Oh, it's more dangerous than you know

[ @ better run | marcus ft. amos ]

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    aveva organizzato quella serata nei minimi particolari, Marcus.
    con largo anticipo, in modo da non lasciare niente al caso.
    anche se si trattava solo di un lavoro di copertura, ci teneva a fare le cose per bene; quel cognome che si portava appresso, l'empatico, voleva tenerlo pulito il più possibile. ci aveva messo anni a cancellare il ricordo che la gente aveva di suo padre, un uomo disturbato e ridotto ad essere l'ombra della persona che era al principio, disposto a buttare al vento carriera e amor proprio per seguire.. cosa? paranoie? un tarlo che aveva scavato così a fondo nel cervello da rendere ancora più facile a quel proiettile di fargli esplodere il cranio.
    c'era chi lo aveva guardato con compassione, per un po.
    povero bambino, pensavano, cercando di immaginare cosa avesse provato mentre quell'uomo ormai al limite gli puntava una pistola contro e poi la rivolgeva a se stesso; tentando, inutilmente, di mettersi nei suoi panni quando il colpo a bruciapelo gli aveva quasi bucato i timpani, stampando il cervello del padre sulla parete del garage. ma quello sguardo, Marcus, non l'aveva mai sopportato. e aveva fatto di tutto perché dimenticassero, perché l'immagine di se stesso da ragazzino seduto in una pozza di sangue fosse cancellata dalla mente di chiunque.
    tranne che dalla sua.
    «tuo padre ha fatto un buon affare.» le iridi cobalto incontrarono per un istante quelle del giovane uomo al suo fianco, leggendo nelle pozze scure qualcosa che andava ben oltre l'argomento in questione; non era un caso, se si trovavano insieme sulla soglia del Better Run, né lo era il fatto che il vecchio non fosse con loro. esulava un po dal suo lavoro — vendere armi a chi non sapeva nemmeno cosa farsene — ma preferiva di gran lunga accettare un invito dal figlio del proprio cliente piuttosto che creare una situazione spiacevole «ne sono convinto. spero valga lo stesso anche per me» questa volta non si fermò a guardarlo.
    avrebbe potuto cancellare qualunque pensiero gli stesse girando vorticosamente nella testa con un solo tocco delicato sulla spalla, sfruttando un potere che fino a quel momento aveva imparato a nascondere; una precauzione ormai inutile.
    ma non voleva.
    usarlo, manipolare le sue emozioni.
    faceva già fatica a tenere sotto controllo le proprie, Marcus, senza doversi fare carico anche di quelle degli altri.
    «fossi in te non ne sarei così sicuro» una frase che diceva già tutto, seppur condita con un sorriso appena accennato sotto un velo di barba curata. l'altro non avrebbe capito quanto era serio, e per il momento andava anche bene così: una serata come le altre, con la solita conclusione. lo avrebbe accontentato nel nome del quieto vivere, e poi ciascuno per la sua strada.
    se non fosse stato.
    per.
    «e figurati.»
    fucking amos hamilton.
    che di tutti i locali di Londra doveva scegliere proprio quello per intrattenere chiunque fosse seduto al tavolo con lui; non il tipo di persona che avrebbe immaginato l'howl, ad essere sinceri. non poteva sapere quanto stretto fosse il legame del ragazzo con la proprietaria del BR, e che le probabilità di trovarlo a bazzicare da quelle parti fossero alte proprio per quel motivo: sapeva solo si trattasse di una coincidenza scomoda.
    ma perché doveva essere scomoda?
    nella frazione di secondo tra quel pensiero e la mano di Tobias (si chiamava così?) a sfiorargli il braccio, Marcus non ebbe il tempo di darsi una risposta; ma bastò comunque per rendersi conto che non avrebbe dovuto considerarlo un problema. erano solo due persone che si conoscevano di vista, ammesso e non concesso di voler aggiungere anche un proiettile all'equazione.
    e un paio di limoni.
    tutto nella norma.
    «qualcosa non va?»
    era bastato quell'unico fremito nella forza, per far dimenticare all'empatico la presenza del giovane al suo fianco; non proprio un segnale confortante. ma fu comunque calmo e misurato nel ruotare il capo in direzione della voce, le iridi blu a cercare il volto di Tobias sotto le luci soffuse del locale. almeno sulla propria facciata esteriore poteva sempre contare — non lasciava trasparire abbastanza, Marcus, portando le persone a farsi sempre l'idea sbagliata. quella che tutto andasse a meraviglia, per esempio: prima ancora che il trentaquattrenne potesse rispondere, i muscoli dell'altro si erano già rilassati «credevo di aver visto mia sorella. se mi avesse seguito non sarebbe nemmeno così strano» una piccola bugia che era, almeno in parte, la sacrosanta verità.
    sharyn aveva il potere di spuntare fuori dalle fottute pareti, quando si trattava di controllare da vicino con quali esemplari se la facesse suo fratello «ti dispiace trovare un tavolo? torno subito» e gli indicò l'insegna luminosa posta sopra l'ingresso delle toilets, la testa leggermente reclinata verso la spalla. poi ne seguì la figura con lo sguardo, mentre l'uomo si allontanava per cercare un posto (appartato? da come studiava i divanetti lontano dall'ingresso dava proprio quell'impressione), finché non fu abbastanza sicuro non si sarebbe voltato di nuovo nella sua direzione. solo a quel punto si mosse, Marcus, una mano infilata nella tasca dei pantaloni e l'altra a sistemare distrattamente il nodo alla cravatta.
    non aveva nessun motivo di farlo.
    e lo fece comunque.
    passando davanti al tavolo di Amos senza fermarsi, un passo dopo l'altro. poteva lasciar correre; fingere di non averlo visto come probabilmente era successo al minore. la situazione non era nemmeno lontanamente simile alla precedente, l'hamilton non rischiava di prendersi un colpo in testa (forse) a causa della sua pessima abitudine a mettersi in mezzo.
    eppure.
    l'occhiata che lanciò al biondo, un sopracciglio lievemente inarcato mentre passava oltre e si avviava verso i bagni, sperava fosse sufficiente. voleva solo mettere le cose in chiaro, Marcus — anche se con tutta probabilità non sarebbe stato necessario. forse, cercava solo una scusa per rimandare l'inevitabile, quell'obbligo ad indossare la solita maschera perbenista che gli faceva concludere così in fretta un affare quando di mezzo c'erano fucili d'assalto e semiautomatiche fabbricate in Germania.
    una distrazione, mettiamola così.
    e nel bagno attese, l'empatico, dando le spalle al proprio riflesso nello specchio per appoggiarsi contro il bordo squadrato del lavandino, le dita della mancina a sfiorare la lieve protuberanza sotto la giacca leggera del completo; all'altezza del fianco destro, dove teneva la fodera del Maserin Tusk di fabbricazione russa, un gentile dono da parte del padre di quello stesso giovane intento a cercare il posto migliore per sedersi al buio e guadagnarci una paccata.
    ah, beata gioventù.
    «come va la spalla?» chiese, unprompted, senza uno straccio di saluto, quando la porta d'ingresso si aprì per poi rinchiudersi, e senza bisogno di volgere la sua attenzione in quel preciso punto Marcus fu sicuro si trattasse del mago.
    fosse stato qualcun altro la situazione sarebbe diventata strange forte molto rapidamente.


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    A questo punto, la domanda nasce spontanea. Una domanda del tutto legittima.
    Amos, ma passi la tua vita nei pub?
    Era una coincidenza -questione di pessimo tempismo e abitudini ormai consolidate- che in qualche modo gli astri si allineassero e venisse sorpreso in quel particolare momento della sua vita. Era un ottimo padre di famiglia e un lavoratore diligente, poteva giurarlo. Non passava le serate con la bocca attaccata al collo di bottiglia a persuadere l’ultima goccia di alcol a scendere in gola -e no, non si trattava di un eufemismo. Oltre che essere un eccellente genitore, era anche una persona che prendeva a cuore il benessere economico del locale della sua migliore amica e che si preoccupava di contribuire a riempire la cassa. L’Hamilton aveva tendenze del Nord, e insisteva a pagare anche quando avrebbe potuto bere a scrocco. Il fatto che Run l’avesse abbandonato al tavolo per scomparire in antri sconosciuti del Better Run era spiacevole, ma sospettava che fosse ora di cibare Gemes. Voci di corridoio raccontavano che l’uomo era stato relegato in una stanza a pelare patate per produrre la vodka, e che ormai vedesse raramente la luce del sole. Ma Amos non poteva biasimare la Crane: l’alcol era importante, a volte anche più delle relazioni interpersonali. Annoiato, abbandonato e dignitosamente brillo era caduto nel vizio che da qualche mese a quella parte non riusciva a scrollarsi di dosso: lasciare vagare lo sguardo dove non avrebbe dovuto. Una delle ultime volte gli aveva regalato un proiettile alla spalla, e un portafoglio (quasi) rubato. Alla sua età sarebbe dovuto essere più sveglio dal riconoscere certi pattern ed evitarli, ma non se l’era presa ancora abbastanza in culo da evitare. Non in quel senso. Beh, anche.
    Prese un sorso del boccale di birra, rimpiangendo subito dopo di non aver preso qualcosa di più forte. Aveva bisogno di qualcosa che gli facesse scivolare l’ansia sociale addosso e che gli consentisse di smettere di pensare per qualche attimo. Sfortunatamente per lui, l’universo sembrava avere altri piani. Fu impossibile da ignorare, quella figura familiare e dagli asset (ifykyk) ben distinti. E si sarebbe limitato a seguirla con lo sguardo, piedi ben saldi al pavimento e una volontà di ferro, se non si fosse voltato a lanciargli un’occhiata. Per un breve, terribile momento l’Hamilton pensò che vi fosse qualcuno dietro di lui. Invece, contro ogni prospettiva, Marcus Howl aveva deciso di torturarlo anche quel giorno. Ingenuamente, Amos aveva pensato che non avrebbe avuto una seconda occasione per sparare il suo colpo. Gli era bastata una prima volta, quando era abbastanza sicuro di aver rischiato di avere le mani del maggiore addosso, ma non come sarebbe piaciuto a lui. Quelle parole che sapevano di minaccia ma lasciavano intendere un sottotono ben diverso, che non riusciva a decifrare del tutto, ma che lo attiravano come una caramella con un bambino. Forse aveva dei problemi, era pronto a riconoscerlo. E tanto confessò a se stesso quando finalmente si alzò, debole alla carne come un uomo qualsiasi nel ricordare le parole dell’Howl Scordati tutto il resto. Almeno per stanotte. Amos credeva nelle seconde occasioni, sperava che valesse lo stesso per il maggiore. «Come va la spalla?» quelle, le prime parole che Marcus gli rivolse. Non un saluto, non l’accenno di quelle iridi cobalto a scivolare sulla sua figura- ma andava bene così, avrebbe fatto in modo di non essere ignorato ancora a lungo. Indugiò per un momento, la lingua a bagnare il labbro inferiore in un gesto nervoso. L’Hamilton si domandava cosa ci sarebbe voluto per sentire quelle mani a stringersi sulla sua gola per una seconda volta. «Avevi ragione, te la cavi bene con la mani» poggiò le spalle alla parete opposta a dove si trovava l’Howl, le mani a scivolare nelle tasche dei jeans «è guarita bene» offrì poi come spiegazione, una fune a cui aggrapparsi nel caso non si trovassero sulla stessa lunghezza d'onda. Se fosse stato più sfacciato, si sarebbe offerto di fargliela controllare ma per sua fortuna il sangue fluiva ancora al cervello. «Mi hai fatto venire qui solo per chiedermi della mia spalla?» inarcò un sopracciglio chiaro, le parole a danzare sulla lingua quasi divertite, amused, ma con un sottotono che sperava Marcus cogliesse. O forse l'uomo con cui si trovava era il suo partner, e Amos era sul punto di commettere un passo falso non indifferente.
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    «Avevi ragione, te la cavi bene con la mani» fino a quel momento lo sguardo di Marcus Howl era rimasto concentrato su un interessantissimo punto fisso: una piastrella scheggiata proprio al centro della parete che gli stava di fronte. per qualche motivo, (disturbo ossessivo-compulsivo, quasi certamente), quell'unica crepa sottile nella ceramica lucida sembrava essere in grado di catalizzare tutta l'attenzione dell'empatico.
    almeno finché Amos non decise di aprire bocca. con una frase, un sottointeso, che non avrebbe dovuto sorprenderlo eppure lo fece comunque — l'audacia sprezzante (o disperata) dei giovani era davvero inesauribile.
    now you've done it.
    you've make me turn my chair

    «avevi qualche dubbio, amos?» quasi pigro, marcus, nel sollevare un sopracciglio e rivolgere finalmente le iridi blu scuro sulla figura del ragazzo; cercando, solo ed esclusivamente con gli occhi, una conferma a quanto appena detto dall'altro. avrebbe potuto alzarsi e ridurre le distanze, godere brevemente del suo lieve sobbalzare quando avesse premuto i polpastrelli attorno alla cicatrice assicurandosi fosse guarita a dovere.
    ma sarebbe stato come gettare benzina sul fuoco, e non poteva permetterselo.
    «Mi hai fatto venire qui solo per chiedermi della mia spalla?» domanda interessante quella. con molteplici risposte, un range molto vario tra menzogna e verità: poteva mixare le due cose, il trentaquattrenne, e scegliere quella che gli tornava più utile. una che gli permettesse di mantenere le distanze, tanto per cominciare — perché il tono dell'hamilton suggeriva, di nuovo, che avrebbe voluto tutto tranne uno spazio.
    «pensi che abbia qualche secondo fine?» l'accenno di sorriso a piegare gli angoli delle labbra non era per forza un buon segno; si mosse appena, il maggiore, mantenendo la sua posizione senza scomporsi troppo, iridi cobalto a passare lentamente dal volto di Amos al proprio grembo. non perché avesse bisogno di distogliere lo sguardo: non si era mai concesso di perdere uno staring contest, fosse con i vivi o con chi era destinato a morire. il ragazzo di fronte a lui apparteneva ancora alla prima categoria, e qualcosa suggeriva all'howl che se quella fosse stata una gara a chi cedeva prima probabilmente l'avrebbe avuta vinta lui — tutto dipendeva da quanto volesse rischiarsela.
    con un gesto fluido fece passare l'unico bottone della giacca scura attraverso l'asola, infilando la mano all'interno dell'indumento per ritirarla con qualcosa di voluminoso stretto nel palmo «in parte hai ragione. sto approfittando della tua presenza per rimandare i miei doveri» il coltello, con la lama ancora infilata nel fodero, lo posò delicatamente accanto a sé, sulla superficie piana del lavandino. forse non era la risposta che Amos stava aspettando; probabilmente sperava in qualcos'altro. qualcosa che, se vogliamo proprio parlare fuori dai denti, Marcus non era sicuro di potergli dare.
    volere, quello era un altro paio di maniche.
    «ho un affare da concludere» perché di quello si trattava, in fondo. il distacco, l'howl, ce l'aveva nel sangue: dissociarsi, mantenendo al contempo il controllo, era ciò che l'aveva tenuto in vita fino a quel momento — e nell'attimo in cui aveva abbassato le difese (fucking mitchell), era morto. come volevasi dimostrare «prendo tempo. tu hai altri impegni?» chiese infine, un sopracciglio ad inarcarsi leggermente mentre con un colpo di reni abbandonava il lavandino e raddrizzava la schiena. il fatto che il biondo fosse da solo al suo tavolo la diceva lunga, ma magari aspettava qualcuno; quando gli aveva sparato, nel vicolo, non è che proprio fosse li a farsi un solitario (he thought, per niente passivo aggressivo). non inchiodò il ragazzo alla parete quando, con pochi passi lenti e apparentemente svogliati, ridusse le distanze a poco più di un sospiro, ma rimase abbastanza vicino da chiudergli le più dirette vie d'uscita.
    probabilmente non era giusto.
    non gli importava abbastanza che lo fosse.
    aveva lottato così tanto, e così a lungo, per tenere a bada i propri sentimenti, da non avere più spazio per quelli degli altri; non voleva nemmeno controllarli, per quanto sarebbe stato facile. probabilmente troppo — visualizzando ciascuna emozione come la manopola di un amplificatore: doveva solo girarla. alzare il volume, abbassarlo, eliminare ogni rumore. solo che non gli piaceva. l'operazione, per quanto semplice, richiedeva un passaggio precedente; pretendeva di riconoscere i battiti del cuore, classificarli, dare loro un nome a seconda della velocità e del dolore. poteva costringere una persona a provare rabbia, cruda e cieca, ma prima doveva viverla sulla sua pelle, riconoscerne i confini, impararne a memoria dettagli e imperfezioni.
    odiava quel momento con ogni fibra del suo essere.
    la paura, Marcus, era in grado di suscitarla in altri modi.
    il desiderio, a giudicare da come lo guardava Amos, anche.
    il problema, se così lo si voleva definire (e nella mente dell'howl una vocina suggeriva in effetti lo fosse), era la reciprocità di quel desiderio. un bisogno, che marcus non aveva tenuto in conto finchè non ci si era trovato davanti, leggendolo nei propri occhi riflessi nello specchio prima ancora che in quelli altrettanto chiari del giovane. quanto male potesse fare prendersi quello che voleva, questo il sicario non riusciva ancora a stimarlo: come qualunque calcolatore che si rispetti, odiava le incognite «secondo te—» si fece un po' più vicino all'altro, la testa reclinata verso la spalla così da riequilibrare la differenza di altezza; un respiro ad infrangersi appena sotto l'orecchio destro di amos, senza però sfiorare la pelle con le labbra. non ancora. tenne anche le mani, entrambe, posate lungo i fianchi, le dita a giocherellare con le tasche dei pantaloni perfettamente stirati «tra quanto tempo il mio accompagnatore inizierà a farsi due domande e verrà a cercarmi?» e non è che stesse chiedendo, nemmeno troppo tra le righe, quanti minuti amos credeva avessero a disposizione per sbattersi amichevolmente contro il muro — figurarsi.
    ne cercò lo sguardo, iridi cobalto in quelle chiare dell'hamilton, in attesa.
    trovando ben più di qualcosa.
    senza sapere, per una volta, cosa aspettarsi.
    era pericoloso ed era stupido, e sarebbe stata l'ultima volta.
    sentiva già la mancanza del coltello tra le dita, ma anche per quello poteva trovare rimedio: bastava solo che amos gli desse una scusa.


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    Non era come se Amos si andasse a cercare quelle situazioni con il lanternino, accadeva piuttosto che gli cadessero in braccio. E davvero, sarebbe stato maleducato rifiutare. Indubbiamente, passare diversi anni a Villa Hamilton aveva cambiato la sua psiche in maniera irreversibile, rendendolo sprezzante di fronte al pericolo e sfacciato in situazioni dove avrebbe fatto meglio a tacere. In quel momento, ogni fibra del suo essere gli intimava di uscire da quel bagno, ma i suoi muscoli non ne volevano sapere: stava lì fermo alla parete, sordo al suo senso di preservazione. Non portava mai a niente di buono la vicinanza all’Howl, la cicatrice sulla sua spalla era un costante ricordo di ciò. «avevi qualche dubbio, amos?» fece fatica a ricordare quello che era stato detto qualche attimo prima, troppo impegnato a passare lo sguardo sulla figura di Marcus. E che figura, santiddio. Non si sarebbe dispiaciuto insinuarsi oltre quello che i suoi occhi gli concedevano. Scosse la testa, un guizzo della bocca ad alzare l’angolo delle labbra «certo che no» e avrebbe potuto elaborare, ma sentiva di star camminando su ghiaccio sottile da fin troppo tempo. C’era un limite alla stupidità dell’Hamilton (non ridete) e seppur sentisse di non averlo raggiunto, si riservava il primato per più tardi. «in parte hai ragione. sto approfittando della tua presenza per rimandare i miei doveri» Amos deglutì piano alla vista del coltello, incerto del fatto se si trattasse di una minaccia o di una promessa. Era già inciampato per sbaglio, o meglio il suo brutto vizio di aprire la bocca, sulle tendenze violente di Marcus anche se doveva ammettere che al tempo era stato troppo deprivato di ossigeno per fare i conti con la propria coscienza. Sapeva solo che non gli sarebbe dispiaciuto avere un ripetere delle lunghe dita dell’uomo a stringersi attorno alla propria gola e premere. Tracciò il movimento dell’uomo fino alla superficie di ceramica del lavandino, domandandosi perché qualcuno avrebbe dovuto girare con un coltello addosso. Marcus decise di rispondere alla domanda che, seppur non avendo espresso ad alta voce, era scritta in ogni lineamento dell’Hamilton «ho un affare da concludere» mh, bene ma non benissimo. «un affare» borbottò tra sé e sé, assaporando quella parola sulla lingua e masticandola ancora e ancora, fino a che una singola lampadina si accese «anzi- non voglio sapere» l’implicazione dell’Howl era palese, e Amos abbastanza sobrio da capire quando indietreggiare. Elisa no, quindi top. Comunque, era chiaro che Amos volesse solo una (1) cosa e avrebbe volentieri fatto finta di non vedere le red flags davanti a lui pur di averla. Non mi sento più le labbra, spero che Amos invece le senta eccome. «prendo tempo. tu hai altri impegni?» lo sguardo dell’Hamilton si spostò per un attimo all’uscita del bagno, i suoi piani di cercare Run ormai abbandonati da un pezzo- avrebbe capito, la Crane. Le sue opzioni erano dunque attaccarsi nuovamente al boccale di birra e spegnere quel poco di lucidità che gli era rimasta oppure accettare quella scommessa. Perché di un gioco di trattava, avanzare o ritirarsi a seconda delle carte dell’Howl, e decidere di bluffare nonostante la consapevolezza di non avere nulla in mano. «Posso pensare a un paio di cose» così, casual e con totale nonchalance, cosa che era anche vera se solo avesse deciso di applicarsi e di uscire da quel bagno. Eppure, per qualche ragione sconosciuta, era inchiodato alla parete dallo sguardo dell’uomo. Che si stava avvicinando pericolosamente, una tentazione a cui non avrebbe resistito nemmeno volendo. «Ma chissà che non le trovi anche qui» a quel punto, Marcus era così vicino da poterlo toccare, e tanto fece quando agganciò l’indice nel passante dei pantaloni per tirarlo più vicino a sé. Non disdegnava un buon, vecchio gioco di gatto e topo, ma si era stancato- ancora si ricordava la serata (terribile sotto alcuni punti di vista) a casa del maggiore. «secondo te—» rabbrividì quando il respiro di Marcus si infranse contro la sua pelle, piccoli brividi a scomparire sotto al colletto della camicia. Odiava che fosse sempre composto, salvo piccoli scorci che raramente apparivano, una netta differenza dal suo stato attuale: capelli scompigliati dalle dita passate tra i riccioli, camicia sbottonata da fin troppi bottini e il proprio controllo a decimarsi con il passare dei minuti. «tra quanto tempo il mio accompagnatore inizierà a farsi due domande e verrà a cercarmi?» era chiaro l’innuendo di Marcus, perfettamente cristallina l’immagine che si compose in quel momento nella mente dell’Hamilton. Il fatto che ci fosse un accompagnatore provocava in lui un accenno di fastidio, salvo poi ricordarsi la fine che lo attendeva. Chissà se Marcus pianificava di fare lo stesso con lui. In a kinky way magari? «possiamo sempre scoprirlo» un invito, quello del lumocineta, nello spingere il corpo dell’uomo appena lontano da lui così da potersi dirigere verso uno dei bagni. Gli rivolse uno sguardo oltre la spalla, un chiaro invito a seguirlo «ricordo che abbiamo un conto in sospeso, io e te» lo sguardo che gli lanciò era tutt’altro che subtle, ma d’altronde Amos si era stancato di beat around the bush (ma quando mai) e riteneva che fosse arrivato il suo maledetto momento «il tuo accompagnatore può aspettare, o trovarsi altro da fare. non mi interessa» allungò una mano per stringere la camicia di Marcus tra le dita, tirandolo a sé con uno strattone tutt'altro che delicato, e catturò le sue labbra con le proprie. Cristo, era un qualcosa che aveva voluto fare dal primo momento in cui aveva posato gli occhi su di lui, era un miracolo che avesse resistito così a lungo. Indietreggiò, un misero tentativo di entrare nel bagno, ma a quel punto era difficile capire cosa stesse facendo.
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    Avrebbe potuto benissimo farne a meno.
    Qualunque cosa stesse succedendo nel bagno del Better Run (niente che lasciasse adito a dubbi, onestamente), marcus howl era convinto di potervi mettere la parola fine in qualunque momento. Non sarebbe stata la prima volta, né tanto meno l'ultima — aveva delle necessità e nessuna intenzione di cercarsi qualcuno con cui fare colazione il mattino dopo.
    Richiedeva un grado di intimità, di fiducia, che non era più disposto a concedere.
    Il problema, quello vero, era che non lo stava facendo: flirtare con amos era semplice, provocarlo mantenendo allo stesso tempo le distanze quasi divertente; non riuscire a fare un passo indietro, ora che ad ogni respiro il profumo della sua pelle occupava di prepotenza gola e polmoni, metteva il sicario in una posizione piuttosto scomoda. Raramente si concedeva il lusso di infrangere le proprie regole, marcus, e quindi perchè proprio in quella occasione così potenzialmente a rischio? «ricordo che abbiamo un conto in sospeso, io e te» forse stava tutto lì.
    Nella testardaggine di amos e in quel suo modo ferale di mostrare la propria vulnerabilità — conscio di non stare giocando quella partita ad armi pari, ma non per questo intenzionato a mollare la presa. era la spiegazione più semplice, e mentre gli occhi azzurri del ragazzo si puntavano ancora una volta nei suoi invitandolo senza troppi giri di parole a seguirlo, marcus decise che gli stava bene.
    Per il momento, almeno.
    «davvero? E quale sarebbe» per qualche motivo, l'idea che l'hamilton considerasse un conto in sospeso non essere finiti a letto quella prima sera, quando il sicario gli aveva letteralmente sparato addosso, gli provocò un moto di ilarità che a stento riuscì a tenere a freno, ben mascherato dietro alla piega appena accennata delle labbra. Che si dischiusero, quando amos strinse nei pugni la stoffa immacolata della sua camicia, perchè sapeva esattamente cosa sarebbe arrivato dopo: era comunque una risposta alla domanda, senza bisogno di parole.
    E gli concesse di fare quello che voleva — chiudergli la bocca, afferrare e strattonare, finchè, al terzo tentativo di aprire la porta del cubicolo dietro di loro, non premette il palmo destro sul torace del ragazzo allontanando i loro volti. Abbastanza da poter incrociare il suo sguardo, ma non da perdersi anche solo uno dei respiri ad infrangersi contro la pelle «così finisce che ti fai male, amos» a threat «calma» una pace interiore che avrebbe potuto imporgli, se solo avesse davvero voluto; o se si fosse reso necessario. L'ultima parola gliela disse direttamente a fior di labbra, le dita della mano destra ad imprimersi con un accenno di ferocia, seguendo la linea precisa della mascella.
    Lo guidò oltre la porta, e gli diede una spintarella.
    «sai, ad essere sincero, non interessa nemmeno a me» del tizio che lo aspettava ad un tavolo appartato bevendo il terzo martini di fila, la testa troppo impegnata a pensare al dopo per rendersi conto di essere stato bidonato; delle conseguenze di quello che stavano per fare, perchè per marcus semplicemente non esistevano. Stava dando per scontato che amos volesse togliersi uno sfizio, e intendeva assecondarlo facendo altrettanto — niente di più.
    lo lasciò solo il tempo necessario a recuperare il coltello, di nuovo al sicuro nella fodera interna della giacca; con le distanze ancora una volta ridotte a nulla, l'howl premette un po di più: il proprio corpo contro quello del ragazzo, la schiena di lui alla parete. Lo aveva lasciato fare, per dieci secondi netti, ma il bisogno di tenere sotto controllo (se stesso) la situazione era troppo forte perchè potesse volutamente ignorarlo «voglio essere chiaro» mantenne le iridi cobalto sul volto di amos, cercando lo sguardo dell'altro per essere certo che il messaggio arrivasse al destinatario; era l'unico momento a sua disposizione, poco ma sicuro.
    Di lì a qualche secondo l'hamilton non avrebbe capito più una parola, e non era detto che volesse ripetersi una seconda volta «questa è solo una parentesi» ne aveva la piena convinzione, Marcus Howl. ma indicava comunque una sorta di attenzione particolare, il fatto che glielo stesse dicendo prima, dando al ragazzo un'ultima occasione per tirarsi indietro: raramente si preoccupava di certi dettagli. considerò inutile sottolineare che le parentesi si aprivano e si chiudevano, perché nonostante le dubbie scelte di vita Amos sembrava una persona intelligente — abbastanza da capire non ci fosse per loro un futuro fatto di sveltine e pomiciate nei bagni.
    accennò un sorriso, spostando l'attenzione dagli occhi del minore alle sue labbra, il palmo della mano posato contro la gola esposta; una lieve pressione, il battito cardiaco catturato dai polpastrelli sotto la superficie sottile. dove era abituato a passare rapidamente la lama di un coltello, movimenti precisi e lenti ad aprire la pelle e i tessuti sottostanti, posò un bacio — sapeva essere letale in tanti modi, Marcus Howl. casto, quasi delicato, finché da catturare non rimasero che le labbra di Amos: con gli incisivi prima, con la punta della lingua poi. senza chiedere permesso, che tanto l'invito lo aveva già ricevuto a chiare lettere e senza troppi giri di parole.
    solo quando sentì i polmoni bruciare per la mancanza di ossigeno interruppe il contatto, le dita della mancina a sfiorare la bocca dell'hamilton raccogliendo una traccia umida di saliva (scusa creme è mezzogiorno di domenica ma ormai sono in ballo e devo ballare. unhinged, primavera, risveglio sessuale, quello che è) che portò alla propria «birra?» sopracciglia arcuate sopra gli occhi blu, Marcus si concesse persino il lusso di sorridergli di nuovo; perché no, in fondo — poteva essere divertente finché qualcuno non finiva con un proiettile in testa «di solito non bevo» piegò leggermente la testa, lasciando che le parole si infrangessero contro la gola del ragazzo; non aveva ancora mollato la presa, tra l'altro «ma magari in questo caso posso fare un'eccezione» interpretabile.
    thinkin.
    con la mano libera scostò i lembi della camicia, esponendo altra pelle sulla quale posare la bocca, graffiare appena con i denti e la barba ben curata. solo quando ebbe la cicatrice sotto le dita, Marcus sentì il bisogno di fermarsi; fare un respiro profondo, ricalibrare. non perdeva quasi mai il controllo, l'howl: uccideva, ed era morto; uccideva, ed era resuscitato. odiava e amava come se fossero entrambe la stessa cosa. ma un freno, quello era sempre riuscito a metterselo — paletti. eppure, cristoddio, nel posare lo sguardo su quel segno indelebile avvertì chiaramente quei paletti tremare. una scossa in profondità, nemmeno lontanamente dovuta ai sensi di colpa; ammesso di averne mai provati, si erano dissolti nel momento in cui gli era stato chiaro che Amos non sarebbe morto sul suo divano. aveva più a che fare con un concetto di appartenenza, qualcosa che non avrebbe nemmeno dovuto sfiorargli la mente.
    lo aveva ferito.
    e salvato.
    non solo una conseguenza casuale, ma un marchio che Amos di sarebbe portato sulla pelle e nei muscoli, una lieve fitta di dolore ad accompagnare ogni movimento. ci avrebbe pensato, anche inconsciamente, più e più volte come la lingua a toccare continuamente il taglietto all'interno della guancia. fu tentato di dirglielo: era a lui, che doveva pensare, quando la carne cominciava a pulsare al cambiare del tempo — ma quello sarebbe stato un errore madornale. uno che Marcus non poteva permettersi.
    osservò ancora il biondo da sotto le ciglia, il corpo snello a premere contro quello dell'altro. tutto considerato, gli sarebbe bastato fare un passo indietro; tornare allo status quo. invece fece l'esatto contrario, che non era affatto più facile, affondando le dita tra i riccioli dell'hamilton per spingergli la nuca verso di sé, la pressione del palmo attorno alla gola ad aumentare: non più gradualmente, ma tutta fottutamente insieme «quali erano le cose a cui avevi pensato?» sinceramente incuriosito, il sicario, nel chiedere toccando appena le labbra dell'altro con le proprie, la voce ferma scesa però di un'ottava; non aveva bisogno del suo potere, marcus, per far capire al ventisettenne cosa stesse provando in quel momento, ma ci tenne comunque a dargli un ulteriore hint intrecciando le dita alle sue, guidando le mani di entrambi dove potesse chiarire ogni dubbio.
    come dice una saggia: a cazzo duro.


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    questa è colpa di freme e dei suoi sogni profetici. voi non leggete non percepitemi

    gifs1996lumokinesisamos hamilton
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    I need comfort, but I hate being comfortable
    I wonder why I hate getting what I want
    It's torture, but I can't seem to shake it off
    Sapete quel detto che recita al cuor non si comanda? Ecco, vi era un altro organo a cui era difficile dire di no e Amos ne era costante vittima. Era lo stesso motivo per cui si era beccato un proiettile nella spalla, la pelle raggrinzita e rialzata una memoria impressa dietro alle retine e sui propri polpastrelli. Una memoria che al momento aveva ben poca importanza, spazzata via dalle labbra di Marcus che si infrangevano sulle sue e prendevano e prendevano ancora senza alcuna finezza. A quel punto, era un miracolo che l’Hamilton avesse abbastanza lucidità da tentare di aprire la porta del cubicolo. A quanto pare: non abbastanza. «così finisce che ti fai male, amos» si lasciò allontanare a malavoglia, le labbra a piegarsi all’ingiù in un broncio contrariato, come se l’uomo gli avesse fatto un torto «calma» quell’ultima parola a perdersi tra i loro respiri suscitò diverse reazioni in Amos, così come la mano che si strinse sulla sua mascella. Reazioni che era sicuro l’Howl potesse percepire, innegabile il desiderio che pulsava nelle vene, ferale e febbricitante. Si lasciò spingere oltre la porta, perché ormai tutti abbiamo capito che Amos aveva un manhandling kink e good for him. Fu improvvisa la perdita di calore e del corpo premuto contro il suo, un battito di ciglia e quello dopo si era ritrovato ad osservare la schiena di Marcus. Una bellissima schiena, attenzione, ma non un qualcosa a cui era interessato in quel momento. Strinse le dita attorno al bordo della porta per affacciarsi, facendo leva sui talloni, giusto in tempo per vedere l’uomo recuperare il coltello da dove lo aveva lasciato. Chissà se era perché voleva usarlo su di lui. Poteva pensare a modi più piacevoli di essere impalati, ma a ognuno i suoi gusti. Si lasciò premere nuovamente alla parete da Marcus, le dita ad incastrarsi nei passanti della cintura per attirarlo a sé, fino a che il concetto di distanza aveva perso motivo di esistere. «voglio essere chiaro» niente freme va così se no non finisco più, a ognuno i propri demoni. Amos splayed his hands over the man’s hips, feeling the jut of his hip bones against his palms. He tipped his chin, somewhat curious as to what Marcus had to say, even if he already had a vague idea. «questa è solo una parentesi» Amos smiled, somewhat amused, a boyish grin that matched the glint in his eyes «non l’ho mai considerata nient’altro» the note in voice was rough and tight, trapped somewhere between his larynx and the press of Marcus’ palm against his skin. He knew that Marcus could feel his crazed heartbeat pounding furiously, the veins on his neck throbbing and dilating, a song of its own vowing into the cacophony of their breaths. The hand laid on the man’s hips trailed upwards, brushing against crisp fabric and hard muscle, drawing a map under his fingertips. He tipped his head forward and let Marcus catch his lips, a low moan captured by his mouth, while he let the man take what he wanted. It was far more chaste than he expected, but Amos wasn’t going to be picky about it— A SOTTONEEE. The sight of Marcus catching a trail of saliva and bringing it to his mouth, swollen lips closing around his lips and sucking made him impossibly hard. He let his gaze stray on that scene for a moment longer and let himself imagine another scenario where those lips could be made of use. «birra? di solito non bevo» a hot flush stained his cheekbones and spread down his neck, a stark contrast against the pale and strained tendons of Marcus’ hand. Amos drew a sharp breath, a palpable hitch in an otherwise undisturbed cadence, his tongue darting to wet his lips hoping to capture Marcus’ taste. Jesus fuckin’ christ, he could feel his heart threatening to burst his ribcage open, leaving him to bleed out on the floor. Déjà-vu. «ma magari in questo caso posso fare un'eccezione» Marcus’ breath ghosted on his neck and left a trail of goosebumps in its wake, and made his knees weak «ah si? forse allora dovresti approfttarne» he tilted his head, his mouth seeking Marcus’ again, less gentle than the first time. Amos had no patience for that, not now that he had what he’d been waiting there for the taking. One hand sneaked under his shirt to his stomach, fingers splayed and short nails biting at the skin. He brought the other hand to Marcus’ head, carding through his hair and tugging at the strands when his teeth grazed his feverish skin. «m-marcus» a soft gasp escaped his lips, his eyelids growing heavy and fluttering close. He applied pressure to the man’s head, wanting those teeth to hurt, to leave their mark right next to the scar on his shoulder. Amos hated the valiant composure the man was still so adamant on holding onto, he craved to see that composure dissolve under his ministrations and let him come undone. So he brought his mouth over to his neck, licking and sucking at the skin with his tongue, leaving a trail of kissing on his way to Marcus’ ear. He could feel his pulse thundering, a matching rhythm of his own, and a flood of endorphins rushed through him at the thought of making Marcus feel that way. But it wasn’t enough. «sei sempre così impostato» he bit at the skin there, not too harshly but enough to leave his mark, the stark indent of his teeth on pale skin «composto» he punctuated his words with another kiss, another purple mark along his throat, at the juncture between his neck and ear «forse dovresti lasciare andare per una volta» a bold claim, perhaps, a presumptuous little thing. Amos didn’t let Marcus process it and took his earlobe between his lips, nibbling at the tender skin there, his tongue teasing and sucking. The pressure on his throat made itself known again, a heady reminder of strength concealed under those clothes and the knife tucked away somewhere on the man’s body. Jesus christ, he wanted those fingers to tighten further and leave a ring of bruises against his neck, a mess of gasping breaths and aching pleasure. «quali erano le cose a cui avevi pensato?» Marcus took his hand and brought it down causing the special to smirk, a dimple deepening the fold on his cheek, his lips a mere kiss away from Marcus’. Oh, so he wanted to play it out like that. Freme mi rifiuto di dirlo in italiano enough is enough «I want to taste you» he blew a breath on his lips, canines sinking in the plump flesh of Marcus’ lip and tugging– god, it was a pity they had so little time. «sentirti qui» grasping Marcus’ fingers, he brought them up to his lower stomach, somewhere where his navel (ma sì l’anatomia è sopravvalutata). He took the matter into his own hands, pushing at Marcus’ chest and toward the toilet seat (che è chiuso e pulito perché siamo in un posto molto decoroso e civilizzato -cit) until he was seated on it. Amos soon followed, one knee planted on the seat while he straddled Marcus’ lap. Amos was disheveled, his shirt slipping from his shoulder and exposing the mark left by the man, the pebbled nipple that begged to be touched and the scar on his chest. He could feel the firm muscle under his thighs and the porcelain digging at his knees, but above all it was impossible to ignore the press of Marcus’ hardness against his own. A surge of desire rushing through his veins, making his cock throb inside the confinement of his trousers. He reached down between them and took hold of the man’s stiffness, massaging his balls through his trousers and the length of his cock swelling in his palm. He put more pressure on it, relishing in the way Marcus’ breath stuttered against his cheek, the tight leash he kept on his control slipping little by little with each stroke. It was instinctive, the hitch of his hips forward, rubbing his own hardness over Marcus’ to seek some friction. He removed his hand to fiddle with his belt, his hatred for the strip of leather increasing with each passing second «cristo, ma cos'è sta cosa» he almost pouted, but was sufficiently dignified to keep it off his face– for the moment. In the end, he removed the belt and tossed it somewhere below them. He pulled down the zipper to sneak his hands inside his pants, right where skin met skin, no more barriers between them. Freme basta sono tre pagine di porno continua te.
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    metto il tw sulla fiducia, ma sono stata molto delicata ❤

    gifs1989, emphatichitmanmarcus howl
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    We take a piece of ourselves, we draw a line in the sand
    We say "don't cross this, or else," and then we put up a flag
    Oh, how we worship the things that we don't quite understand

    «non l’ho mai considerata nient’altro»
    potendo guardare avanti nel futuro, catturare l'ironia della situazione sarebbe stato facile: Marcus Howl che predicava bene mettendo paletti grandi quanto grattacieli e poi razzolava male abbattendoli con le proprie mani? non avesse comportato un rischio, per entrambi, quella visione lo avrebbe fatto sorridere.
    cosa che fece anche in quel momento, ma per un motivo del tutto diverso — «m-marcus» persona ben educata, l'empatico, e in risposta a quel richiamo spezzato in gola strinse la presa un po più forte. abbastanza da sentire il sangue pompare sotto le dita attraverso la pelle tesa, l'ossigeno passare a fatica lungo la trachea. se avesse appoggiato l'orecchio al torace di Amos, invece che la bocca sulla sua spalla, il dubbio di trovarsi ad un turning point gli sarebbe venuto: perché aveva lo stesso ritmo incalzante a battergli tra le costole, l'eco del proprio muscolo cardiaco nelle orecchie e nelle ossa.
    era solo piu bravo a mascherare il desiderio crescente, per quanto glielo permettessero le mani del ragazzo finalmente giunte a trafficare con la stoffa pregiata della camicia «fai piano» aveva ancora la voce ferma, Marcus, persino con le labbra dischiuse del minore a premere contro la pelle sottile della gola; e quello effettivamente si fece più delicato, un'interessante reazione pavloniana all'ordine appena ricevuto. solo frainteso: le dita della mano libera si insinuarono tra i riccioli biondo scuro, polpastrelli a premere contro la nuca come se fosse possibile attrarlo ancora di più a sé — li voleva tutti, quei denti. e voleva sentire la propria pelle risucchiata tra le sue labbra fino al punto da far male. che lasciasse pure un segno, se era il prezzo da pagare per avergliene lasciato uno che non sarebbe scomparso mai «con la camicia. è firmata» abbiamo un pin per questo: 'i just wanna take your clothes off', 'please fold them neatly'.
    evidentemente le priorità dell'howl erano dure (come qualcos'altro ahah.) a morire.
    non che amos non stesse facendo di tutto per cambiarle. e per essere uno sconosciuto, l'ennesima persona vicina quel tanto che Marcus gli permetteva di essere - e mai abbastanza da conoscerlo davvero -, il ventisettenne stava pian piano toccando tutti i punti giusti. niente a che vedere con il sesso: a trovare quei punti erano bravi tutti. «sei sempre così impostato. composto. forse dovresti lasciare andare per una volta» oh amos. oh bubi.
    forse, intento com'era a stringere il lobo del suo orecchio tra i denti, amos hamilton non aveva notato il cambio repentino di espressione sul volto del sicario; poco male: invece che spingere, questa volta, le dita di marcus si chiusero sulle ciocche bionde del minore e tirarono. così che l'altro smettesse di fare qualunque cosa stesse facendo, anche solo per una frazione di secondo, ritrovandosi ancora una volta occhi negli occhi. un paradosso — lì dove l'azzurro risultava incredibilmente caldo e avvolgente, il blu cobalto rifletteva la superficie granitica e gelida di una roccia. difficile dire se stesse cercando qualcosa sul volto accaldato di amos o semplicemente le parole giuste per rispondere; più probabile la prima ipotesi, perché dalle labbra dischiuse non uscì un verso. ma nemmeno mollò la presa: quella sui suoi capelli, quanto meno. le dita dalla gola del ventiseienne dovette allontanarle per forza, lasciando spazio di manovra al ragazzo senza protestare «I want to taste you (codarda). sentirti qui» si lasciò guidare, sfiorando con i polpastrelli le linee dei muscoli e delle ossa sottostanti attraverso il tessuto della camicia. ci si erano già trovati, a quel punto — una mera provocazione, per Marcus, quasi un interesse scientifico. non era sicuro che avrebbe saputo fermarsi in tempo come la prima volta, ad un centimetro dalla cintura dei suoi pantaloni e con quegli occhi resi lucidi dal desiderio a chiedergli di andare oltre.
    e l'incertezza, nella vita dell'howl, rappresentava il più grande dei problemi.
    «pensi che il mio sapore sia diverso da quello di tutti gli altri, amos?» poteva sembrare che i giochi di potere tra i due si fossero invertiti, ora che quella nuova posizione costringeva marcus limitandone i movimenti, ma lo sapevano entrambi che non era così. avrebbe potuto allontanare le dita del minore in qualunque momento, alzarsi e rassettare la giacca del completo: ad aspettarlo pazientemente da quasi venti minuti c'era un perfetto sconosciuto che non si sarebbe tirato indietro di fronte all'idea di seguire il sicario nel suo appartamento per dargli una mano. per qualche ragione sembrava una prospettiva meno complicata rispetto a quanto stava succedendo in quel cubicolo. peccato che tra potere e volere ci passasse in mezzo un mare di possibilità — gli bruciavano tutte nel petto, facendo formicolare la pelle. ne sentiva il gusto agrodolce sulla punta della lingua, e quando amos si fece vicino trafficando con i suoi pantaloni, la presa sulla nuca divenne un po più forte; abbastanza da attirarlo a sé, catturare la sua bocca con la propria e farsi spazio attraverso.
    tocchi gentili e poi spasmodici, i canini a spillare una goccia di sangue dalle labbra consumate; la succhiò, e gliela concesse indietro mescolando il rame alla saliva di entrambi. il gemito, basso e graffiato per via dell'improvvisa mancanza di ossigeno, glielo soffiò addosso, sulla pelle umida e gonfia. non aveva bisogno di abbassare lo sguardo per capire che il ventise(ienne o ttenne? chissà) aveva vinto la sua battaglia con la fibbia e si era fatto strada, ma distolse comunque le iridi blu scuro dal volto di amos, piegando la testa verso la propria spalla. ipnotizzato, quasi, dai movimenti lenti e dalla pressione sapientemente dosata del palmo sulla propria erezione (È COSÌ CHE SI SCRIVE DA UOMINI VERI ELISA PRENDI NOTA). aveva ancora una mano libera, lo special, ed istintivamente la portò sul fondoschiena del minore, spingendo il bacino verso di sé come se ci fosse ancora spazio da occupare — non ne avevano: ma poter sentire l'eccitazione (???) dell'altro sfregare contro la gamba era sufficiente.
    per il momento.
    «sbagli a volere che perda il controllo» poteva non averlo più sulla propria voce, frammentata dal ritmo del battito cardiaco che si opponeva al movimento lento della sua mano, ma gemiti e respiro corto non mettevano a rischio la vita di nessuno. era di qualcos'altro, che marcus avrebbe dovuto parlargli; un tentativo di mettere amos in guardia, fatto nel momento peggiore di tutti «non ti piacerei più allo stesso modo» solo un sussurro, quello che fece scivolare nell'orecchio del ragazzo prima di soffocare ansimi sulla pelle tesa. così vicino all'apice che forse quel famoso controllo un po poteva permettersi di lasciarlo sfuggire — non la prima scelta sbagliata, forse solo una di troppo. sciolse l'intreccio delle dita tra i suoi capelli, facendo scivolare il palmo dietro la nuca; imprimendo i polpastrelli nella carne, senza il minimo pensiero di potervi lasciare segni violacei. a quello, forse, avrebbe pensato in seguito.
    adesso aveva in mente solo quella sensazione rossa, calda, lacerante. risaliva dal basso ventre, partendo dalla mano di amos per irradiarsi in ogni nervo, tendine, muscolo. un tensione terribile e magnifica insieme, che chiedeva solo di essere messa a tacere, strappata via — più forte, più veloce, ancora ancora ancora. prese ogni singola molecola di quel piacere che era anche dolore e frenesia, facendo in modo che penetrassero nella pelle dell'altro in uno scambio perfettamente equo. la condivisione prima di tutto «amos?» aveva un che di lascivo il modo in cui quel nome gli si scioglieva sulla lingua, e lo sorprese non averci fatto caso prima; più probabile che fosse solo una sensazione dovuta al momento. ma lo ripeté un'altra volta, giusto per essere sicuri, e una terza senza il punto interrogativo a rendere il richiamo esitante «amos» in corsivo, per rendere meglio l'urgenza, farlo suonare come l'avviso che era in realtà.
    di nuovo, lo prese per i capelli e tirò.
    senza delicatezza, perché voleva che lo guardasse; anche se in quel momento forse l'istinto primario per l'hamilton sarebbe stato tenere gli occhi chiusi. non una concessione che Marcus era disposto a fare: le dita che premevano sulla schiena del ragazzo scivolarono lungo il fianco, raggiungendo la sua mano in lento movimento per intrecciarle con le sue. e aumentare il ritmo. la pressione. conscio che ogni scintilla provocata da quello sfregamento estenuante la provasse anche amos; e forse proprio per quello ancora più spinto a continuare, almeno per un po. se non fosse stato per: «marcus? sei qui dentro?» beh, con la porta del bagno aperta le probabilità erano alte. sperava solo che il suo accompagnatore ci mettesse di più a trovare il coraggio per abbandonare il tavolo e venirlo a cercare. non così sottone come aveva pensato inizialmente, quindi — my bad.
    la mano a premere sulla nuca del minore la usò per tappargli la bocca, senza distogliere le iridi cobalto dalle sue; l'altra, che forse avrebbe dovuto fermare e allontanare, continuò imperterrita a muoversi insieme a quella di amos. proprio il caso di dire 'non si molla un cazzo' «scusa, non mi sento per niente bene» che insomma, detto con quella voce roca e sofferente poteva quasi suonare credibile.
    quasi.


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