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C’era più di un motivo se, approcciandosi alla Resistenza, Daveth Gallagher avesse scelto di occuparsi dell’apparato strategico – di organizzare, di prendere decisioni senza dover necessariamente scendere sul campo di battaglia. Era stato un soldato in guerra, e non avrebbe mai potuto togliersi di dosso quella veste; non ci aveva nemmeno mai provato, perché sapeva che se l’avesse fatto ci avrebbero pensato gli incubi a fargli ricordare chi fosse, e che cosa avesse fatto. Se poteva, preferiva comunque non dover volontariamente ed attivamente indossare una divisa ed imbracciare un’arma se non per ragioni del tutto personali ed utilitaristiche.
Una delle cause che l’aveva portato ad ignorare immediatamente l’aspetto della guerriglia, o del semplice soldato, ce l’aveva al proprio fianco durante quella traversata nella foresta cingalese.
Decise di non prestare troppa attenzione a nessuno dei commilitoni, per non dover pensare troppo intensamente a quanto li considerasse inadatti a quel contesto, ma non poté evitare di pensare a quanto fosse sconveniente – per lui, e per lui soltanto – avere Gaylord nella propria squadra.
Da una parte, la possibilità di tenere sotto controllo e di difendere, eventualmente, quelle poche persone a cui teneva, voleva tranquillizzarlo; dall’altra, lo tormentava il ricordo dell’ultima volta che era successa una cosa del genere – ed il suo potere, acerbo e sconosciuto, aveva compiuto una strage che non era stato in grado di fermare. Era cresciuto da allora, aveva speso tutto il tempo possibile per capirlo e capirsi all’interno di un disegno più grande; nonostante si considerasse una persona estremamente razionale, non era abbastanza stupido da non sapere quanto le fobie trascendessero ogni ragione e logica.
Tecnicamente il Beckham non era altro che un compagno di schieramento, un ribelle tanto quanto lui: pedine su di un’enorme scacchiera, in mesta attesa del prossimo movimento da compiere. Ma apparentemente Finnegan Dallaire era stato un ragazzo più complicato di quanto non lo fosse l’ombrocineta, e anche più socievole – o, quantomeno, con più affetti di quanti ne volesse, o potesse vantare, il ventinovenne. Non aveva del tutto ancora ammesso a sé stesso di credere a quel che aveva appreso da quella lettera, sebbene altri nella sua stessa situazione sostenevano di farlo, ma gli veniva impossibile ignorare la lista stilata nero su bianco, nomi senza alcuna corrispondenza nel mondo nel quale aveva vissuto sin dal novantacinque se non quando associati a foto. Il ragazzo al suo fianco era tra questi; la cosa più esilarante, per le persone che trovavano divertenti queste coincidenze, era che Camden si trovasse in quella risma perché suo padre era nientepopodimeno che il proprietario della palestra in cui lavorava.
«vedi di non fare stronzate.» fu l’unica cosa che si sentì in dovere di dirgli, durante tutto il tragitto. Non aveva modo di fidarsi davvero delle sue capacità belliche, e lo stesso valeva per tutti gli altri: Hogwarts poteva aver addestrato alcuni di loro affinché fossero macchine da guerra, ma a vederli gli sembravano tutti degli scappati di casa; considerava il regime magico basato unicamente sull’attacco, senza aver mai dovuto davvero pensare alla difesa della propria integrità, e questo era un grave problema per le truppe che offriva in sacrificio in situazioni simili. Tuttavia, alcuni erano sacrificabili – altri no.

«possiamo– possiamo prenderle?» studiò gli oggetti abbandonati a terra per quanto più tempo gli fosse necessario, analizzandone ogni singolo dettaglio. Non gli piaceva affibbiarsi titoli che non gli competevano, ma conosceva abbastanza bene le armi per saper riconoscere eventuali manomissioni; nel tempo aveva imparato anche a percepire la magia, quando questa veniva usata per intaccarli in qualche modo. «non dovrebbero essere pericolose.» rispose soltanto, lasciando al resto del gruppo il beneficio del dubbio mentre si appropriava delle granate.
Appena in tempo, tra l’altro: giusto il tempo di rimettersi in piedi, che furono circondati.
Non esitò un singolo istante nel sollevare il fucile e puntarlo alla donna con la bacchetta rivolta al Beckham, aprendo il fuoco per (ucciderla, più che ovvio – guardò torvo la rossa quando disse ai nemici che non erano lì per fargli del male, che l’avrebbero fatto solo se costretti, per poi spostare l’occhiata azzurra e inquisitoria sul partner di lei: erano esattamente quelli, i problemi dell’esercito magico inglese) evitare che desse fuoco a tutta la foresta con loro in mezzo. Abbassò dunque la propria arma, concentrandosi sulla donna con lo scudo e la sua carica nella propria direzione: spararle sarebbe stato stupido, non sapeva di che materiale fosse fatta la sua protezione e rischiava soltanto di sprecare colpi. Non gli servivano, quando poteva evocare tentacoli d’ombra e prima bloccarla, poi cercare di strangolarla.

«non dovrebbero essere pericolose.»
Dylan allargò il sorriso, nascondendo l’incertezza dietro un gesto che altrimenti le sarebbe venuto più che naturale, quando poi con finta nonchalance indicò Thor accanto a lei, con un cenno della testa. «siamo abituati a maneggiare cose più pericolose» che voleva essere una battuta, ma non solo. Era anche la verità, e dopo otto anni di amicizia Dylan Kane poteva ritenersi un’esperta di ordigni esplosivi. Ecco perché avrebbe voluto le bombette, ed invece si ritrovò con lo scudo.
Che andava bene lo stesso! Giuro!! PROMESSO!
E poi niente, via con le prime botte.
Dylan ringraziò Syria per l’aiuto, e cercò il cinque di Gaylor quando i loro attacchi congiunti andarono a buon fine. «noiii» con tanto di saltello per raggiungere la mano del fidanzato, e schiacciare la propria cinquina contro la sua.
E poi, anche se lui la continuava a guardare torvo senza apparente motivo, Dylan notò uno dei nemici concentrarsi su Dave, e non ci pensò due volte prima di caricare in sua direzione e arrivargli addosso, intruppando con lo scudo per farla (farlo?) cadere in terra. Quanto al fatto che Bernie stesse ancora cercando di infilzarla, Dylan approfittò dello slanciò per tirare un calcio all’uomo, prima di piroettare su se stessa e, con la mano libera dallo scudo, impugnare uno dei bastoni eskrima per darglielo in testa, con tanto di «stonk!» vocale.
«hey thor! HAI VISTO!» cosa? beh, tutto nel dubbio. Parlare con la sua bestie era un po’ il modo che Dyl aveva per esorcizzare i demoni della battaglia: se chiacchierava con Thor, poteva quasi fingere di essere sul campo da quidditch durante una partita, e non nel bel mezzo del nulla a rischiare la vita solo per poter riabbracciare i loro cari. La vita era così ingiusta…

Sbuffò dalle narici, occhi cobalto ad osservare con onesto rammarico la tenacia avversaria nel non lasciarsi soffocare a dovere dalle protuberanze oscure.
Le sfide, per quanto stimolanti, gli piacevano solo in determinate situazioni: per inciso, la presente non rientrava affatto in quei corroboranti contesti che potevano suscitare nel Gallagher una riflessione profonda, o uno spunto di crescita. C’erano dei fottuti bambini, alcuni ancora andavano a scuola o ne erano appena usciti; non aveva tempo per giocare con la preda, prima di sentenziare la sua morte.
«è tutta scuola.» sentenziò comunque, a denti stretti e voce bassa. Voleva finirla nel più breve tempo possibile, quel sentimento era rimasto invariato ma, se tanto gli dava tanto, aveva come l’impressione che i loro nemici non fossero dello stesso avviso: dunque, era giusto cercare di prendere quel che capitava come esperienza di vita. Certe cose, ad Hogwarts, non potevano di certo imparargliele.
Schioccò la lingua contro il palato, sentendo il telefono vibrare nella tasca del gilet mimetico: fu sinceramente tentato di dissociarsi dal campo di battaglia, o di chiedere ai suoi avversari un time out, per vedere le foto, o i video, che sicuramente Shiloh gli aveva inviato; un breve istante di pensieri intrusivi che prontamente mise a tacere. Era preoccupato sia per lei che per Yale, ed in minima parte anche per quel disagiato di un Belby che sperava non fosse già morto ammazzato, ma non poteva permettersi di distrarsi e perdere il controllo della situazione soltanto per puro egoismo. Doveva far fuori almeno un nemico, prima di potersi rilassare un po’.
E magari evitare che qualcuno dei suoi morisse, ecco.
Avvalendosi ancora delle ombre, ne allungò una per afferrare la rete metallica diretta verso quella che aveva tutta l’aria di essere una studentessa, ma non si fermò a controllare che stesse bene; invece prese una delle granate che aveva raccolto e tolse la sicura. Raggiunse l’uomo con il bastone, e prima che potesse colpire la rossa gli diede un calcio sul fianco per fargli perdere l’equilibrio e allontanarlo quanto più possibile dal resto del gruppo. «stammi dietro.» un ordine alla De Thirteenth, che rafforzò spingendola fisicamente alle proprie spalle con il braccio prima di lanciare la bomba verso l’uomo: almeno, così, se il raggio dell’esplosione fosse arrivato troppo vicino, avrebbe potuto scudare sia sé stesso che la più giovane.