provato a spaccare la finestra usando la lampada o una sedia, ma in effetti dubitava di avere abbastanza forza di poter fare anche quello. Sperava Avery fosse più utile di lui.
    Back on crack!
    (Letteralmente lui, dopo quell’esperienza.)
    «quindi sei uno special, figooooo. che potere??»
    «uhm–» ma non ce le aveva domande meno personali da fare, quella lì? Mpf. «ecco—» «uuuh ok vediamo, sei un tipo da ananas sulla pizza o no?» Oh, ok. Quella era semplice. «non mi piace molto la pizza.» o il cibo in generale fine, con o senza ananas. Che poi, cos’è che avrebbe dovuto dire di una persona?! Mah. Giovani. E le avrebbe rigirato la domanda (no), se i rumori molesti dall’altra stanza non avessero richiamato la loro attenzione.
    «BONJOOOUR, CI SENTITE? SIETE VIVI??! MI CHIAMO IRIS !!»
    Hans, in un momento di buffering, prima di essere trascinato verso la parete contro la sua volontà: «iris? iris–quella–dei–funghetti iris Ma non è che, sotto sotto, avevano combinato tutto loro? Senza pensarci su, spinse Avery contro la parete e le puntò un dito verso la faccia. «che diavolo avete combinato?» San Valentino, non San Valentino, funghetti, non funghetti… non ci capiva più nulla.
    E intanto gente alla finestra che scriveva col sangue e— «cosa–» si allungò per raggiungere il pezzo di carta incastrato sotto il piede del comodino, quella che, aprendola, si rivelò essere una ricevuta di qualche tintoria; a parte il prezzo esorbitante (duh, qualcuno doveva aver lasciato molte lavatrici in arretrato, per pagare tutti quei galeoni), solo un’altra cosa saltò agli occhi dell’empatico. «ventiquattro febbraio?» non era possibile. Per sicurezza, anche se non si fidava di lei e non era più pronto ad escludere che fossero state le follie di adolescenti senza controllo a portarli in quella situazione, girò la ricevuta verso Avery. «noti nulla di strano?» Magari era solo lui che non sapeva più leggere.
    Oppure, erano finiti nel futuro.
    Oppure, erano stati sequestrati dieci giorni prima e sinceramente non voleva davvero pensare fosse un’ipotesi concreta.

    lele,
    Quando torni
    lele,
    Ti porta pure al bagno quando deve pisciare
    lele,
    Perché secondo te hans non ha addosso un GPS e un baby monitor
    lele,
    Sciocca

    Sipario.
    If you thought I'd leave then you were wrong 'cause I won't stop holding on.
    So you give up every chance you get just to feel new again.
    (I think we have an emergency. I think we have an emergency.)
    So are you listening? So are you watching me?
  8. .
    CITAZIONE (l a t i b u l e ' @ 17/2/2024, 12:50) 
    stanza #021: breccàn batte contro la parete, più volte. decidete voi se a quella comunicante con la stanza di hans e avery o quella di aiice e shiloh <3

    #020: vi sentiamo! poi avery arriverà a comunicare con voi
  9. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    aimless
    jan. 13th, 2004
    empath
    hans belby | thnx(4nothing)
    «come le prendono, minchia come le prendono. oh when i catch you, stronzo. vedrai.»
    Sapete cosa? Hans era felicissimo di non percepire (o essere influenzato da) le emozioni violente della ragazza, perché dubitava sarebbero state utili alla situazione in cui si trovavano, e ne bastava già una di persona in balìa della rabbia e con l'ardente desiderio di spaccare tutto. Hans le lasciava volentieri quel ruolo.
    Avrebbe apprezzato di più se Avery avesse smesso di fare avanti e indietro per la stanza, però, con l'unico risultato di essere rimbalzati indietro come uno yo-yo — cosa che, per inciso, cementò la convinzione in Hans che fosse una grifondoro, per il modo in cui provava e riprovava la stessa cosa pur sapendo già che il risultato non sarebbe cambiato. Ci voleva una certa dose di testardaggine (e stupidità, e testa dura) per tentare qualcosa a ripetizione pur sapendo che non avrebbe portato a nulla. Per la prima volta in vita sua – o la prima volta che riuscisse a ricordare, comunque – Hans provò l'irrefrenabile desiderio di buttare qualcuno giù dal balcone. Thinkin.
    «puoi smett–»
    «penso sia un regalo di san valentino. o un esperimento sociale a questo punto»
    Ed è canon che stessero avendo due conversazioni separate, a quel punto; come biasimarli, stava succedendo davvero troppo nello spazio di troppo poco tempo.
    Prima del crollo nervoso, Hans aveva pensato di nuovo all'anno prima e alla situazione ai limiti della tragicomicità che aveva vissuto insieme ad un gruppo di persone perlopiù sconosciute; non che ricordasse granché di quel giorno-barra-notte, certo, se non la sensazione di disagio che gli aveva lasciato sulla pelle, ma almeno quest'anno c'era una sola persona lì con lui, e gli sembrava quanto meno una piccola vittoria, se proprio.
    «è successo anche l’altr’anno,» informò Avery, quando riuscì a frenare, almeno in parte, l'isterismo causato dal segno violaceo sul braccio. Non andava bene nulla, ma andare in shutdown non lo avrebbe aiutato ad uscire di lì, e non era più quel Hans, anche se certe volte un po’ ne sentiva la mancanza. «ed è terribile come la prima volta.» una sentenza che pesava come un macigno sul petto.
    Lanciò un'occhiata alla ragazza, e ora che ci faceva caso sembrava sul punto di tirare una testata a qualcosa.
    O qualcuno.
    (Sperava non a lui.)
    Bene ma non benissimo.
    «senti,» voleva credere che non fosse stata Avery, o qualcuno dei suoi amici, a drogarli e portarli lì (anche perché, chi mai avrebbe voluto legarsi volontariamente ad Hans Belby, oh mio dio — nemmeno per scherzo) e aveva anche una teoria su come, sperava, poter uscire da quella stanza. «magari funziona sempre allo stesso modo, e per uscire dobbiamo… conoscerci.» terribile già così, ma gli avevano detto che la porta della cripta si era aperta dopo che ognuno di loro aveva trovato la propria anima gemella, no? Magari ora che era già lì, e non dovevano trovarsi, imparare a fare la conoscenza l'uno dell'altra sarebbe stato necessario per uscire da quell'hotel.
    Era davvero tutto terribile.
    «chi dovrebbe ucciderti?»
    Oh, ok, iniziava dalle domande difficili e personali.
    «uh– umh, nessuno, lascia stare.» era troppo lunga da spiegare, e sinceramente non erano affari di Avery — nemmeno se era la sua anima gemella. E nemmeno se per uscire da lì doveva condividere i cazzi suoi con una sconosciuta; c'erano altre cose che poteva dirle.
    Che poi, non ce ne aveva già una di anima gemella? Non che Hans credesse a quelle idiozie, ma gli sfuggiva la meccanica della cosa. Comunque, non gli interessava abbastanza da fare domande e darsi risposte.
    «non penso che siamo stati noi? e non so se sia droga, mi sento abbastanza bene??»
    Confirmed le due conversazioni separate, okay.
    Lo sguardo color ghiaccio dello special andò subito alla mano sulla spalla, e non fu affatto discreto nel modo in cui sgusciò via dal tocco, al diavolo i sentimenti feriti di una perfetta sconosciuta. «non credo importi se sia stato io o no» commentò, più a se stesso che ad Avery; e il cosa gli avessero iniettato era solo un dettaglio — vaglielo a spiegare tu, Avery, a Twat, che non era come sembrava.
    Alla ragazzina, invece, disse solo «qualcosa hanno fatto. ho il sonno leggero,» minchia, a dir poco, «mi sarei accorto se qualcuno mi avesse messo le mani addosso per infilarmi questa stupida maglietta» che no, e ora se ne accorgeva davvero, non era sua. Sperava che i vestiti fluorescenti dell'altra non fossero i suoi abiti quotidiani, e stesse andando a qualche festa di carnevale, ma non poteva darlo per certo.
    Per quanto gli costasse ammetterlo, e avendo già fallito con il tentativo mosso involontariamente da Avery, gli toccava per forza provare la sua teoria raccontando qualcosa di lui. «ok, uhm…» c’era un motivo se non aveva amici, minchia se c’era un motivo; non poteva nemmeno dire ad Avery “inizia tu” perché l’unica domanda che gli aveva fatto, Hans aveva deciso di non rispondere. «…vivo a new hovel.» era un’informazione che, se ci pensate bene, diceva abbastanza (no) su di lui, andava bene come tentativo?
    Lo sperava, ma ne dubitava.
    «non sono bravo in questo gioco, e–» e fu a quel punto che sentì i primi rumori. Tonfi sordi che sembravano provenire dalla parete. Guardò Avery, chiedendole con lo sguardo se avesse sentito anche lei qualcosa — non sarebbe stata la prima volta, per Hans, di avere allucinazioni uditive, o visive che fossero.
    Quando i colpi si fecero più intensi, però, entrambi realizzarono che doveva esserci davvero qualcuno dall’altra parte. E Hans, un vero cavaliere (che non aveva voglia di battere contro il muro, figuriamoci.), chiese: «vuoi l’onore di rispondere?» così Avery poteva urlare e sfogarsi.
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    aimless
    jan. 13th, 2004
    empath
    hans belby | thnx(4nothing)
    Avery, e quoto, “aveva bisogno di un secondo neurone nella stanza” e le era capitato Hans. Mi dispiace moltissimo.
    L’unica cosa che l’empatico poteva fare, per il momento, era fissarla come se avesse visto un fantasma; perché, per certi versi, sentiva fosse così. Avery doveva avere più o meno la stessa età di Elisavetha l’ultima volta che Hans l’aveva visto; di certo, aveva lo stesso sguardo chiaro, e gli occhi da gatta, i capelli biondo cenere e la stessa forma delle labbra, quello superiore più sottile e a cuore, quello inferiore carnoso e — «comunque sono avery, piacere eh»
    «uh- hans.»
    La voce roca tipica di chi non parlava da giorni non era una novità per il Belby — o, perlomeno, per il Belby di una volta. A quanto pareva, la sobrietà gli aveva sciolto la lingua e ora tendeva a chiacchierare pure troppo per i suoi gusti. E per quelli di Twat, che era sempre ad un passo dal commettere un coinquilinicidio (poteva chiamarlo bromicidio? suonava meglio) (ma non era quello il punto, al momento.)
    Si schiarì la gola, forse era tutto nella sua testa.
    Certo, Avery.
    Non era sua sorella.
    Sempre che poi Elle fosse stata davvero sua sorella; una cosa che non aveva ancora affrontato, da sobrio, era la bomba lanciata da Joey e Dominic la primavera precedente. C’erano cose che Hans preferiva non processare — come l’incredibile somiglianza tra quella Avery e quella che per tutta la vita il Belby aveva considerato la sua gemella.
    Come minimo anche la ragazzina era una grifondoro.
    (Sì.)
    (Tutto terribile.)
    (Non voleva pensarci.)
    (Si stava per sentire male, e non era il momento di pullare una Taichi facendosi venire un attacco di panico.)
    Senza aggiungere altro (per non confermare né smentire la sua preoccupante teoria sul non aver parlato per ben più di una manciata di ore), Hans trascinò Avery attraverso la stanza, fino a raggiungere la porta, mosso solo solo ed esclusivamente dalla disperazione di uscire da lì. E possibilmente non portarsi dietro i fantasmi del passato.
    «non si apre»
    Sì beh, Sherlock: non solo non si apriva — «uh-» le indicò con un gesto il luogo dove erano.
    Spoiler: non erano alla porta.
    Ma di nuovo accanto al letto. Come diavolo c’erano arrivati? La magia non funzionava… a meno che, non fosse solo la loro magia ad essere bloccata. Cristo, odiava i maghi. Odiava tutto di quel mondo.
    «possiamo provare ad affacciarci dal terrazzo?»
    Sapete cosa? «a questo punto.» Cos’altro potevano fare? (Buttarsi di sotto: potevano sempre sperare di aver imparato a volare durante la notte.) Nel dubbio, si incamminò con Avery verso la finestra e — «penso sia san valentino. il bigliettino diceva così» «ma che–» Hans guardò Avery; Avery, presumibilmente, guardò Hans pregando alla dea Taytay. Bene ma non benissimo. «guarda.» Lui non voleva più vedere (nulla, nella vita in generale, ma nello specifico: dove erano finiti) «siamo di nuovo qui.» “Qui” being: accanto al letto, a diversi metri dalla finestra. «chiaramente qualcuno non ci vuole fuori di qui» Quello era il momento in cui potevano iniziare a preoccuparsi?
    Beh, in effetti, dallo sguardo allucinato di Avery sembrava che fosse già un pezzo avanti.
    Okay, okay.
    (Non okay.)
    «senti, uhm, avery» per un attimo rischiò quasi di chiamarla Mare, e dovette ricordare a se stesso che quello era un terribile momento per immaginare di avere di fronte sua sorella (probabilmente) morta da un pezzo. «aspetta. cosa hai detto? quale bigliettino?» e qui diamo per scontato che Avery glielo indichi, moving on. «va bene, va bene.» non andava bene un cazzo, ma almeno poteva escludere di aver avuto una ricaduta ed essere finito lì per colpa su— «avery.» come non detto?
    Con estrema lentezza, e lo sguardo inorridito, Hans alzò un dito per indicarle i segni lividi sul braccio. «sei un’eroinomane?» sentite, non c’erano altri modi per dirlo, e bisognava andare dritti al punto, non avevano tempo da perdere: Hans si stava sentendo di nuovo male. Tentò di liberarsi dalla felpa che indossava – rendendosi conto non fosse la sua felpa, né la maglia con gli unicorni apparteneva al suo armadio; o a quello di Twat; o a quello di — si, insomma, non era di nessuno di sua conoscenza; ma troppo nel panico per realizzarlo con lucidità – liberando il braccio libero e lasciandola penzolare tra i loro corpi ancora uniti dalle manette; sinceramente, aveva altre priorità.
    Tipo il segno gemello a quello di Avery, stavolta sul proprio braccio.
    E fu a quel punto che iniziò a ridere istericamente.
    Minchia.
    Porca, virgola, e sapete come continua.
    Non era divertente, non lo era affatto. Eppure non riusciva a smettere di ridere.
    «stavolta mi ammazza.» E sapete cosa, avrebbe avuto ragione. Non c’è nemmeno bisogno che vi dica chi. Si portò la mano libera sulla bocca per placare l’isterismo, e sarebbe stato il massimo se fosse riuscito anche a regolarizzare il respiro. Forse, dopotutto, c’era cascato di nuovo; quasi trecento giorni di sobrietà buttati nel cesso, bene.
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    jan. 13th, 2004
    empath
    hans belby | thnx(4nothing)
    "estraili come i veri eroi." disse, lamentandosi poi "mica può andarti male come a me, c'era una possibilità su 29"
    elisa, an intellectual "non di nuovo hans. povero cristo."
    pandi, che deve mantenere una poker face ma è da gennaio che combatte contro il suo lato lawful good per riestrarre e non può perché la palla ha scelto e bisogna accettare: "ma come funziona questo giochino elisa aiutami cosa dobbiamo fare vabbè io intanto ti invito in coop e poi capiamo"

    ebbene sì.
    di nuovo hans.
    non estrarrò mai più su tutti i pg, basta, dal prossimo anno si torna ad estrarre solo chi non ha mai partecipato. ma tu guarda. ma. tu. guarda.
    Ovviamente ho finito l’anno scorso le parole per dire quanto Hans non volesse trovarsi lì, ovunque lì fosse, perciò sarebbe superfluo ribadirlo ancora.
    E ancora.
    E ancora.
    Tra l’altro, era una persona diversa il Belby, rispetto all’anno prima. Cose che tendono a succedere quando di mezzo c’erano un san valentino inquietante passato dentro una cripta, un’overdose, la notizia che potresti non appartenere a questa linea temporale e avere due fratelli di cui non sapevi nulla, e la terza fottuta guerra mondiale, ti sottoponi di tua spontanea volontà alle (discutibili) pratiche mediche dei laboratori come rimedio (alternativo alla droga.) disperato al problema di avere un potere che non vuoi assolutamente. E tutto quello, in soli trecentosessantacinque giorni!! Faceva riflettere.
    (Non voleva comunque trovarsi lì, ovunque lì fosse.)
    Ma per un attimo, per un solo interminabile e fottutissimo attimo, aprendo gli occhi e strizzandoli nell’incontrare la luce proveniente dalla finestra, ebbe come l’impressione che andasse tutto bene. Poi la realizzazione che quella non fosse la sua stanza (né il salotto che condivideva con Twat) fu abbastanza da congelare quella sensazione di beatitudine e calma, e — niente. Si era aspettato di essere inondando da una miriade di emozioni diverse che avrebbe dovuto lottare per tenere fuori (se non sue, quantomeno della persona ammanettata a lui — cosa su cui non voleva soffermarsi a lungo, per un sacco di ragioni) e invece non sentiva nulla.
    Nulla che non fosse fastidio, confusione e un pizzico di irritazione all’idea di non sapere con esattezza dove fosse; ma il punto era che fossero tutte emozioni sue. Ne era abbastanza certo.
    Non avrebbe detto ad alta voce che c’era qualcosa che non andava – sperava che l’altra persona lo capisse già da sola – ma tentò comunque di avvicinarsi alla porta, dopo aver reso palese le sue intenzioni: poteva seguirlo, o poteva essere trascinat* contro la sua volontà, era una sua scelta. Una che Hans avrebbe preso per l*i a breve, pur non avendo in lui il fisico, o la forza, per trascinare di peso qualcuno. Dettagli.
    Bisognava essere realisti, in quelle circostanze, e iniziare a chiarire alcune cose. Magari si sbagliava, ma una vocina da qualche parte nella sua testa gli suggeriva di no. «sai che giorno è?» lui sì, ma chi poteva dirlo che non si stesse au-gaslightando? Che volesse convincersi che fosse davvero quel giorno, e che in quella stanza di hotel, senza ricordo di come o quando, ci fosse finito per colpa di qualcun altro?
    Perché…. perché se non era cosi, l’unica altra spiegazione che Hans poteva darsi non gli piaceva per niente, e voleva davvero sperare di non esserci ricaduto — non quando per quasi un anno aveva stretto i denti e aveva resistito a ogni tentazione.
    ‘ddio, se c’entrava la droga, quella volta Twat lo avrebbe ucciso con le sue stesse mani.
    If you thought I'd leave then you were wrong 'cause I won't stop holding on.
    So you give up every chance you get just to feel new again.
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    So are you listening? So are you watching me?



    mi dispiace. è andata così (male.)
  12. .
    OMG! Ho trovato la figurina di kul oh!
    link role: theories, i know you got your theories
  13. .
    hans belby
    the kintsugi kid (ten years)
    fall out boy
    I'm pretty sure,
    as far as humans go,
    I am a hard,
    hard pill to swallow
    Di errori, nella vita, Hans ne aveva fatti moltissimi; scegliere di assecondare la sua stupida curiosità in quella stanza buia e perdere minuti importanti non era però nemmeno lontanamente vicino alla metà più grave e seria della classifica, eppure lo special aveva comunque la sensazione che se ne sarebbe pentito amaramente molto a lungo.
    Non sapeva ancora quali conseguenze avrebbe avuto la sua presenza lì, ma così a pelle non avrebbe scommesso su nulla di piacevole. E non solo perché tendeva a incanalare tutta la sfiga del mondo, e finire sempre nei fottuti casini. Non ci provava nemmeno di proposito! Succedevano e basta.
    Beh, forse in quel caso un po’ se l’era cercata in effetti, non andandosene quando aveva avuto l’opportunità, ma a sua discolpa non aveva pensato che ci mettessero così poco tempo a tornare, quelli lì. Non sarebbe tornato ancora una volta nei laboratori (una sembrava già sufficiente – due, se si considerava la prima, di cui Hans non aveva memoria, avvenuta in un’altra vita che anche da sobrio continuava a non accettare come reale) ma si fermò un solo istante a pensare che sarebbe stato bello, magari, scambiare quel nuovo potere con qualcosa di più utile tipo la chiaroveggenza o la cronocinesi. E invece no, mai nulla di vantaggioso per lui, eh. Manco per sbaglio.
    Quando la porta della stanza si spalancò, per far entrare un impiegato del ministero e un ragazzino moro, la maschera impassibile sul viso di Hans si incrinò appena, lasciando invece spazio ad una di fastidio che non ebbe comunque modo di raggiungere gli occhi azzurri, prima di essere spazzata via con semplicità ed esperienza dal Belby.
    Al nuovo arrivato, riservò appena un’occhiata di sbieco e non reagì alle domande, attendendo invece che il tizio che lo aveva scortato fin lì facesse le sue raccomandazioni, gli ricordasse perché fossero lì, e svanisse poi chiudendosi la porta alle spalle. Solo a quel punto, quando finalmente soli, allora le iridi così chiare da risultare quasi trasparenti del l’empatico finirono volontariamente sull’altro ragazzo.
    «no,» rispose secco, muovendo un passo in direzione della porta, «ma sono lì se vuoi leggerle.» Ed indicò il tavolino dove la pergamena con le domande faceva bella mostra di sé, più preoccupato di raggiungere la porta e andarsene. Non gli interessava rimanere lì un minuto di più, e persino l’eccitazione e la frenesia vanesia che sentiva provenire dal giovane a fiotti non era sufficiente ad alimentare la sua voglia di impelagarsi in questioni del genere. Poteva chiuderlo fuori, stava imparando a farlo, perché se voleva sopravvivere quella volta doveva essere in grado di poterlo fare; era più facile quando non si odiava, e reputava il potere un mero fastidio da controllare, da spegnere – e non riaccendere –, anziché una maledizione.
    Chiuse il pugno sulla maniglia della porta, dando le spalle all’altro, e per niente interessato da quello che aveva da dire (perché ne era certo, aveva qualcosa da dire; e lo stava dicendo proprio in quel momento) ma quando andò ad abbassarla per aprire l’uscio, quello rimase fermo. Ci riprovò di nuovo, poi una terza e una quarta volta, e solo all’alba della quinta sospirò e mollò la presa.
    «è chiuso.» Si girò verso il ragazzo, e con le mani infilate nella tasca della felpa chiese, «sai quando torneranno?» magari, per allora, avrebbe ideato un modo per distrarli e andarsene, o in alternativa cercare di convincerli a lasciarlo andare. Non era un grande fan dell’uso del poteri – se avesse potuto lo avrebbe cancellato dal suo corredo genetico anche seduta stante, ma Twat gli aveva ripetuto più volte che non fosse possibile, e per sua sfortuna si fidava delle parole dell’amico – ma per andarsene da lì, era forse disposto anche alle maniere estreme.
    luna.asd
    going to stop paying attention. I've noticed enough

    gifs: sophiexrph.tumblr.com
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it


    e quindi un hans sobrio è un hans che parla. ma pensa.
    (poco, ma parla.) (non è comunque utile ai fini della conversazione ma !! non si può avere tutto)
  14. .
    Johannes 'Hans' Belby
    I'm tryin' not to blow it,
    starin' at you starin' at me
    If I don't — uh:
    you'll slip through my fingers.


    19 | 2004 ✧ pyro | sober
    in this moment,
    I'm tryin' not to fuck this up;
    I'm broken,
    starin' at you starin' at me.
    If I go in headfirst,
    ain't no goin' backwards;
    there's, there's no turnin' 'round
    Aveva avuto la sensazione, mentre parlava, di aver messo a disagio Check, considerando il modo in cui il custode si era ammutolito e irrigidito all’improvviso; non era mai stato particolarmente bravo a leggere una stanza, il Belby. O le persone. Era una delle sue tantissime pecche. Non avrebbe saputo indicare quale, delle tante (troppe) cose dette avesse fatto scattare campanelli d'allarme in Check, e non poteva dire che gli interessasse particolarmente capirlo. Creatura strana, Hans Belby.
    Aveva continuato a parlare, quindi, come poche volte (mai) nella vita aveva fatto — fermandosi solo quando sentì di non aver più nulla da aggiungere. Quando ormai il danno era fatto.
    «non ne hai idea»
    No, non ce l'aveva un'idea; erano tante le cose di cui non avesse idea in quel momento, e non ne andava fiero: trovare spiegazioni, anche quando poco lucido, era sempre stato il suo pallino. In quel caso, invece, aveva volontariamente scelto di chiudere gli occhi e fingere di non vedere, né capire.
    Lo osservò con sguardo volutamente privo di ogni emozione, nella vana speranza di indurre l’altro a spiegarsi; o, ancora meglio, a lasciar perdere. Forse non era il momento giusto, per nessuno dei due, per spiegarsi.
    Ed invece Check scese di alzarsi dal divano, e avvicinarsi a lui, incerto su gambe che, era chiaro, faticavano a reggere il peso di una trasformazione ormai imminente. Hans tenne lo sguardo incollato in quello bosco dell’altro; mai, neppure una volta, ebbe l’istinto di farlo scivolare altrove — in quella situazione, loro due, ci si erano già ritrovati, e anche a distanza di mesi (di un anno), almeno quello sembrava non essere cambiato. C’erano troppe variabili nell’equazione, al momento, e sembrava tutto già troppo senza il bisogno di aggiungere altro.
    «sei un coglione»
    Gli venne naturale aprire bocca e lasciarsi sfuggire un «dimmi qualcosa che non so già» che aveva il sapore di un flashback, un ricordo sbiadito che la droga aveva portato con sé, troppo lontano per poterlo ripercorrere correttamente, ma vicino abbastanza da rievocare almeno loro due nella cripta– Check in piedi sulla bara– Hans con quelle parole morte in gola per qualcosa che faticava a rammentare. Difficile, poi, ricordarlo ora che aveva il Vibe così vicino da poter sentire il suo respiro pesante sulla propria pelle, e ogni fibra del corpo di Hans ad urlare di allontanarsi il più veloce possibile — non per la paura, quella era l’unica certezza che lo special aveva.
    Mi fido.
    Era sincero.
    Non ne provò nemmeno quando sentì la presa di Check stringersi sulla sua felpa, e strattonarlo.Avrebbe dovuto, ma non ne provò.
    «non volevo che buttassi via la tua vita, l'hai dimenticato?»
    Erano altri i motivi per cui le sirene antiaeree risuonavano nella sua testa, in quel frangente.
    «avrei preferito che non mi importasse. sarebbe stato più semplice»
    Sì, lo aveva dimenticato; quante altre cose, scivolate addosso la spessa coltre tirata su dalle droghe, aveva dimenticato in quei mesi? In quegli anni? Metà della sua vita, Hans, non ricordava nemmeno di averla vissuta; si era trascinato fuori dal letto (quasi) tutti i giorni per inerzia e abitudine, senza mai dare un peso alle giornate; aveva fatto cose che non erano rimaste impresse, e detto o sentito altro che era stato spazzato via da una tormenta costante.
    Forse, dopotutto, non ricordare era stato un po’ una benedizione: c’erano cose di cui non andava fiero, ed era felice di non avere assolutamente idea di tutte le voci da annoverare nella lista.
    Anche in quel momento, con Check ad un palmo da sé, il pugno stretto intorno alla maglia, e i denti in bella mostra, era felice di non avere ricordi tangibili e concreti di un prima — sarebbe stato quello il primo momento a rimanere impresso a fuoco nella sua mente, allora? Chiudendo gli occhi, avrebbe immaginato di nuovo il viso di Check nascondersi nell’incavo della sua spalla, la pelle bollente a contatto con quella ancora più calda di Hans? Il tremolio febbrile provocato dalla luna, in un caso, e dall’astinenza (o forse qualcos’altro) in lui?
    Non ebbe modo di pensarci molto mentre, immobile, e troppo spiazzato per fare alcunché, lasciava a Check la possibilità di fare quello che voleva; in quel momento avrebbe persino potuto sbranarlo, e Hans non avrebbe mosso un dito per fermarlo. Ma sapeva che Check non lo avrebbe fatto — il gesto a cui, invece, si concesse di cedere, lasciò il Belby ancora più spizzato. Non aveva immaginato labbra a premere contro la carne morbida del collo, ma denti aguzzi in grado di tagliare e lacerare; c’era una dolcezza che sapeva di disperazione anche in quel gesto così irruento e dettato, ne era certo, da un istinto che in quel momento Check non riusciva a controllare.
    Quella consapevolezza non bastava comunque a rendere più funzionale il Belby.
    «devi allontanarti adesso» Non avrebbe potuto (muoversi) nemmeno volendo; e la presa di Check, salda intorno alla sua maglia, lo rendeva ancora più impossibile. «non voglio che tu te ne vada ma ho bisogno che stai indietro»
    Facendo appello ad una forza che non sapeva di possedere, riuscì infine ad annuire lentamente, incapace di dire altro, aspettando che l’altro mollasse la presa prima di alzarsi a sua volta con gesti lenti, aiutandosi con la poltrona per tenersi in piedi, instabile sulle gambe per qualche assurda ragione.
    Si allontanò senza dare le spalle al maggiore, inciampando in assi di legno gonfiate dal tempo e dall’incuria, il tutto senza smettere di guardare Check fino a che le spalle non colpirono il telaio di quella che un tempo era stata la porta di quella stanza, e lì rimase per un attimo, occhi fissi in quelli del custode, una tacita comunicazione che solo loro riuscivano (riuscivano?) a cogliere. Poi oltrepassò la porta, sempre spalle contro il muro, una mano sul collo dove la sensazione delle labbra di Check era ancora calda, l’altra passata tra i capelli già senza speranza.
    Cosa stava succedendo?
    Quanto, di tutto quello, era da incolpare alla luna? Conosceva poco Check Vibe, ma sin dal primo momento non gli era apparso qualcuno in grado di lasciarsi andare facilmente — per quanto si dimostrasse aperto e sincero, c’era un mondo che il Vibe teneva nascosto, e Hans immaginava che quello, qualsiasi cosa fosse, doveva essere costato moltissimo all’altro.
    Pensò anche che, se non fosse stato per la luna, Check non avrebbe osato mai esporsi così tanto.
    Lui, dal canto suo, non aveva un pensiero che fosse uno: mai, prima di allora, aveva sentito il cuore battere così forte e minacciare di fermarsi (di nuovo) sotto il peso di… tutto quello.
    Forse essere sbranato non era poi l’alternativa peggiore, se il resto delle opzioni cadeva in quel preciso bacino: sentimenti? Ugh, sconsigliati. Bloccati, cancellati.
    I primi rumori di ossa pronte a spezzarsi sotto il peso della maledizione, lo riportò bruscamente alla realtà, e Hans battè la testa contro la parete per costringersi a rimanere fermo, a non sbirciare, a non rubare quel momento solo di Check; strinse le braccia attorno al proprio esile busto, intimandosi di rimanere al suo posto, di lasciargli il tempo che gli serviva, e soprattutto di non fuggire, anche se una parte di lui stava urlando affinché lo facesse. Una parte che, infame, gli suggeriva anche che il lupo nell’altra stanza fosse solo l’ultimo dei problemi.
    avrei preferito che non mi importasse.
    Sarebbe stato più facile indeed.
    Scivolando lungo la parete, si accovacciò fino a stringere le ginocchia al petto, registrando ogni rumore e ogni involontario verso di sofferenza che sentiva provenire dall’altra stanza, come se quella maledizione fosse ora anche un po’ sua, come se se lo fosse meritato per aver invaso la Stamberga proprio quella notte; quando, dopo quelle che sembrarono ore, non sentì più nulla, si affacciò oltre il buco nella parete dove un tempo c’era stata la porta, e non si stupì nel non vedere più Check.
    Al suo posto, ai piedi del divano, c’era un lupo dal pelo scuro, e Hans rimase a corto di parole.
    Il lupo era accovacciato a terra, il muso basso ma le orecchie in ascolto; lo sapeva che potesse sentirlo, e che pure percependo la sua presenza Check avesse deciso volontariamente di non attaccare, di rimanere docile.
    E così lo special entrò nella stanza, piano, con passi lenti e dando tempo al lupo di rettificare la sua posizione, di mostrare i denti nel caso avesse deciso di farlo, nel caso avesse cambiato idea, nel caso volesse intimargli di andarsene — avrebbe accettato qualsiasi cosa, in quel momento. Che diritto aveva di fare diversamente?
    Un passo, due, tre.
    Cinque.
    Otto, nove, dieci.
    Era ormai così vicino a lui da poterne sentire il respiro pesante e il ringhiare sommesso a vibrare su per la gola. Stava facendo una cazzata?
    Sì, quasi certamente, ma Check gli aveva chiesto di rimanere.
    non voglio che tu te ne vada.
    Non sarebbe andato via; non voleva andare via.
    Si accovacciò davanti a Check, come il maggiore aveva fatto pochi minuti prima, e allungò una mano fino a tenerla a un paio centimetri dal pelo dell’altro. Quando fu sicuro di non rischiare di essere azzannato, leggendo negli occhi troppo espressivi del licantropo un permesso che forse, in altre situazioni, non avrebbe ricevuto, abbassò il braccio e passò delicatamente le dita sul pelo corvino del lupo, i ciuffi spessi a solleticare le dita.
    E per la prima volta in molto tempo, si lasciò sfuggire l’accenno di un sorriso, Hans, nella situazione più assurda e imprevedibile mai vissuta fino a quel momento.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©
  15. .
    Johannes 'Hans' Belby
    I'm tryin' not to blow it,
    starin' at you starin' at me
    If I don't — uh:
    you'll slip through my fingers.


    19 | 2004 ✧ pyro | sober
    in this moment,
    I'm tryin' not to fuck this up;
    I'm broken,
    starin' at you starin' at me.
    If I go in headfirst,
    ain't no goin' backwards;
    there's, there's no turnin' 'round
    Hans aveva ancora lo sguardo fisso sulla luna alta nel cielo, sempre più pallida e sempre più vicina, magnetica nella sua forza, irresistibile persino per lui, ma lo portò comunque sul maggiore a quel «a modo suo racconta la verità. una che nessuno vorrebbe sentire» e sollevò appena un sopracciglio; nulla di plateale, un gesto banale e semplice, ma decisamente nuovo su dei lineamenti come quelli di Hans, fin troppo a lungo rimasti scolpiti in una maschera impassibile.
    «e tu sei un sostenitore della verità, no?» dopotutto, non era stato proprio il Vibe a costringere lo special a vuotare il sacco su questioni fin troppo personali, non molto tempo prima? Non gli chiese quale fosse la verità che non era disposto ad ascoltare – tutti ne avevano una – perché temeva di saperlo, era piuttosto evidente, perciò scrollò appena le spalle, rivolgendo un'ultima occhiata distante alla luna — rimaneva della sua idea e, anche se bugiarda, se Hans avesse potuto farlo ne avrebbe studiato ogni cratere e ogni lato, anche quello che teneva nascosto a chiunque altro.
    Ma non era quello il momento di perdersi con il naso all'insù, come spesso gli accadeva; e lo sapevano entrambi che quell'argomento, per quanto interessante alle orecchie del Belby, rimaneva solo un modo come un altro per prendere tempo. Per trovare, ciascuno a modo proprio, un senso a quello che stava succedendo in quel momento. Nessuno dei due era mai stato bravo ad affrontare di petto le questioni, non quelle che toccavano troppo vicino casa — nemmeno Check.
    Hans offrì comunque quello che poteva, l'occasione per il custode di fare quello in cui sembrava bravissimo, perfettamente a suo agio: fare domande.
    Per una volta nella vita, era persino disposto a dare delle risposte.
    Perciò strinse involontariamente la linea delle labbra, non deluso ma di certo sorpreso all'opportunità volutamente mancata dal maggiore.
    «credo che nessuna delle mie domande avrebbe senso, a questo punto»
    Senso o meno, Hans avrebbe voluto sentirle.
    Poteva incolpare l'influenza della luna, e fingere di non aver visto Check farsi leggermente avanti, o il modo in cui aveva scosso la testa come a volerla cacciare via, qualche domanda; era fin troppo attento ora, suo malgrado, anche al minimo cambiamento nella posa o espressioni altrui — dopo averli ignorati così a lungo, gli veniva quasi spontaneo domandarsi cosa potesse suscitarli. E la curiosità era sempre stata il suo pregio e difetto più grande, crescendo; era stata persino l'unica cosa in grado di perforare la spessa cortina di intorpidimento dovuta alla droga, e lasciare l'impressione di un sentimento in un involucro altrimenti vuoto.
    Si morse l'interno della guancia, però, rimanendo in silenzio perché non era forse quello che facevano, loro? Ignorare l'istinto di allungare la mano ed offrire, o accettare, qualcosa di cui l'altro sembrava aver bisogno pur senza rendersene conto, e chiudersi invece a riccio nei propri problemi.
    Era un gioco che avevano fatto già svariate volte, perché quella sera avrebbe dovuto essere diversa?
    «ma puoi sempre dirmi come ti senti ora»
    Per un attimo rimase in silenzio, ricambiando lo sguardo di Check e cercando di smontare quella manciata di parole nella propria testa, e dargli una forma diversa; non era una domanda nuova, lo psicomago che lo aveva in cura da Aprile glielo chiedeva quasi ad ogni seduta, e la risposta di Hans non era mai cambiata — sempre quella linea tirata delle labbra, lo sguardo impenetrabile, la posa guardinga.
    Dicevano più di mille parole.
    Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, le dita a stringere un filo della felpa sfilacciato, riflettendo su quello che, invece, avrebbe voluto dire al maggiore — non lo sapeva ancora, però, perciò immaginava che l'avrebbero scoperto insieme, una volta aperta bocca. Non ci aveva mai riflettuto, non si era mai fermato a chiedersi come si sentisse, perché la risposta che sapeva per certo avrebbe trovato lo spaventava: vuoto, uno sconosciuto nella propria pelle, debole — perché l'istinto di cedere e risolvere tutti i suoi problemi alla vecchia maniera era sempre troppo forte.
    Non ebbe comunque il tempo di provarci, a formulare una risposta, perché Check parlò di nuovo richiamando Hans all'attenzione e costringendolo a risollevare lo sguardo e portarlo sull'altro.
    «perchè sei venuto qui, hans? avrei potuto—»
    Ci fu un altro momento di silenzio, fra loro, l'ennesimo, un momento che entrambi sfruttarono per confrontarsi con le proprie crisi esistenziali, poco ma sicuro.
    Solo dopo interminabili secondi, proprio mentre Check lo informava che mancava ormai poco, allora Hans parlò. Lo fece portando di nuovo gli occhi verso la luna, ormai quasi completamente visibile dietro le nuvole, cercando di non pensare al modo in cui invece Check sembrava non riuscire a guardare da nessuna altra parte se non verso di lui. L'insistenza con cui provava a resistere all'influenza del plenilunio era fin troppo ostinata persino per lui; si sentiva forse a disagio, con Hans lì presente? Stava rendendo più difficile quel momento, già delicato per Check?
    Chiuse piano gli occhi, pronto ad andare via per evitare ulteriori disagi a discapito del Vibe. Ma prima aveva delle risposte da dare.
    «No, non avresti potuto.» Lo disse con semplicità, senza accennare alla minima emozione, quasi approcciando quella consapevolezza con sterilità. Non aveva dubbi, Hans, che l'altro si riferisse al giorno dell'incidente, e non a ciò che avrebbe potuto fare in quel momento, magari attaccandolo perché sentitosi in pericolo dall'improvvisa apparizione di qualcuno di estraneo nel suo spazio sicuro. C'erano un sacco di elefanti nella stanza, ma Hans non aveva difficoltà a capire quale fosse in esame in quel momento.
    «Era inevitabile.»
    No, non lo era, ripeteva la voce del suo psicomago, ricordandogli che una scelta, lo special, l'avesse avuta in più occasioni, e che avesse sempre scelto la via più facile, quella più dannosa per se stesso. «Non sai in quanti hanno provato –» la mano destra mosse con disattenzione l'aria intorno a lui, mentre lo special, a corto di parole, tornava a guardare il licantropo testardo. «Non credevo potesse importarti.» E non c'era cattiveria, o peggio malizia, nel suo tono di voce; solo la solita, irritante, neutralità nel dare voce ad un pensiero che, si rendeva conto solo in quel momento, aveva pesato sul suo petto più del necessario, per tutto quel tempo. Era una constatazione naturale, fatta da chi sapeva che al Vibe interessasse la salute di una sola persona al mondo, e Hans era abbastanza sicuro di non essere lo studente serpeverde in questione.
    Inclinò la testa, studiando il viso dell'altro.
    «Mi hai chiesto come mi sento ora, e–» eh, bella domanda, «–sento. Tutto. Troppo.» E non era ancora nulla, se paragonato a ciò che sarebbe arrivato nei mesi successivi, sorpresa! «Non rimanevo sobrio per più di una manciata di giorni consecutivi da… anni.» Troppi per tenerne il conto. «È stato terrificante. Non il.. non il momento.» Di quello, per fortuna, ricordava poco e nulla; ma il dopo era stato devastante e aveva persino minacciato di romperlo definitivamente. «La riabilitazione è la parte più difficile. E la cosa peggiore è che–» rivolse lo sguardo al soffitto marcescente della stamberga, mandando giù il nodo che si era formato improvvisamente in gola. «Almeno una volta al giorno mi domando se ne sia valsa la pena, o se sia in grado di resistere.» Era difficile cedere sotto lo sguardo attento di Twat o dei medici, persino dei legionari, ma non impossibile; e negli anni Hans aveva trovato un sacco di modi fantasiosi (e disperati) per farsi, persino quando tutte le probabilità di riuscita sembravano andargli contro.
    Non voleva perdere di nuovo il controllo.
    «Quindi, in sostanza,» battè le mani tra loro una volta, incastrandole poi tra le ginocchia (per nasconderne il tremolio) «mi sento sempre ad un passo dal baratro.» Stanco.
    Emotivamente parlando, era distrutto.
    «Un sacco di informazioni, eh?» distolse lo sguardo, mordendosi la lingua per non aggiungere quel ma sei stato tu a chiedere che minacciava di rovinare le cose — e Hans 2.0 ci stava provando davvero forte a non sabotare ogni cosa, a quel giro.
    Quando parlò, fu per rispondere ad un'altra domanda tenuta in sospeso per un po'.
    «Non lo so perché sono qui,» ammise infine, «stavo tornando al villaggio e mi sono ritrovato sulle scale della Stamberga» Se Check aveva una spiegazione da dare ad entrambi, Hans era tutto orecchie.
    Una spiegazione logica, possibilmente.
    «Ma forse dovrei andare.» Lo disse, ma non fece nulla per muoversi dalla sua posizione rannicchiata contro la poltrona. «Non ho paura,» aggiunse, invece, non riuscendo a trattenersi. «Mi fido.» Per qualche fottuta ragione, era così: si fidava di Check, ed era sicuro che anche sotto il totale controllo della luna, non gli avrebbe fatto nulla. Infondo, aveva avuto un sacco di occasioni, perché Hans le ricordava le sagome intraviste negli alberi nei mesi successivi al ritorno dalla fottuta Tottington — per un po' aveva creduto di star immaginando, ma non più. Eppure non aveva mai confrontato il maggiore al riguardo.
    Aggrottò le sopracciglia, finalmente come risvegliato dal torpore e rendendosi conto di dover fare qualcosa – tipo non lo so, muoversi – se davvero era intenzionato ad andare via di lì.
    Voleva?
    «Scusa se ho… invaso il tuo territorio?» Suonava troppo razzista, come frase? «Spero di non averlo reso più complicato.» La trasformazione; per tutto il resto non c'era più speranza. Troppo tardi.
    Di accennare ad alzarsi e andarsene, comunque, nemmeno l'ombra di un'intenzione, eh.
    I give it all my oxygen,
    so let the flames begin ©


    in this essay I will explain perché mi ritrovo sempre a scrivere hans a questi orari disumani —
139 replies since 2/7/2020
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