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  1. .
    «AAAAAA»
    «... aaaa???»
    «AAAAAAAAAAA»
    «??? AAAAAAAA???»

    Non era una novità, per Elijah Dallaire, iniziare la giornata in maniera confusa e confusionaria: era uno dei patti ai quali era dovuto scendere, da anni ormai a quella parte, per poter quantomeno sopravvivere in una maniera che si avvicinasse alla tranquillità. Non cercava – non più – una normalità che aveva perso da più tempo di quanto potesse ricordare; non si aspettava di condurre un'esistenza davvero serena per quanto cercasse, al meglio delle proprie capacità, di ignorare i tarli che pian piano tentavano di consumarlo dall’interno.
    Si alzava dal letto, ed ogni mattina lo faceva privo di alcun tipo di pretesa: che non fosse un bene, lo sapeva da sé senza il bisogno che qualcuno glielo ricordasse. E lo faceva, qualcuno ci provava sempre a dirgli che non si potesse andare avanti per inerzia in quel sistema di rette senza né fonte né foce - che fossero Nate o Eugene, o Piz, o Bells, o Rea. Non era nel suo interesse mostrarsi sordo alle loro parole, ai loro consigli e suggerimenti, ed era sincero quando annuiva consapevole in quelle conversazioni a senso unico - ma.
    Sì: ma.
    C'era sempre un ma nel susseguirsi delle giornate di Elijah Dallaire, che definirlo "vita" era sempre un po' azzardato. In quel momento, in quel periodo, quella congiunzione d'avversità voleva dire: lo so che non è bene, ma è un bene necessario. E tanto gli doveva bastare per non affogare di nuovo - nell'alcol, nei propri pensieri, negli eventi su cui non aveva controllo.

    Dunque, anche quella mattina si era svegliato - e già: traguardi di una certa importanza - senza aspettarsi nulla di normale dal mondo, ed accettando già a priori qualsiasi cosa potesse succedere.
    Era da ritenersi strano che un tizio con un camice azzurro da infermiere - e non uno qualsiasi: riconosceva perfettamente la divisa da medimago del giovane - gli corresse quasi letteralmente addosso nella Londra babbana? Beh sì, ma in realtà no.
    Era nei pressi dell'entrata nascosta del San Mungo, intento solo a fare il suo mentre affiggeva per strada i volantini della palestra di Morley, e seppur non ricordando (nel senso stretto del termine) la vita che si conduceva all'interno dell'ospedale, sapeva nel fondo del proprio cuore che quel lavoro poteva portare ad esaurimenti nervosi di un certo qual spessore. Aveva sentito di molti dipendenti che avevano fatto la stessa fine di quel ragazzo, e che tra grida e pianti uscivano dalla struttura veloci come la luce e senza una meta. Storie di ordinaria follia che di scontato avevano tutto e niente.
    Quel che confuse il chiaroveggente, fu: «dov'era finito? la stavamo cercando dappertutto!»
    Al ché, inevitabilmente, il biondo non poté fare a meno di guardare dietro di sé: non c'era nessuno, se non una massa informe di passanti e di automobili. Dunque, con le sopracciglia arcuate e lo smarrimento a rendere più chiare le iridi acquamarina, si puntò l'indice da solo. «... ma parli con me?»
    Oltre che trafelato dalla corsa, il medimago sembrava anche parecchio contrariato. «certo che parlo con lei! l'ho dovuta seguire fuori dal san mungo dopo che è scappato, ma grazie a dio l'ho sentita.»
    Elijah, con intelletto e discrezione, dovette per forza di cose annusarsi le ascelle. Non puzzavano. «ma no, ho sentito la sua magia - dottor klein, sta bene?»
    No.
    «senta-» «non sento niente,» cit. «ora deve seguirmi.» e prima che smaterializzasse entrambi all'interno dell'ospedale magico, il Dallaire ebbe giusto il tempo di abbassare lo sguardo su di sé.

    Quando arrivarono, non ebbe il tempo di spiegarsi. O meglio: lo ebbe e ci provò, ma nessuno parve volerlo ascoltare.
    Era un problema.
    «sì, mi scusi eh...» guanti chirurgici alle mani, cuffia in testa, mascherina e occhiali protettivi: era pronto.
    Ma pronto per cosa. «c'è stato un terribile, terribile equivoco...» «un equivoco, dice?»
    Osservò la stanza - le macchine, i monitor, i campi sterili con tutta l'attrezzatura -, ed un po' si sentì... bene: era ciò che era stato, gli mancava senza nemmeno averne memoria, e sapeva non avrebbe mai più potuto mettere piede in una sala operatoria se non come paziente.
    Restava comunque un errore.
    «un terribile equivoco, per la precisione.» casomai non avesse capito la prima volta. «questo non è un camice, è un trench - casualmente bianco. non sono un medico, né tantomeno un chirurgo: sono» kinda. «un personal trainer...»
    Silenzio.
    Attimi di silenzio rotti solo dai bip dell'elettrocardiogramma.
    «eh, vabbè»
    «ma come eh vabbè???»
    Del fatto che Elijah fosse chiaramente shockbasito, all'infermiera cui si era rivolto non pareva fregare un accidenti. Anzi.
    «il problema è questo: tutti i nostri medici sono attualmente impegnati in altri interventi; quello che doveva stare qui ha avuto un attacco isterico ed è fuggito dio solo sa dove; questo ragazzo ha bisogno di un'operazione urgente - sa, pare abbia mangiato alcuni di quei tubicini che si illuminano, roba da giovani che vanno in discoteca valli a capire, gli si sono rotti nello stomaco e stanno facendo diversi danni -; lei è stato scelto dal destino, non è felice?» eh, come una pasqua.
    Era confuso sotto così tanti punti di vista, che decise semplicemente di chiudere gli occhi e respirare molto, molto profondamente. Tanto ci era sceso a patti, no?, con il fatto che la sua vita fosse una matassa di caos senza né capo né coda; doveva solo seguire il fl- «mA è SvEgLiO?!?!?»
    Era sveglio.
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    I don't want to be afraid
    The deeper that I go
    It takes my breath away
    Soft hearts electric souls
    30 y.o.clairvoyancetrainer
    gifs
    i panic! at (a lot of places besides) the disco
    i see it, i like it, i want it, i got it


    ho usato un random prompt della discussione

    CITAZIONE
    A indossa un discutibile camie bianco e viene acambiato per un dottore e portato al San Mungo per operare d'urgenza B.
  2. .
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    Sopracciglia corrugate e sorriso dipinto sulle labbra sottili - non divertito, tutt'altro: ogni singolo segmento della piega sul volto di Elijah trasudava confusione e spaesamento, e a volerla dire tutta anche una certa dose di inquietudine -, stette immobile ad osservare la reazione di Chelsey, registrando con un pizzico di preoccupazione il crescendo dei suoni emessi. Egoisticamente, e non in così minima parte, non riuscì a non essere felice per quell'eccesso di esuberanza: non era abituato a risposte di quel genere; era solito avere a che fare con persone a cui aveva fatto del male, in un modo o nell'altro. Nessuno, nessuno mai era stato così tanto entusiasta nell'incontrarlo - era una bella sensazione, totalmente diversa dal conforto con cui Bells lo aveva ritrovato, o dal sollievo dei suoi amici dopo tutti quei lunghissimi mesi in cui non avevano avuto sue notizie.
    Se avesse avuto modo di realizzare e metabolizzare quella leggera scarica di endorfine, probabilmente si sarebbe anche commosso. Ma quando la rossa si aggrappò all'asta della flebo, constatò di non averne poi molto: alzò entrambe le mani, ed istintivo sebbene incerto avanzò di un passo per cercare di fermarla. Non ce ne fu realmente bisogno, ma riteneva opportuno essere pronto; ci voleva un attimo a passare da un vago sentore di felicità, emozione rara per il Dallaire, all'allerta per un trauma cranico.
    «Io...» come poteva, esattamente, rispondere a quel sussurro? Sghignazzando istericamente e a disagio. «hanno - avete una mia foto in Sala Comune?» chiese, sinceramente confuso da quella osservazione. Sì, aveva sentito dire di essere stato un buon giocatore a suo tempo, ma non immaginava così tanto da avere ancora un proprio ritratto alla mercé di tutti i Grifondoro.
    Si schiarì la gola, portando le dita a grattare il capo. «Non... potrei mai mettere nessuno in panchina. Né dare consigli, temo.» e non solo perché non aveva poi così tanta idea di come si giocasse (anche se era certo che il corpo ricordasse, e se solo avesse potuto ancora volare avrebbe ricordato tutto), ma perché li aveva trovati bravi, nella sua rinnovata ignoranza.
    «Beh, a tutti i migliori è capitato di beccarsi un bolide! Conosci... sì, immagino tu conosca Morley Peetzah.» e Dio, voleva morire. Come aveva potuto supporre non conoscesse More? Persino lui aveva dovuto fare i conti con una gran bella frattura, ai tempi - o almeno, così risultava da alcune dimissioni che aveva trovato lungo il viale dei ricordi.
    «Vorrei...» poterti dire di sì, ma fino a un paio di anni fa a malapena sapevo cosa fosse un manico di scopa. Deglutì, puntando le iridi acquamarina negli occhi sognanti della Weasley: che senso aveva dirle la verità, quando già stava soffrendo per altro? «poter tornare a giocare, sì.» le sorrise. «Ma immagino di aver avuto i miei attimi di gloria, dico bene?»
    Quasi dimentico di aver ancora la bottiglia tra le dita, posò lo sguardo su di essa. Un singolo istante di esitazione, di distrazione: non ci volle poi molto, prima di ritrovarsi la ragazza stretta alla sua vita.
    Prima di sentire un brivido - un tremore - lungo la spina dorsale.
    Nient'altro.
    Nient'altro, perché ogni tanto sapeva essere in grado di chiudere tutto e non lasciare entrare niente.
    «Hai visto qualcosa?» un sussurro appena, perché sapeva di poter chiudere le entrate, così come sapeva di non poter avere troppo controllo anche sulle uscite.
    La lasciò andare, ma non senza essersi assicurato che riuscisse a stare in piedi da sola. «Perché no?» accomodò, invitandola a precederlo.
    «La vita dopo Hogwarts? Ha!» si sedette al suo fianco, allargando il sorriso ma distogliendo lo sguardo da lei. «Non sono la persona migliore a cui chiedere informazioni, onestamente.» che ne sapeva lui, di cosa ci fosse dopo Hogwarts? Aveva in ricordo solo l'oblio - dell'incantesimo, della morte, delle sbronze. «Posso dirti che c'è un mondo ancora più duro del castello, e che ti ci vorrà molta fortuna e impegno per... stare bene.» riportò su Chelsey la propria attenzione. «Tu vuoi continuare a giocare, vero?»
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    «stai cercando di appartarti con me, dallaire?»
    «cosa?» istintivo ed istantaneo, e con un pizzico di ilarità isterica ad ammorbidire la piega della bocca, Elijah riportò di scatto le iridi acquamarina sulla ragazza, la fronte corrugata ed il naso arricciato: sapeva bene quanto quel «ma no,» a fuggire le proprie labbra fosse inutile, o quanto quella di Rea una mera provocazione sarcastica e retorica, e non poté fare a meno di divertirsene nel momento in cui il pensiero divenne suono. Era un idiota; a maggior ragione dopo il commento che seguì immediato quei due monosillabi, e che sapeva benissimo sarebbe arrivato da un momento all’altro.
    Non avrebbe mai potuto dire di conoscere perfettamente la Hamilton, per quanto potesse tenerci a farlo e nonostante tutti gli sforzi che negli ultimi anni aveva compiuto per avvicinarsi non solo a lei, ma a tutte le persone che il Dallaire aveva amato prima di dimenticarsene, tuttavia aveva imparato a conviverci (fisicamente e spiritualmente parlando) ed almeno in piccola parte riteneva di averla capita – quel tanto che poteva bastare a percepire le note sardoniche e beffeggiatrici, nemmeno troppo nascoste, dietro la voce della donna. Per quanto fosse, e sempre sarebbe rimasta, un mistero impossibile da risolvere – di quegli arcani nascosti sotto cumuli di ere sedimentate nella sabbia, cocci di un mosaico che solo il più abile archeologo avrebbe saputo ricomporre, che faticano per essere riportati alla luce e che una volta dissotterrati mostrano soltanto la superficie rovinata dal tempo e dall’usura; di quelli che in molti studiano, ma che solo pochi s’ostinano ad osservare con passione fino a trovare quella minuscola serratura sotto la polvere, che aperta lascia la scena alla più bella e splendente delle gemme: al chiaroveggente non serviva vedere dal vivo quello spettacolo, per sapere fosse così –, era arrivato ad un punto della propria vita in cui il non detto dell’illusionista arrivava più forte e chiaro della sua voce.
    Ed allora era ancor più un maledetto idiota, nel sentirsi costretto a smorzare l’accenno di un mezzo sorriso; un vero fesso, che aveva pensato più volte a quel no nel giro di un solo battito nel petto che non ai propri amici dispersi nella foresta in tutto quel tempo. Perché avrebbe dovuto essere cosciente del fatto che la risposta migliore da dare, fosse il silenzio. Perché sapeva che la propria proposta fosse innocente, e che quella di Rea solamente canzonatoria – ma.
    Ma. Era così sbagliato, credere non lo fosse davvero? Era davvero così stupido, da parte sua, riflettere su quanto quel diniego fosse una menzogna a metà? Probabilmente sì; probabilmente, avrebbe dovuto crucciarsi ancor di più al riguardo fino ad arrivare alla conclusione che forse, la volta successiva, sarebbe stato meglio – per lui – pensare prima di dar fiato alla voce.
    Non era così facile – non da quando Rea Hamilton era divenuta la costante della sua esistenza e dei propri giorni, né dal momento che ogni pensiero a lei legato aveva il profumo dei suoi capelli ed il soffice suono del respiro sul proprio petto.
    «volevo solo essere speranzoso» con le labbra strette tra loro e le goti ad arrossarsi appena sotto il palmo della mora, poteva tanto riferirsi alla bislacca costruzione di Eugene e Nate ed alla loro (possibile, ma improbabile: amava i suoi migliori amici, ma aveva ragione Rea quando diceva che ci sarebbero morti soffocati) sopravvivenza al suo interno, quanto all’appartarsi con lei nella tenda.
    Chiuse gli occhi nel momento in cui la mano lo colpì al viso, ispirando forzatamente solo per soffiare, con una punta di stanca esasperazione, quel «cosa vuoi che faccia, rea» che non aveva davvero il suono di una domanda. Lesinò dal chiederle posso davvero?, ma la tentazione era forte: c’erano quei momenti, poco Elijah Dallaire e più chiunque altri, in cui il biondo sentiva la necessità di abbandonarsi allo stereotipo vivente qual era; non la stupiva, e quindi era legittimato a non fare di più. Dischiuse le palpebre, sollevando un sopracciglio. «se vuoi posso provare a parlare con gli scoiattoli di questo adorabile bosco e chiedergli di portarci le noci più grandi che trovano,» sorrise appena, un velo di malizia a premere sull’angolo della bocca. «potrebbero effettivamente trovarli». Si strinse nelle spalle, studiando la nuca della Hamilton mentre si distanziava di qualche passo. «oppure potremmo effettivamente andarli a cercare, ma non ho davvero idea di dove potrebbero essere and-» «hai per caso parlato con nate, ultimamente?» e le sopracciglia corrugate, la testa un filo reclinata e le braccia conserte dovettero parlare per lui: parlava quotidianamente con l’Henderson, non aveva davvero idea di come rispondere a quella domanda. «di… questo» ah, ecco.
    Chinò il capo sull’indice di Rea, per poi schioccare la lingua sul palato. «di questo cosa?» non alzò la testa, non rilassò le braccia lungo i fianchi; anzi, se possibile si strinse un po’ di più in esse. «di cosa dovrei parlargli, secondo te?» sentiva ogni goccia appiccicargli i fili dorati sulla fronte, ciascun rombo di tuono lontano attenuato dalla fitta boscaglia, ma non potevano in alcun modo sovrastare il rimbombante battito del cuore contro le gabbia toracica. Ne avrebbe avute parecchie di cose con cui riempire le giornate del professore, certo che questo non attendesse altro. Allora sollevò lo sguardo, puntando gli occhi verdi in quelli scuri di lei mentre spostava indietro i capelli. «dimmelo, perché non ho idea di cosa sia questo» imitò il gesto di lei, indicando prima sé poi l’altra. «dio, non so nemmeno cosa io significhi per te, rea.» soffiò, accompagnato dal cenno di una risata morta sul suo stesso nascere: senza malizia od accusa alle sue spalle, solamente l’indizio di una resa sempre dietro l’angolo ma alla quale, il Dallaire, mai avrebbe sporto la mano. Lesinò dall’aggiungere quel sempre se significhi qualcosa, perché decisamente troppo melodrammatico pure per le sue corde inquinate dall’essenza di Nathaniel: non riusciva a capire cosa, ma sapeva che qualcosa dovesse esserlo, per lei.
    «perché io so benissimo cosa tu sia, per me,» distolse lo sguardo; deglutì. «e credo di saperlo da sempre» con un filo di voce, e senza ritenere opportuno specificare che quel sempre avesse un gusto dolceamaro sulla lingua. «no, non ho parlato di questo con nate,» concluse (poco) disinvolto; doveva convenire con la ragazza che, a quel punto, quella sembrasse poco una casualità. «ma magari non aveva bisogno gli dicessi nulla.»
    01.12.1991 • 28 y.o.
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  4. .
    Vabbè sto ridendo da solo, già ti amo GRAZIE PANDI DI AVERLA TRAVIATA!!!
    Non so nemmeno da dove iniziare, se dalle gif così on point o se da... boh, qualsiasi altra cosa nella presentazione. Già ti voglio bene.
    NON SEI VECCHIA NON PREOCCUPARTI!!! L'importante è che tu lo sia nell'animo, qui siamo tutti degli ottantenni inside - quella anagrafica non ci interessa, d'età! L'adulthood è un argomento che non si tocca! MAI!!!!! ho 23 anni e mezzo e ne sono già terrorizzato.
    Cos'hai fatto all'università per dover essere così maltrattata sul tuo futuro????
    CITAZIONE
    Sappiate che ho paura di non riuscire a starvi dietro. La mia Pandinacicci mi ha già informata/aggiornata/istruita su molte cose e mi ha appunto riferito del vostro essere, stupendamente, in costante movimento.

    Ma va', stai tranquilla, Pandi mente! Siamo dei bradipi poltroni, ci prendiamo la vita con calma e serenità ed andiamo in iper-arousal solo quando c'è un censimento o una quest HAHAHAAHAH davvero, non preoccuparti dei tempi o di nulla del genere!

    Allora, perdonami ma non so dare i benvenuti QUINDI ti lascio qualche link che potrà esserti utile, come la guida alle sezioni ed il topic riguardante i primi passi, nel caso ancora non li avessi visti! Ma soprattutto la bibbia dell'oblivion, la guida alle multiutenze: siamo piggiomani e con molti account, ci si ama anche per questo uhuh (pensa, abbiamo addirittura questa che è una discussione con tutti i pg work in progress dei vari player, giusto per farti capire la psicopatia). AH e anche WeChat, nel caso fossi masochista e ti piacesse venire molestata h24 da un gruppo di cerebrolesi ♥

    In tutto ciò ancora non credo di essermi presentato: ciao sono Emanuele («ciaaao lele») e non bevo da sei giorni, ho 23 anni, studio per diventare chissà cosa - ma possibilmente un educatore - eeeee per qualsiasi cosa non esitare a domandare! Io intanto ti abilito al gruppo dei ghost così puoi... vagare più a fondo nel forum (???) e niente, baci stellari sara (la nostra terza sara!) ♥
  5. .
    AAAAAA BENVENUTO UFFICIALE ANTO!!
    Io sono Lele, ormai già stiamo parlando su wechat quindi qui è proprio proforma MA - ma!

    Eeee che dire rispetto alla scorsa volta? Non so, ma sono felice che tu ora sia fissato con i libri!!!!!! Io anche sto "ricominciando" piano piano a rileggere qualcosa, perché come te se non mi prende qualcosa subito non... riesco a leggere #wat ma fortunatamente mi è stato spammato l'Autore TM (grazie sara ily sara ♥) quindi sento che ricomincerò potente.

    EEEEEEE boh scusa sono pessimo nel dare i benvenuti, ma come ti ho già detto: per qualsiasi dubbio/domanda/necessità sai dove trovarci! ♥
  6. .
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    dallaire

    Non era una buona idea.
    «nns buon idhea» più o meno. Cosa, esattamente, non era una buona idea? Non lo sapeva nemmeno Elijah. «naaaate» tutto ciò che sapeva, con Starships di Nicki Minaj a rimbombargli nelle orecchie, era che fosse totalmente, incondizionatamente, ubriaco fradicio. Non una novità a quel punto della propria vita, laddove gli incontri degli Alcolisti Anonimi funzionavano solo come promemoria di quanto facesse schifo come essere umano: praticamente partecipava alle lezioni, si motivava, rimaneva sobrio per due giorni e poi – «naaaaaaaAAAATE» e poi. Perlomeno quella sera non aveva bevuto da solo, dentro le quattro pareti della villa di Inverness – o forse era già a Londra da Rea; chi poteva ricordarlo? Non Lele, né tantomeno un Dallaire completamente andato nei fumi dell’ebbrezza. Magari l’Henderson sapeva più di quanto non facesse il biondo, ma non avrebbe potuto giurarci: qualcosa (cosa?) (qualcosa) gli diceva che anche lui avesse alzato un po’ troppo il gomito.
    Ma tipo, letteralmente. «Hei, tu, hai un viso famigliare, non è che vuoi sentire quanto è morbida la mia ascella? Ti giuro è fantastica» «ma tu non sei nate» non era Nate. «non era nate» ed annuì anche convinto, mentre effettivamente spingeva l’indice contro la sopracitata ascella. Effettivamente «uau com’è morbida» era morbida. «usi chante claire?» perché mai avrebbe dovuto. «è così pulita» ma in che senso.
    Si voltò, cercando il migliore amico tra la marmaglia di gente che c’era in quella discoteca – perché erano in una discoteca? – solo per far vedere anche a lui il miracolo dell’Ascella, senza accorgersi di aver dato una gomitata in faccia al poveretto nel girarsi di scatto. Come? Non lo sapeva. «naaaate mi hanno molESTAto» eccola lì la merdina, a letteralmente cinque centimetri da dove lo aveva lasciato dieci secondi prima. Gli posò greve le mani sulle spalle, scuotendolo appena per assicurarsi ci fosse (e che fosse lui). Era qualcun altro? «un tizio mi ha toccato l’ascella» non era andata proprio così, ma insomma. «ah ma non sei nate» non era nate, di nuovo. «ciao nicole!» era nicole. «era nicole»
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    Questo non sta succedendo.
    Elijah Dallaire, le mani premute contro i fianchi ed i polmoni a riempirsi d’aria boschiva, calò le palpebre sullo spettacolo che la natura aveva da offrirgli. Sorrise, spontaneo e genuino, beandosi della moltitudine di suoni che quella foresta faceva rimbalzare da fronda a fronda – un eco verde, pulito e rinfrescante: ogni nota ad uscire dal becco degli uccellini, ogni folata di vento a muovere i rami degli alberi in un soffice fruscio, ogni goccia d’acqua a scrosciare contro le rive del fiume lì vicino od a cadere sopra le foglie; in quella sinfonia, tutto quanto irradiava un senso di pace e benessere che ormai rare volte, il chiaroveggente, poteva affermare di provare.
    Questo. Non. Sta. Succedendo.
    Ancora, prese quanta più aria possibile – inspirò dal naso, ed espirò a labbra appena dischiuse quando il petto fu abbastanza gonfio da non poterne più. Impercettibilmente, la presa delle dita sulla propria carne si fece più salda; di appena qualche centimetro, ma sollevò il mento verso il cielo che tendeva alla pioggia. E di nuovo, si ripeté in quel respiro; lo stesso che, di volta in volta, si faceva sempre più forzato e, marginalmente, disperato.
    Inutilmente, del tutto inutilmente, tentò d’ignorare la voce di Rea ad insediarsi nell’orchestra del bosco; vano e sciocco fu, per il biondo ventottenne, cercare di non pensare a quel calore scivolare tra le costole come miasma. A quella rabbia che Elijah sapeva non essere totalmente sua, ma che in quel momento non poteva non provare: con la ragazza dietro di sé, e con il proprio migliore amico, condivideva ogni singola goccia di sangue a pulsargli nel petto; ogni anelito di fiato, ciascuna emozione e sensazione, non era più soltanto sua – e viceversa, era tutto di dominio pubblico tra loro tre. Benedizione e condanna sotto molteplici punti di vista, sebbene provasse sempre e solo a concentrarsi sulla prima parte: se non fosse stato per quella connessione, ora si troverebbe sei piedi sotto terra.
    Ci provò, ci riprovò, e ancora riprovò a non farci caso – ma il sorriso sulle labbra tendeva sempre più alla risata isterica, che non alla pace dei sensi che tanto avrebbe voluto ostentare.
    Ma non poteva davvero farlo.
    Non voleva, farlo; mai aveva voluto, e mai l’avrebbe seriamente considerata come un’alternativa reale e possibile. Nell’indole del Dallaire, non esisteva la propensione all’ignorare volutamente chicchessia: accorreva per chiunque, anche quando non v’era la minima necessità del suo intervento – laddove, anzi, la sua presenza risultava addirittura superflua e scomoda. Men che meno, riusciva seriamente a pensare di fingere di non sentire la Hamilton.
    Era quella che sentiva di più. Giorno dopo giorno, era quella che voleva sentire di più: che si trattasse della sua voce, o di lei e basta, non faceva molta differenza.
    «elijah» e nei momenti in cui chiamava il suo nome, rendeva il tutto ancora più facile – e complicato, in una maniera che non riusciva a comprendere. Complicanza che non avvertiva realmente, lui: era più un eco delle difficoltà di lei, a suo modesto parere.
    Non era stato difficile per Elijah rispondere a quel richiamo due anni e mezzo prima, non lo sarebbe stato mai nel tempo a venire.
    «dimmi?» innocente, pacato e cauto, nel voltarsi verso la mora, esibendo una tranquillità che non esisteva affatto. Perché lo sapeva che lei avrebbe compreso che, dietro quella piega gioviale, si nascondeva ansia allo stato puro. «dimmi che…» deglutì, mordendosi le labbra; quella goccia a scivolare sulla tempia dell’ex grifondoro poteva essere tanto pioggia, quanto sudore freddo: impossibile da comprendere, in quel preciso istante di stasi.
    Non dirlo.
    «non ci siamo…»
    Non dirlo. Non ad alta voce.
    «persi eugene e nathaniel.»
    «eh.» Eh, cosa? «eheh.»
    Elijah Dallaire voleva morire. Di nuovo.
    Posò le iridi acquamarina sulla ragazza, sospirando lieve. «non ci siamo persi eugene e nathaniel.» era quello che voleva sentirsi dire, no?
    Ovvio che si erano persi Eugene e Nathaniel. La loro tenda era lì, ragion per cui era da escludere il fatto che fossero stati loro due a finire chissà dove in quel bosco sperduto e dimenticato da Dio; erano ore (ore!!!) che dei due non avevano alcuna traccia, né notizie. Senza contare che erano stati loro ad ubriacarsi come spugne – facendoglieli vagamente (molto… molto vagamente) (okay, niente affatto, ma lasciateglielo credere) odiare ad ogni sorso che trangugiavano senza esitazione davanti a lui, che era in un programma di Alcolisti Anonimi – : le probabilità parlavano chiaro. «magari sono soltanto andati a cercare… qualcosa?» cosa? Qualcosa. Si massaggiò la tempia, cercando di fare mente locale: dovevano almeno aver dato un indizio su dove fossero diretti, no?
    No. «quantomeno sono ancora vivi, guardiamo il lato positivo!» con tanto di sorriso a trentadue denti, lo stesso che era certo l’altra gli avrebbe spaccato di lì a pochi minuti. Rettificando: quantomeno Nate era ancora vivo. Su Euge, non poteva dire lo stesso. Avrebbe voluto proporre di cercarli, ma nello stesso istante – quasi l’avessero sentito, dai piani superiori – la debole pioggerella che aveva iniziato a cadere sopra le fronde iniziò a farsi più intensa. Bene, ma non benissimo. «entriamo nella tenda, che ne dici?» si avvicinò di qualche passo alla ragazza, facendo scivolare lo sguardo sulla cosa che i suoi amici avevano voluto costruire, affermando fosse la loro opera migliore: non lo era, ma il tentativo era apprezzabile ed era comunque molto fiero di loro. «quando smette di diluviare usciamo a cercarli, mh?»
    01.12.1991 • 28 y.o.
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    Edited by egl.af - 12/4/2020, 15:04
  8. .
    ha fondato la sua congrega, abbadon l'ha accettata e ci si è unito.
    canon, raga.
  9. .
    e non dimentichiamoci di darth!

  10. .
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    «Mi dispiace, Elijah…» lo sguardo acquamarina puntato su di un punto vuoto della scrivania, il Dallaire si limitò a muovere appena e soltanto l’angolo destro delle labbra – un mezzo, storto ghigno che non sapeva di nulla sul viso del biondo; talmente fugace ed effimero da passare inosservato a chiunque non sapesse, né volesse, vederlo. Nemmeno quando la pausa al seguito di quelle scuse, che nonostante tutto faticava a concepire false, divenne pesante e tangibile tra di loro, se la sentì di sollevare il capo per affrontare la donna dietro la targhetta. A che pro?, si domandava; tanto, in ogni caso, già sapeva la faccia che si sarebbe ritrovato dall'altra parte. Non perché conoscesse la Derwent – o per meglio dire ricordasse: sebbene dall’altra parte sembrava esserci la memoria di un passato in cui non fossero perfetti sconosciuti, per Elijah era impossibile ricambiare il sentimento –, quanto più per il fatto che fosse perfettamente consapevole dell’espressione che l’attendeva.
    Un’espressione che, superati i ventotto anni di vita, non faceva più davvero alcun effetto; a quel punto, era solo stanco. Di incrociare gli sguardi e trovarvi pena e compassione, che non avevano altro scopo se non quello di smorzare il senso di colpa di chi, con fin troppa facilità e sufficienza, se li dipingeva sul volto; di accettarli tutti, perché consapevole che la sua persona non fosse in grado di provocare un altro effetto. Stanco di sentirsi così arreso – eppure incapace di trovare una soluzione ai propri mali, per quanto ci provasse. «Ma ho le mani legate, non posso farci nulla. Capisci, la tua…» «“particolare condizione”, giusto?» la voce dello Special suonava gioviale e genuina, anche se in quel preciso istante avrebbe voluto si capisse la nota d’isteria in quel sorriso, in quella risata spezzata e forzata. Che il capo dei Medimaghi si riferisse alla sua memoria, o all’assenza di qualsivoglia potere magico, poco importava: in ogni caso si sarebbe trattato di discriminazione, ed il tasto più dolente era che non si sentiva in diritto di far pesare un tale dato di fatto. Si trovava in un vicolo cieco legislativo; consapevole di essere perfettamente in grado di riprendere il proprio ruolo all’interno del San Mungo, soprattutto dopo aver passato l’intero anno precedente a studiare sia la medicina magica che quella babbana – e trovandole più semplici di quanto avesse mai potuto pensare, si trovò a pensare che nonostante l’amnesia totale qualche ricordo pratico fosse sopravvissuto –, le leggi in vigore nell’ospedale gli avrebbero sempre e per sempre proibito di mettersi nuovamente il camice.
    Non si era nemmeno accorto di desiderarlo così tanto, fino a quando non gli era stata negata a priori la possibilità. Per quell’evenienza si era ovviamente preparato, sapendo quanto fosse scontato e prevedibile un simile risultato, eppure. «Beh, dovevo provarci, giusto?» solo allora, le dita strette con tanta veemenza sui braccioli della sedia da rendere le nocche pallide, si costrinse ad alzare lo sguardo sulla donna, rivolgendole la più morbida e cordiale piega delle labbra che potesse permettersi. «Sono davvero desolata…» «fa niente,» il chiaroveggente si alzò in piedi, sventolando vago le dita davanti a sé come a voler scacciar via una mosca fastidiosa. «sapevo bene a cosa sarei andato incontro.» tese in avanti la mano, intenzionato come mai prima d’allora a concludere in fretta i convenevoli e fuggire da quell’ufficio. Ci erano voluti mesi interi, anni, affinché decidesse di riprendere in mano la propria vita, partendo tra le tante cose dal ritrovare un lavoro: non voleva stare un secondo in più ad osservare le macerie dell’idillio che il suo fallimento aveva raso al suolo.
    Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, con il serio rischio di andare in iperventilazione, nel momento in cui quella di Demetra si strinse attorno alla sua: tenere fuori dalla propria testa i ricordi, il futuro della gente, non era una cosa che riusciva a fare, e puntualmente succedeva di doverci fare i conti nei momenti peggiori. Per Elijah, era come cadere in una vasca di gelidi aghi a penetrare la carne ed andare a fondo, dimenticando le basi fondamentali per rimanere a galla. «Se dovessi trovare un qualcosa, ti faccio sapere.» fece scivolare via le dita dalla presa del dirigente, arricciando il naso alle sue parole. «Non ho alcuna qualifica in psicomagia, non potrei nemmeno volendo.» che, a quanto sapeva, era l’unica cosa che uno come lui potesse fare dentro quell’edificio: non era difficile capire intendesse quello. «Ma le pulizie so farle!» concluse sulla porta, senza lesinare un ultimo sorriso alla Derwent prima di lasciarsela alle spalle; era pur sempre un lavoro dignitoso – ed era pur sempre un lavoro: in tempi di crisi gli stava bene tutto.

    Mani in tasca e sguardo perso sul pavimento, lasciò che fossero i suoi piedi a scegliere la destinazione. Aveva spento il cervello, decidendo di non voler nemmeno per un secondo fermarsi a pensare: a niente in particolare, a voler essere onesti. Sapeva che, dal momento che avesse sollevato il capo per riflettere su cosa fare in quel momento, sarebbe inevitabilmente precipitato. Si sarebbe domandato se fosse meglio andare a quella che, da diverso tempo a quella parte, era diventata la sua fissa dimora – ma a quel punto, avrebbe dovuto affrontare lo sguardo di Rea senza riuscire a nascondere che non ce l’aveva fatta; che non fosse colpa sua non era importante, dato che in fin dei conti reo d’aver perso la memoria ed i poteri da mago, almeno in parte, lo era. Magari, se poteva permettersi d’arrancare fino a casa di Bells e trovare in sua sorella il sostegno di cui aveva bisogno. Anche in tal caso, però, il problema restava lo stesso: il senso di colpa.
    La soluzione per cui davvero non voleva pensare, era la strada. Era l’alcol.
    Aveva avuto una ricaduta, lo aveva ammesso, ma erano oramai diverse settimane che non toccava un bicchiere che non fosse d’acqua: in quel momento sapeva per certo che, se ci avesse rimuginato per due minuti in più del necessario, avrebbe decretato che il fondo di una bottiglia sarebbe stata la degna conclusione di quella giornata di merda.
    Ma non poteva.
    Non poteva fuggire, non poteva bere, non poteva pensare – non poteva. «Stiles, ci sei?» ma chiedere aiuto, bussando alla porta di un amico? Rimanendo semplicemente lì, con chi sapeva benissimo come ci si sentisse? Quello sì.
    Almeno per un po’, il tempo di mettere a posto il cervello.

    Così aveva detto, e così lo Stilinski aveva acconsentito. Quando si fosse fatto tardi, Elijah non lo sapeva: le sedute degli AA erano sempre un’incognita spazio-temporale. Lasciò l’ufficio di Stiles con la premessa di fare ritorno a breve – senza nemmeno sapere, a quel punto, per fare cosa: era il caso che entrambi rincasassero, invece di cazzeggiare in ospedale –, solo per prendere una boccata d’aria e fare un salto alle macchinette automatiche.
    Era certo che, a quell’ora, avrebbe trovato tutti i corridoi completamente deserti: era stato così quand’era uscito a fumare una sigaretta, quando aveva vagato come un’anima in pena senza mai, assurdamente, perdersi nei meandri del San Mungo. Trovare una persona in piedi, fu piacevolmente sorprendente. Si avvicinò, notando già dalla distanza quanto fosse in difficoltà; a fare cosa, non ne aveva idea – non che potesse avere importanza, per il chiaroveggente.
    «Scusa, non è che mi dares-» fulmineo, i muscoli memori di allenamenti e tornei passati ad afferrare al volo Boccini D’oro nei cieli tersi di Hogwarts, fece appena in tempo a piegarsi ai piedi della ragazza per afferrare la bottiglietta, le labbra a scoprire i denti in un sorriso. «- una mano?» svitò il tappo, porgendo la bottiglia alla ragazza in stato di shock. Corrugò le sopracciglia, confuso. «Elijah Dallaire.» «Vedo che la mia fama mi precede.» ammiccò, perfettamente consapevole dell’influenza nefasta di Rea e Nate in quella risposta: di suo, sarebbe già andato in panico chiedendosi cosa avesse fatto di male a quella povera ragazza. Ad una seconda e più attenta occhiata verso la rossa, stringendo le palpebre, si rese conto che effettivamente non aveva tutti i torti: davvero, a quel punto, la propria nomea aveva fatto il lavoro sporco. «Ma tu sei il capitano dei Grifondoro, Chelsey Weasley, giusto? Ti ho visto giocare qualche volta!» figurarsi se uno dei suoi predecessori potesse, sebbene immemore dei tempi passati a giocare, perdersi le partite della propria ex casata: era una questione di principio, quella. «Che ci fai qui? Se posso chiedertelo, certo.»
    unsteady
    x ambassadors
    echo
    jason walker
    smoke
    tender
    start over
    flame ft. nf
    man in the mirror
    j2 ft. cameron the public
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
  11. .
    Oh meo deo.
  12. .
    i raise my flag
    don my clothes
    it's a revolution i suppose
    Elijah ha scritto in un'intervista al PC che non ha senso che la prima cosa che si potesse permettersi era un pg poc e la sua sorella era una novità. Quindi il 24-2Eeeeeeeee non ha senso di non essere il mio problema pa/PD... mi sono svegliato e mi sono perso la testa allucinante ma è una patata. Non ho capito che l'università di Harvard e l'università perché mi hanno invitato ad essere onesti per il culo dai miei amici contati a casa. Il suo gemellino ha una famiglia che si chiama e si chiama a me piace anche se sono tornati in realtà non sapevo dove sei una bestia che non ha una mazza. Per il resto del mondo il suo lavoro non so come comunicare il tuo vippino sarà un sacco altered its own business per la tua esperienza personale ihih e la tua vita difficile da solo perché poi hai una FALCE.
    «dai che tu voglia intendere la mia idea che non sia una cosa così tanto Keller» sorrise al mio esame per la lezione che ho, non mi ha fatto un cazzo finora. Guardò Idem e isaacVedete che non era una risposta alla domanda interessante che mi sono appena DIPLOMATO in un gruppo matricola e mi metto da parte i soldi gliene ha fatto il post che ho scritto vviamente a fine settimana. La droga è una cosa simbolica e non aveva blondi apriamoci per il culo di qualcun altro LET'S go girlz e il compagno ha fatto in tempo di fare il brodino e la prima stagione a casa, quindi non so se si possono usare role di prova ma non so se si capisce che il ragazzo ha detto a mamma e non ha un cazzo finora. Gli occhi chiusi ed il risultato sono ancora affezionato a un sacco di botte random che mi hai messo in bocca, ma non mi sono dimenticato che mi hai messo un attimo prima che ammazzasse una persona... mi viene voglia di vivere il giorno dopo la morte finale di vita difficile. «ho per le percentuali di un avversario» sospirò il suo sguardo omicida, ma è il suo sangue fresco che mi sono preso in considerazione per la sua morte. «quindi non mi hai fatto bene al PC faccio una domanda molto interessante» davvero troppo schifiTutto per me anche perché sennò mi ha chiesto se la scopa fosse una persona. Elijah Dallaire non ha un cazzo di niente per me anche per la sua sorella che non ha un figlio.
    Era un barbone, ragion per cui aveva già perso il suo lavoro e ahahah #ciao ha detto che quando si fa troppo male la sua vita e la sua morte si possono trovare in una foresta.
    Ha fin troppo senso, qui chiudo.
    elijah
    clairvoyant
    gryffindor
    01.12.1991
    wanderer
  13. .
    27 y.o. • wizard: clairvoyance
    01.12.2018
    elijah
    dallaire
    I'm so sorry, I forgot you Let me catch you up to speed I've been tested like the ends of A weathered flag that's by the sea
    Can you build my house with pieces?
    I'm just a chemical
    «fuori» lento e metodico, temendo che un movimento troppo brusco del capo potesse allarmare Rea e metterla maggiormente sul piede di guerra, posò gli occhi chiari sul profilo della mora. Immobile e statuario, Elijah Dallaire, nel studiare i lineamenti della ventottenne – non un sorriso a solcargli le labbra, non un’ombra ad incupire il verde traslucido delle iridi. Non si era aspettato molto, dal momento in cui il Gemes dell’universo alternativo aveva aperto bocca rivelando loro quanto greve fosse la vita dall’altra parte del velo dimensionale, se non vero e proprio disagio; per quanto lo riguardava, nel venire a conoscenza della morte dei suoi migliori amici e della famiglia che s’era costruito l’altro biondo, ci aveva preso in pieno: si sentiva spesso in imbarazzo, in quasi ogni istante della propria esistenza, ma quello provato in quel momento sfiorava un livello trascendentale. Capace di sentirsi colpevole per ogni infima stronzata, non poteva impedirsi di prendersi anche le responsabilità delle scelte e del destino del proprio doppione; non riusciva a non immedesimarsi, per quanto le loro vite avessero seguito sentieri differenti: era lui, solo con una storia smussata su alcuni angoli e resa tagliente laddove quella del chiaroveggente sembrava più morbida. «fuori da qui» la reazione della Hamilton, il tono con cui concisa diede quell’ordine, non era qualcosa che aveva, in qualche assurdo modo, previsto. Immaginava potesse parere strano che lui, Elijah!, fosse l’unico superstite del team; fastidioso che si fosse costruito qualcosa senza di loro, lo era anche per lo scozzese. Ma… non pensava così tanto.
    Corrugò le sopracciglia dorate, volgendo prima la propria attenzione ad un Gemes sull’orlo di una risata isterica – poteva quasi sentire gli ingranaggi del suo cervello mentre, incastrandosi tra di loro, cercavano di comprendere se quello della ragazza fosse un modo di dire o facesse sul serio -, poi a Nathaniel, teso e confuso tanto quanto lui. Ormai poteva dire di (essere tornato a) conoscere la fu strega quel tanto che bastava a capire che la situazione non l’avesse semplicemente seccata: non era una pentola a pressione; non si caricava semplicemente di rabbia a muso duro per scoppiare nel momento più opportuno. Rea Hamilton trasudava ira ad ogni sorriso piccato, ad ogni fulgente occhiata color cioccolato – almeno, così amava vedersi lei: il Dallaire, in tutto quel tempo, non era mai riuscito a percepire davvero quel furore.
    Non come avrebbe dovuto, non come avrebbe voluto. «vi do trenta secondi per sparire dalla mia vista, dopodiché non risponderò delle mie azioni. uomo avvisato-» si umettò le labbra, le braccia incrociate sul petto. Dieci secondi dell’ultimatum imposto erano già trascorsi, quando si osò alzare lo sguardo su Gemes, che aveva infine deciso che rompere ulteriormente le uova nel paniere della proprietaria di casa non era la migliore delle idee che avesse mai avuto; quindici, quando incontrò lo zaffiro degli occhi di Nate. Venti, e gli fece un cenno con il capo: sapevano (meglio, speravano) entrambi che non li avrebbe potuti uccidere nemmeno se lo avesse voluto, ma ciò non significava che non capisse il bisogno di lei di mandare tutti quanti via.
    Ma quando l’Henderson si alzò, uscendo dalla stanza, Elijah non lo seguì; mosse qualche passo, ed ai trenta secondi appena conclusisi si sedette più vicino alla mora. «pensi mi ucciderai per essere rimasto?» domandò, l’ombra di un sorriso a premere sulle labbra. «o torturerai? vorrei essere preparato» capiva il suo bisogno di rimanere da sola, e probabilmente lo avrebbe anche fatto, ma sarebbe stato davvero lui se non ci avesse quantomeno provato, a capire cosa stesse succedendo? No, ed aveva maledettamente bisogno di sapere che ci fosse ancora un po’ di se stesso lì dentro.
    Giusto un po’, e se ne sarebbe andato: glielo aveva detto già più volte, che non la aveva mai voluta disturbare. «vuoi… parlarne? ti vedo turbata» per non dire “vagamente incazzata”, solo perché era una signorina dalle buone maniere ed il termine incazzata non si addiceva alla sua personalità.
    Sippin' on straight chlorine, let the vibes slide over me
  14. .
    elijah dallaire
    no memory found
    Per tutta quell’apparentemente interminabile nottata, Elijah aveva reputato il semplice respirare come un’azione fin troppo forzata, oltre che un dispendio di fatica allucinante; continuava a rendersi conto di non avere fiato nei polmoni solamente nel momento in cui, fortunatamente, questi iniziavano a bruciare come carboni incandescenti, costringendolo a boccheggiare alla ricerca di ossigeno che nemmeno avrebbe voluto, se non ne fosse valsa la vita di Nathaniel e Rea. Nemmeno poteva dare la colpa allo scotch, per quello - anzi, se proprio gli doveva qualcosa, quella era la gratitudine nel rimembrargli quanto fosse stupido il suo cadere ripetutamente in un’apnea involontaria. Da veri idioti, il cercare l’inutile conforto di una bolla d’acqua che potesse sottrarlo a tutti quei rumori, a tutte quelle facce. Il biondo grifondoro riteneva più che altro tutto quel caos, certamente da lui stesso creato, reo di un principio di collasso polmonare: era scivolato troppo velocemente da un turbinio di colori confusi e strazianti grida, da immagini e parole cui non voleva fare da spettatore, alla frenesia di una rissa involontaria e di un conseguente arresto; inaspettatamente, ma senza calma, si era sentito catapultato dall’ansia di ciò che ne sarebbe stato di un Dallaire dagli occhi troppo umidi e trasparenti dietro le sbarre di una cella di Inverness, ad accettare quale che sarebbe stato il proprio destino – per poi ricadere in una spirale d’angoscia e timore nell’esatto istante in cui aveva riconosciuto il viso gentile di Phobos, ed aveva saputo dell’imminente arrivo di sua sorella. Senza contare tutto quello che era avvenuto dopo, per quanto al senso di colpa – verso sua sorella nel particolare, ma tranquillamente generalizzabile a chiunque si fosse trovato dinnanzi in un qualsiasi momento della propria esistenza; non c’è davvero bisogno di ribadire quanto fosse quel sentimento a muovere, per inerzia, il chiaroveggente – fosse oramai avvezzo. Era stato tutto davvero troppo, per una sola serata: si era abituato all’eccesso che lo vedeva volente vittima e protagonista, scendendo a patti con se stesso nell’accettarlo se voleva sopravvivere così, ma mai in vita sua (o almeno, quella di cui aveva memoria) era stato ammanettato e spinto nel sedile posteriore di una volante della polizia.
    Ma tutto ciò che aveva provato, e che a posteri più lucidi avrebbe potuto definire come un’incessante crisi di panico, non era nulla in confronto a quello: gli parve davvero, che non ci fosse più aria nel mondo per lui. Volendo l’avrebbe potuta ritrovare nel semplice distogliere lo sguardo, o socchiudere la bocca nel tentativo, minimo ed insignificante, di accennare una sola parola: se avesse chiuso gli occhi e liberato completamente la mente, lasciandosi andare a quell’oblio di vorticosi giramenti di testa causati dal buio improvviso, si sarebbe reso conto che poteva respirare più tranquillamente di quanto non gli sembrasse – che doveva farlo, se non voleva rischiare un embolo. Perché alla fine, cosa poteva aspettarsi? Invece no, reputò più consono e giustificabile serrare la mandibola in una morsa dolorosa, rimanere con le iridi verdemare sulla figura di sua sorella mentre, a seguito delle sue parole, arretrava di un passo.
    Mentre si allontanava da lui.
    «bells-» ti prego non muoverti, non farlo. Provò più pena nei propri confronti per quel supplichevole guaito a strozzargli la gola, ricordandogli di incamerare ossigeno, che non per quel pietoso tentativo di alzarsi, la mano poggiata contro il muro a dargli una forza che, se ne rese conto immediatamente, non riusciva a reclamare: sua sorella aveva gli occhi chiusi, ed almeno la sua incapacità di mettersi in piedi senza alcun aiuto se l’era risparmiata. Non riuscì comunque a proseguire con il suo discorso - sempre che in tal potesse essere definito, ecco -, trovandosi in quello straziante silenzio a domandarsi se non fosse proprio quello che voleva lui. Non per sé, naturalmente: viveva già male così; se Arabells avesse preso le distanze da lui, non ne sarebbe probabilmente mai uscito. Aveva bisogno di lei in una maniera che trascendeva la sua comprensione, scavalcando ogni ostacolo che quel passato dimenticato gli poneva: era la sua famiglia, sempre la era stata e tale sarebbe rimasta per sempre. Per lei, non poteva dire lo stesso; non si meritava di dovergli rimanere affianco, non così.
    «come fai a saperlo?» fu solo quando riuscì a vedere i suoi occhi, e sentendo dietro i propri un principio di familiare bruciore, che trovò il coraggio di abbassare di nuovo il capo, stringendo le gambe al petto. «ha importanza?» domandò sincero in un fiato sulle ginocchia, reso udibile soltanto dall’assenza di alcuna anima viva nei dintorni. Avrebbe preferito la sorella gli dicesse che no, non ne aveva davvero, o che più semplicemente lasciasse cadere il discorso; odiava, nel particolare modo che aveva Elijah di disprezzare chicchessia – ossia, senza riuscire mai a farlo davvero: aveva persino smesso di provare rancore per suo cugino dopo che aveva provato ad uccidere la qualunque nel suo festino, sebbene non fosse ancora pronto ad abbracciarlo nel caso fosse mai tornato a casa -, chiunque gli avesse regalato quel tesserino che testimoniava il suo lavoro e Jade per avergli cancellato la memoria, ed avergli omesso la verità per tutto quel tempo, ma non era pronto a scoperchiare gli altarini della Beech (certamente incapace di garantirle l’anonimato da ubriaco). Non che temeva Bells potesse dirlo a qualcuno, si fidava ciecamente della discrezione della sorella, ma più a lungo riusciva a proteggere Eugene da tutto quello, meglio si sentiva.
    Chiuse gli occhi, perché il pizzicore che precedeva le lacrime ancora non si era calmato, sentendo, nel momento stesso in cui le palpebre gli impedirono la vista, la testa così tanto pesante da doverla spingere contro il muro dal quale pareva essere indivisibile; deglutì acida bile a corrodergli la gola, inspirando lento dalle narici. Non volle muoversi di un solo centimetro, e solo rimanere immobile in una deleteria stasi: posare lo sguardo sul vicolo, o cercare a tastoni la corvonero, lo avrebbe fatto pentire immediatamente di ogni scelta della propria vita, dal momento che si fosse reso conto che l’aveva lasciato lì.
    Invece era ancora con lui - e lo sapeva non lo avrebbe abbandonato; lo sperava, ed in parte continuava a temerlo. Non interruppe mai le sue parole, limitandosi a sorriderne dolce, o a scuotere loro il capo in maniera appena percettibile: come poteva credere che la gente potesse apprezzarlo per chi era, se lui per primo non sapeva chi fosse? E come poteva essere certo di non essere sbagliato, e di aver solo agito in quella maniera? Aveva certo delle idee, il Dallaire, sul perché si fosse spinto fino ad abbracciare le fila dell’estremismo ribelle – ed anche sulla Resistenza in sé e per sé, consapevole ora come allora che non avrebbe completamente disdegnato un qualsiasi movimento che desiderasse sistemare quel governo -: tutte riguardavano sua sorella, o i suoi migliori amici, o addirittura la madre, e tuttavia nessuna di cui potesse avere la sicurezza. Considerando poi, che poteva non essere nessuna di tutte quelle – che forse era davvero un mostro, dietro una maschera di buonismo e gentilezza. Il voler essere una persona buona adesso, in quel luglio del duemiladiciotto, non avrebbe potuto giustificarlo.
    «non mi merito tutto questo.» un soffio di fiato spinto fuori con forza, masticato più del dovuto. Portò lo sguardo acquamarina sulla sorella, un mesto sorriso a piegare appena gli angoli della bocca nel vederla più vicina; ovviamente, non si riferiva alle condizioni pietose nelle quali si era stabilmente accomodato: per quanto lo riguardava, potevano essere sue per sempre e sentirle costantemente adeguate. «non… non mi merito la tua pazienza, tutto quello che mi stai dando» una seconda possibilità, un affetto incondizionato ed imperituro. «o… o quello che hanno fatto per me nate e rea.» deglutì, un brivido a scorrere dalla base del collo lungo tutta la colonna vertebrale; era felice di essere vivo, ma a quale prezzo. Alzò una mano, cercando di impedirle di intervenire mentre si umettava le labbra e, troppo lentamente, si abituava all’effetto dell’alcol che scemava, lasciandogli solo un gran mal di testa. «non mi sto auto commiserando, davvero:» poteva non sembrare, lo capiva anche in quelle condizioni, ma era la verità. «insomma, guardami. sto una merda,» si strinse nelle spalle, quasi rassegnato: ci si sentiva, una merda, dal momento in cui l’aveva vista da un lettino d’ospedale, senza riuscire a riconoscerla. «e sono stanco,» delle voci, dell’insonnia, del non sapere come controllarmi, dell’avere paura al minimo rischio di contatto umano perché vedo sempre – sempre! – qualcosa che non vorrei né dovrei vedere. «e non so come uscirne e-» deglutì di nuovo, sentendo la gola stringersi in se stessa, bloccandogli il respiro e costringendolo, ancora, agli occhi lucidi. «non so come chiedere aiuto, bells.» che non volesse disturbare era un altro discorso, poi.
    «non so cosa fare.» ammise, chiudendo di nuovo gli occhi e mentendo appena: un’idea l’aveva, ma non era né attuabile, né confessabile senza rischiare di venire legato in un sotterraneo vita natural durante. «non ho un piano, ma penso che… potrei iniziare dagli alcolisti anonimi.» era sicuro non avrebbe funzionato – non da subito, e non per sempre probabilmente -, ma tentare era il minimo che potesse fare. «sei tu quella intelligente in famiglia: tu hai un piano?»
    clairvoyance | 26 y.o.
    alcoholic | former gryffindor
    Cheated and lied, broken so bad
    You made a vow, never get mad
    You played the game, though it’s unfair
    They’re all the same, who can compare?
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205 replies since 23/6/2015
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