Kaito Kageyama non era portato per gli abiti eleganti. Sapeva costringercisi, strizzandosi in camicie bianche ed inamidate e giacche più pesanti di quel che apparivano, e poteva perfino sembrare a proprio agio, ma non lo era. Sentiva la pelle tirare e prudere in circostanze normali, quelle in cui tali abiti erano della sua misura e di una certa classe, figurarsi quando il completo l’aveva rubato ad una tintoria, non era di marca, ed era più grande di almeno una taglia. Inspirò profondamente dentro i propri palmi, passando poi le mani sul viso e fra i capelli corvini. Che vita di merda. Se l’era cercata, quindi non se ne sarebbe lamentato. Di alternative ce ne sarebbero state almeno una dozzina, metà delle quali includevano farsi mantenere da suo cugino insieme al resto dei suoi buffi coinquilini (...forse più di metà.), ma Kai non voleva. Era il più grande, anche se di poco, ed aveva sempre covato un certo senso di responsabilità nei confronti di Ryuzaki. Voleva lo vedesse come un modello da seguire, qualcuno a cui aspirare. C’era ben poco che valesse la pena prendere come esempio, ma non voleva Ryu lo sapesse. Era sempre stato così, Kai. Da ragazzo, da bambino, da Genghis Khan. (Ah, Genghis Khan, terzogenito della gilda di Jericho e Darden. Una vita prima di cui non aveva memoria, ma di cui portava i segni in ogni gesto e sguardo. Mentre il resto della famiglia si azzuffava in un angolo di casa Jarden, Gigi creava il suo impero di giardini zen, cappellini da pescatore, droga, e merce di contrabbando: un ragazzo tranquillo, un punto di riferimento nel vicinato. Quando qualcuno aveva bisogno di qualcosa, fossero consigli o armi illegali, era la persona adatta. Il fatto che ogni tanto sentisse il bisogno di rubare la scena a Leslie o Psy nel mostrarsi uno spadaccino migliore, staccasse un dito o due a qualcuno da portare a casa come trofeo, ed amasse importunare parentame ed amici con rompi capi inventati sul momento e senza senso, era solo una marginale parte del suo innato fascino. Ma quella era un’altra storia, per un altro momento, e decisamente un Kai diverso.) Più del concetto di indipendenza, gli piaceva far credere di essere indipendente, finendo spesso per arrangiarsi con quel che gli capitava sotto mano. A suo favore, era molto bravo a rendere il carbone diamante, volgendo perfino le situazioni più drastiche a suo vantaggio. Kai amava definirlo un talento naturale affinato con la pratica, perché suonava meglio di rimasuglio di istinto di sopravvivenza, minchia Kaito ma ce la fai a vivere come un essere umano funzionale, santiddio; certe cose non si potevano scrivere sul curriculum. Non aveva un lavoro. Non aveva una casa. Di amici, ne aveva solo se si contavano quelli a cui cingeva le spalle da un locale all’altro del mondo magico (e non), cantando Lana Del Rey mentre infilava la mano nelle loro tasche fregando gli spicci per il drink successivo. C’era da dire che non fosse una vita monotona, esattamente lo stile che piaceva a lui. Adorava sorprendersi e reinventarsi, crearsi personaggi nuovi con cui irrompere sul palco offrendo inchini e baci al pubblico, ma quell’esistenza, sempre che così si potesse definire, aveva i suoi svantaggi. Tipo non sapere quando avrebbe mangiato, se l’avrebbe fatto. E quella, signori, signore e signorx, era la breve storia di come si fosse ritrovato costretto ad un completo raffinato, davanti ad opere d’arte che non comprendeva, in uno dei locali più esclusivi di Quo Vadis. Non il suo scenario tipo, ma uno che poteva far funzionare. Probabilmente. Passò la lingua sul labbro superiore, affinando la vista alla ricerca di potenziali vittime. Gente ricca, si intendeva – non solo non era nel suo stile rubare ai poveri, ma al contrario del ceto alto, loro si sarebbero accorti subito della mancanza di un paio o cinque galeoni - e possibilmente abbastanza ubriaca da dargli il briciolo di confidenza necessario ad invadere, anche se per errore, i loro spazi personali. Arrogante e sobrio funzionava comunque, perché la presunzione era la peggiore delle tossine. Impediva di abbassare il livello, sapete; di guardare le cose dal basso, e riconoscerle per quel che erano. Sistemò i risvolti della giacca nera, scandagliando la folla a dir poco mista del SUB. Non aveva neanche capito il tema, Kaito. Di quel tipo di arte se ne intendeva poco, era un musicista, ma apprezzava il buio, che gli avrebbe permesso di passare inosservato. Ironico che fosse la morte. O la vita. O entrambe: Kai, come un qualsiasi fantasma, contava sia per l’una che per l’altra categoria. Reclinò il capo sulla spalla, osservando quello che decise di catalogare come Vittima Numero Uno mentre incespicava per la stanza. Lo sguardo del Kageyama scivolò immediato sul polso, attirato dallo scintillio dell’orologio, ed iniziò a spostarsi con l’eleganza di un predatore. Dopotutto, di quello si trattava: era stato cresciuto ed addestrato perché in quel mondo mordesse, non il contrario. Il fatto che talvolta le parti si invertissero, non erano davvero affari di nessuno, soprattutto non in quel contesto. Moving on - letteralmente. Si ritrovò al suo fianco, e fluido spostò un piede perché si trovasse sui passi dell’altro. Quello inciampò, finendo poi per incespicare negli abiti di una donna impegnata ad osservare un’opera – sembrava il suo quaderno di quando andava a scuola, non sapeva come sentirsi in proposito – e Kai fu repentino a poggiare una mano sulla spalla dell’uomo per stabilizzarlo. L’altra sotto la giacca a prendere il portafoglio, già spinto oltre il polsino della propria camicia, ed ora a contatto con il proprio braccio. Lo aiutò a rimettersi in piedi, sopprimendo solo parzialmente il sorriso nel notare l’occhiata della donna. Diede una pacca sul fianco di Vittima Numero Uno, indicando la sciura all’ometto. «dalle vostre parti non si chiede scusa?» intimò, corrugando le sopracciglia, sillabando piano le parole perché, beh, chi cazzo lo sapeva l’inglese. Capiva una conversazione, ma parlare era… più complesso. Di scrivere, poi, non se ne parlava. L’accento nipponico restava pesante sulla lingua del Kageyama, che oramai aveva smesso di farsene un cruccio. Curvò gli angoli della bocca verso il basso, scuotendo il capo. Nel togliere la mano dal braccio dell’altro, fece scivolare le dita sul meccanismo dell’orologio, e si intascò pure quello – il tutto continuando a parlare, ed afferrando con la mancina un calice di qualunque cosa dessero gratuitamente!!! da bere da quelle parti. I furti migliori, erano quelli sotto gli occhi di tutti. «assurdo» scosse il capo rammaricato, offrendo un’occhiata di scuse alla donna, ed il proprio bicchiere con cui fare brindisi. Era sempre un buon momento per bondare su quanto fosse derogatory la specie maschile. | | Just another sad soul with this life I lead So tired of my past mistakes Yeah you're happy? Well I can't relate |