I know why they hate on us (Why) 'Cause that so fabulous (What)

v-#000 + tuta-gami00

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    darling, didn’t you know?
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    Sei legato ad una sedia, v, abbandonato nello scantinato di solo il Signore sa quale luogo, ma che ha tutta l'aria di essere stato un Laboratorio Estremista: ti hanno rapito. Resisti: tuta-gami, unico testimone di quanto accaduto, sta strisciando nei condotti di areazione per venire a salvarti.


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    Jamie Hamilton era un bugiardo. Un falso, un manipolatore, un egoista, un ipocrita, un pragmatico al limite dell’amoralità, ma aveva anche dei difetti cit: l’intelligenza, ad esempio. Il Cacciatore era evidentemente troppo intelligente per il suo stesso bene, e di quei tempi, era un pericolo; le forme di vita inferiori (dette anche Barbari, Medievali, Attendo Con #Ansia La Selezione Naturale) non facevano altro che insultarla, rendendo l’Hamilton sempre più vulnerabile e delicato nella pressione dell’indice sul grilletto. Mantieni un profilo basso, Jamie; quando sei nato, erano già tutti morti e sepolti, e quando nascerai di nuovo, ti sarai assicurato di rimuovere con le tue stesse mani l’intera progenie prima che possa contaminare ancora la tua seconda esistenza - una magra consolazione, a dire il vero, considerando che in quel momento era comunque costretto a viverci e sopravviverli. Cent’anni di evoluzione si facevano sentire ogni secondo di ogni fottuto giorno. Non poteva incolparli per non essere ancora il frutto del adapt or perish che di lì ad un secolo avrebbe portato a dei Jameson Black Barrel Hamilton; non era colpa loro se le guerre e le malattie ancora non avevano tolto il grosso lasciando sopravvivere, e riprodurre, solamente i soggetti maggiormente adatti alla vita. Come uno storico a carezzare le ossa di un tirannosauro al museo di storia naturale, comprendeva che non dovesse essere facile essere così...così stupidi, incapaci, inetti, peccanti di risorse e quoziente intellettivo, ma non riusciva a trattenersi dal biasimarli comunque: potevano avere migliaia di giustificazioni, ma se si trattava di esseri patetici, patetici restavano.
    E come tali, sarebbero stati trattati.
    Sospirò. Il ventunesimo secolo, conosciuto anche come Età dell’Acciaio Inox, era veramente una merda: i said what i said. «lo sai che ti stanno seguendo? Due dietro di te, e due nel vicolo opposto» esagerati. A giudicare dal numero, doveva trattarsi di dilettanti (e di nuovo, si tornava al discorso offensivo) il che limava alquanto la già labile pazienza dell’Hamilton. «non fare domande di cui sai già la risposta» un sorriso fragile quello di Jamie, brillante e delicato quanto lo sfarfallio di una lampada ai suoi ultimi Watt di vita. Stropicciò i capelli di Melvin tirandola nel mentre verso di sé, attore impeccabile e specchio della noncuranza nel fingere di non essere a conoscenza dei suoi stalker. Certo che lo sapeva. E la cosa lo faceva anche alterare, ad essere del tutto onesti: non gli piaceva la gente che non era in grado di farsi i cazzi propri, e si sentiva in dovere di farsi i suoi. «cosa ci fai qui?» «un giro» l’altra fece spallucce, nascondendo un sorriso furbo fra i denti. Bugiarda. Fra la gente che non sapeva farsi un enorme pacco di Affari Tuoi, l’empatica spiccava decisamente – ed era anche uno dei rari casi del quale non voleva, liberarsi. Che gli piacesse o meno (meno), nutriva da sempre un senso di responsabilità non indifferente nei confronti della ragazzina; scivolare nel secolo sbagliato, non aveva fatto altro che acuirlo.
    E Melvin Diesel, crescendo, non aveva fatto altro che riprendere tutti i lati negativi di Jamie Hamilton: il sorriso a metà, le menzogne, le brutte intenzioni, la maleducazione, la tua brutta figura di ieri sera.
    Quanto lo rendeva fiero. «oh ma, hai fatto qualcosa ai capelli? Ti vedo...diverso» melvin, looking directly into the camera: «giggles»
    sara, rompendo la terza parete, vibrando come un diapason su writer: giggles.
    Ancora, caso mai nei mesi precedenti non fosse stato chiaro quanto fosse tediato da quell’esistenza, Jamie sospirò. Era dannatamente bravo nei convenevoli quando richiesti dal suo ruolo, quando necessari ad un fine, ma a Vin aveva sempre mostrato il proprio peggio – il vero Jamie. Si fermò lentamente, chinandosi per essere alla stessa altezza della Ivorbone. «abbracciami» tagliò corto, invitandola contro il proprio petto. Gli occhi verdi di Melvin si sgranarono, lecitamente dubbiosi, ma non ebbe bisogno di altre sollecitazioni prima di fiondarsi fra le sue braccia.
    C’erano rari, infinitesimali momenti, in cui Jamie avrebbe voluto essere stupido quanto gli altri. Non dare alcun peso alle conseguenze, vivere alla giornata, essere cieco al disegno più grande ed al posizionamento strategico di ogni pedina - nonpensarenonpensarenonpensare. Sarebbe stato così, dannatamente, più semplice, lasciare che fosse il cuore e non la mente a scandire le giornate. A non farsi troppe domande, ad ignorare anche le poche risposte, si viveva una cazzo di meraviglia – ma non era nello stile di Jameson Hamilton.
    Avvolse Vin, sussurrandole poche parole all’orecchio: «prendi la glock nella fondina laterale». Quello, era Jamie Hamilton. E Melvin, che di quel Jamie c’era cresciuta per anni, eseguì quanto richiesto e lo guardò. Lo guardò e basta, senza fargli la solita domanda del cosa hai intenzione di fare?, senza dissuaderlo in un bisbiglio a non fare cazzate. Lo guardò consapevole di cosa significasse quella richiesta, conscia di quale fosse il piano di Jamie.
    Ed alla fine, schioccandogli a tradimento un bacio in fronte, gli sorrise.
    «se muori mi prendo gugi» «cosa?»
    cosa. «ciao jamie tvb (:»
    La guardò allontanarsi sentendosi già vuoto senza la sua bimba (...la pistola, ovviamente) offrendo allo skyline londinese un...indovinate un po’? Esatto, sospiro: perché da quel momento, scattava la trappola Vittima.
    Come tante cose (e persone #ciao gugi) nella sua vita, odiava ed amava quella parte del piano. Gli dava un senso di bieca superiorità offrirsi alla mercè di qualcuno, per poi rivelare la sua natura alla quasi fine della trattativa – un genere di potere diverso rispetto alle vittorie da principio, più meschino e subdolo e fottutamente Jamie Hamilton. Più vendicativo, e rabbioso, e sorrisi sporchi di sangue mentre il cuore pompava veleno ed adrenalina in un organismo corrotto ed allo stesso tempo incorruttibile. Amava l’umiliazione finale, Jamie; amava le uscite di scena trionfali, amava accumulare e rilasciare in un’unica devastante ondata come un maledetto tsunami– amava distruggere. Ingannare. Vincere sempre.
    Dio, se amava vincere sempre.
    Si infilò in un vicolo, ed attese.

    Rilassò i muscoli della mascella, la lingua a guizzare sul labbro superiore macchiandosi di cremisi. Assaggiò il suo stesso sangue con una punta di fastidio e trionfo, curvando piatto gli angoli delle labbra verso l’alto nella stanza vuota in cui l’avevano abbandonato. Come già detto, non gli piaceva essere seguito. Ancor di meno, quando non aveva idea del perchè lo seguissero. Il modo migliore, e più rapido, per arrivare all’origine di quel nodo, era assecondarlo; non scheggiava il suo ego essere catturato e legato ad una sedia in un luogo dimenticato dal Signore. Erano poche, davvero poche (1), le cose in grado di minare la sicurezza di Jamie Hamilton, e nessuna di quelle si trovava in quella stanza. Mantenere il sangue freddo era un gioco da ragazzi, quando la fede non vacillava: Jamie aveva un unico Dio, e quel Dio era Jamie.
    Quindi insomma, si giocava in casa.
    «manco i deumidificatori per ambienti» oltraggioso. «pezzenti» Cercò di roteare le spalle, schioccando la lingua contro il palato nell’incontrare le resistenze delle corde legate ai polsi, alle caviglie, ed alla vita. Se si trovava in quella situazione, era in parte (in parte.) colpa sua, ma era stato un errore calcolato: Gemma non avrebbe stretto così tanto i nodi se Jamie non l’avesse fatta incazzare, ma l’aveva fatto per tre ottime cause. In primis, innervosirle: soggetti seccati o rabbiosi tendevano a perdere il controllo sulle proprie parole, lasciandosi sfuggire informazioni di vitale importanza. In secondo luogo, per testare quanta droga avesse ancora in circolo, facendosi in tal modo un’idea di quando avrebbe potuto tornare ad usare i propri poteri.
    Il terzo, semplicemente perché poteva: chi non giocava con le proprie vittime, godeva solo a metà.
    Grazie alla sua (infelice) uscita, aveva scoperto si trattasse di ribelli interessati a sapere che fine avesse fatto Waldo, arrestato da Jamie due giorni prima (kavolo, un giorno e 23 ore di preavviso e non gli avrebbe spaccato la calotta cranica in quanto soggetto pericoloso ed in fuga: a saperlo!). Quale uscita? Nulla di che: un mero sussurro bisbigliato sulla morbida, calda, pelle del collo di Gemma, le labbra a sfiorarne la superficie quand’ella aveva suggerito potessero trovare un modo per passare il tempo, se fosse stato collaborativo.
    Due parole.
    Tre sillabe.
    «sono gay ho standard» touchè.
    Aveva ancora bisogno di loro? Certo. Voleva sapere quanti fossero, che intenzioni avessero, perchè avessero preso di mira lui e non quello sfigato di Wardrobe, così magari gli levavano quel coglione del suo collega dalle palleche magari gli avrebbero anche fatto un favore levandoglielo dalle palle - e, ovviamente, voleva passare il tempo in modo alternativo. Non c’erano contro, solo pro.
    O almeno, così credeva mentre tentava di seghettare, con la lama nascosta nella suola e che non gli avevano confiscato (aveva già detto newbie) le corde ai piedi così da essere libero di muoversi. Il piano era semplice:
    1. li avrebbe aspettati
    2. avrebbe sorriso
    3. e come alessandro borghese, avrebbe ribaltato la situazione, legandoli e torturandoli fino a che non avessero chiesto almeno scusa.
    Semplice. Diretto. Intuitivo. A prova di -
    Si bloccò, la testa reclinata e l’orecchio teso verso la fonte del rumore - il condotto di aerazione? Trattenne anche il respiro, cercando di concentrarsi su ogni nota. Sperava non fosse una bestia (melvin, melvin era la bestia; si trattava di qualcosa di troppo grande per essere semplicemente un topo), ma di qualunque cosa slash persona si trattasse, stava già rovinando il suo piano. Capriccioso, sempre stanco, curvò gli angoli della bocca verso il basso, liberando le caviglie quel tanto che bastava ad alzarsi sulle punte dei piedi, e spostare la sedia sotto la ventola, contro il muro, così che di qualunque cosa si trattasse non potesse vederlo. Era sia cattivo che eroe della propria storia, Jamie Hamilton – gli altri, erano solo comparse.
    Sacrificabili*, comparse.
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    Con il proprio tempo libero, Phobos Campbell avrebbe potuto fare davvero un sacco di cose: aveva un’intera lista, all’interno del proprio armadio, piena zeppa di buoni propositi, progetti e sfizi vari da portare a termine prima della fine dell’anno, e puntualmente s’adoperava al massimo per spuntare una o più voci non appena aveva un giorno libero dal proprio lavoro – che fosse ad Hogwarts, o al Quartier Generale della Resistenza.
    Avrebbe potuto dedicarsi alla propria apicoltura ad Inverness, studiando nuovi metodi con cui ampliare la propria produzione o per usarla al fine di sensibilizzare sempre più la popolazione (aveva anche il come: avere un sacco di figli al passo con l’era dei social, poteva tornare discretamente utile); così come, magari, si sarebbe potuto mettere in viaggio con la sua fida e sfasciata macchina volante per la penisola scandinava alla disperata ricerca di Greta Thunberg, giusto per sapere se le interessasse tenere un comizio ad Hogwarts – così, perché faceva sempre bene istruire i giovani che ancora non si interessavano abbastanza alle tematiche ambientali. Volendo, nel suo studio, c’erano pergamene e inchiostro a volontà: si sarebbe potuto mettere a scrivere un articolo sull’educazione fisica – non perché avesse mai avuto il pallino segreto del giornalista, quanto più perché in quanto professore era tenuto ad interessarsi alla divulgazione scientifica –, rimanendo per la maggior parte del tempo incantato ad osservare il Monet appeso dall’altra parte della stanza piuttosto che con la piuma sulla carta; se proprio doveva rendersi utile, c’era sempre da pensare a nuovi ed entusiasmanti prove da sottoporre ai ragazzi durante le proprie lezioni.
    Di modi per tenere occupata la noia, ne aveva a iosa: uno tra i più grandi pregi del Rebel Scout, era proprio quello di rendere la più infima e banale delle attività, uno svago a trecentosessanta gradi – la maggior parte delle volte, involontariamente.
    E dunque, a ragion veduta: per quale assurdo e stravagante scherzo del destino si trovava incastrato nel condotto di areazione di un laboratorio estremista oramai in disuso, vi chiederete voi.
    Ebbene, se lo stava chiedendo anche Phobos, mentre cercava di scivolare tra le lastre d’acciaio come un pinguino troppo grosso e muscoloso. Solo poche decine di minuti addietro, era bello e beato a farsi i cazzi suoi in giro per Londra; di certo non avrebbe potuto pensare che, mentre trotterellava allegramente nei vicoli in cerca di qualche spacciatore – oh, le sue scorte d’erba le aveva sempre, ma aveva bisogno di provare qualche nuova qualità –, avrebbe visto qualcuno rapire qualcun altro. Inutile starlo a sottolineare: soffriva della sindrome della crocerossina, il trentaduenne, e se vedeva qualcuno in difficoltà doveva assolutamente accorrere in un modo o nell’altro.
    Non aveva creduto possibile lo seminassero, ma l’età giocava dei brutti scherzi – soprattutto se si è a piedi mentre i rapitori no.
    Non aveva potuto immaginare che sarebbero entrati proprio nel laboratorio in cui, anni prima, si era perso Idem; già quell’esperienza lo perseguitava notte e giorno, figurarsi quanto fosse felice di andare di nuovo all’avventura in quel buco dimenticato da Dio.
    Non aveva voluto farlo, ma l’unico modo per entrare di soppiatto – conosceva le planimetrie di quel posto a memoria, sapeva bene come muovercisi: incredibile, vero?, vista e considerata la traumatica vicenda di cui sopra – era proprio quello di addentrarsi nell’impianto dell’aria.
    E lì, incastrato e solitario, decise di mettersi di nuovo a dieta. Soprattutto quando la lamiera sotto il suo deretano pensò fosse giusto cedere, lasciando al docente giusto il tempo di aggrapparsi malamente al bordo. Quel che bastava, quantomeno, a fargli biascicare un «oplà» prima di perdere la presa.
    Molto poco op, particolarmente preciso – dove, per là, si intende la faccia del ragazzo legato colpita in pieno dal piede di Phobos. «ODDIO SCUSA» urlò sottovoce – sì, insomma… avete capito: quei versi strozzati isterici che si fanno quando non ci si vuole far sentire dall’altra stanza. Fosse mai che i rapitori lo scoprissero mandando all’aria il suo impeccabile e meraviglioso piano di fuga.
    Ma quale piano?
    «non ho un piano,» nessun piano, per l’appunto. «ma tranquillo che ti tiro fuori da qu- ehi ma tu sei del futuro?» recise i polsi eh s’è fatta ‘na certa, ho toppato le corde che tenevano ferme i polsi dell’Hamilton, sorridendogli entusiasta. Ma sì, come avrebbe mai potuto scordare il volto dell’amico dei suoi pro pro pro pro
    Pro
    Pro
    Pro nipoti.
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    Trattenne il respiro e cercò di reclinare il capo verso l’alto per rubare uno scorcio del sistema di aerazione. Non possedendo la vista ad infrarossi, fu piuttosto inutile, ma Jamie preferiva vedere una tragedia imminente piuttosto che esserne travolto con ignoranza: purtroppo, come avrebbe imparato a sue spese di lì a breve, una situazione non escludeva l’altra.
    Lo vide arrivare, l’Hamilton, ma non potè, per ovvi motivi, evitarsi comunque dall’esserne travolto. Neanche l’adrenalina venne in suo soccorso: ovattato dalle droghe ancora in circolo ed impossibilitato a muoversi dalle corde, riuscì solamente a scostarsi quel tanto che bastava da non prendersi un calcio in piena faccia, attutendo i danni al solo labbro ora – nuovamente – spaccato contro i denti. Non imprecò, era più garbato di così, ma in cuor suo augurò a chiunque avesse appena messo piede nella stanza, di morire prima che il suo metabolismo smaltisse le sostanze chimiche al suo interno. Stava già per tentare di alzarsi, per cercare di prendere il controllo della situazione bloccando l’individuo al suolo prima che potesse fare ulteriori danni (a Jamie, ma soprattutto a se stesso alla mercè di Jamie), quando «ODDIO SCUSA» e l’Hamilton, lo guardò.
    Intendo: lo guardò sul serio. Con i muscoli ancora tesi e all’incirca pronti ad agire, assottigliò le palpebre studiando, e giudicando, il nuovo arrivato. Fu questione di secondi quella dell’assemblare i pezzi del puzzle – alto, corporatura spessa (come cristo si era infilato in un condotto), capelli chiari e comunque disordinati, mascella squadrata ma viso nel complesso tondo – e di collegare il volto a un ruolo ed un nome. Se già il ruolo - insegnante ad Hogwarts - non fosse stato abbastanza per rovinare i piani di Jameson Hamilton, il nome non poteva che peggiorare la situazione.
    Un incubo ricorrente.
    Una maledizione.
    L’ironia della sorte.
    Non disse nulla, ricomponendo rapido la propria espressione per scendere, ancora, nel triste ruolo di damigella in pericolo che avesse appena incontrato il suo cavaliere su cavallo bianco: ufficialmente, Jamie si vedeva costretto a dover essere grato a quell’onesto cittadino che aveva messo in pericolo se stesso per salvare un membro delle autorità magiche; in via ufficiosa, escluso – per ora – l’omicidio perché, in quanto docente a scuola, avrebbe attratto troppa attenzione, stava già cercando soluzioni per metterlo fuori gioco e continuare con il proprio piano. Perchè «non ho un piano»: ma Jamie sì, e Phobos Campbell l’aveva appena rovinato. «ma tranquillo che ti tiro fuori da qu- ehi ma tu sei del futuro?» maccheppensierogentile. Il venticinquenne gli rivolse il sorriso opaco che quella circostanza meritava, sporco di un sollievo che non provava ed una gratitudine del quale non si sentiva decisamente in vena. «grazie» al cazzo; eppure, il tono di Jamie non tradiva altro che stanchezza, confusione data dalle droghe - conforto. «se riuscissi a...liberarmi...» aveva già nascosto la lama nel comparto segreto della suola, quando rivolse un supplicante sguardo turchese ad indicare le mani e la vita (letterale, ma onestamente? Anche metafisica.) ancora impedite. Sospirò di sollievo sincero, Jamie, quando le corde vennero a mancare sui polsi: il Campbell, per quanto superfluo e un impaccio, aveva almeno dimezzato il tempo che sarebbe servito a Jamie per liberarsi da sé. Lo riteneva ancora una seccatura, ma bisognava essere ottimisti, uh? «ti sono debitore» mai nella vita, ma non poteva essere certo l’occhiata sincera dell’Hamilton a smentire quelle parole. «jamie» suggerì con un affascinante sorriso sghembo, perché quello che viene dal futuro era diventato vecchio e snervante: lui mica li chiamava paleolitici. Non avevano eleganza, in quel di età del bronzo. Anzichè alzarsi in piedi, rimase seduto con la scusa di massaggiarsi le caviglie, naso arricciato e labbro inferiore premuto contro i denti. Quasi sperava arrivassero i suoi aguizzini e mettessero fuori gioco Phobos per lui; avrebbe senz’altro semplificato la sua situazione. «è destino» non aggiunse l’ infame a pungere sulla lingua, perdendosi invece in frivoli convenevoli mentre indicava prima se stesso, e poi l’altro. «io e i tuoi...» che? cos’erano? «nipoti? Eravamo...» ripensò a tutte le armi vendute sottobanco agli Eat, alle cene a cui si auto invitavano portando rose a suo padre malgrado passassero il resto della giornata a fuggire da lui, agli scambi di favori – tu nascondi un corpo io la refurtiva? Bella lì – nei vicoli bui di Parigi, ai diversi it’s a brojob no homo con Pray: «...molto legati» sorrise ancora, apogeo dell’innocenza e l’ingenuità: creare una storia in comune era il primo passo per creare un (falso) rapporto di fiducia. Si guardò attorno fingendo di vedere la stanza per la prima volta, come se non avesse passato le ore precedenti a studiarne ogni anfratto, quindi schioccò la lingua contro il palato. «hai delle armi con te?» tentò, perché la speranza era l’ultima a morire - o penultima: dipendeva da quanto il Campbell avrebbe complicato la situazione, il gran finale poteva ancora essere lui.
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    «ti sono debitore» Phobos lasciò cadere le corde a terra, poco distanti dai propri piedi – non sarebbero servite a nulla, ma sempre meglio tenerle a propria portata (di mano, di incantesimo) piuttosto che a quella delle persone che avevano rapito «jamie» –, scuotendo il polso davanti a sé per scacciare via l’idiozia appena uscita dalla bocca del più giovane. Arricciò il naso e contorse la bocca in una smorfia sardonica, facendo poi scivolare le iridi verdi sul volto del ragazzo per studiarne l’attuale situazione – della quale, perso nei convenevoli, aveva per un istante perso la cognizione. «neanche per sogno,» non era il tipo di persona che accettava crediti del genere, il Campbell; la salvezza e la felicità del prossimo era il massimo tipo di pagamento che poteva gradire in situazioni del genere. Non negava che la riconoscenza altrui potesse sempre rivelarsi utile in un ipotetico futuro, ma non era nel suo stile intervenire per un tornaconto personale: un po’ perché, in particolar modo quando non programmata (come quella con l’Hamilton, sì), la propria presenza in occasioni simili poteva risultare burrascosa ed imprevedibile, e sarebbe stato stupido agire unicamente per convenienza quando il risultato era incerto; un po’, perché se lo faceva era per il piacere di fare la cosa giusta, di aiutare il prossimo – senso civico, sostanzialmente. «non preoccuparti di questo.» mai; e soprattutto, ora. «phobos, è un piacere!» avendo un po’ più di tempo, si sarebbe dilungato in una conversazione che senza dubbio l’altro non aveva intenzione d’intraprendere: non che fosse un fan delle chiacchiere vane, ma adorava sapere tutto di chi gli si parava di fronte nelle situazioni più disparate; non si poteva mai sapere da cosa sarebbe nata un’ottima amicizia.
    Senza contare che, dato il suo ruolo nella Resistenza, era anche suo dovere sapere il più possibile del mondo al di fuori del Quartier Generale: l’unico tipo di profitto cui potesse in qualche modo interessarsi.
    «è destino» tornò con lo sguardo su Jamie, dopo averlo spostato per gettare un occhio all’ambiente circostante. Se non si considerava il varco che aveva aperto nel condotto d’areazione sovrastante, avevano una sola via d’uscita a loro disposizione: la porta da cui doveva essere stato trascinato il ragazzo. Nessuna finestra disponibile per la fuga, ed aveva studiato abbastanza le planimetrie dei vecchi laboratori caduti in disuso da tempo da sapere che le pareti erano troppo resistenti; prima che potesse buttare giù un muro a forza di incantesimi, sarebbe certamente giunto qualcuno richiamato dal troppo fracasso causato dalla magia. I suoi sensi di lupo, poi, non è che stessero in qualche modo aiutando: aveva cercato di fare affidamento sul suo fiuto per cercare di carpire qualche informazione riguardante la posizione degli aguzzini, ma non doveva essere in quella fase del mese e l’unica cosa che riuscì a dedurre fu che non dovevano essere così vicini da allarmarli. «io e i tuoi… nipoti? eravamo… molto legati» non credeva al fato o a chi per esso. Era senz’altro certo che ciascun essere umano fosse fautore del proprio destino, che ne fosse consapevole o meno. Ogni individuo, per il trentaduenne, aveva il controllo sulla propria esistenza ed il potere di cambiarla – che fosse poi per il meglio o per il peggio, non era da sindacare. Però era indubbio il fatto che quella fosse una peculiare ed esilarante coincidenza. Sollevò le sopracciglia castane, schiudendo le labbra in un “oh!” di felice approvazione. «ad essere onesti, non avevo dubbi» innanzitutto perché se i propri discendenti erano anche solo un decimo di com’era lui, era convinto fossero in grado di fare amicizia anche con le patatine fritte del McDonald – arrivando a sentirsi in colpa quando dovevano poi mangiarle; been there done that. Poi, perché «sei un così bravo ragazzo!» nemmeno “sembri”. Non ce la faceva, Phobos Xavier Campbell, a non vedere costantemente il meglio nelle persone che incontrava – anche, e soprattutto, quando altri avrebbero detto non ci fosse alcunché di buono sotto la superficie: solo perché non erano in grado di scavare un po’ più a fondo, arrendendosi al primo o al secondo strato sotto pelle, preferendo dare per scontato quel ch’era palese. Si sarebbe potuto dire lo stesso del professore, quello è vero: sotto un certo punto di vista, poteva dare l’impressione di un ingenuo ottimista incapace d’essere analitico – un fesso, come taluni (Edward) gli avevano fatto (e facevano ancora) (sempre il Moonarie) notare. Naturalmente non era così; non sarebbe sopravvissuto in quanto ribelle per quindici anni se avesse dato una fiducia illimitata al primo che gli passava davanti.
    Era sospettoso, guardingo, sempre attento – ma non cinico. Non sarebbe stato lui, se a prescindere non avesse dato un’opportunità a chiunque.
    Ma non era il caso di stare troppo a rimuginarci sopra. «scusa, non volevo sembrare tua nonna» probabilmente aveva fallito, ma era imbarazzante e fiero di esserlo. Doveva avere al massimo mezzo decennio in meno di lui, avrebbe potuto tranquillamente diventarci amico – soprattutto se già in precedenza aveva avuto a che fare con i geni Campbell –: parlare come se fosse la vecchietta che uscendo di casa ti regala una caramella dell’età del bronzo ma che, chissà perché, ancora producono, non era stata la sua migliore uscita.
    Tornando a questioni più di vitale importanza, come – non so! – il rapimento. «hai delle armi con te?» ma chi è che andava in giro armato per comprarsi dell’erba nei vicoli più malfamati di Londra? «assolutamente no,» aveva la bacchetta, al massimo: bastava. «non ne ho bisogno, puoi fidarti» che detta così, nessuno si sarebbe mai fidato. Nessuno lo aveva mai fatto, e aveva sempre fatto ricredere tutti quanti: non era insegnante di Combattimento Corpo a Corpo solo per occupare una cattedra. «ciecamente aveva pure preso lezioni private con Antonino Cannavacciuolo per perfezionare l’arte delle sberle e diventare il degno successore di Marshall Eriksen.
    «ora ho io qualche domanda.» estrasse la bacchetta, gettando uno sguardo alla porta ed accertandosi che non ci fosse ancora nessuno in avvicinamento, in particolar modo per fargli vedere che comunque, un’arma, ce l’aveva. «ce la fai a camminare? ti hanno ferito in qualche modo?» a parte il calcio che gli aveva dato lui appena arrivato. «hai una vaga idea di chi ti abbia portato qui?» dentro di sé, andò nel panico – moderatamente, senza far trapelare alcuna emozione all’esterno. Fossero stati ribelli, sarebbe stato imbarazzante.
    Ultimo, ma non per importanza: «tu hai un piano?» così, giusto per sapere.
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    hiraeth
    (n.) homesickness for a home to which you cannot return.
    «ad essere onesti, non avevo dubbi» che già di per sé, in un contesto (quale? nessuno, esattamente) simile, lasciava già da pensare, perché di dubbi avrebbero dovuto essercene almeno una dozzina, ma - «sei un così bravo ragazzo!» fu a quel punto, con quel giudizio affrettato e comunque a suo modo sincero, per quanto fallace, che Phobos si guadagnò un sorriso morbido e soddisfatto dall’Hamilton. Jamie era sempre, un così bravo ragazzo – per tutti. Indipendentemente dal suo passato o da quello che faceva nelle strade buie e poco frequentate, quello era il modo in cui più spesso veniva etichettato. Per quanto contorto e malsano, ogni dannata volta non poteva che strappargli una risata onesta e allegra, perché Jamie era bravo in tante cose tranne che nell’essere umano. «e anche poco apprezzato, se posso permettermi» finse modestia chinando il capo, una frecciatina mentale tutta per quell’ingrato bastardo di Gugi: visto? Un così bravo ragazzo. Chiaramente non era Jamie il problema, allora. «scusa, non volevo sembrare tua nonna» Arcuò un sopracciglio nella sua direzione, alzandosi e tentando, non con troppo successo, di sgranchire i muscoli. «sei troppo vecchio per essere mia nonna» sorrise, sempre affabile, la vista ancora sfocata ma il resto dei sensi in allerta. Per quanto (non) amasse i convenevoli, era pur sempre un giovane ben educato, e per quanto ogni suo muscolo titillasse dal bisogno di metterlo fuori gioco e farsi giustizia da solo, Leonard l’aveva educato meglio di così.
    Doveva almeno aspettare di non avere più droga in circolo prima di mordere la mano che gli aveva dato da mangiare. Le basi.
    Per quanto fosse il genere d’uomo socievole e d’indole aperta, fra le cose che era sempre pronto a dare a perfetti sconosciuti, la fiducia non rientrava in categoria – né nell’idea di categoria. «ciecamente.» La fiducia di Jamie era come la verginità di una sposa medievale: una volta data al miglior offerente, non c’era modo di riprendersela o darla a qualcun altro. Anzichè il matrimonio aveva avuto decenni di alti e bassi (che, nell’era moderna, per ben più di quanto ci si aspettasse da un matrimonio) per costruirla e darla al Prescelto TM; fine. Non era Paris Hilton che si faceva ricostruire l’imene. «dopo una premessa simile, come potrei non fidarmi» che avrebbe potuto suonare ironico, perchè lo era, ma a cui Jamie riuscì a dare il tono leggero e divertito di una battuta fra camerati in trincea, nessun rancore e anni di combattimenti alle spalle. Si fidava ciecamente di poterlo usare come diversivo, o come scudo umano – sembrava proprio il genere di persona pronto a prendersi una pallottola per l’amico dei suoi pro nipoti –, ma soprattutto non poteva negare che in quelle condizioni sfavorevoli, avesse bisogno di tutto l’aiuto possibile. Una bacchetta faceva sempre comodo (così, in generale, proprio nella vita e anche out of context). «ce la fai a camminare? ti hanno ferito in qualche modo?» Abbassò lo sguardo sul proprio corpo facendo check visivo – graffiato, un po’ sporco di sangue, ma per il resto non sembrava avere ferite visibili – lasciando quello interno per un secondo momento, dato che in quello il suo giudizio non era ancora affidabile. «mi hanno drogato» biascicò, sinceramente oltraggiato per quel colpo basso. Non era neanche nulla di divertente, mai una volta che lo mettessero k.o. con dell’ecstasy. «ma penso di potercela fare» insinuò un dubbio che non aveva nella propria voce, perché non voleva mostrare a Phobos che le droghe avessero su di lui un effetto limitato – fosse mai che si rivelasse essere uno dei nemici. «hai una vaga idea di chi ti abbia portato qui?» Sì, e più che vaga, ma scelse di mordersi indeciso il labbro e stringersi nelle spalle. «forse. La scelta del luogo, di per sé, mi suggerisce già qualcosa» si zittì, la testa reclinata sulla spalla per sentire eventuali passi in avvicinamento. Se aveva un piano? Sara non ricorda Jamie aveva sempre, un piano.
    «pensavo di aspettarli e tendere un’imboscata»
    e ucciderli.
    «e arrestarli» sorrise melenso. «potrebbero avere informazioni utili, nomi di alleati da denunciare per salvarsi la pelle» ed era vero, e sarebbe stata la soluzione migliore, ma Jamie quell’interrogatorio, e quella vendetta personale, voleva affrontarla in sessione privata. Non che quello fosse d’interesse per Phobos Campbell. «hai qualche idea migliore?»
    rebel
    deatheater
    25 y.o.
    26 y.o.
    v-#000: jamie-hamitlon
    it's okay if you don't like me, not everyone has good taste.
     
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