“I think I've seen this film before” cit.

ft. Harry @ Londra | preq 11

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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    Hans Belby non era di certo noto per l'interesse con cui si informava su ciò che accadeva nel mondo – fa ridere già così – eppure la notizia dei sei ostaggi ritornati a casa, smarriti e confusi, era arrivata persino a lui.
    Non li conosceva, e non li aveva riconosciuti come compagni con cui aveva condiviso l'esperienza del Lotus, pur cercandoli tra la folla, e nelle notizie, e nei pettegolezzi che arrivavano, suo malgrado, anche alle sue orecchie. Non gli interessava di loro come persone, ma di ciò che rappresentavano in quel momento: qualcuno che ce l'aveva fatta, che era scappato (era stato lasciato andare?) ed era riuscito a tornare in Inghilterra per raccontare quel poco che ricordavano. Tutto troppo vago, secondo le voci di corridoio che avevano riportato le informazioni fino al Belby, tutto troppo sospetto: stavano inventando tutto? Avevano solo perso il senno? Tutte cose che per settimane avevano detto anche di lui — comunque troppo Hans per fregarsene di ciò che diceva la gente sulla sua persona.
    Ma erano tornati, e l'empatico era stato così stupido da concedersi il lusso di sperare — e per qualche giorno aveva atteso che altri come loro spuntassero fuori, ritornando ad una normalità che avevano lasciato in stand-by per due mesi, e perché proprio le due persone che avrebbero potuto evitare allo special di lasciarsi coinvolgere ulteriormente.
    Non era successo; né Twat né Mac erano tornati a casa, e più i giorni passavano, più le speranze dello svedese svanivano sotto la consapevolezza che non c'era verso, quella volta, di tenere la testa nascosta sotto la sabbia e fingere che nulla di quella faccenda colpisse molto vicino a casa.
    (Lo avevano voluto sobrio? Se lo beccavano così.)
    Lo sapeva anche lui, sebbene ammetterlo o essere in grado di elaborare quell'informazione fosse ben lontano dalle sue priorità; sapeva fosse inevitabile, ma sperava di poterselo evitare. Nemmeno altri dieci mesi di sfiancanti allenamenti con Daveth avrebbero fatto di lui un combattente; cosa aveva, di preciso, da offrire? Delle braccia poco muscolose, un fisico esile, e dei riflessi non propriamente affilati? Non aveva nemmeno una vigorosa resistenza fisica, e non era bravo con nessun genere di arma, come i ripetuti tentativi fallimentari fatti insieme al suo nuovo, inaspettato, personal trainer, avevano dimostrato. Ma aveva qualcosa da perdere, e a quanto pareva era abbastanza per renderlo irrequieto e (ostinato) determinato. Era una follia, lo sapeva bene, ma non c'era verso di mettere a tacere la voce nella testa che gli diceva dovesse farlo. Sapeva anche che Twat lo avrebbe pugnalato con le sue stesse mani, quando l'avrebbe rivisto (perché lo avrebbe rivisto), ma aveva scoperto non gli interessasse così tanto, e che preferisse di gran lunga uno e due tagli più o meno profondi causati da mano amica, che rimanere chiuso nella sua stanza senza sapere cosa stesse succedendo fuori.
    Giurava che lui, più di chiunque altro, non avrebbe voluto trovarsi in quella posizione, ma ci si trovava; ed era la cosa giusta da fare, anche se la sua risolutezza veniva accolta con sguardi torvi o risate denigranti perché ma dove diavolo vuoi andare. Non erano affari loro; lui non era un problema loro. Di nessuno. Non doveva chiedere il supporto di nessuno, né l'approvazione. Aveva riflettuto sulla questione molto a lungo, sdraiato a terra con Orion seduto sulla sua pancia, e aveva passato settimane ad intensificare gli allenamenti con l'ombrocineta perché l'aveva sempre sentito che gli sarebbe toccato fare qualcosa, e non era così stupido da partecipare ad una missione (ministeriale, oltretutto, dove ogni cosa puntava a far capire che fosse pressoché suicida, e loro niente più che carne da macello) senza aumentare un po' la propria massa muscolare o resistenza fisica.
    Che poi i risultati fossero esattamente ciò che aveva temuto (ovvero: scarsi, e tutt'al più aveva imparato come resistere ore e ore nel nulla cosmico in cui Daveth lo spediva quando meno se lo aspettava) era un altro paio di maniche.
    Ecco perché aveva bisogno di qualcosa di concreto, qualcosa che, stretto fra le mani, lo avrebbe fatto sentire tranquillo. Aveva chiesto allo special di allenarlo all'uso di un pugnale, ma era un'arma troppo a corto raggio e c'era un limite all'utilità della sua bassa statura: troppo vicino, rischiava di prendere davvero troppi colpi (been there done that, Daveth l'aveva gonfiato come una zampogna in quelle occasioni) e non era davvero fatto, in generale, per stare troppo vicino alle persone, alleati o nemici che fossero. Il pugnale intarsiato che Twat gli aveva regalato lo avrebbe comunque portato con sé, come ancora emotiva e come peso familiare sotto i vestiti, ma non era l'arma giusta per lui. Non ancora.
    C'era solo un'altra opzione che gli veniva in mente e, pur sapendo benissimo che poteva comprarne una, non ne voleva una sua. Voleva una mazza da baseball, e voleva quella di Mac. Avrebbe voluto l'asse marcescente con cui l'ex corvonero li aveva salvato dalla furia di dieci frat-boys zombie, ma non era reperibile per ovvie ragioni, e Hans doveva accontentarsi della cosa più vicina emotivamente. Era abbastanza egoista da credere con risolutezza che potesse prenderla in prestito (tanto a Mac non serviva, ovunque fosse) mentendosi dicendo che lo faceva per il mago, che anche lì, una volta rivisto, l'avrebbe consegnata a lui com'era giusto che fosse.
    Ma prima di tutto sperava che potesse aiutarlo a sopravvivere fino a quel momento, una cosa decisamente non scontata.
    Certo, c'era anche il problema che non sapesse come usarla in maniera efficace, e solo dio sapeva quanta poca forza avesse nelle braccia, ma almeno la mira l'aveva migliorata, in quelle settimane! Un problema alla volta; avrebbe persino fatto un sospiro profondo e chiesto aiuto alla Peetzah, se fosse stato necessario.
    (Lo era. Molto.)
    Prima, però, doveva convincere Gaylord a dargli la mazza del suo coinquilino, una richiesta già stramba così, senza dover anche spiegare perché ne avesse bisogno.
    (Non erano affari del mago.)
    Socchiuse gli occhi, e strinse appena le labbra fra loro; uscire di casa non era mai stata la sua attività preferita, ma andare a bussare a quella altrui lo era ancora meno. Però, alla fine, batté il pugno chiuso sulla porta di legno, e si mise in attesa.
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    Anathemas have the resistance and ability to blunt the opponent's offensive,
    giving them an extra chance to launch decisive attacks against their enemies
    L’esistenza di Harrison Bonnay si basava su pochi punti cardine, post-it stilati a matita ed attaccati ad una bacheca con brevi ma essenziali descrizioni che non interessavano a nessuno – spesso, nemmeno al diretto interessato.
    Era nato nel 1960 a Barnton, un villaggio magico del Cheshire, dove aveva vissuto fino alla fine della medesima decade. Ovvero, fino a quando i Kane non avevano deciso che di Jovian, loro primogenito privo di alcuna espressione magica, non ne avessero più bisogno. Guardinghi, si erano visti bene dal mostrarlo al mondo a partire dal momento stesso in cui avevano preso coscienza del fatto che il suo sangue era difettoso, e che i loro geni non erano stati trasmessi al figlio come da programma. Alle persone che l’avevano conosciuto, a quei vicini che sovente l’avevano visto giocare nel giardino dell’enorme casa, spiegavano la sua improvvisa scomparsa con finto rammarico e lacrime da coccodrillo – “è stato morso da una tentacula velenosa”, dicevano, “non c’è stato nulla che potessimo fare per lui”. Per quel bambino rinchiuso nell’ala ovest di Villa Kane, inutile persino come schiavo dal momento che possedevano un efficientissimo elfo domestico, avevano comunque dei progetti: dovevano soltanto aspettare che crescesse abbastanza da poter mettere incinta Millicent, la figlia della sorella di Emerson, così da poter avere una prole che portasse avanti la loro stirpe; in quello schema, non era necessario che Jovian sopravvivesse, o che loro nipote ricordasse di aver dato alla luce una nuova vita.
    Agli albori degli anni Settanta, poco dopo la nascita di Mercutio, quel piano non aveva alcun bisogno di essere perpetrato: bastava soltanto liberarsi di quello spreco d’ossigeno, troppo piccolo per capire davvero cosa stesse succedendo una volta portato in Canada e lasciato lì, abbandonato come un cane in autostrada; sapevano bene, i due, che nello sfortunato caso fosse sopravvissuto senza niente con sé o un posto in cui andare, il trauma avrebbe fatto tutto il lavoro al posto loro, senza che dovessero nemmeno sperperare la propria magia su di lui per fargli perdere la memoria.
    Avevano avuto ragione. Ai Bonnay, che l’avevano trovato rannicchiato ai margini di una strada provinciale, aveva scelto di presentarsi soltanto con il suo secondo nome, prima di rinchiudersi in un mutismo durato mesi – periodo necessario a rinchiudere tutti i ricordi passati in una cassaforte rinforzata, relegandoli ad un anfratto nascosto della propria mente e senza mai volontariamente richiamarli a sé.
    Ad un certo punto aveva ricominciato a parlare, e non aveva più smesso. Non amava svegliarsi preso la mattina per andare in cantiere con suo padre, e non gli piaceva studiare; abbastanza assurdamente per chiunque lo conoscesse (e non meno per i suoi genitori adottivi) era però riuscito a prendere un diploma, a mettere da parte un po’ di soldi verniciando pareti e collegando cavi elettrici, ed addirittura a laurearsi in legge (in legge!) all’università di Vancouver – un percorso che aveva scelto per sfida e scherzo, perché “parli così tanto che vinceresti ogni causa in tribunale solo rincoglionendo il giudice, o prendendo per sfinimento la giuria”, per poi appassionarsi solo una volta superato il primo anno di studi.
    Aveva scelto di fare un viaggio con i propri confratelli, sebbene di passare anche per l’Inghilterra non ne avesse così voglia – aveva un brutto presentimento, ed incontrare per caso le facce che ogni tanto gli apparivano sfocate in sogno ne faceva parte.
    Poteva non aver ereditato il gene magico dai Kane, ma oltre ai capelli rossi gli avevano lasciato anche qualcos’altro: così come loro, aveva avuto ragione.
    Era finito in una dimensione alternativa, i suoi amici erano morti e poi non-morti, era stato posseduto da una specie di entità mistica, ed era stato catapultato nel ventunesimo secolo perdendo quarant’anni della sua vita in quarantotto ore.
    Ultimo punto sulla checklist della sua vita, ma non per importanza, ed ultima certezza su cui potesse basarsi da un anno a quella parte, era il poter affermare che le sue conoscenze fosse in grado di contarle sulle dita di una sola mano: Hans e Mac, che aveva conosciuto in quell’esperienza ai confini della realtà e che l’avevano salvato da morte certa; Gaylord, che l’aveva accolto in casa propria dandogli un posto in cui stare mentre cercava di mettersi in pari con quel mondo nuovo; Dylan, ragazza di quest’ultimo nonché figlia di Mercutio – com’era piccolo il mondo, uh?
    Il primo era sparito a San Valentino, ed era rimasto disperso per dieci giorni prima che il secondo, decidendo di partecipare ad una spedizione volta al suo (e a quello di molti altri) recupero, scomparisse a sua volta – però, per due mesi –; sul viso degli ultimi due, dal momento in cui era stata organizzata una missione guidata dal Ministero per salvare mezzo centinaio di individui svaniti nel nulla, non aveva fatto altro che leggere l’intenzione di partire a loro volta.
    Harrison Bonnay non era un mago. Non era nemmeno nessun potere particolare, come il Belby. Sapeva a malapena come uscire il meno sfasciato possibile da una rissa, e l’unica volta che aveva tenuto in mano un’arma propriamente detta aveva involontariamente sparato ad uno dei suoi salvatori. Un bambino di cinque anni con in mano delle bolle di sapone sarebbe stato meno d’intralcio di lui in una situazione del genere: la consapevolezza di ciò non aveva comunque potuto farlo desistere per un solo istante. Sentiva di dover partire – se non altro per sdebitarsi per tutto quello che avevano fatto per lui, e ripagare un debito mai stipulato.
    Non lo sorprese vedere Hans una volta aperta la porta. Senza un apparente motivo, visto che da quando erano tornati da Tottington aveva fatto in modo e maniera di evitarlo come la peste – o di evitare il genere umano in toto, come più volte lo aveva corretto l’Hale –, eppure.
    «ehi,» gli sorrise, timido e colpevole, schiudendo maggiormente la porta. «come…» ripensandoci, decise che non gli avrebbe chiesto come andava: una delle poche cose che aveva capito di quel nuovo periodo nel quale era stato catapultato, era che mai nessuno rispondeva in maniera positiva, o semplice, a quel basico quesito. «come posso aiutarti?» portò una mano alla nuca, massaggiandola sovrappensiero. «gay non è a casa, se cercavi lui…» chissà, magari invece si sentiva nella sua berserker era personale e cercava proprio il magonò per rendergli pan per focaccia e vendicarsi di quella volta nella città fantasma.
    Sperava di no.
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    si dice che sulle teste dei seguaci di arda vegli la dea da cui prendono il nome. queste abili sentinelle mirano ad indebolire il nemico e darlo in pasto ai loro alleati
    Ora.
    C’era una differenza sostanziale tra l’essere fuori dal mondo – vivendo su un pianeta tutto suo che non veniva (solitamente.) scalfito da quanto succedeva intorno a lui e non avere idea di ciò che succedeva nel mondo perché, come una pandi qualsiasi, non accendeva la tv e non leggeva giornali e non si informava – e l’aver completamente rimosso (o, più probabilmente, non aver mai registrato) che in casa di Mac vivesse anche il vagabondo dimensionale recuperato a Tottington, perché Hans Belby non aveva abbastanza stracazzi di ricordarsi anche solo dell’esistenza del rosso, figuriamoci ricordarsi dove abitasse.
    Erano due casi ben distinti e separati, ma entrambi, per un verso o per un altro, voluti.
    Ciò che cambiava, se vogliamo, era solo l'effetto che, una volta venuta a mancare la piacevole ignoranza che li aveva avvolti a lungo, il sapere avrebbe avuto sul proseguimento della giornata dello special: nel primo caso, specialmente se riguardo eventi cataclismici come una guerra, o la sparizione di decine e decine di persone tutte insieme, le conseguenze tendevano ad avere un effetto appena più concreto sulla vita di Hans – o, perlomeno, quanto bastava per decidere se agire con quella nuova informazione o meno. Nei secondi, invece, non procuravano alcuna reazione: continuava a non interessargli assolutamente nulla del naufrago temporale che gli aveva aperto la porta, ma il ritrovarselo davanti aveva confuso Hans leggermente più di quanto si sarebbe aspettato (che era un’aspettativa pressoché nulla, quindi non voleva dire assolutamente nulla).
    Il punto era che quel viso, nell’ultimo anno, Hans lo aveva rivisto solo in alcuni dei suoi incubi — ricordandolo per giunta diverso; averlo lì, a un palmo dal naso, sulla porta di quella che era abbastanza certo fosse casa di McKenzie Hale (pur non essendoci mai stato), e non riuscendo a non ripensare inevitabilmente al loro primo (e ultimo, fino a quel momento) incontro, lo aveva sorpreso. Non per forza in maniera positiva.
    Assottigliò le palpebre rivolgendo un’occhiata gelida ma altrimenti impassibile allo sconosciuto, pensando che in effetti non aveva mai davvero preso in considerazione la possibilità di ricambiare il favore e sparargli a sua volta, perché a) troppo sbatti, b) non pensava l’avrebbe mai rivisto, b) fino a due secondi prima il rosso era rimasto solo un frammento onirico che popolava gli incubi dello special, perciò insomma.
    «ehi, come…»
    Del sorriso timido del tipo, Hans Belby non sapeva che farsene, e lo accolse con le braccia incrociate al petto e il più ostile degli atteggiamenti — che, considerando si trattasse di Hans Belby, l’occhiata truce e le labbra tirare in una linea sottile era già praticamente più di quanto avesse mai offerto a chiunque altro.
    «come posso aiutarti?»
    Poteva? Hans dubitava fortemente dell'utilità del tipo, a meno che, appunto, non fosse intralciare i piani improvvisati di due diciannovenni disperati che stavano solo cercando di sopravvivere all’inferno (per la seconda volta) e per fortuna non era quello il caso.
    Quando l’altro lo informò che Gaylord non fosse in casa, Hans strizzò le labbra in un’espressione delusa e valutò se girare i tacchi e tornare un altro giorno, o se approfittare del fatto che qualcuno avesse comunque aperto la porta per andare avanti con il suo piano. Riflettendo che difficilmente avrebbe trovato la voglia di percorrere quella strada una seconda volta, decise di testare l’utilità del rosso — magari in quel piano fisico risultava meno buono a nulla. «devo prendere una cosa.» quelle erano già più parole di quante Hans avesse voglia di condividere con l’altro, ma si costrinse ad usarne qualcuna di più per spiegare il cosa, ma non il perché (non erano cazzi di Harry) (wow, a quanto pareva conosceva anche il suo nome, informazione assolutamente indispensabile e necessaria…) «dalla stanza di Mac, presumo. la sua mazza.» forse, da una parte, la fortuna era dalla sua parte: era un bene che non ci fosse Gaylord, il quale avrebbe probabilmente fatto delle domande a cui Hans si sarebbe (stupidamente) sentito in dovere di rispondere, mentre Harry il Vagabondo Spaziale poteva essere ignorato bellamente. «sai dove la tiene?»
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    Edited by traiten. - 10/4/2024, 19:26
     
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