Posts written by habromaniac

  1. .
    vincent ray kinsley
    Irreverence is my disease
    It's secondhand, but you know me
    The son of a bitch is on his knees
    The last man standing gets no pity
    «glie l’hai detto?»
    Masticò la risposta dietro le labbra dischiuse, tremolanti e incerte su cosa proporre a Javier: sia un sorriso che un ringhio erano opzioni valide, in quel momento; anche una mano stretta al collo – lo stesso fottuto collo su cui aveva ansimato, e soffocato impropri e preghiere – e la schiena del telepate sbattuta contro le mura del vicolo, era considerabile.
    Invece rimase fermo, impassibile. Uno sforzo immane ed immondo, quando la prima preoccupazione dell’altro era se avesse spifferato un segreto di troppo tra un piatto da lavare e uno da asciugare.
    «avrei dovuto,» scelse infine di rispondere con tutta l’onestà che entrambi meritavano e volevano, e che entrambi non volevano. «come se fosse servito a qualcosa.»
    Accese un’altra sigaretta, nascondendo nei gesti il tremore delle dita, dimentico di averne appena spenta un’altra.
    Dire ad Eileen di quell’episodio, non avrebbe sortito alcun effetto. Così come non lo avevano sortito tutte le liti, o tutte le notti passate a dormire sul divano, o tutte le volte che le aveva detto che non l’amasse – e che non lo aveva mai fatto. Dirle che fosse tornato a casa di Ptolemy un’altra volta, e un’altra ancora, e ancora e ancora e ancora, e che fosse rimasto seduto sulle scale del condominio per ore nella stupida attesa che arrivasse ogni fottuta volta: niente avrebbe cambiato che lei volesse tenere in piedi quel matrimonio ad ogni costo.
    Così come non era servito a nulla scivolare in casa del Mendoza quella volta di troppo, per fargli capire ciò che nessuno dei due aveva il coraggio di mettere a parole.
    «non ho niente da rinfacciarti.» non ne aveva la voglia, o la forza. «volevo solo…» si morse le labbra, lasciando la frase a metà.
    Lo lasciò parlare, accettando anche le parole che non comprendeva – o che aveva smesso di voler assimilare.
    Voleva solo rivederlo.
    Voleva solo abbracciarlo.
    Voleva solo tornare indietro.
    Voleva solo –

    Abbassò lo sguardo sulla mano di lui, poi di nuovo sul suo volto.
    «non mi interessa la persona che sei ora, javi. sarai sempre tu.»
    gif code
    1986
    welsh
    mimesis
  2. .
    vincent ray kinsley
    Irreverence is my disease
    It's secondhand, but you know me
    The son of a bitch is on his knees
    The last man standing gets no pity
    Accusò ogni parola di Ptolemy come avrebbe fatto con una serie di cazzotti allo stomaco. Addome contratto, pugni stretti, nessun passo indietro, e una faccia di bronzo che non avrebbe potuto fargli comprendere in alcun modo quanto, o se, facessero male quei colpi perfettamente assestati.
    Seguì con lo sguardo ogni movimento del commilitone, rimanendo stoico davanti al suo palese nervosismo; non si era aspettato una reazione diversa, quando aveva deciso di raggiungerlo in quel vicolo, ma l’aveva desiderata. In un anfratto nascosto nei meandri della coscienza, laddove aveva relegato sentimenti e aspettative che non aveva più le forze di provare sulla propria pelle, aveva sperato di non dover assistere a quel risentimento, a quel flusso sconnesso di pensieri scagliati come lame imprecise e tremule.
    «vorrei fosse così facile.» oh, Javi.
    Anche io – un pensiero fugace, stupido. Con la differenza che, per Vincent, semplice lo era davvero: si era assunto il peso di ogni sua responsabilità, soffocando sotto macigni inamovibili e polvere spessa; aveva accettato ogni singola conseguenza, con le spalle al muro e le nocche insanguinate, il respiro affannato e lacrime salate a rigargli il volto; aveva cercato di fare meglio la prossima volta, apprendendo dagli sbagli commessi e dalle vittorie conseguite.
    Comprendeva l’astio dell’uomo, ma come poteva condividerlo? In che modo, quando si era sempre impedito di addossare la colpa propria su altri?
    Avrebbe voluto fosse così facile per lui. Il Mendoza non era mai stato soltanto un compagno d’armi – un amico, un fratello, un amante, un rivale; tutto quello che non aveva potuto avere, che non aveva avuto, racchiuso dietro sorrisi morbidi e profondi occhi di cioccolato –, e non aveva mai pensato, nemmeno per un effimero istante di tempo, di poterlo ferire in qualche modo.
    «non lo capisci? cristo, vince» non poteva essere arrabbiato, non poteva essere deluso, non poteva sentirsi sconfitto; ma evidentemente non lo capiva, ed aveva passato una vita intera a credere di averlo fatto, e faceva male. «eri mio fratello. ti avrei seguito ovunque. l’ho fatto. e tu»
    Passò la lingua sulle labbra, prima di portarvi la sigaretta. «e io?» una richiesta di conferme, un invito a proseguire; un’accusa secca, asfissiata nella nuvola di fumo.
    Ricordava perfettamente uno dei loro ultimi incontri, dieci anni prima. Ricordava come Javier avesse sempre saputo dei suoi poteri; di come avesse sempre evitato di usarli nei conflitti (“sarebbe come barare, uh?”), e di tutte le volte che gli avevano parato il culo. Ed era scavata nel petto, nelle ossa, in ogni stupido globulo rosso nel sangue, l’impotenza che avevano dovuto provare più di una volta; marchiato a fuoco sulla piastrina che ancora aveva al collo, tutte le volte che non erano stati abbastanza.
    «te lo dico, cos’ho fatto.» inspirò profondamente, la mandibola serrata contro la mascella. «io ho lanciato una granata dentro casa tua, senza sapere se fossimo» entrambi, non solo lo scozzese: era una cosa che avrebbero dovuto fare insieme, in un modo o nell’altro. «attrezzati per l’esplosione. io ho lasciato che tu facessi tutto da solo, senza avvertirmi. io ho commesso un errore, e non sono stato in grado di rimediare.» era quello che voleva sentire? Un’ammissione di colpe? Su quello, poteva dargli ciò che desiderava: ammetteva i suoi sbagli, il Kinsley, anche se fatti in buona fede. Si avvicinò di un passo, recuperando la distanza presa – quella fisica, quanto meno. «ti ho cercato, ma sei sempre stato molto bravo a fare il fantasma.» uno dei migliori, per quel che valeva. «e tu? perché non mi hai cercato?» per ucciderlo; per dirgli in faccia tutto quello; per sfogarsi; Dio, per fare tutto quello che voleva. Ma era stato lui, a scegliere di non farlo. «non mi sono mai nascosto da te.» inspirò tra i denti, più paonazzo di quanto l’altro potesse ricordare di averlo mai visto.
    «sono dalla tua parte, javi, che tu ci creda o meno. non ho mai voluto il contrario. nemmeno» sbuffò una risata affatto divertita. «quando significa mettersi contro una cosa del genere.» il motivo per cui poi, da sempre, aveva evitato il mondo magico, pur sapendo di appartenervi per diritto di nascita. «per chi giochi, allora? qual è la tua causa, adesso?» una domanda lecita: dopo tanti anni passati senza conoscersi, dopotutto meritava di sapere per chi avrebbe alzato le armi – oltre che per fermare un nuovo, folle tiranno.
    E chissà se Ptolemy lo vide. Quel minimo passo indietro, rinculo di un fucile che non sapeva di aver in mano; quell’ombra sul volto, negli occhi; il pomo d’Adamo gonfio.«me lo chiedo anche io.» ogni giorno. Ogni risveglio senza l’altra persona ad occupare la metà del letto, ogni pranzo solitario, ogni notte in cui passava a dare la buonanotte ad una cameretta vuota. «penso che avrebbero molto da dire, se solo potessero.»
    gif code
    1986
    welsh
    mimesis


    Edited by habromaniac - 2/5/2023, 16:16
  3. .
    vincent ray kinsley
    Irreverence is my disease
    It's secondhand, but you know me
    The son of a bitch is on his knees
    The last man standing gets no pity
    Non sorrise all’uomo di fronte a sé, né alle dita strette attorno al proprio polso. Una presa che, se avesse avuto un po’ più di coscienza pulita, avrebbe potuto e dovuto sciogliere con estrema semplicità. Lo sapeva lui, lo sapeva ancor meglio Javier: aveva sempre accettato di buon grado il contatto fisico, laddove sapeva essere autentico e benevolo, privo di ogni plausibile secondo fine – una qualità particolarmente rara da trovare nel mondo in cui aveva vissuto per trentasei anni, quella del non voler piantare un coltello nella schiena ad ogni abbraccio rubato, ma alla quale il mimetico ancora, a volte, s’intestardiva a credere –; meno propenso era al sottomettersi a simili tenaglie, conscio di tutto ciò che potevano significare per sé e per chi faceva forza su leve più psicologiche che fisiche.
    Era il pugno alla bocca dello stomaco, che lo aveva costretto a curvare le labbra in una smorfia malinconica. Il dipinto sfocato di una piega sincera, ma dai colori sbagliati – nessun punto di luce a rendere meno opachi gli occhi celesti, i tratti ai lati della bocca incerti e tremuli, ed i dettagli che l’avrebbero resa una fedele riproduzione agli occhi di tutti completamente assenti: erano tre anni che quel gesto gli costava più di quanto non fosse disposto ad ammettere davanti al proprio riflesso; ritrovare il Mendoza in quel mare di merda aveva davvero tentato l’impossibile, ed avrebbe davvero desiderato che almeno per lui quella scintilla nello sguardo potesse riaccendersi. Un’immagine che nascondeva tanto, a partire dal sapore acidulo che lasciava sul palato del Kinsley: rimorso.
    Non per quel che aveva permesso, ma per ciò che non era riuscito a fare in seguito. Vincent non si era mai pentito di nulla nella sua vita, e non avrebbe lasciato che il senso di colpa iniziasse a logorarlo dall’interno per alcun motivo. Aveva dovuto compiere delle scelte, prendere il comando, valutare quale fosse il male minore e muovere di conseguenza non solo sé stesso, ma altre persone al proprio seguito: era stato più volte posto di fronte al dilemma del carrello, ed ogni volta aveva ponderato la situazione a mente fredda – qualche volta sacrificando il singolo, qualche volta virando le rotaie sul gruppo più numeroso. Se avesse lasciato che i rimpianti e le indecisioni prendessero il sopravvento su ciò che andava fatto.
    L’incapacità di intervenire; l’impossibilità di mettere mano su qualcosa che avrebbe dovuto raggiungere. Era quello a lasciarlo con l’amaro in bocca.
    L’aveva fatto con la persona alla quale doveva di più, e faceva più male a lui di quanto non potesse farlo a Ptolemy – e non poteva averne idea, né avrebbe lasciato che se la facesse.
    Con la mano libera recuperò dal taschino della giacca una sigaretta a sua volta, avvicinandola alla fiamma tenuta ancora in ostaggio dal telepate. «ironico?» domandò, sollevando un biondo sopracciglio. L’unica cosa che riteneva tale, in quel momento, erano tutte le volte in cui aveva insultato il coinquilino per quello stupido vizio – o che lo aveva lasciato congelare fuori dalla porta di casa, piuttosto che non fargli sopportare la puzza di fumo dentro casa; o che gli aveva buttato interi pacchetti, perché ci teneva alla sua salute e non di certo per vederlo dare di matto. Ritrovarsi nel fuoco incrociato, era tutt’altro che ironico. «non siamo mai usciti dal campo di battaglia,» passò la lingua sull’arcata superiore, mentre fili di fumo scivolavano dalle narici. Lo era per Vince, almeno, ma conosceva troppo bene lo scozzese per pensare di sbagliarsi: ogni molecola del suo essere vibrava delle stesse paure e certezze che avevano caratterizzato ogni loro trincea. «sarebbe stato ironico il contrario.»
    «solo che ora non so più se posso fidarmi di te.»
    Una parte del biondo, avrebbe voluto ricordargli quanto fidarsi fosse un errore – sempre, di chiunque. Ma avrebbe soltanto avvalorato la sua tesi, e non voleva fosse così: avrebbe dato la propria vita per Javier, e sapeva così fosse stato per l’altro; non voleva sapere se fosse sincero. «non puoi darmi la colpa per le tue scelte, javi.» rispose soltanto, secco. L’aveva soltanto indirizzato, Vince, verso quel mondo: non lo aveva costretto, né persuaso; gli aveva proposto un’opportunità, ed era stato più che libero di mandarlo a farsi fottere.
    L’unico suo sbaglio – uno dei peggiori della propria vita –, era stato non riuscire a trovarlo dopo, o non aver previsto come sarebbe potuta andare a finire quella voce che gli aveva girato sui Laboratori.
    Quello sì, ma ci aveva provato.
    gif code
    1986
    welsh
    mimesis
  4. .
    vincent ray kinsley
    Irreverence is my disease
    It's secondhand, but you know me
    The son of a bitch is on his knees
    The last man standing gets no pity
    Inspirò.
    Espirò.
    Incapace di fare altro, immobile sul posto come una maledetta statua di cera. Ogni singola cellula del suo corpo era in fermento, poteva sentirlo, pronta a scattare; un elastico tirato al massimo della sua resistenza, del quale però non avrebbe mai lasciato la presa per nessuna ragione al mondo.
    Vincent Raymond Kinsley aveva dovuto imparare a proprie spese come mantenere la calma – come gestire la rabbia; come incanalare tutta l’immotivata aggressività che aveva in corpo e spingerla verso bersagli su cui valesse la pena sfogarla, piuttosto che su stronzi casuali che avevano l’ardire di stargli un po’ troppo sulle palle –, e quella non era nemmeno la prova più dura di fronte alla quale era stato messo in trentasette anni di vita.
    Eileen. Brian.
    Stoico, ma non solo per il costrittivo magnetismo dell’uomo sul palco: muovere un passo in avanti, estrarre la pistola nascosta tra i jeans e la pelle della schiena, attingere ad ogni singola molecola di energia magica presente nell’aria di High Street, non avrebbe avuto alcun significato. Non avrebbe comunque potuto, la sentiva sotto l’epidermide quella scarica di pura forza a schiacciarlo come una formica sotto la suola di un bambino sadico, ma non ci avrebbe nemmeno provato.
    Ne aveva visti di esaltati psicopatici negli anni, Vince: gli mancava l’essere soprannaturale desideroso di conquistare il mondo, esilarante replica tridimensionale di qualsiasi pellicola sci-fi che aveva divorato in tempi tutt’altro che sospetti, ma Abbadon era solo uno dei tanti – l’ultimo di una lunga serie, niente più di quello.
    Si beava in quella convinzione, cercando di ignorare almeno per quel momento l’agitazione a palpitare nella giugulare ad ogni respiro, ad ogni parola dell’aspirante imperatore mondiale che non poi così lenta si imprimeva nella carne. Si rassicurava, pensando a quante pallottole avesse conficcato nelle teste di ideologie assurde. Si calmava, e si tratteneva, ricordando tutte le volte in cui come un fantasma si era insinuato nelle schiere di uomini come lui.
    «non siamo noi quelli contro natura. non siamo noi ad aver distrutto interi ecosistemi per poterci spostare più velocemente: sono la razza più debole. abietta.
    abbiamo avuto pietà per secoli: non la meritano più.
    oggi, amici, demoliamo lo statuto di segretezza. e ci riprendiamo il mondo.»

    Non sorrise, fredde lance di ghiaccio puntate su Seth come il mirino di un cecchino sul tetto, ma avrebbe voluto. Cristo santo, era pazzo. Non quanto quelle persone che lo avrebbero seguito ad armi spianate, non meno dell’ex sergente che in quella follia riusciva addirittura a comprendere il perché lo avrebbero fatto.

    Abbassò lo sguardo solo quando gli fu concesso, libero dalla pressione contro-gravitaria a costringere il mento verso l'alto e l'attenzione sul palco.
    Dunque si mosse, come un’automa al quale era appena stato un comando – dritto verso una meta che non aveva saputo di avere fino al momento in cui aveva scorto, tra la folla incantata, una chioma mora impossibile da confondere tra le tante altre.
    Non si chiese perché anche lui fosse lì – era colpa sua –, ma lo stupì comunque vederlo scalpitare tra la massa in subbuglio come un pesce fuor d’acqua.
    Avrebbe dovuto evitarlo.
    «kinsley»
    I fantasmi di una vita precedente non andavano disturbati, ma lasciati riposare.
    «cristo»
    Non lo fece.
    Come avrebbe potuto, se era il fato a reclamare nuovamente tutto ciò che non avevano?
    Schioccò le dita, ed aspettò che la tenue fiammella sulla falange del pollice si fece realtà prima di avvicinarsi ad un solo passo da Javier, invitandolo a continuare qualsiasi cosa stesse facendo prima di notarlo. «non riesci proprio a stare lontano dagli psicopatici, javi?»
    gif code
    1986
    welsh
    mimesis
  5. .
    Vabbè te l'ho già detto in separata sede AAAAAAAAA GRAZIE PIDI CHE BELLO FKSKKCOSOEO :julie: :soho:
  6. .
    Ho le role per tutti domani modifico questo messaggio ciao.


    ciao lele faccio io

    nickname: zugzwang.
    role attive: phobos (01) + scott (02) + bonus (03)
    PE accumulati sulla carta fidelity: 20
    scheda livelli:
    Aloysius
    Jeremy
    Mitchell
    Phobos

    Elijah
    Gemes
    Sunday
    Scott

    Chariton
    Twatt


    aggiornato!

    Edited by ‚soft boy - 1/10/2021, 12:08
  7. .
    «PFFFT!!!» soffiò divertito agitando il bicchiere di birra con più foga di quanta non ne fosse necessaria, facendo strabordare la bevanda ambrata ovunque capitasse. Poteva non sembrare, ma Phobos Campbell comprendeva perfettamente le ansie che il vicepreside si portava appresso come la nuvola di Fantozzi: non doveva essere esattamente il top vedere un docente portare uno studente in un posto del genere, soprattutto per farlo combattere in una gabbia.
    Detto ciò, di una sola cosa poteva dirsi certo al cento per cento: «Devi toglierti la scopa dal culo, Mitch.» sorseggio un po' di birra, sentendosi un po' morire dentro - non era come la famigerata Benza di Spaco, ma aveva comunque quel je ne sais quoi di tossico e radioattivo, probabilmente cancerogeno. Arcuò le sopracciglia e si strinse nelle spalle. «Non siamo nemmeno in periodo scolastico - ... credo? -, allenta la presa.» e gne gne gne potrebbe farsi male o morire vari a seguire. «Hai troppa poca fiducia in quel ragazzo.» e faceva bene. Lo aveva visto cercare di colpire qualcuno sul campo di Quidditch, era stato disastroso. «Deve farsi le ossa!» o spaccarsele, perché no! Tanto poi si potevano aggiustare.
    «SPACO, SHOTTINO!» di cosa, era meglio che nessuno in quel posto lo sapesse. L'importante era intervenire.
    Intervenire, sì, perché aveva visto l'avversario di Mort farsi una bella dose di coraggio liquido. Così si avvicinò all'angolo del ragazzo. «Rainey, vai alla grande.» poteva fare molto di meglio. Molto. «prendi questo, non chiedermi cosa sia che non lo so, ma ti aiuterà.» forse.
    Gli diede una pacca poderosa sulla spalla, sorridendogli. «Mi raccomando non morire!»
    phobos campbell
    33 | (mortal) hand combat
    «do as i say (not as i do)»
    Just sit back and enjoy the show.
  8. .
  9. .
    effulgent
    (of a person or their expression) emanating joy or goodness
    «ti sono debitore» Phobos lasciò cadere le corde a terra, poco distanti dai propri piedi – non sarebbero servite a nulla, ma sempre meglio tenerle a propria portata (di mano, di incantesimo) piuttosto che a quella delle persone che avevano rapito «jamie» –, scuotendo il polso davanti a sé per scacciare via l’idiozia appena uscita dalla bocca del più giovane. Arricciò il naso e contorse la bocca in una smorfia sardonica, facendo poi scivolare le iridi verdi sul volto del ragazzo per studiarne l’attuale situazione – della quale, perso nei convenevoli, aveva per un istante perso la cognizione. «neanche per sogno,» non era il tipo di persona che accettava crediti del genere, il Campbell; la salvezza e la felicità del prossimo era il massimo tipo di pagamento che poteva gradire in situazioni del genere. Non negava che la riconoscenza altrui potesse sempre rivelarsi utile in un ipotetico futuro, ma non era nel suo stile intervenire per un tornaconto personale: un po’ perché, in particolar modo quando non programmata (come quella con l’Hamilton, sì), la propria presenza in occasioni simili poteva risultare burrascosa ed imprevedibile, e sarebbe stato stupido agire unicamente per convenienza quando il risultato era incerto; un po’, perché se lo faceva era per il piacere di fare la cosa giusta, di aiutare il prossimo – senso civico, sostanzialmente. «non preoccuparti di questo.» mai; e soprattutto, ora. «phobos, è un piacere!» avendo un po’ più di tempo, si sarebbe dilungato in una conversazione che senza dubbio l’altro non aveva intenzione d’intraprendere: non che fosse un fan delle chiacchiere vane, ma adorava sapere tutto di chi gli si parava di fronte nelle situazioni più disparate; non si poteva mai sapere da cosa sarebbe nata un’ottima amicizia.
    Senza contare che, dato il suo ruolo nella Resistenza, era anche suo dovere sapere il più possibile del mondo al di fuori del Quartier Generale: l’unico tipo di profitto cui potesse in qualche modo interessarsi.
    «è destino» tornò con lo sguardo su Jamie, dopo averlo spostato per gettare un occhio all’ambiente circostante. Se non si considerava il varco che aveva aperto nel condotto d’areazione sovrastante, avevano una sola via d’uscita a loro disposizione: la porta da cui doveva essere stato trascinato il ragazzo. Nessuna finestra disponibile per la fuga, ed aveva studiato abbastanza le planimetrie dei vecchi laboratori caduti in disuso da tempo da sapere che le pareti erano troppo resistenti; prima che potesse buttare giù un muro a forza di incantesimi, sarebbe certamente giunto qualcuno richiamato dal troppo fracasso causato dalla magia. I suoi sensi di lupo, poi, non è che stessero in qualche modo aiutando: aveva cercato di fare affidamento sul suo fiuto per cercare di carpire qualche informazione riguardante la posizione degli aguzzini, ma non doveva essere in quella fase del mese e l’unica cosa che riuscì a dedurre fu che non dovevano essere così vicini da allarmarli. «io e i tuoi… nipoti? eravamo… molto legati» non credeva al fato o a chi per esso. Era senz’altro certo che ciascun essere umano fosse fautore del proprio destino, che ne fosse consapevole o meno. Ogni individuo, per il trentaduenne, aveva il controllo sulla propria esistenza ed il potere di cambiarla – che fosse poi per il meglio o per il peggio, non era da sindacare. Però era indubbio il fatto che quella fosse una peculiare ed esilarante coincidenza. Sollevò le sopracciglia castane, schiudendo le labbra in un “oh!” di felice approvazione. «ad essere onesti, non avevo dubbi» innanzitutto perché se i propri discendenti erano anche solo un decimo di com’era lui, era convinto fossero in grado di fare amicizia anche con le patatine fritte del McDonald – arrivando a sentirsi in colpa quando dovevano poi mangiarle; been there done that. Poi, perché «sei un così bravo ragazzo!» nemmeno “sembri”. Non ce la faceva, Phobos Xavier Campbell, a non vedere costantemente il meglio nelle persone che incontrava – anche, e soprattutto, quando altri avrebbero detto non ci fosse alcunché di buono sotto la superficie: solo perché non erano in grado di scavare un po’ più a fondo, arrendendosi al primo o al secondo strato sotto pelle, preferendo dare per scontato quel ch’era palese. Si sarebbe potuto dire lo stesso del professore, quello è vero: sotto un certo punto di vista, poteva dare l’impressione di un ingenuo ottimista incapace d’essere analitico – un fesso, come taluni (Edward) gli avevano fatto (e facevano ancora) (sempre il Moonarie) notare. Naturalmente non era così; non sarebbe sopravvissuto in quanto ribelle per quindici anni se avesse dato una fiducia illimitata al primo che gli passava davanti.
    Era sospettoso, guardingo, sempre attento – ma non cinico. Non sarebbe stato lui, se a prescindere non avesse dato un’opportunità a chiunque.
    Ma non era il caso di stare troppo a rimuginarci sopra. «scusa, non volevo sembrare tua nonna» probabilmente aveva fallito, ma era imbarazzante e fiero di esserlo. Doveva avere al massimo mezzo decennio in meno di lui, avrebbe potuto tranquillamente diventarci amico – soprattutto se già in precedenza aveva avuto a che fare con i geni Campbell –: parlare come se fosse la vecchietta che uscendo di casa ti regala una caramella dell’età del bronzo ma che, chissà perché, ancora producono, non era stata la sua migliore uscita.
    Tornando a questioni più di vitale importanza, come – non so! – il rapimento. «hai delle armi con te?» ma chi è che andava in giro armato per comprarsi dell’erba nei vicoli più malfamati di Londra? «assolutamente no,» aveva la bacchetta, al massimo: bastava. «non ne ho bisogno, puoi fidarti» che detta così, nessuno si sarebbe mai fidato. Nessuno lo aveva mai fatto, e aveva sempre fatto ricredere tutti quanti: non era insegnante di Combattimento Corpo a Corpo solo per occupare una cattedra. «ciecamente aveva pure preso lezioni private con Antonino Cannavacciuolo per perfezionare l’arte delle sberle e diventare il degno successore di Marshall Eriksen.
    «ora ho io qualche domanda.» estrasse la bacchetta, gettando uno sguardo alla porta ed accertandosi che non ci fosse ancora nessuno in avvicinamento, in particolar modo per fargli vedere che comunque, un’arma, ce l’aveva. «ce la fai a camminare? ti hanno ferito in qualche modo?» a parte il calcio che gli aveva dato lui appena arrivato. «hai una vaga idea di chi ti abbia portato qui?» dentro di sé, andò nel panico – moderatamente, senza far trapelare alcuna emozione all’esterno. Fossero stati ribelli, sarebbe stato imbarazzante.
    Ultimo, ma non per importanza: «tu hai un piano?» così, giusto per sapere.
    deatheater
    rebel
    32 y.o.
    33 y.o.
    phobos-campbell
    drink teas, save the bees, when i walk i hear a poppin' in my knees.

    [/QUOTE]
  10. .
    ABILITO AAAAAAAAAAAAAAAA FDSKAJFDISPAOIFDSAOP
  11. .
    link1link2link3link4
    phobos


    campbell

    «AAAAAAAAAAA» ma cosa stava succedendo. «mehAAAAAAAAAAAn» strinse le possenti mani sulle esili spalle del figlio, scuotendolo così forte che prima o poi gli avrebbe staccato la capoccia ed avrebbero iniziato a giocare con quella, sul campo. Perché : Phobos Xavier Campbell era un professore, era un adulto, aveva trentadue anni ed il responsabile di una delle casate che si contendeva la coppa del quidditch, ma giammai avrebbe preso posto nella tribuna a lui riservata con gli altri dello staff scolastico.
    Lui se ne stava tra gli studenti. Lui se ne stava con Phoebe e Meh, perché dovevano essere uniti in un momento tanto tragico; dovevano essere insieme e pregare per l’anima immortale del suo povero figliolo che stava evidentemente (di nuovo) per morire sopra quella scopa, e sotto al temporale. «oddio non posso guardare ora muoiono tutti.» catastrofico? Ma nemmeno per sogno: dico, l’avete visto l’Hale? Avete visto la ferocia che tirava fuori fingendo di essere un adorabile cucciolo di labrador, e soprattutto come lo faceva con i suoi piccoli (un metro e novanta è piccoli), indifesi (Freaks, fate le faccine adorabili con cui ci siamo esercitati), innocenti (la motosega, CJ. La motosega, nascondila.) Tassorossi!!! Coprì gli occhi ai propri bambini, spingendo così forte da provocare reazioni (quali reazioni?) (/reazioni/). «phoEBEEEEEEEE» ma cosa voleva da loro, esattamente? Chi lo sa. «ma hai parlato con mac, meh? sta bene? maeve gli ha dato qualcosa sottobanco per farlo caricare? non me lo spiego.» davvero, assurdo.
    «OLIVEEEEEEEER» mani a coppa sul viso, cercò con tutto il cuore di farsi sentire dal giovane tasso in procinto di lasciarci le penne. «SE TI FAI COLPIRE DA QUEL BOLIDE, NIENTE PIÙ LEZIONI DI CORPO A CORPO» era una minaccia? Non era una minaccia?
    Che ne sapeva lui, non era bravo in quelle cose, voleva solo nessuno morisse male.
    oh my fucking god
    he's fucking ded
    rip to my child
    not the neighbourood
    aaaaaaa


    Edited by livsnjutare; - 28/4/2020, 22:35
  12. .
    warriors
    imagine dragons
    smoke + mirrors (deluxe)
    Here we are
    don't turn away now
    We are the warriors that built this town
    «eddie… noi siamo amici, vero?» una domanda semplice, fatta da un ragazzo semplice, che pretendeva una risposta altrettanto semplice. Phobos Xavier Skeeter era un giovane di poche pretese e di umili ambizioni; uno che campava giorno dopo giorno, da ormai sedici anni a quella parte, di speranze vane e di minime glorie. Non esigeva molto e si accontentava di ogni briciola lasciatagli sulla via, trovando nella mollica di pane una pepita dorata – ed accontentarsi forse è il termine errato, con cui parlare del tassorosso: a lui andava bene tutto, accogliendolo a braccia aperte ed un sorriso radioso sul volto imberbe. Un Qualcuno tra i Nessuno, ed un Nessuno tra i Tutti; amabile ed odiato in egual misura, brillante ed ignorante al tempo stesso. Era un ossimoro vivente, per gli altri e per sé in prima persona, che camminava tra chi già sapeva chi essere senza comprendere cosa volessero da lui – i suoi compagni, i professori, la società, la sua famiglia: ciò che poteva dar loro era unicamente se stesso e mai, nemmeno per un secondo, aveva pensato di fingere d’essere qualcun altro.
    Chiedeva poco, lo scozzese; davvero, quasi nulla. Nemmeno più che, dopo sei anni da quando aveva messo piede ad Hogwarts, gli altri studenti smettessero di rompergli le palle – traditore del tuo stesso sangue, sporco filo-babbano; tossico che fai, ti compri la E a Pozioni con l’erba o con una scopata stavolta?; tua madre ha deciso di continuare a farsi ingravidare da gente a caso, o cosa? – : aveva imparato, nonché sempre saputo, come farsi scivolare addosso le parole altrui senza rimanerne affatto influenzato. Alcuni avrebbero potuto dire che vivesse in un mondo tutto suo, lontano da paranoie e calunnie che costanti aleggiavano tanto nella scuola quanto nel mondo al di fuori: non si poteva dare loro torto, ma non era solo quello; molte persone che non fossero suoi compagni pensavano avrebbe fatto strada una volta diplomatosi, alcuni addirittura gli avevano promesso un posto – al Ministero della Magia, al San Mungo. Poteva essere chi voleva, poteva fare quel che desiderava.
    Ma quel che voleva il Phobos di sedici anni, era essere un Signor Nessuno.
    Ciò che desiderava, era qualcuno che non gli rompesse tanto le palle – amici, tutto lì.
    Forse era per questo che tanto si era legato al Dubois. Era strano, un individuo decisamente particolare e con interessi altrettanto speciali e tipici, ma sembrava essersi affezionato allo Skeeter senza pretendere troppo da lui, né cercando qualcosa che non era in grado di dargli; in tutto e del tutto disinteressato, il giovane Edward, ma gli piaceva pensare lo fosse nel senso buono del termine. Anzi, era convinto fosse così.
    Perciò, la domanda postagli con un velo d’isteria sulle labbra sottili suonò esattamente come avrebbe voluto che fosse: retorica.
    Certo che erano amici. Quel tu che dici? era stato così lapidario, per un fin troppo ingenuo Phobos, da poter essere inteso diversamente; era tra i suoi pochi migliori amici, Eddie. Come, come!, aveva potuto dubitarne?
    Ah, già: perché stavano per fare un rito satanico nella stanza delle torture e non ne sapeva nemmeno bene il motivo. Cioè, lo sapeva, ma – ma. Doveva promettere di voler bene al ragazzo per sempre? Ma dai, già lo amava più di quanto il serpeverde avesse mai potuto comprendere, non aveva seriamente bisogno di un patto di sangue lui; tuttavia, se ciò faceva felice l’altro, quale poteva mai essere il problema (“Phobos, vuoi invocare il Demonio, come sarebbe a dire-” quale poteva mai essere il problema: shut the hell up, coscienza).
    Se quel che accadde in seguito mise in dubbio la loro amicizia? No, figurarsi, era routine da quando aveva conosciuto Edward, farsi tagliare i palmi delle mani: ogni tanto lo faceva addirittura nel sonno, mentre non poteva reagire.
    Tutto perfettamente nella norma. Anche il «ma cosa caspita state facendo voi due mongoli? possibile che non posso lasciarvi da soli un secondo?» ed il seguente «evochiamo satana, no? volete partecipare?»? Certo, che domande.
    «niente di troppo preoccupante o sospetto!» e sollevò il pollice verso Nicole e Richard, stringendo il pugno non (ancora: ripeto che ormai conosceva abbastanza bene il Dubois da sapere che non si sarebbe lasciato fuggire l’occasione di recidersi, e recidergli, anche l’altro) sanguinante.
    E poi: «IO!! Io voglio partecipare!!!!».
    Che succede.
    Chi si è sentito male.
    «scusate cercavo i bagni»
    Dov’è andata Rea.
    Voce fuori campo: «non lo so.»
    «andiamo a cercarla» ma “andiamo” chi?
    Solo Phobos? Solo Phobos.
    Coooosa? Se stava forse cercando di scappare da Teddy? Cooooooooooooooosa – ma no, figuriamoci.
    Okay, sì.
    «reaaaa vieni qua ci divertiamo!!!» urlò, per poi tapparsi subito la bocca con la mano insanguinata, ricordandosi in un secondo momento che… beh, magari gridare a gran voce dalla Sala delle Torture, dove si accingevano ad evocare entità demoniache, non era proprio il massimo della furbizia. Non che in quel campo eccellesse: intelligente sì, sveglio… un po’ meno. Colpa delle canne.
    Ad ogni modo, sperava davvero Rea tornasse indietro perché gli stava simpatica e magari lì dentro non sarebbe andata così male – anzi: si fidava ciecamente di Eddie, non sarebbe morto nessuno! –, ma non poteva rimanere lì sulla porta per sempre.
    Non poteva ignorare Teddy per sempre.
    Non che volesse davvero, era solo molto confuso dalla situazione.
    Quale situazione? Ottima domanda, la stessa che si faceva in continuazione: si erano lasciati? Erano mai stati insieme? Cos’era successo.
    «beh, mh…» batté la mano sul muro, sorridendo alla gang del pentacolo prima di tornare sui propri passi.
    Non pensare a Teddy.
    Non pensare a Teddy.
    Non pensare a Teddy.
    Non pensare a Teddy.

    «ehi teddy come va la vita?» nailed it.
    Ma lo stava mica ignorando, no? No dai, figuriamoci! Era solo troppo impegnata a «non si rischia di morire, vero?» … che ottima osservazione, quella della Beary. Fissò gli occhi verdi in quelli altrettanto chiari del Dubois, mantenendo la piega sulle labbra e fingendo non ci fosse – ancora – un velo d’isteria. «non… non c’è alcun rischio. vero?» non poteva morire, lo Skeeter.
    Non poteva, aveva una figlia a casa ad aspettarlo – per quanto… facesse davvero, sempre, troppo strano pensarci.
    E pensare che ne aveva anche altri due ahahah.
    «vero, eddie?»
    27.08.1987 • 16 y.o.
    summoning demons
    hufflepuff
    neutral
    PHOBOS
    skeeter
  13. .
    abilito ♥
  14. .
    AGGIUNTI!!! e tolto kovu dalla lista BENVENUTO TRA I PG VERI!
  15. .
    mi sento male. ne voglio anche io uno ora SONO BELLISSIMI!!!
183 replies since 10/2/2015
.
Top