Fleeting Memories

Chelsey x Elijah

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    I chiari raggi di luna filtravano dalle finestre di una stanza sconosciuta, riflettendosi su delle mura che Chelsey non riusciva a mettere a fuoco, la vista ancora offuscata da quei medicinali che l’avevano fatta dormire per ore, se non giorni. Sentiva la testa vorticare, quasi prendere coscienza di sé fosse al momento un compito troppo arduo e difficile, quasi fosse più facile scivolare nell’oblio, come tutte le volte che ci aveva provato in precedenza. Provò a muoversi, la Rossa, provò disperatamente a levare la mano per passarla sul viso, per provare a svegliarsi, e tutto quello che ottenne fu un dolore talmente lancinante da trafiggerle ogni articolazione del braccio. Tremò appena, un po’ più presente, quasi quella fitta l’avesse svegliata da quel torpore in cui pozioni e medicinali la costringevano.
    Sbatté piano le palpebre, la Grifondoro, cercando un riferimento spaziale, cercando di vedere oltre le proprie ciglia quelle pareti spoglie che aveva imparato a conoscere fin da bambina come quelle del San Mungo. Si chiese più volte cosa fosse successo, provando a tornare indietro con la memoria, scavando nei suoi ricordi fino ad aggrapparsi all’ultimo brandello di lucidità. Si vedeva sul campo da Quidditch, stava tentando un tiro mentre provava un nuovo schema. Ricordava che fosse un allenamento congiunto, che dall’altra parte si stessero allenando i Serpeverde, un sibilo troppo ravvicinato, la mano che allentava la presa sulla scopa… e poi solo il vuoto, quel buio che interrompeva ogni cosa. Allungò la mano libera, cercandone una familiare, la stessa che le accarezzava i capelli quando sopraggiungevano gli incubi, ma non c’era nessuno accanto a lei. Strinse le dita attorno al lenzuolo, trattenendo il respiro per qualche istante per non andare nel panico, per non cedere a quell’istinto che le urlava di fuggire, di mettersi in piedi e correre fino a quando non si fosse sentita al sicuro.
    Voltò la testa di lato e vi trovò il comodino dell’ospedale traboccante di biglietti e dolciumi, segno che, ancora, non fosse stata dimenticata, che qualcuno si ricordasse ancora di lei. Sorrise debolmente davanti a un bigliettino a forma di canarino che saltellava sulla superficie piana del tavolino e, per un attimo, le parve quasi di sentirlo cinguettare allegro. Merlino, l’avevano davvero sedata come un Ippogrifo. Spostò lo sguardo più in basso, soffermandosi sulla propria spalla, su quelle bende che fasciavano la pelle nuda sotto il pigiama e che tenevano il braccio sinistro stretto attorno al suo corpo. La testa sprofondò nuovamente sul cuscino, mentre un’imprecazione provò a sfuggire da quelle labbra troppo secce, la gola arsa di chi non introduceva liquidi da troppo tempo. Osservò i tubi che la tenevano incollata alla flebo, il liquido che scorreva lentamente in essi fino a perdersi sotto il nastro del cerotto che fermava l’ago che, in quei giorni, l’aveva nutrita. Restò qualche istante immobile, gli occhi lucidi puntati sul soffitto, mentre uno stupido pensiero faceva capolino. Voleva la sua mamma. Ne sentiva il bisogno, fragile in quel freddo letto d’ospedale, senza nessuno al suo fianco. Voleva perdersi nel suo profumo di buono, di crostata ai frutti di bosco, di casa. Voleva il suo papà. Perché sentire la ramanzina registrata dalla sua memoria non era lo stesso, perché non c’erano le sue calde mani a prendersi cura di lei. Perché per quanto fosse sempre stato più duro nei suoi confronti, per quanto le avesse sempre concesso meno spazio di manovra, per quanto avesse provato a detonarla, il signor Weasley si era sempre preso cura di lei con quella premura che l’aveva sempre fatta sentire importante, che l’aveva fatta sempre sentire figlia.
    Ora, invece, era soltanto un paziente come gli altri. Una cartella clinica, un trauma senza nome, senza un volto.
    Asciugò una lacrima, maledicendo quel momento di debolezza, e provò a mettersi in piedi, le dita della mano destra aggrappate all’asta della flebo. La testa iniziò a vorticarle all’improvviso e, per un attimo, si sentì quasi cadere, le ginocchia troppo deboli per sostenere il peso di quel corpo leggero. Si tenne stretta, Chelsey, perché doveva cavarsela da sola, perché nessuno si sarebbe più preso cura di lei. Lei che era cresciuta troppo in fretta e che ancora sentiva il bisogno di un abbraccio e di un porto sicuro.
    *
    La saletta del quarto piano era deserta e il ronzio dei distributori automatici in funzione ne rompeva il silenzio. C’era solo la quiete di un ospedale addormentato e il rumore dei suoi passi in quell’atmosfera quasi surreale. Non aveva mai visto un San Mungo più calmo e placido, quasi il tempo si fosse veramente fermato quella notte, lasciandola così in un limbo che rispecchiava la sua perdita di coscienza. Fu una fatica d’Ercole arrivare davanti alla macchinetta, tanto che poggiò la fronte sulla fredda superficie di questa prima di inserire un falco al suo interno e selezionare una bottiglietta d’acqua. Il respiro della Rossa era pesante, come se avesse giocato per diverse ore una partita senza la benché minima tregua. Era stanca e le ginocchia tremavano, eppure non poteva nascondere il sorriso dovuto a quel traguardo, al raggiungimento di quell’obiettivo che si era preposto. Una bottiglietta d’acqua? Una bottiglietta d’acqua.
    Sentì dei passi alle sue spalle e, dopo qualche tentativo andato a vuoto, si rese conto che no, non poteva aprire quella bottiglietta da sola. Non con un braccio fuori uso, almeno.
    “Scusa, non è che mi dares-”
    La frase restò monca, spezzata sulle sue labbra, mentre un’espressione di pura sorpresa si dipinse sul suo volto. La presa sulla bottiglietta si fece talmente debole che le scivolò dalle dita, finendo inesorabilmente sul pavimento del salottino. Deglutì appena, i capelli che vibrarono prepotenti davanti alla vista dell’uomo, quegli occhi così familiari da quasi leggerci dentro. Aprì e chiuse la bocca, ancora sotto shock, a un passo da chi, ormai, non apparteneva più alla sua vita. Da chi non l’aveva mai vista, né conosciuta e che, in ogni caso, non avrebbe potuto ricordare.
    “Elijah Dallaire.”
    Fu poco più di un sussurro, eppure, nel silenzio asettico di quella stanza, fu come lo scoppio di un petardo.


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    «Mi dispiace, Elijah…» lo sguardo acquamarina puntato su di un punto vuoto della scrivania, il Dallaire si limitò a muovere appena e soltanto l’angolo destro delle labbra – un mezzo, storto ghigno che non sapeva di nulla sul viso del biondo; talmente fugace ed effimero da passare inosservato a chiunque non sapesse, né volesse, vederlo. Nemmeno quando la pausa al seguito di quelle scuse, che nonostante tutto faticava a concepire false, divenne pesante e tangibile tra di loro, se la sentì di sollevare il capo per affrontare la donna dietro la targhetta. A che pro?, si domandava; tanto, in ogni caso, già sapeva la faccia che si sarebbe ritrovato dall'altra parte. Non perché conoscesse la Derwent – o per meglio dire ricordasse: sebbene dall’altra parte sembrava esserci la memoria di un passato in cui non fossero perfetti sconosciuti, per Elijah era impossibile ricambiare il sentimento –, quanto più per il fatto che fosse perfettamente consapevole dell’espressione che l’attendeva.
    Un’espressione che, superati i ventotto anni di vita, non faceva più davvero alcun effetto; a quel punto, era solo stanco. Di incrociare gli sguardi e trovarvi pena e compassione, che non avevano altro scopo se non quello di smorzare il senso di colpa di chi, con fin troppa facilità e sufficienza, se li dipingeva sul volto; di accettarli tutti, perché consapevole che la sua persona non fosse in grado di provocare un altro effetto. Stanco di sentirsi così arreso – eppure incapace di trovare una soluzione ai propri mali, per quanto ci provasse. «Ma ho le mani legate, non posso farci nulla. Capisci, la tua…» «“particolare condizione”, giusto?» la voce dello Special suonava gioviale e genuina, anche se in quel preciso istante avrebbe voluto si capisse la nota d’isteria in quel sorriso, in quella risata spezzata e forzata. Che il capo dei Medimaghi si riferisse alla sua memoria, o all’assenza di qualsivoglia potere magico, poco importava: in ogni caso si sarebbe trattato di discriminazione, ed il tasto più dolente era che non si sentiva in diritto di far pesare un tale dato di fatto. Si trovava in un vicolo cieco legislativo; consapevole di essere perfettamente in grado di riprendere il proprio ruolo all’interno del San Mungo, soprattutto dopo aver passato l’intero anno precedente a studiare sia la medicina magica che quella babbana – e trovandole più semplici di quanto avesse mai potuto pensare, si trovò a pensare che nonostante l’amnesia totale qualche ricordo pratico fosse sopravvissuto –, le leggi in vigore nell’ospedale gli avrebbero sempre e per sempre proibito di mettersi nuovamente il camice.
    Non si era nemmeno accorto di desiderarlo così tanto, fino a quando non gli era stata negata a priori la possibilità. Per quell’evenienza si era ovviamente preparato, sapendo quanto fosse scontato e prevedibile un simile risultato, eppure. «Beh, dovevo provarci, giusto?» solo allora, le dita strette con tanta veemenza sui braccioli della sedia da rendere le nocche pallide, si costrinse ad alzare lo sguardo sulla donna, rivolgendole la più morbida e cordiale piega delle labbra che potesse permettersi. «Sono davvero desolata…» «fa niente,» il chiaroveggente si alzò in piedi, sventolando vago le dita davanti a sé come a voler scacciar via una mosca fastidiosa. «sapevo bene a cosa sarei andato incontro.» tese in avanti la mano, intenzionato come mai prima d’allora a concludere in fretta i convenevoli e fuggire da quell’ufficio. Ci erano voluti mesi interi, anni, affinché decidesse di riprendere in mano la propria vita, partendo tra le tante cose dal ritrovare un lavoro: non voleva stare un secondo in più ad osservare le macerie dell’idillio che il suo fallimento aveva raso al suolo.
    Chiuse gli occhi e trattenne il respiro, con il serio rischio di andare in iperventilazione, nel momento in cui quella di Demetra si strinse attorno alla sua: tenere fuori dalla propria testa i ricordi, il futuro della gente, non era una cosa che riusciva a fare, e puntualmente succedeva di doverci fare i conti nei momenti peggiori. Per Elijah, era come cadere in una vasca di gelidi aghi a penetrare la carne ed andare a fondo, dimenticando le basi fondamentali per rimanere a galla. «Se dovessi trovare un qualcosa, ti faccio sapere.» fece scivolare via le dita dalla presa del dirigente, arricciando il naso alle sue parole. «Non ho alcuna qualifica in psicomagia, non potrei nemmeno volendo.» che, a quanto sapeva, era l’unica cosa che uno come lui potesse fare dentro quell’edificio: non era difficile capire intendesse quello. «Ma le pulizie so farle!» concluse sulla porta, senza lesinare un ultimo sorriso alla Derwent prima di lasciarsela alle spalle; era pur sempre un lavoro dignitoso – ed era pur sempre un lavoro: in tempi di crisi gli stava bene tutto.

    Mani in tasca e sguardo perso sul pavimento, lasciò che fossero i suoi piedi a scegliere la destinazione. Aveva spento il cervello, decidendo di non voler nemmeno per un secondo fermarsi a pensare: a niente in particolare, a voler essere onesti. Sapeva che, dal momento che avesse sollevato il capo per riflettere su cosa fare in quel momento, sarebbe inevitabilmente precipitato. Si sarebbe domandato se fosse meglio andare a quella che, da diverso tempo a quella parte, era diventata la sua fissa dimora – ma a quel punto, avrebbe dovuto affrontare lo sguardo di Rea senza riuscire a nascondere che non ce l’aveva fatta; che non fosse colpa sua non era importante, dato che in fin dei conti reo d’aver perso la memoria ed i poteri da mago, almeno in parte, lo era. Magari, se poteva permettersi d’arrancare fino a casa di Bells e trovare in sua sorella il sostegno di cui aveva bisogno. Anche in tal caso, però, il problema restava lo stesso: il senso di colpa.
    La soluzione per cui davvero non voleva pensare, era la strada. Era l’alcol.
    Aveva avuto una ricaduta, lo aveva ammesso, ma erano oramai diverse settimane che non toccava un bicchiere che non fosse d’acqua: in quel momento sapeva per certo che, se ci avesse rimuginato per due minuti in più del necessario, avrebbe decretato che il fondo di una bottiglia sarebbe stata la degna conclusione di quella giornata di merda.
    Ma non poteva.
    Non poteva fuggire, non poteva bere, non poteva pensare – non poteva. «Stiles, ci sei?» ma chiedere aiuto, bussando alla porta di un amico? Rimanendo semplicemente lì, con chi sapeva benissimo come ci si sentisse? Quello sì.
    Almeno per un po’, il tempo di mettere a posto il cervello.

    Così aveva detto, e così lo Stilinski aveva acconsentito. Quando si fosse fatto tardi, Elijah non lo sapeva: le sedute degli AA erano sempre un’incognita spazio-temporale. Lasciò l’ufficio di Stiles con la premessa di fare ritorno a breve – senza nemmeno sapere, a quel punto, per fare cosa: era il caso che entrambi rincasassero, invece di cazzeggiare in ospedale –, solo per prendere una boccata d’aria e fare un salto alle macchinette automatiche.
    Era certo che, a quell’ora, avrebbe trovato tutti i corridoi completamente deserti: era stato così quand’era uscito a fumare una sigaretta, quando aveva vagato come un’anima in pena senza mai, assurdamente, perdersi nei meandri del San Mungo. Trovare una persona in piedi, fu piacevolmente sorprendente. Si avvicinò, notando già dalla distanza quanto fosse in difficoltà; a fare cosa, non ne aveva idea – non che potesse avere importanza, per il chiaroveggente.
    «Scusa, non è che mi dares-» fulmineo, i muscoli memori di allenamenti e tornei passati ad afferrare al volo Boccini D’oro nei cieli tersi di Hogwarts, fece appena in tempo a piegarsi ai piedi della ragazza per afferrare la bottiglietta, le labbra a scoprire i denti in un sorriso. «- una mano?» svitò il tappo, porgendo la bottiglia alla ragazza in stato di shock. Corrugò le sopracciglia, confuso. «Elijah Dallaire.» «Vedo che la mia fama mi precede.» ammiccò, perfettamente consapevole dell’influenza nefasta di Rea e Nate in quella risposta: di suo, sarebbe già andato in panico chiedendosi cosa avesse fatto di male a quella povera ragazza. Ad una seconda e più attenta occhiata verso la rossa, stringendo le palpebre, si rese conto che effettivamente non aveva tutti i torti: davvero, a quel punto, la propria nomea aveva fatto il lavoro sporco. «Ma tu sei il capitano dei Grifondoro, Chelsey Weasley, giusto? Ti ho visto giocare qualche volta!» figurarsi se uno dei suoi predecessori potesse, sebbene immemore dei tempi passati a giocare, perdersi le partite della propria ex casata: era una questione di principio, quella. «Che ci fai qui? Se posso chiedertelo, certo.»
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    “Oh.” Fu questa la reazione più intelligente che la Rossa riuscì ad avere in quel momento, con le palpebre leggermente sgranate mentre fissava le iridi acquamarina dell’uomo davanti a lei. “Oooooh!” Continuò allora, con un pizzico di sagacia in più, mentre i suoi neuroni faticavano davvero a ricevere impulsi elettrici per attivare anche solo quell’unica sinapsi che avrebbe potuto sbloccare una Weasley insolitamente a corto di parole. “Ooooooooooh!” Ripetè ancora una volta, con più entusiasmo, sperando che il suo interlocutore – le aveva anche ammiccato!!! - leggesse tra le righe di quel suono che cercava di comunicare qualcosa. Sorpresa, entusiasmo, euforia… queste solo alcune delle emozioni che passarono nella mente della Grifondoro, ancora incapace di muovere un qualsiasi muscolo, immobile davanti a un distributore automatico con la bocca spalancata e l’espressione sorpresa. Non sapeva cosa fare, non sapeva cosa dire, non sapeva come affrontare tutto questo. Non era pronta, non a Elijah. Non a Elijah che conosceva il suo nome, che si ricordasse di lei. Non ne aveva motivo, capite? Non c’era una sola ragione nell’universo che potesse giustificare quell’informazione in possesso dell’uomo. Ok, Arabells era sua madre la sua mentore per il Tirocinio, passava un sacco del suo tempo libero ad allenarsi con la Dallaire, ad essere scarrozzata dalla giocatrice alle partite più importanti per approfondire certi aspetti del Quidditch che solo un professionista poteva insegnare, ma… ma dubitava che lei avesse potuto parlare di Chelsey, o di Kain, a suo fratello. Non ne avrebbe avuto motivo e, comunque, non avrebbe potuto collegare un nome a un volto, quindi era tutto vero? Quello che Elijah le aveva appena detto? L’aveva davvero vista giocare. E no, non era una domanda arrivati a quel punto. Non quando sentì un brivido leggero attraversarle il corpo, quasi quella notizia fosse di vitale importanza, quasi importasse qualcosa. E avrebbe voluto prendersi in giro, Chelsey, avrebbe davvero voluto scrollarsi di dosso quelle parole quasi non avessero importanza, quasi non fossero state dette da una delle persone più importanti della sua vita. Quale? Entrambe. Per questo a lasciare le sue labbra fu un suono acuto e prolungato, per questo Chelsey iniziò a tremare appena, dimenticandosi che fosse notte fonda, dimenticandosi fossero in ospedale, dimenticando che ci fosse un intero mondo fuori quella bolla.
    “Elijah Dallaire.” Non fu più un sussurro, quanto un verso da vera e propria fangirl, i capelli ormai un’esplosione di colori, dimentichi del suo rosso naturale. Saltellò piano sul posto, le dita strette all’asta della flebo per non cadere, gli occhi settati sulla stessa sfumatura di quelli del chiaroveggente. Perché Chelsey era così, quando perdeva il controllo su se stessa rubava i colori al mondo per ritrovare un appiglio, una connessione con la realtà e un contatto con il suo interlocutore.
    “Sì, sì, sono io! Chelsey, non Elijah… ah ah ah.” Rise imbarazzata per la propria battuta ma, sentiamo, voi come vi comportereste davanti a uno dei Capitani più amati della vostra Casata? Una di quelle vecchie glorie del passato che tutti, sentendo le storie e i racconti tramandati da generazioni di Grifondoro, conoscono e ammirano? Lo stesso uomo che, in versione ragazzino, saluti ogni giorno passando davanti alla hall of fame prima di andare a lezione o ad allenarsi? Lo stesso uomo a cui chiedi la forza e l’energia necessaria prima di scendere sul Campo da Quidditch? Se la Weasley fosse fanatica??? Forse un pochino. Un “Sei bellissimo…” le sfuggì dalle labbra, troppo impegnata a studiare il volto dello Special per rendersene conto “… più della foto che hanno messo in Sala Comune. Non ti rende giustizia, credimi.” Si morse piano l’interno della guancia, più per punirsi di quella bugia che per altro. Poteva inventarsi una scusa migliore, e invece. Se proprio dovevano cambiare una foto, era quella di Morley Peetzah, ma questo è un altro discorso.
    “Spero che le partite che hai visto siano state entusiasmanti e – soprattutto – che non ti abbiano fatto venir voglia di metterci tutti fuori squadra! Ma se hai consigli… sono tutta orecchi!” No, davvero, come si faceva a… boh, vivere??? Respirare? Comportarsi come un essere umano funzionale? “Certo che puoi chiedere! Non ho la scena ben vivida nei ricordi, ma credo di essere stata colpita da un bolide in allenamento e… lo so, è già abbastanza umiliante così, ma credo di non essermi ancora del tutto abituata a giocare ruolo… Mi manca giocare come Battitore e… a te, a te manca giocare a Quidditch?” Perché lei si sentiva già in astinenza e potevano essere passati giorni, come ore, ma tutto quello che voleva fare era indossare la propria divisa e inforcare il suo manico di scopa. E sì, anche dare ordini a destra e a manca alla propria squadra, lanciare oggetti random ad Halley per affinarle i riflessi, o rincorrere Hazel per tutto il Castello per corcarla di mazzate aumentare la sua resistenza e il suo fiato. Le mancava discutere di strategia con Aidan, così come andare a ripescare Mehan dai bagni. Le mancavano i suoi compagni, tutto qui. O forse no, ma non era il caso di rivangare le grandi assenze del giorno.
    “Ah, scusami, non volevo lasciarti con la bottiglietta in mano…” Fu una questione di attimi, del frammento di un istante. Perché non appena le sue dita sfiorarono quelle di Elijah, i suoi ricordi andarono in cortocircuito, lasciando spazio a Griffith, alla sua storia, al suo vuoto da colmare. Fu quasi sopraffatta al punto di cadere, ma non lo fece. Non quando si è veloci abbastanza da fare quel passo in avanti che ti spinge tra le braccia dell’altro. E allora l’ago che ti lacera un po’ la pelle fa meno male, il dolore della ferita viene meno, così come tutto il resto. Il braccio funzionante stretto attorno al busto dell’uomo, in un vano tentativo di nascondere le vere intenzioni del gesto, mascherando quell’abbraccio con un cedimento dovuto alla debolezza, alla stanchezza. Respirò la colonia dell’uomo e, per un attimo, per un solo fottuto secondo, le parve di sentirsi nuovamente a casa. Le parve di sentirsi protetta.
    “Scusami io… io sono inciampata.” E poteva essere vero, perché le gambe le tremavano come non mai e le ginocchia sembravano cederle da un momento all’altro. Puntò lo sguardo chiaro sui divanetti della sala d’attesa, valutando se fosse o meno il caso di fare un salto nel vuoto. O nel passato. Ma, a quel punto, era più o meno la stessa cosa.
    “Ti va di farmi compagnia? Ho le caramelle!” Mise la mano nella tasca della vestaglia, estraendola poco dopo piena di dolciumi. Ne avrebbe avuti molti di più in camera, ma era ancora un po’ presto per mostrare la sua collezione del Red Velvet. “Se sì, ti va di raccontarmi cosa c’è dopo Hogwarts?” perché quello… quello sì che le faceva un po’ paura.

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    Sopracciglia corrugate e sorriso dipinto sulle labbra sottili - non divertito, tutt'altro: ogni singolo segmento della piega sul volto di Elijah trasudava confusione e spaesamento, e a volerla dire tutta anche una certa dose di inquietudine -, stette immobile ad osservare la reazione di Chelsey, registrando con un pizzico di preoccupazione il crescendo dei suoni emessi. Egoisticamente, e non in così minima parte, non riuscì a non essere felice per quell'eccesso di esuberanza: non era abituato a risposte di quel genere; era solito avere a che fare con persone a cui aveva fatto del male, in un modo o nell'altro. Nessuno, nessuno mai era stato così tanto entusiasta nell'incontrarlo - era una bella sensazione, totalmente diversa dal conforto con cui Bells lo aveva ritrovato, o dal sollievo dei suoi amici dopo tutti quei lunghissimi mesi in cui non avevano avuto sue notizie.
    Se avesse avuto modo di realizzare e metabolizzare quella leggera scarica di endorfine, probabilmente si sarebbe anche commosso. Ma quando la rossa si aggrappò all'asta della flebo, constatò di non averne poi molto: alzò entrambe le mani, ed istintivo sebbene incerto avanzò di un passo per cercare di fermarla. Non ce ne fu realmente bisogno, ma riteneva opportuno essere pronto; ci voleva un attimo a passare da un vago sentore di felicità, emozione rara per il Dallaire, all'allerta per un trauma cranico.
    «Io...» come poteva, esattamente, rispondere a quel sussurro? Sghignazzando istericamente e a disagio. «hanno - avete una mia foto in Sala Comune?» chiese, sinceramente confuso da quella osservazione. Sì, aveva sentito dire di essere stato un buon giocatore a suo tempo, ma non immaginava così tanto da avere ancora un proprio ritratto alla mercé di tutti i Grifondoro.
    Si schiarì la gola, portando le dita a grattare il capo. «Non... potrei mai mettere nessuno in panchina. Né dare consigli, temo.» e non solo perché non aveva poi così tanta idea di come si giocasse (anche se era certo che il corpo ricordasse, e se solo avesse potuto ancora volare avrebbe ricordato tutto), ma perché li aveva trovati bravi, nella sua rinnovata ignoranza.
    «Beh, a tutti i migliori è capitato di beccarsi un bolide! Conosci... sì, immagino tu conosca Morley Peetzah.» e Dio, voleva morire. Come aveva potuto supporre non conoscesse More? Persino lui aveva dovuto fare i conti con una gran bella frattura, ai tempi - o almeno, così risultava da alcune dimissioni che aveva trovato lungo il viale dei ricordi.
    «Vorrei...» poterti dire di sì, ma fino a un paio di anni fa a malapena sapevo cosa fosse un manico di scopa. Deglutì, puntando le iridi acquamarina negli occhi sognanti della Weasley: che senso aveva dirle la verità, quando già stava soffrendo per altro? «poter tornare a giocare, sì.» le sorrise. «Ma immagino di aver avuto i miei attimi di gloria, dico bene?»
    Quasi dimentico di aver ancora la bottiglia tra le dita, posò lo sguardo su di essa. Un singolo istante di esitazione, di distrazione: non ci volle poi molto, prima di ritrovarsi la ragazza stretta alla sua vita.
    Prima di sentire un brivido - un tremore - lungo la spina dorsale.
    Nient'altro.
    Nient'altro, perché ogni tanto sapeva essere in grado di chiudere tutto e non lasciare entrare niente.
    «Hai visto qualcosa?» un sussurro appena, perché sapeva di poter chiudere le entrate, così come sapeva di non poter avere troppo controllo anche sulle uscite.
    La lasciò andare, ma non senza essersi assicurato che riuscisse a stare in piedi da sola. «Perché no?» accomodò, invitandola a precederlo.
    «La vita dopo Hogwarts? Ha!» si sedette al suo fianco, allargando il sorriso ma distogliendo lo sguardo da lei. «Non sono la persona migliore a cui chiedere informazioni, onestamente.» che ne sapeva lui, di cosa ci fosse dopo Hogwarts? Aveva in ricordo solo l'oblio - dell'incantesimo, della morte, delle sbronze. «Posso dirti che c'è un mondo ancora più duro del castello, e che ti ci vorrà molta fortuna e impegno per... stare bene.» riportò su Chelsey la propria attenzione. «Tu vuoi continuare a giocare, vero?»
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    Era tutto così… strano. Chelsey si sentiva strana. Provava emozioni che non aveva mai provato prima e si sentiva quasi soffocare.
    C’era una parte di lei che rischiava di esplodere, di prendere il sopravvento, di superare quel blocco di memoria impostole dall’incantesimo e costringerla a ricordare. Ad andare oltre le immagini del pensatoio. Oltre quei brandelli di informazioni che le avevano fornito Hyde e Jek.
    Percepiva Gryffith sottopelle, la volontà di andare oltre e stringere Elijah in un vero abbraccio e dirgli… dirgli che… che gli doveva dire? Nulla di cui Chelsey fosse a conoscenza, perché per lei era solo un estraneo, un ex Capitano, qualcuno di cui voler seguire le orme e una delle immagini che salutava ogni mattina prima di scendere giù per fare colazione.
    Gryffith non era Chelsey e il suo passato non le apparteneva, neanche se a mandarla in confusione fosse una delle figure più importanti della sua vita non vissuta.
    In momenti come quello era difficile credere fossero due persone completamente diverse, con qualche punto in comune ma con storie diametralmente opposte che facevano fatica ad essere sovrapposte.
    Da un lato guardava Elijah con lo sguardo sognante di chi lo aveva avuto per anni come punto di riferimento, dall’altro con gli occhi di chi, in realtà, non lo conosceva affatto e mai lo avrebbe conosciuto.
    Era un incontro fortuito, uno di quelli in cui sai che non rivedrai più quella persona per molto tempo e che, molto probabilmente, non incrocerà più la tua strada.
    Prese un lungo respiro, cercando di mettere a tacere il richiamo del sangue Dallaire, quel diritto di nascita che non aveva mai reclamato per davvero e che, probabilmente, avrebbe lasciato a prender polvere in un angolino della sua testa. Non era lì per sconvolgere vite, benché meno per farsi chiudere nel reparto psichiatrico per quelli che, all’uomo, sarebbero parsi i deliri di una degente con troppi antidolorifici in corpo.
    “Certo che hanno una tua foto in Sala Comune, non scherziamo! Tutti i Capitani ne hanno una! Non ti rende giustizia, ma fa comunque la sua figura!” Esclamò prendendo il sacchetto di caramelle e porgendolo al Guaritore. Inutile dire che ci sarebbe stata anche la sua foto e che avrebbe fatto gli Inferi a quattro se non avessero scelto una sua foto decente! Doveva avere un’espressione fiera e orgogliosa, ma che allo stesso tempo potesse incutere timore agli stessi giocatori per evitare potessero battere la fiacca e concentrarsi su altro che non fosse vincere. Perché vincere era l’unica cosa che conta. Sempre. Soprattutto in quel mondo dove al primo passo falso potevi ritrovarti in Sala Torture o a tenere il conto dei morti.
    “Certo che lo conosco! Ha anche la foto accanto alla tua ma… se posso dirti un segreto…” si guardò attorno assicurandosi non ci fosse nessuno prima di avvicinarsi con circospezione all’orecchio del Dallaire “... ho sempre preferito Elwyn.” Annuì energicamente, allontanandosi appena. “Huxley. Radiato dall’albo dei giocatori e da tutti i campionati ma… hai visto come giocava???Lo sguardo le si illuminò all’improvviso e le parole iniziarono ad uscire sempre più velocemente dalla sua bocca, quasi incontrollate. “A mio avviso è stato uno dei migliori battitori dei Falcons! Un vero talento! Giocava con una cattiveria e con una grinta mai viste in quella squadra e… PARLIAMO DEI FALCONS, capi’?” Era bellissimo. Sia lui come uomo, fisicamente, che come alteta. Era tutto muscoli, tranne le gambe, ok, ma a che servivano le gambe nel Quidditch, no? “L’ho visto dal vivo e… magico! A ogni colpo faceva vibrare tutto lo Stadio! Proprio… tutto!” Morley era caduto dalla scopa durante una partita, si poteva dire lo stesso di Elwyn??? Chelsey non lo credeva affatto possibile. Era una guerra che l’ex Corvonero vinceva a mazze basse.
    “Come immagini??? Non lo ricordi???” Si girò verso l’uomo con una leggera smorfia di dolore per il movimento repentino. “Una volta hai preso il boccino d’oro dopo ben cinque minuti dall’inizio della partita! Non erano neanche partiti i cori dalle tribune che avevi già il braccio alzato in segno di vittoria. Un’altra volta, era contro i Corvonero, tutta la squadra era in affanno perché non si riusciva a segnare a quella prima di tua sorella e… BOOM!” Mimò l’esplosione con una mano sola, gonfiando le guance e quasi saltando sulla sedia. “Ti vedemmo andare giù in una picchiata clamorosa! Un sacco di studenti ti diedero spacciato sul campo d’erba, ma… fu bellissimo! Virasti un secondo prima dell’impatto e riuscisti a prendere il boccino. La leggenda narra che si sentono ancora gli insulti e le urla della fake!Arabells negli spogliatoi. Grifondoro vinse per 10 punti. Bei tempi…” Aveva il tono nostalgico dei vecchi davanti a un cantiere, gli stessi che commentano il lavoro dei giovani perché ai loro tempi la conza veniva fatta a mano e i mattoncini non sono più rossi come quelli di una volta. Eh, come li capiva…
    “Tu stai bene?” Chiese, improvvisamente seria, dopo aver riflettuto qualche istante e bevuto un lungo sorso d’acqua, nonché motivo per cui fosse a zonzo quella notte dentro un San Mungo a dir poco deserto e desolato. E voleva sapere davvero la risposta, soprattutto perché gli adulti si nascondevano sempre dentro un mare di stronzate, sperando di non essere visti e finendo con l’annegare. Un po’ li odiava i Weasley per non averle detto prima che le cose non andavano, che erano in pericolo, che stavano rischiando la vita. Avrebbe preferito saperlo, comportarsi meglio, essere preparata a quel vuoto e a quell’assenza senza apprenderlo dai giornali, senza essere convocata a sorpresa in Presidenza, senza… sospirò con rabbia, stringendo appena il pugno per quei pensieri che ogni tanto facevano capolino e che la facevano sempre incazzare un po’ di più. "Sei stato fortunato?” Chiese ancora, prima di poggiarsi nuovamente allo schienale, sollevare la testa e fissare per un po’ il soffitto.
    “Sì.” Rispose con certezza, senza alcun’ombra di dubbio. “Il Quidditch per me è vita, ma non tutti lo capiscono. Pensano sia ossessionata dallo sport ma… è l’unica cosa che so fare.” Non lo aveva mai detto ad alta voce, eppure quelle parole si formarono da sole sulle sue labbra. Era una verità scomoda, perché significava che se qualcosa fosse andato storto, se nessuno l’avesse ingaggiata, la sua vita sarebbe stata vuota, inutile. “Se non posso giocare a Quidditch, allora niente ha più senso. Io sarei niente. Per questo non posso permettermi di cadere.”

    Some memories never fade

    Rebel | Quidditch | Welsh
    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    CHELSEY WEASLEY
    DALLAIRE
     
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