Reflections, visions, echoes

@ captain platinum | aperta a tutti i 2043

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    madein cheena
    toast rivera hansen
    You were the sunshine of my lifetime
    What would you trade the pain for?
    Toast Rivera Hansen era stato un ragazzo felice. Aveva sempre avuto poche pretese, contento del piccolo posto nel mondo che i suoi genitori avevano ritagliato per lui accogliendolo nella propria vita. Li amava, Sinclair e Nicole; adorava i fratelli, ed i nipoti; i cugini, e gli zii. Era difficile trovarlo senza un perenne sorriso sulle labbra, estasiato alla sola possibilità di poter esistere insieme a loro. Non si lamentava mai, di nulla, e non litigava con nessuno, non addentando l’osso neanche quando Abra scendeva dal letto con il piede sbagliato alla ricerca di caos e discordia. Era contento. Aveva tutto quel che avrebbe mai potuto desiderare, perfino con quella testa un po’ sbagliata ed al contrario che si ritrovava: si prendevano cura di lui, e lui di loro. Era sempre stato abbastanza.
    Credeva di essere sempre stato abbastanza. Non aveva mai pensato di appartenere meno agli Hansen, solo perché con loro non condivideva sangue. Non si era mai sentito escluso, o inferiore.
    Ma forse avrebbe dovuto.
    Forse, se Toast li avesse amati un po’ di meno, il Madein Cheena in piedi al centro del Platinum con la lettera aperta fra le dita, non avrebbe avuto il cuore spezzato. Non avrebbe battuto le palpebre più e più volte ai visi che sorridevano dalle fotografie. Non avrebbe corrugato le sopracciglia al proprio profilo, quasi estraneo se privato della cicatrice all’occhio che sinistro che decorava ora la sua pelle, sentendosi … vuoto. L’eco del battito su ogni costola.
    Solo.
    Da qualche parte percepì la voce di Ryu, ma non la registrò. Lo scetticismo che avanzava ad ondate nella sala, non lo registrò, perché non aveva motivi per non credere al discorso di una ragazza che neanche conosceva - e perché aveva senso, nel modo in cui avevano senso i pezzi di un puzzle quando finalmente si guardava l’immagine intera. Non davvero, perché non sapevi con esattezza dove infilarli senza tutto il resto a fare da cornice, ma sapevi fossero parte di qualcosa. Aveva annuito felice, perfino entusiasta, alla (tragica.) storia raccontata dalla ragazza, aggiungendo gli ohh e aaah del caso per farla sentire partecipe ed apprezzata; aveva sorriso tutti i propri denti e qualcuno in più, allargando la bocca fin quasi a far male, quando la Oakes gli aveva dato la busta.
    Poi l’aveva aperta.
    Nessuna scenata da parte dell’ex Grifondoro. Era rimasto immobile, gli occhi blu a saettare da una pellicola all’altra, soffermandosi sull’unica costante della sua vita. Non fu stupito di trovarci Ryu, sarebbe stato assurdo il contrario. Uno spicchio di labbra provò perfino a curvarsi verso l’alto, nel rendersi conto dell’occhiata morbida con cui quel Fake guardava la sua persona preferita al mondo. Non ce la fece, perché -
    Un altro battito secco, e asciutto. La lingua a scivolare sul palato cercando di renderlo meno carta vetro. Credeva nel destino, Fake. Nel Fato, di come nulla si perdesse e tutto tornasse. Nel filo rosso che sapeva legasse la sua esistenza a quella di Ryu, in ogni modo in cui l’altro l’avesse voluto, ma era anche… delicato, e vulnerabile. Di armature non ne aveva mai portate, anche se era difficile rendersene conto sotto gli strati d’inchiostro, cicatrici e sangue. Non c’era niente a proteggerlo dal mondo, tutto esposto ed in bella vista. Armato, quello sempre, ma ferire non serviva a provare meno dolore lui stesso; lo lasciava penetrare e rimanere, tenendoselo incollato come un cazzo di cerotto inverso.
    La sua famiglia non l’aveva mai voluto. Certamente, non l’avevano amato. Era quello stupido, e sacrificabile, venduto al miglior offerente e dimenticato nel riformatorio dov’era finito perché aveva ucciso, e mutilato quelle stesse persone che avrebbero dovuto essere la sua seconda (terza?) famiglia. I Golden erano tutto ciò che avesse, e anche loro se n’erano andati. Inevitabilmente, uno dopo l’altro. Fili di fumo tra le dita, incapace di stringerli perché rimanessero. Una sola fottuta volta, avrebbe voluto rimanessero.
    Lì. Lì c’era la prova che avesse perso di nuovo. Qualcosa che non avrebbe mai avuto – quei sorrisi, le strette sulle spalle, la gomitata nel fianco di uno o l’altro dei fratelli con cui era ritratto. E sapete qual era la cosa che faceva più male al Cheena, ancora immobile mentre Ryu si allontanava seguendo la sua utopia?
    Che non li conosceva. Neanche uno.
    Non conosceva l’uomo che sorrideva un po’ troppo nelle foto, come se non fosse abituato a posare. Non conosceva la donna con gli occhi alzati al cielo, e la bocca piegata in una smorfia divertita. Non conosceva il ragazzo biondo con le braccia strette alle sue spalle, ed a quelle di una mora che sembrava voler essere ovunque eccetto che lì. Non conosceva i due ragazzi davanti intenti a tirarsi i capelli, ma sorridere comunque all’obiettivo.
    Non conosceva la donna il cui selfie lo immortalava mentre tre adolescenti cercavano di insegnargli, male, ad andare in bicicletta. Non conosceva il resto delle persone che abbracciava in ogni maledetta istantanea, perché nessuno di loro faceva parte della sua vita.
    Nessuno.
    Alzò smarriti occhi scuri per posarli sulla nuca di Ryu. Aprì la bocca, richiudendola nel notare come fosse preso dalla conversazione con l’altro ragazzo - era nelle sue foto.
    Si guardò attorno, stringendo le dita al suo bottino. Dov’erano i suoi?
    Magari non lo volevano. Il destino, dopotutto, aveva scelto che percorressero strade diverse.
    Erano stati tutto il suo mondo.
    Li aveva persi scegliendo di partire, ed aveva continuato a perderli per ventidue anni. Ogni giorno. Si sentì – svuotato. Scavato, il respiro accelerato e gli occhi a inumidirsi. Li tenne testardamente bassi, i polpastrelli a tremare appena sulla pergamena scritta.
    Non era la sua calligrafia. Riconosceva il proprio tratto, in qualche modo, ma non era la sua calligrafia, e non c’erano i suoi soliti schizzi neri a decorarne i margini: era ordinata, pulita. Gli sembrò di notare le righe fatte con la matita perché riuscisse a scrivere dritto, cancellate a inchiostro asciutto per non sporcarla. Gli sembrò perfino profumasse di zucchero e uova.

    “Ciao, credo?
    È un po’ difficile scrivere una lettera a qualcuno che non conosci, anche se mi hanno ripetuto più volte che sarò io, e quindi in parte dovrei conoscerti sempre. Ma non è così, no? Non so come sei, né con chi sei cresciuto. In realtà, non so neanche se l’hai fatto? Magari non riceverai mai questa lettera? Vabbè, se stai leggendo significa che l’hai fatto, quindi ciao. Credo?
    Non ti conosco, ma vorrei tu conoscessi me, perché io al tuo posto vorrei farlo.
    Mi chiamo Toast Rivera Hansen! Nelle foto – alcune le ho scelte io, altre Focus, una in particolare Lottie; Abra ha cercato di cancellarsi, ma glielo abbiamo impedito! - ci sono Nicole Rivera e Sinclair Hansen, che sono i miei (nostri?) genitori. Poi ci sono Focus e Charlotte, che sono i fratelli più grandi, e Abra e Kadabra, quelli più piccoli. Murphy anche è nostra sorella, ma lei è molto più grande? Siamo cresciuti più con i nostri (miei?) nipoti, anche se pure loro sono più grandi di noi – Leia, Luke e Jyn – e insomma. Siamo tanti, come avrai notato. Abbiamo un sacco di zii e cugini, ma su quelli potrai indagare tu. Dovrebbe esserci una foto dove ci sono tutti tutti, ma se manca puoi spiarla dalle foto di Leia, lei secondo me ce l’ha!
    Non penso che ti chiederai perché sei partito. Cioè, oddio, magari sì. Ci hanno raccontato come sarà, e sembra piuttosto terrificante. Sì, probabilmente te lo starai chiedendo. Allora, sono (siamo? Sei?) partito perché … era la cosa giusta da fare. E perchè non volevi rimanere quello lasciato indietro. Perchè non eri certo che – ah, spero davvero che solo tu legga questa lettera – senza di loro avresti potuto andare avanti, e sarebbe stato alquanto triste morire da soli.
    E perchè devi prenderti cura di loro, ok? Hanno bisogno di te. E tu di loro, sempre. Lo farai? Anzi, no, non te lo chiedo: devi farlo. Li ami troppo per non farlo. Se ancora non lo fai, lo farai.
    Anche loro ti hanno amato, sai? Sempre. Ogni giorno. Di questo sono sicuro.
    Tieniceli stretti, ok? Non so come, ma so per certo che puoi farlo, perché sei me.
    E io non voglio perderli.
    Non farceli perdere, per favore.

    P.S. Spero tutto … ok, nella vita? Vi siete già trovati? Salutami Leslie! Kadabra dice che sto arrossendo, ed è un po’ vero. Ti prego non far leggere questa lettera a nessuno.
    P.S. Sei bravo a cucinare. Cioè, io lo sono, magari piace anche a te? Prova!
    P.S. (forse dovevo aggiungere delle P? Non ho mai scritto una lettera, questa è roba medievale) Abra dice di non disturbarla, quando la troverai, ma è una bugiarda, e dovrebbe smetterla di leggere quello che scrivo mentre lo facc-”


    Seguì la linea tirata d’inchiostro con il pollice. Potè quasi - sentire. Qualcosa.
    Alzò timidamente gli occhi sulla ragazza che aveva parlato, senza preoccuparsi troppo di nascondere le lacrime. Le indicò un volto nelle foto, uno più adulto, ma indubbiamente il suo. Con la voce più fragile e morbida del mondo, quella di un bambino che chiedesse il permesso di esistere, le domandò «io c’ero nella tua?» non spezzargli il cuore, e «loro lo sanno?» davvero, per favore, non spezzargli il cuore.

    pavor
    22 y.o.
    golden
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    kieran declan sargent
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    And the sun fades away
    And my heart beats the same
    Sapete cosa? Sarebbe potuta andare peggio. Kieran era una creatura ottimista per natura, ma alle volte persino il suo entusiasmo veniva trascinato a fondo dalla realtà. Eppure, non aveva ricevuto nessun pomodoro in faccia o era stata chiamata una ciarlatana, quindi la considerava una vittoria. Scese dal palco, perché l’idea di stare lì ancora per qualche attimo le provocava l’orticaria, preferendo collocarsi appena sotto. Si sentiva un po’ come quando, a sedici anni, aveva fatto volantinaggio ed era stata costretta a stare in mezzo alla strada a importunare le persone. Solo che quella volta avevano delle lettere con loro, e anzi di essere una strada aveva scelto un luogo un po’ meno pubblico. Il livello di disagio era lo stesso, in ogni caso. Aspettava con le mani intrecciate davanti al grembo che qualcuno si avvicinasse per eventuali domande, o qualsiasi cosa potesse essere utile. Era sicura di dare un’aria poco naturale, tanto che dovette ricordarsi di respirare. Aveva perso un’occasione per fare il cosplay di uno di quei robot sexy e distopici, cavolo. Ma c’era sempre la prossima volta! Chissà se Halley sarebbe stata d’accordo con la sua idea. Festa a tema apocalisse? Sentiva che andavano di brutto ultimamente. Cercò di essere discreta nel buttare l’occhio in direzione di Nicky e Sunday, ma non riuscì a trattenere un flinch quando si concentrò sulla figura del De13. Se ci fosse arrivata, non avrebbe esitato a strangolare Joe King. Non nascose lo sguardo di disappunto verso il Beaumont-Barrow, le sopracciglia leggermente increspate mentre cercava di ricordarsi la lista di buoni motivi perché non sarebbe stato consono fargli una lavata di capo in quel contesto. Preferì passare oltre, verso il ragazzo che aveva tenuto per ultimo perché fin troppo personale. Kieran non conosceva Madein Cheena, o almeno non a livello personale, così come il resto di quella che una volta era stata la sua famiglia. Trovava difficile approcciarli, impacciata e spaventata di compiere un passo falso e di farsi odiare, quindi aveva sempre optato per osservarli da lontano e aspettare il momento giusto. Faceva eccezione Caleb, ma il loro rapporto era sempre stato particolare. Quindi, era lecito che al momento si trovasse in difficoltà ad affrontare Fake. Avevano la stessa età e entrambi conservavano il ricordo di Hogwarts, seppur ben differenti, ma c’era qualcosa sotto la pelle del Cheena che lo rendeva diverso dai suoi coetanei. Non riusciva a identificarlo con esattezza, ma aveva la sensazione che ne avrebbe avuto tutto il tempo. Perché Fake si stava avvicinando a lei, e c’era una fragilità nel suo portamento che conosceva fin troppo bene. Era la stessa che aveva indossato prima di conoscere i suoi genitori, la stessa di cui ancora non si era liberata del tutto. «io c’ero nella tua? loro lo sanno?» Oh, Fake. Non era spesso che la Sargent si trovasse a rivangare il passato, perlomeno non il proprio, ben conscia che fossero due capitoli separati e indipendenti della propria vita. Non si riconosceva nella lettera di Leia, una nota discordante si rifiutava di rientrare in canoni ben precisi, eppure vi era una costante che nemmeno il tempo era in grado di limare. La Skywalker aveva dipinto la sua famiglia con una tale vividezza che le parole prendevano vita sulla pagina e quasi poteva illudersi di conoscere quegli sconosciuti. Kieran azzardò ad allungare una mano per stringere il braccio di Fake, l’unico gesto di conforto che poteva offrirgli in assenza di linee guida da seguire- fino a che punto poteva spingersi, prima di renderlo troppo? «certo che c’eri. c’era tutta la famiglia» sì, sarai sempre famiglia una tacita implicazione che Fake aveva bisogno di sentire comunque. Era a un passo dal citargli Lilo e Stitch, ma aveva deciso di non rivelare subito al Cheena tutti i suoi fantastici lati. Gli sorrise, gli angoli degli occhi a sollevarsi e a farsi più gentili, cercando nel suo piccolo di rassicurare il ragazzo «ma non tutti sanno, almeno non ancora. ci siamo io, te, murphy, nonno sin, mio fratello caleb» e gli innumerevoli zii e cugini che al momento non erano importanti, non era il caso sopraffare Fake «sto ancora lavorando sugli altri, sai, tipo tbd» un po’ come figurine in un album panini, Kieran li stava collezionando uno ad uno con i suoi tempi. Rimosse la mano dal braccio di Fake, le unghie ora impegnate a stuzzicare le cuticole dell’altra mano in un gesto nervoso «qualche volta ci troviamo la domenica a pranzo a casa di nonno- di sin, intendo. potresti venire, se vuoi! davvero una cosa tranquilla, per stare insieme» tentò un approccio totalmente chill, ma credeva di star fallendo nel modo in cui iniziò a vibrare come un diapason, entusiasta all'idea di avere tutti insieme per una volta «puoi portare anche un amico, se vuoi. se ti senti più a tuo agio. o no! cioè, non sei costretto a venire se non vuoi» aiuto, dov’era l’aiuto da casa quando serviva. Qualcuno che le tenesse la manina e le leggesse Wikihow ad alta voce.
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    sebastian 'bash' baker
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    secret destroyers hold you up to the flames,
    what do I get for my pain? betrayed desires && a piece of the game
    I suppose I'll show all my cool and cold;
    despite all my rage, I am still just a rat in a cage
    Bash era rimasto fedele alla sua indole, e aveva volentieri continuato a tenere lontano il resto della sala protetto da un’aura di indifferenza e nascosto dietro gli occhiali da sole – superflui all’interno del locale, ma necessari per sopravvivere –, per lo meno fino al terzo (o quinto? aveva perso il conto) bicchiere di whiskey; dopodiché si era concesso di voltare la schiena ed osservare finalmente la sala, gomiti poggiati sul bancone alle sue spalle e occhi pigri a passare in rassegna volti sconosciuti e che difficilmente sarebbero rimasti impressi nella memoria del ballerino.
    Solo la figura della ragazza mora che saliva sul palco aveva effettivamente catturato con successo la sua attenzione, abbastanza da decidere di rimanere ad ascoltare: nella peggiore delle ipotesi, si sarebbe sorbito una gara di barzellette o pessime esibizioni al karaoke — nulla che non avesse già affrontato, nel tempo, per un fine superiore.
    (Il fine superiore: trovare qualcuno discretamente brill* da accettare di offrirgli da bere fino a che anche Bash non avesse smesso di formulare pensieri coerenti; qualcosa che solo persone con il portafoglio bello gonfio potevano permettersi.)
    Se avesse saputo che quello non sarebbe stato affatto come il karaoke, forse, Bash avrebbe girato i tacchi prima ancora che la mora potesse sorridere, incerta, e dire «Buonasera! Benvenuti alla nostra umile festa»

    Santiago Goose – Thiago, per quei pochi amici che aveva avuto nella vita – non era mai stato un uomo altruista: tutto quello che aveva fatto, in ventinove anni, lo aveva fatto solo ed esclusivamente per se stesso. E si rendeva conto, mentre scriveva quelle poche righe affidate ad una lettera vagamente impersonale – che forse avrebbe superato a pieni voti un viaggio temporale, o forse si sarebbe persa per sempre nell’etere, chi poteva dirlo – che quella decisione non era diversa da tante altre prese con il fine ultimo di pensare per sé e per nessun altro.
    Non lo faceva per riavere indietro sua madre, della quale non aveva alcun ricordo e con cui non aveva condiviso mai nulla se non i tratti asiatici e la lunga lista di scelte sbagliate; non lo faceva per suo padre, conosciuto troppo tardi, in una fase in cui ormai l’affetto e la curiosità di Thiago erano stati annientati dal pessimismo cosmico nel quale aveva deciso di affogare; non lo faceva per quei pochi amici che aveva collezionato nel tempo, più rari di una mosca bianca; non lo faceva per cugini, o parenti, o vattela a pesca chi.
    Lo faceva per se stesso, perché per tutta la sua fottutissima vita aveva avuto solo ed esclusivamente quello; e se gli veniva data la possibilità ricominciare da capo, e rifare tutto, Thiago era più che felice di afferrarla al volo. Non gli sarebbero mancate, le persone che lasciava indietro; non lo preoccupava l’idea di dimenticare tutto e tutti e di non portare nulla di loro con sé nella nuova esistenza; aveva ventinove anni e di cose buone, nella vita, Thiago non ne aveva fatta nemmeno una. Non aveva una famiglia sua, non aveva figli e non aveva nessuno di speciale che potesse allungare la mano e cercare di trattenerlo lì, in un mondo la cui sorte era già stata scritta; non aveva conseguito successi in ambito lavorativo, e non aveva costruito nulla che valesse la pena di lasciare in eredità a qualcuno.
    Una volta varcato il metaforico portale nello spazio-tempo, di lui non sarebbe rimasto più nulla.
    Non fare lo stesso sbaglio”, si ritrovò a scrive e, sebbene avesse potuto cancellarlo con un tratto spesso di inchiostro o ricominciare tutto da capo, decise di lasciare quelle cinque parole a pesare sulla pergamena scura: scriveva a se stesso, da parte di se stesso — e poteva essere sincero e onesto almeno in quel caso. “Costruisci qualcosa per cui valga la pena stringere i denti e resistere; crea legami, vivi anziché limitarti a sopravvivere, cerca quella famiglia che ti sei sempre rifiutato di lasciar entrare. Ricordati che ‘Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto.’ So già che se sarai anche solo in minima parte come me, queste parole suoneranno vuote e finirai col capirle troppo tardi, ma posso sperare che riconoscerai in queste poche e necessarie righe una parte di te stesso, una parte di noi, e deciderai di dargli ascolto. Puoi continuare a proteggere te stesso, a vivere come ho fatto io tutta la vita, pur senza rimanere solo.
    Qualche ora dopo, al momento di affidare la lettera a qualcuno che l’avrebbe conservata e custodita fino al momento adatto, Thiago incolpò l’alcol per l’onestà e per la debolezza di aver ceduto a quelle parole; sapeva che, fosse stato lui a ricevere una missiva del genere, non avrebbe sprecato un solo battito di ciglia prima di accartocciarla e gettarla via.
    Poteva solo sperare che la sua seconda chance sarebbe andata meglio, e compiere quell’atto di fede conscio di non aver più nulla da perdere.

    Il ballerino non aveva prestato davvero attenzione alle parole di Kieran, o alle immagini che la special aveva creato intorno a loro per dare un po’ di colore e di sostanza alla storia che stava raccontando; ma nel momento stesso in cui aveva stretto la lettera consegnata dall’altra ragazza, il mondo si era ridotto tutto a quella stupida pergamena e alle parole che vi aveva trovato scritto sopra.
    Bash Baker era sempre stato una persona difficile, poco incline a lasciare entrare gli altri o ad accettare che potessero essere più di semplici mezzi per arrivare a fine giornata; la vita, purtroppo, non gli aveva concesso di imparare ad amare o come concedersi di vivere in maniera leggera, e spensierata.
    Quello che trovava scritto nella lettera, poteva benissimo averlo scritto lui stesso; e stando a quello che diceva quel Thiago, era proprio così.
    Non era una persona scettica, Bash, ma non era nemmeno così pronto a credere alle prime parole scritte da uno sconosciuto che, per quanto ne sapeva, poteva benissimo aver letto nella sua testa qualche informazione di troppo e averla usata poi per rendere tutta quella farsa un po’ più convincente. Ma a che pro? Non aveva soldi, il Baker, e quello lo escludeva già dalla lista delle possibili persone da raggirare e a cui fregare tutti i risparmi. Non aveva nient’altro da dare — non vedeva perché farlo finire vittima di uno scam organizzato nei minimi dettagli.
    Ma era bravo a leggere le persone, e a meno che non fossero tutti attori, quelli presenti al Platinum quella sera, stava davvero succedendo qualcosa.
    Leggeva stupore, sconcerto, e persino tristezza nello sguardo di alcuni; incredulità e scetticismo in quello degli altri. Il suo, invece, rimaneva imperscrutabile, nascosto dietro le spesse lenti nere. Tutti quelli a cui era stata affidata la lettera, dopo averla letta, avevano reagito: ognuno in modo diverso, certo, ma nessuno ne era rimasto inscalfito. Bash non sapeva cosa avessero trovato, nelle buste che gli erano state consegnate, ma aveva osservato qualcuno alzare una foto e metterla controluce, come a voler assicurarsi che fosse originale e non un bluff. Poteva capirli.
    Lui non aveva foto, non aveva ritagli di giornale e non aveva cimeli di famiglia nascosti in mezzo alle pagine della lettera; aveva solo mezza pagina, concisa e diretta, esattamente quello che avrebbe concesso lui se si fosse trovato nella stessa situazione di quel Thiago.
    Era sufficiente a fargli mettere tutto in discussione.
    Ma non l’avrebbe fatto lì, e di certo non avrebbe cercato supporto e sostegno in completi sconosciuti: loro, le ragazze, potevano anche conoscere lui ma il discorso non era a doppio senso e Bash non avrebbe mai affidato a qualcuno di estraneo i proprio dubbi, e le proprie incertezze.
    Avrebbe affrontato quella nuova verità come aveva fatto in tutti gli altri momenti sconvolgenti della sua vita: da solo.
    Le parole di Thiago gli risuonavano nella testa, ma sarebbe passato ancora del tempo prima che riuscissero ad attecchire: lasciare entrare gli altri non era mai stato il suo forte, e avrebbe dovuto trovare certe risposte da solo prima di convincersi che fosse tutto reale.
    26.06.03
    dancer
    wafiak.
    bullet with butterfly wings
    the smashing pumpkins



    SPOILER (click to view)
    è stato un piacere, grazie, bash non parla con nessuno (nella sua hans era, cit): prende la sua lettera e se ne va.
     
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    I'm starting to think our luck could change.
    Some people fear the end but I carry it,
    it's in my pocket, it keeps me safe
    «cos'hai contro le feste a tema, scusa?»
    Isaac, quanto tempo hai? La lista era molto lunga.
    Ma non lo disse, lo stratega, e fece la buona grazia ad entrambi di limitarsi ad inarcare un sopracciglio che diceva chiaramente: “tutto”, poco più di un banale eufemismo. Suo fratello avrebbe dovuto saperlo che Reese non era tipo da feste — a tema o generali che fossero, non faceva differenza; Reese non era fatto per gli eventi sociali, detestava le attenzioni di gruppi con più di due persone e, più in generale, non sapeva mai cosa dire o cosa fare quando immerso in un mare di gente che a malapena conosceva. Non era estroverso, non era socievole, non era simpatico; tendeva a stare in disparte e osservare tutto e tutti, criticando nella sua testa pressoché qualsiasi cosa, dagli abiti degli invitati agli stralci di conversazione che riusciva a captare, alle decorazioni e persino il cibo.
    L’unica cosa su cui non aveva mai nulla da ridire era l’alcol.
    In quanto al look del fratello, di commenti (poco carini) ce ne sarebbero stati molti ma il Withpotatoes rimase in silenzio, rivolgendo all’orrida collana di fiori solo un’occhiata bieca.
    «potresti smettere di insozzarmi il bar con la tua negatività?»
    Ingrato di un fratello. «Il bar va avanti grazie ai miei soldi.» Rude, ma onesto; checché ne dicessero Isaac o Niamh, Reese era il loro miglior cliente.
    (Lui e qualche altro alcolizzato di paese, ma a differenza loro lo stratega era disposto a pagare fior fiori di galeoni per le bottiglie delle mensole più alte.)
    «invece di lagnarti, mi sostituisci un attimo? grazie bro ti vu bi.»
    Fu lesto ad allontanare la mano del Lovecraft, con un gesto secco e infastidito, e a lanciare via lo straccio sudicio che aveva avuto l’ardore di gettargli sulla spalla fasciata dal completo antracite. «scordatelo.» L’unico bicchiere che Reese avrebbe riempito, sarebbe stato il suo.
    E infatti, si allungò oltre il bancone per afferrare la bottiglie lasciata incustodita da Isaac, e ne approfittò per versarsi da bere mentre sul palco, Kieran Sargent iniziava il suo spettacolo.
    «Buonasera! Benvenuti alla nostra umile festa»
    Mandò giù l'intero contenuto del bicchiere, dando le spalle al palco e alla special, poco interessato a cosa avesse da dire o alle motivazioni di quella festa: lui, un invito, non lo aveva ricevuto eppure nessuno aveva pensato di cacciarlo – o peggio, non farlo entrare – perciò ne deduceva che non fosse così esclusiva come volevano far sembrare.
    «e che festa sarebbe senza una sorpresa?»
    Uhm, una che Reese avrebbe apprezzato leggermente di più? Non gli piacevano neppure le sorprese. O i regali. O le sorprese alle feste. O le feste a sorpresa.
    Non gli piaceva la gente, fine.
    La spiegazione sul film, Reese, la balzò a piè pari, annegando invece i suoi pensieri nel liquido ambrato — molto più interessante di quanto la mimetica avesse da dire. Alzò lo sguardo, suo malgrado, solo quando intravide nella parete specchiata dietro il bancone, la sala del Platinum cambiare sotto i suoi occhi, i contorni farsi meno nitidi e nuove immagini ad occupare lo spazio intorno ai presenti. Con un'occhiata veloce al bicchiere, si domandò se avesse bevuto già così tanto da avere le allucinazioni.
    «malattie senza cura e interminabili guerre hanno devastato il mondo—» la voce della Sargent si perdeva, il tono a farsi più ovattato e le parole pigre, le vocali allungate, evocatrici di altre immagini, che prendevano forma solo dietro le palpebre strette dello stratega. Non si era reso conto di averle serrate, indurendo la mascella e stringendo la presa contro il bicchiere; un dolore sordo alle tempie lo costrinse a scuotere la testa, che Reese prese fra le mani per sopportarne il peso improvvisamente aumentato a dismisura.
    C'era odore di morte, qualcosa di familiare per Reese anche se non sapeva dire perché — forse apparteneva a quella vita che non ricordava più, e che stando agli occhi tristi di Idem e alle sedie vuote intorno al tavolo, i Withpotatoes avevano conosciuto un po' troppo da vicino. Ma c'era anche altro, un sorriso catturato dalla filigrana color seppia di una foto molto vecchia, un sorriso che Reese sentiva di conoscere ma che non riusciva ad associare a nessun volto; non vedeva altro, solo labbra e denti perfetti, e le fossette agli angoli.
    Si costrinse ad aprire gli occhi, combattendo contro quello che, ne era certo, erano memorie che tentavano di affacciarsi e lasciare un segno del proprio passaggio, della propria esistenza. Afferrò la bottiglia e riempì nuovamente il bicchiere, il cui contenuto trangugiò con un solo sorso.
    Kieran stava continuando a parlare, ma le sue parole si confondevano con altre che Reese non ricordava, eppure sapeva di aver letto da qualche parte, qualche tempo prima.
    «e se vi dicessi che un gruppo di maghi e special avessero trovato un modo per tornare nel passato?»

    (“Non per loro, per lei. Può essere ancora salvata.”)

    «hanno radunato dei volontari da mandare indietro– ogni memoria del futuro cancellata– lettere scritte dagli stessi volontari– spedite– passato– insieme a loro»

    (“Cosa vuoi che ti dica, il vero motivo morirà con me. Ti basta sapere che ho scelto di farlo, e sto dando una seconda opportunità ad entrambi.”)

    «…siete voi quei volontari…»

    (“Missione suicida? Sì, quasi certamente; ma le cose facili non mi sono mai piaciute.”)

    «–capisco che non sia un concetto particolarmente facile da digerire»
    Non si era reso conto di aver riempito il bicchiere, di nuovo, o di averlo stretto con così tanta forza fino a che non sentì il liquido pizzicare le ferite generate dal vetro che aveva inciso il palmo serrato. Imprecò, usando lo straccio lasciato indietro da Isaac per asciugare whiskey e sangue, mentre lo sguardo ghiaccio trovava la figura di Halley che consegnava lettere ai presenti.
    Un’altra fitta lo costrinse a piegarsi su di sé, accartocciato come quelle memorie che credeva cancellate e irrimediabilmente perse e che, invece, cercavano con forza estenuante di emergere attraverso la cortina di fumo e oblio in cui l’incidente li aveva gettati.
    La testa minacciava di esplodere.
    Trovò a fatica il profilo dello sgabello su cui era rimasto seduto fino a poco prima – quand’era scivolato giù? – e vi si aggrappò come se fosse un salvagente in mezzo ad un mare di incertezze e confusione.
    Era successo qualcosa, qualcosa che aveva già vissuto, e voleva sapere cosa.
    Allungò la mano per afferrare il braccio di Halley, la più vicina, e pretendere che gli desse spiegazioni; ma la voce era incastrata in gola, insieme a tutte quelle parole che si erano accavallate le une alle altre e che sgomitavano per prevalere. «dov’è–» la mia? Chissà se la Oakes avrebbe erroneamente dedotto che la mancanza di lucidità nello sguardo di Reese, e il sudore ad imperlare la fronte, e l’urgenza nel suo respiro affannato, fossero colpa dell’alcol e non dei ricordi che, triggerati, avevano ripreso forma e colore in maniera inaspettata.
    Voleva la sua lettera; eppure sapeva già, ancora prima di ricevere una risposta dalla bionda, che l’aveva già avuta, e l’aveva persa. Come un sacco di altre cose, in quegli ultimi sette anni.
    23.12.95
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    mh, in teoria ferma halley per chiedergli dov'è la sua lettera (.) ma non davvero, quindi facile che ad un certo punto sia andato via, barcollando ma pur sempre sulle sue gambe
     
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    Doveva essere uno scherzo. Una candid camera.
    Ryuzaki si voltò per cercare le telecamere sopra di lui, oltre le sue spalle, ma non trovò niente se non sguardi confusi e lacrime a scorrere sulle guance in rivuli copiosi. Oh cristo, in cosa si era cacciato. «ti ho mai dato l'impressione di essere uno che fa scherzi?» con quella faccia da cazzo? No, assolutamente no. L’unico scherzo di cui era stato vittima insieme a Grey era stata la Siberia, e non era finito per niente bene. Era diventata un’altra persona, strappato della magia che gli era appartenuta per ventun anni per diventare un- no, non un mostro ma qualcosa che non riconosceva quando abbassava le mani e vedeva le ombre danzare sui polpastrelli. Arricciò le labbra, una smorfia a increspare i lineamenti del giapponese «no, affatto» davvero, la persona meno divertente che conoscesse, ed era amico di Godric Osborne. «non so cosa sia» si trattenne dal sottolineare che fosse una fotografia, qualcosa in cui era sicuro si fosse imbattuto nei suoi brevi anni di vita «è una foto. una foto di famiglia. con la mia faccia e la tua» e quella di suo cugino, e di Darden, e di Jericho ma era un dettaglio che per il momento non voleva nemmeno considerare, già sopraffatto com'era. Abbassò poi lo sguardo sulle figure, le iridi scure ad indugiare su qualche attimo su un volto che non gli apparteneva più «o almeno, la mia faccia prima della transizione» ma non erano affari di Grey, quindi non si sprecò a raccontargli la storia della sua vita. Forse in un’altra vita l’avrebbe fatto, ma non erano le stesse persone che si riflettevano sulla pellicola lucida. Rilesse le parole bianco su nero, incredulo e maledicendo quel tiro mancino del destino- c’erano cose, in quella lettera, su cui non si poteva permettere di soffermarsi in quel momento. Una cosa era certa, però, ed era che quel ragazzo era irrimediabilmente legato alla sua vita, sangue o meno. «quello, è chiaramente un falso. e dubito che qualsiasi cosa sia scritta in questa lettera possa cambiare qualcosa» sollevò entrambe le sopracciglia, il Kageyama, gli occhi a piegarsi in un’espressione quasi divertita. Stava cedendo all’isteria, lo sentiva. «e perché qualcuno dovrebbe prendersi la briga di falsificare questa roba? cosa ci guadagnerebbero?» di certo, i Kageyama avevano ben poco a che fare con quella storia, avevano passatempi migliori di stare a comporre un collage di fotografie «a me piaceranno le trame fantascientifiche, ma te sei un fan delle teorie del complotto» andava detto ed è stato detto. Buttò poi un'occhiata alla lettera che Grey stringeva ancora in mano, piegando il capo nella sua direzione in un silente invito «a questo punto, se non ci credi che ti costa leggerla?» DAI VIECCE CODARDO. Magari era tutto uno scherzo, lo sperava vivamente.
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    Ok, una stabilito e chiarito che Grey non fosse un tipo simpatico – onde evitare di dare strane idee e creare aspettative nelle altre persone – il Hwang s’era aspettato che Ryuzaki riprendesse la sua lettera, e la sua foto, e levasse le tende.
    E invece no, era ancora lì, fastidioso e petulante, con i suoi «è una foto. una foto di famiglia. con la mia faccia e la tua» privi di senso; con il viso di Grey, che sorrideva dalla pellicola; e quello, a quanto pareva, di un Ryuzaki che Grey non aveva conosciuto neppure in quella vita; e il viso di Darden, di Jericho, sebbene entrambi presentavano qualche ruga in più; il volto di quel parassita che aveva occupato il suo appartamento durante la permanenza del cuoco in Siberia, e non l’aveva più lasciato.
    Nulla aveva senso.
    Perciò non commentò nulla; non i visi, non il fatto che Ryuzaki avesse affrontato un percorso del quale, francamente, a Grey non interessava, non il resto. Era fermamente convinto che fosse tutto falso, sebbene la domanda di Ryuzaki avesse senso, per quanto gli costava ammetterlo: «e perché qualcuno dovrebbe prendersi la briga di falsificare questa roba? cosa ci guadagnerebbero?» Con lui, probabilmente potevano cercare di screditarlo agli occhi della Yakuza — inventare nuove identità, segreti, un passato sconosciuto… che ne sapeva Grey, non era mai la mentedietro i piani, lui si limitava a portarli a termine; quanto invece a se stesso, non trovava neppure un motivo per cui qualcuno dovesse davvero prendersi la briga di falsificare una foto, o scrivere una lettera per lui. L’unica possibilità era che fosse stato Hajoon a contattarlo in quel peculiare modo, ma sentiva non fosse così — per quanto, comunque, desiderasse crederci; erano mesi che non sentiva l’uomo, quasi un anno, e la pazienza di Grey stava rasentando il limite.
    Voleva risposte.
    Il pugno, come sentendolo, si chiuse istintivamente sulla missiva che stringeva fra le dita: che fosse quella la risposta che cercava? Ne dubitava— ma se fosse stato così? Non credeva molto ai se, o ai forse, però in quel caso c’erano troppe prove a suo sfavore.
    «a me piaceranno le trame fantascientifiche, ma te sei un fan delle teorie del complotto» Sollevò pigramente un sopracciglio, rivolgendolo al maggiore: era il meglio che sapesse fare? «a questo punto, se non ci credi che ti costa leggerla?» «perché insisti tanto?» Non gli costava nulla, in effetti, avrebbe potuto benissimo leggerla e dimostrare al Kageyama che avesse ragione lui, che fosse tutto finto, che si fosse lasciato fregare da qualche pixel ricostruito da mano esperta e due parole suggerite da chatgpt.
    E se invece si fosse sbagliato? Se avesse aperto la lettera, e avesse trovato la stessa foto di Ryu? Gli stessi volti, alcuni più familiari di altri, pronti a sorridergli o a squadrarlo con cipiglio indefinibile?
    Grey non aveva mai avuto una famiglia che non fossero Hajoon e gli altri bambini cresciuti e manipolati dal coreano — non era certo di voler iniziare proprio in quel momento ad averne una.
    Liberò lo stesso la pergamena dalla morsa inutilmente stretta, una parte di lui a domandare perché avesse così paura di stracciare la carta e affrontare qualsiasi cosa ci fosse all’interno se era così sicuro di sé. Già, perché? La rigirò tra le dita, osservando ancora una volta il nome sula busta, quel Psy Cho che non riconosceva, che non gli diceva nulla. «Sulla tua cosa c’è scritto?» Non avrebbe saputo dire cosa l’avesse spinto a domandare, eppure non fu abbastanza veloce dal serrare le labbra e tacere quella stupida domanda.
    Scosse la testa, un chiaro invito all’altro di lasciar perdere, e finalmente strappò la carta.
    La prima cosa che notò fu la presenza non di una foto — di molte foto. Le tirò fuori, senza guardarle, tenendole strette fra le dita mentre tirava fuori il resto del contenuto. C’erano una lettera – come prevedibile – fortunatamente però di poche righe; c’erano disegni che sembravano fatti da un bambino di tre anni e che ritraevano figure irriconoscibili per il Hwang; c’erano… «delle ricette?» Decisamente non quello che si era aspettato di trovare in quell’imitazione scrausa di Mystery Box, ma senza alcun dubbio la parte più interessante. Le rigirò tra le mani, ignorando i sorrisi e i visi che lo osservavano dalle foto, e domandandosi perché un ipotetico se stesso del futuro avrebbe dovuto mandare al se stesso del passato la ricetta del “polpettone di natale”. Confuso, mostrò il ritaglio di carta al Kageyama, schiaffandoglielo in mano. «Gordon Ramsey manda i suoi saluti.» Contento ora?
    Alzò poi la manciata di foto che aveva trovato, tenendo per ultimo la lettera striminzita. «Vuoi anche le mie?» Tanto cosa doveva farci; vedeva già gli stessi volti, quei visi che conosceva già in quella vita e che non capiva come fosse possibile avesse conosciuto anche in un’altra: erano stati una famiglia? Assurdo, impossibile. Grey non aveva una famiglia — non ce l’aveva mai avuta «Non so cosa ti aspettavi, Ryu.» Non lo sapeva davvero.
    16.02.2002
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