there's very little i wouldn't do for you

@cheshire, ft. gugi

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    Jamie Hamilton era sempre stato un ragazzo ambizioso. Si poneva degli obiettivi; li raggiungeva, senza guardare troppo in faccia chi dovesse calpestare per farlo, o quanto sangue dovesse togliere dalla cornice delle unghie. Un’arroganza ereditata dai suoi avi, narrava la leggenda. Qualcosa che girava nel sistema sanguigno degli Hamilton saltellando di generazione in generazione come geni di una gravidanza gemellare. Ed era bravo, in quello che faceva. Pilotato da punti fissi facilmente accessibili, se si era in grado di fare quel che andava fatto.
    Ma aveva una pecca, e – badate bene - una soltanto. Sempre congenito, un difetto di fabbrica che nessuna matrice nel corso dei secoli era riuscita a risolvere.
    Sabotaggio.
    Auto sabotaggio.
    Sapeva gestire beni materiali e status senza battere ciglio, e sorridendo perfino amabile nel farlo, ma quando tutto andava troppo bene, il cronocineta tendeva a non fidarsi. Quella mancanza di fiducia portava con sé la pigrizia, e l’indolenza a resistere anche alle più blande tentazioni. Il frenetico bisogno di sbagliare, e farlo ancora, per evitare di abituarsi a qualcosa che sapeva di non meritare.
    Erano le uniche volte in cui provava la punta del rimorso, e del senso di colpa. La sua rettitudine alzava il capo solamente in quei rari istanti di follia, ricordandogli che tutto sommato fosse ancora un uomo. Un fallimento, come qualunque altro essere umano. Che avesse avuto ragione sin dall’inizio, a credere che non fosse la persona giusta per … beh. Per nessuno.
    Perchè Jameson Black Barrel Hamilton, era e restava un bastardo cronico.
    Non sapeva non esserlo. A suo sfavore, c’era da dire che ci avesse anche provato davvero poco ad essere diverso. Lo voleva? C’erano giorni in cui si diceva di sì. Erano quelli in cui apriva gli occhi con una gamba incastrata distrattamente fra le sue, il respiro di William a scandire i minuti prima che suonasse la sveglia, le ciglia corvine a solleticare le guance. Quelli in cui sapeva che avrebbe potuto rimanere lì ancora un po’, che gli fosse concesso avvicinarsi, posare le labbra sulla sua fronte, premerle sul collo e lasciarsi spingere o tirare, le dita strette gentilmente sul polso prima di baciarvi il battito.
    E poi c’erano quelli in cui Jamie diventava violenza. Non violento - non sempre- e certo non con il Barrow - a meno che non richiesto - ma semplicemente un accozzaglia di emozioni tutte negative e tutte insieme, a rendere il nero dell’inchiostro dei tatuaggi, in confronto, una spennellata arcobaleno. Quelle in cui uccidere gli piaceva; premere il grilletto sotto il mento, sporcare e sporcarsi di sangue, infilzare una lama nello stomaco nello stesso momento in cui affondava la lingua nella bocca di qualcun altro. La mano a reggerne il peso; saliva mista al sangue. Giorni in cui il senso di potere sovrastava tutto il resto, rendendo lo sfondo sfocato ed i dettagli per momenti posticipati e mai più guardati. In cui una bocca valeva l’altra, ed un corpo premuto sul proprio valeva l’altro, e la pelle a strofinarsi sulla sua aveva un sapore tutto sbagliato, e – oh, Jamie. Jamie.
    Aveva tutto. Aveva tutto.
    E per quanto poco valesse, l’Hamilton amava davvero William Barrow II.
    Un modo sbagliato. Caotico neutrale, senza regole fisse. Esuberante; eccedente. Tanto che non sapeva cosa farsene, ed allora lo violava scendendo nella propria pelle – quella di un traditore, di un bugiardo, un assassino ed un ladro. Tutte quelle cose lì, Jameson, le era ancora, perfino quando posava gli occhi blu su Gugi e sospirava piano, offrendo una mano per attirarlo a sé. Perfino quando gli intimava di tacere, la testa poggiata semplicemente sul suo petto, i battiti mai troppo regolari a farlo sorridere contro il suo costato. Perfino quando stringeva la trachea dicendo di non aver capito bene, di ripetere più forte, la bocca sulla sua e le mani sul suo corpo. Perchè quei momenti, Jamie Hamilton, li aveva aspettati per anni.
    Anni, buon Dio.
    E li aveva. Quelle che per una vita erano state fantasie, sulla punta della lingua e solo da richiedere – o non farlo, talvolta.
    Ma quando uno era malato, c’era ben poco da fare. Corrotto ad un livello al di fuori di ogni redenzione. Se fosse stato una persona migliore, gli avrebbe detto di cercarsi qualcun altro.
    Non lo era. E non voleva.
    Si ripeteva avrebbe smesso.
    Ci ricadeva sempre.
    «ma tu non ce l’hai un lavoro? Sempre qui stai»
    Jamie sorrise, calato nella parte quanto lo era nella propria divisa. Infilò un dito sotto il colletto, tirando di modo che il tessuto schioccasse contro il petto, e si strinse nelle spalle. «questo è il mio lavoro, ronnie» mostrò tutti i denti, perché Jamie alle persone piaceva. Offrì la mano per battergli il cinque, tirando a sé l’uomo per dargli una pacca sulla schiena. Non mentiva, perlomeno in quel caso specifico. Era davvero lavoro, pattugliare le strade di Quo Vadis, e tenere sott’occhio – la Beaumont non l’aveva mai specificato, ma l’Hamilton sapeva leggere fra le righe – i locali diretti dagli special. Era solo un fortuito, e fortunato, caso del fato, che Gugi lavorasse per uno di loro.
    Jamie era molto bravo ad unire utile e dilettevole.
    «gugi?»
    «dentro» brontolò l’uomo, accendendo l’ennesima sigaretta che l’avrebbe portato ad una morte prematura. Un cliente abituale del Cheshire, Ronnie – perfino un bravo cristo, malgrado le sue ex mogli la pensassero diversamente. Sì, l’Hamilton era un chiacchierone, e la gente lo amava anche per quello. Era multitasking: entrasse come entrasse, se di parole o un pugnale, ma per il cuore delle persone trovava sempre una strada. «generico, ma ok. Lo cerco io» soffiò anche un bacio, che quello finse di non apprezzare.
    Quello non era il giorno in cui Jameson Hamilton aveva progettato di confessare a William la propria alta infedeltà, ma d’altronde, non era neanche il giorno in cui aveva pensato che Abbadon avrebbe distrutto lo statuto di segretezza: la storia stava per cambiare, ed in più d’un senso. Aveva mosso solo pochi passi all’interno del Casinò, prima dello schermo.
    Le parole.
    La dichiarazione.
    Pochi secondi necessari perché Gugi lo trovasse – difficile non trovare Jamie, d’altronde – e potessero guardare insieme l’ennesimo trionfo fallimentare. Un ossimoro che, nella loro società, funzionava comunque sempre spesso. Poteva anche non essere in quest, ma L’Hamilton non aveva dubbi sul fatto che sarebbe comunque sceso in campo, e dalla parte giusta: ri voleva un riflesso del proprio tempo, dove quelle divisioni non esistevano più da un pezzo. Altrettanto poco dubbio, a giudicare dai grandi, enormi, occhioni blu roteati sul Barrow, era che prima di partire volesse una sveltina nello sgabuzzino del casinò.
    Dai Gugi. Eddai, Gugi. Eddai!
    Poi scusa, quale modo migliore per notare segni TM sul suo corpo che spogliandolo?
    jameson black barrel
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    William Barrow II aveva vissuto ventotto anni intensi, poteva dire di aver visto qualsiasi cosa in quel breve arco di tempo. Viaggi nel tempo, bambine psicopatiche che si credevano Dio, l’aver sparato a un suo stesso avo a sangue freddo. Aveva conosciuto Jameson Hamilton. E quello, Dio, era una parte della sua vita che meritava un capitolo a parte. Diciassette lunghi anni di conoscenza, e se il Barrow fosse stato chiamato a fare due calcoli, sarebbe equivalso a metà della sua vita. Ricordava ancora i primi anni passati a insinuarsi nella sua vita, lentamente, come un veleno a lenta azione, fino a che non si era insinuato nel suo sangue e non vi era più modo di rimuoverlo. Ricordava che un giovane William non aveva voluto avere nulla a che fare con una persona come Jamie, non vi era un preciso motivo dietro, se non che non gli andava particolarmente a genio. Quello che William non poteva sapere, era di non aver mai avuto una scelta. Prima, nel lasciare che Jamie entrasse nella sua vita, e anni dopo a lasciare che si prendesse anche il suo cuore. Lasciò vagare la mano sul taschino all’interno della giacca, le dita a sfiorare appena il rigonfiamento come se fosse un tesoro inestimabile. E, in fondo, per tutti i soldi che vi aveva gettato poteva benissimo esserlo. Diciassette anni, un’eternità, un battito di ciglia. Ci stava pensando davvero? No, certo che no. Ma custodire l’oggetto nel taschino, ironicamente il posto più vicino al cuore, era più di quanto potesse elaborare al momento. «amici! amici. vi sono mancato?» William alzò lentamente lo sguardo verso la televisione, le palpebre ad assottigliarsi al vedere un uomo apparire sullo schermo. Era così che iniziava la terza guerra mondiale? Difficile dirlo, tendeva sempre ad addormentarsi durante le lezioni di Storia della Magia. Buttò poi un occhio alla sala per testare la temperatura dei patrons, non aveva bisogno della sua personale terza guerra mondiale là dentro. Quello che il Barrow non si aspettava, era di incrociare lo sguardo di Jameson. Almeno, non quel pomeriggio. Non aveva idea che il Ministero fosse così morbido sulle proprie politiche, tanto che i propri cacciatori si ritenevano liberi di frequentare il casinò come un qualsiasi turista annoiato. «Abbiamo avuto pietà per secoli: non la meritano più. Oggi, amici, demoliamo lo statuto di segretezza. E ci riprendiamo il mondo» poco male, era uno degli aspetti di quel tempo cui aveva trovato difficile abituarsi. Non era sicuro che quell’uomo lì fosse la persona giusta per guidarli verso una società più civile, ma almeno era un passo verso la giusta direzione. Dopo aver controllato che la situazione nella sala non stesse sfuggendo di mano -ma in realtà poco gli interessava, ci sarebbe stato qualcun altro a fare il suo lavoro- fece cenno a Jamie di seguirlo. Sapeva esattamente cosa volesse, ma non voleva dire che glielo avrebbe ceduto su un piatto d’argento. Erano pure sempre a lavoro, cristo dio. E ok che ultimamente non avevano avuto tempo per nulla più che un friendly lavoro di mano o bocca, ma non voleva dire che avrebbe sbattuto l’Hamilton al primo muro disponibile. Unless. Non si fidava abbastanza di se stesso, quindi fece che condurre Jamie lungo un breve corridoio, per poi tirare fuori un mazzo di chiavi e smanettare con la serratura della stanza del personale. Una break room che nessuno usava, davvero. Era un posto abbastanza tranquillo per parlare, sapete. Poco frequentato. Perfetto per un omicidio. Cosa? Cosa? «era ora che qualcuno facesse qualcosa» buttò lì, perché non sapeva bene come processare la situazione. Non sapeva bene come processare la vita, a dirla tutta. Ma poco gli importava di Abbadon in quel momento, c'erano questioni più impellenti. Lasciò che Jamie chiudesse la porta alle sue spalle, prima di incrociare le braccia al petto, un sopracciglio sollevato mentre osservava la sua figura. «sei passato per un saluto o...?» davvero, alle volte era difficile decifrare le intenzioni dell'Hamilton. Ma non quella volta. Voleva solo sentirglielo dire, perché potevano giocare in due a quel gioco.
    william rowan barrow II
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    Ah, i grandi sacrifici nella vita, eh Gugi? Un uomo provato, nel gesto con cui lo invitò a seguirlo dopo una rapida occhiata al circondario. Non si voltò neanche per assicurarsi che effettivamente l’Hamilton lo stesse assecondando. D’altronde, quando mai non l’aveva fatto. Jamie represse un sorriso schiacciando le labbra fra loro, sopracciglia arcuate e lingua a premere contro il palato, scivolando fra i mormorii dei presenti nel farsi strada verso il Barrow. Si lasciò condurre sul retro, le dita a scivolare su tutti i muri. Poggiò una spalla allo stipite della porta davanti al quale si era fermato, osservandolo mentre faceva tintinnare il mazzo di chiavi cercando quella giusta. Il sorriso alla fine guizzò comunque dove non doveva, riempiendo lo sguardo del cronocineta e sollevando gli angoli delle labbra verso l’alto. Adorabile. Tutto impettito e serioso come se lo stesse accompagnando ad assicurarsi che le bolle fossero compilate nel modo corretto, e non a cercare un angolo lontano da occhi indiscreti per sbatterlo al muro ed abbassare le cerniere di entrambi. Picchiettò il capo contro la cornice, riflettendo sulle infinite possibilità oltre quella porta. La testa di Jamie Hamilton ovviamente era già lì, nel domandarsi pigramente se la preferisse fra le gambe di Will, o la sua fra le proprie. Se avrebbero sgombrato una scrivania, o si sarebbero fatti andare bene i ripiani degli scaffali. Il pavimento. La porta ora socchiusa, con la possibilità che qualcuno passasse all’esterno e sentisse i respiri ed i gemiti soffocati nel palmo attraverso il legno. Sapere che potesse avere tutto, di quel che un tempo aveva solo sognato e cercato nelle mani d’altri, era tutto un altro tipo di dipendenza. Un volere comunque di più, come se fosse possibile. Un insoddisfazione che nasceva dall’avere tempo, avere il permesso, e sentire comunque che non fosse abbastanza. Quietare il bisogno a gonfiarsi nel petto ricordandosi che ci sarebbero state altre occasioni.
    Non era preoccupato nei riguardi della guerra imminente. Qualcuno sarebbe morto, ovviamente, ma il complesso divino dell’Hamilton gli impediva di pensare che quel qualcuno potessero essere lui o William; degli altri, se n’era sbattuto il cazzo anche quando non avrebbe dovuto, e non avrebbe cominciato ad interessarsene quel giorno.
    Lo seguì all’interno della stanza, battendo languido le ciglia nel chiudere intenzionalmente la porta alle proprie spalle. Poggiarci sopra il suo peso, così che almeno un lato fosse coperto. Sempre a cercare un lato solido e sicuro su cui poggiarsi, in qualunque contesto, perché Jamie Hamilton era prima di tutto un soldato, ed esistere il suo costante campo di battaglia. «era ora che qualcuno facesse qualcosa» Davvero, Gugi. Davvero. Lo osservò a palpebre socchiuse, dita intrecciate fra loro e braccia incrociate dietro la schiena. Si strinse nelle spalle, blando e senza aggiungere altro, abbassando la testa per poterlo guardare di sottecchi e lasciare che l’espressione dicesse da sé che la terza guerra mondiale potesse aspettare. Che avrebbero potuto tornarci dopo, sospiri sazi e membra stanche. Che se voleva prendere e perdere tempo, non avrebbe dovuto incastrare la propria vita con quella di un cronocineta, perché il tempo era la sua specialità. «sei passato per un saluto o...?» Trovò la domanda divertente, ed umiliante, perché voleva credere di essere migliore di così, ed invece non lo era. Era davvero passato per un saluto. Un po’ morboso, inconcepibile. Si giustificava quelle necessità dicendosi che prima avessero sempre lavorato insieme, che fosse abituato a girarsi e trovarlo al suo fianco sempre. Si diceva che fosse noia, perché neanche tutto il loro storico bastava a rendere normale agli occhi di Jamie Hamilton che qualcuno potesse mancargli e basta, senza secondi fini. Lo trovava stupido, e l’avrebbe giudicato in chiunque altro. Debole. Fragile. Vulnerabile. Fece pressione con i palmi sulla porta, dandosi la spinta per avanzare verso Will. Con calma, perché la fretta era cattiva consigliera; perché poteva muoversi in quel piccolo spazio senza timore che nessuno dei due sparisse da un momento all’altro. Un passo, due; piegò il capo sulla spalla e sorrise, chinandosi per bisbigliare al suo orecchio. «ciao» voce bassa, l'ombra di un sorriso all'angolo sinistro delle labbra. Esitò un istante solo, la bocca a pochi centimetri dalla pelle, prima di drizzare la schiena e superarlo, girandogli pigro attorno. Le mani che aveva tenuto allacciate dietro di sé si spostarono sui fianchi dell'altro, scorrendo appena di pochi centimetri verso il basso per stringere il tessuto nei palmi e tirare. Sollevò l'indumento quanto bastava a far scivolare il palmo sulla pelle nuda, delicato nel tocco come raramente si permetteva di esserlo, e trascinò le dita spostandole insieme ai propri passi, misurati e leggeri. Alzò ancora, togliendo ogni impiccio, fino a trovarsi nuovamente di fronte al Barrow. Sorrise indolente, allora. Batté le ciglia e cercò i suoi occhi, che lasciò solo il tempo necessario per un rapido sguardo alle braccia. Non aveva bisogno di aggiungere altro, ma inarcò comunque un sopracciglio per sottolineare che quelle braccia dovesse sollevarle. L'avrebbe aiutato, se voleva. Volentieri. Si avvicinò abbastanza da invadere i suoi spazi e riempirli egoisticamente solo di sé, i polpastrelli ad esitare sulle zone che sapeva essere più sensibili. Spinse ancora, perché spingeva sempre, sollevando la parte superiore della divisa fin sopra le spalle, ed ancora finché il colletto non superò il mento. Le dita si arrampicarono sulle braccia di Will, ancora incastrate nella divisa. Ed allora strinse, seguendo il ritmo del proprio respiro, di quelli persi e quelli offerti. William Barrow II era sempre stata la sua eccezione in merito ai regali, che l'Hamilton di suo non faceva ad un cazzo di nessuno: gli aveva dato la sua amicizia, la sua gioventù, un cuore che valeva poco ma era più suo che proprio. Gli regalò anche quel sospiro, direttamente sulle sue labbra. L'unica parte scoperta del volto, insieme al naso. Ancora incastrato nella divisa.
    Strinse un po' di più, perché poteva. Non abbastanza da far male, solo per dirgli di rimanere così. Ancora un po'. Il tempo di permettersi di respirare liquido, e stupirsi sempre che stesse succedendo davvero. Di togliere dallo sguardo ogni muro eretto a se stesso, e cedere ogni pietra.
    Strofinò la fronte sul tessuto. Indugiò con le labbra sopra quelle di Will, lasciando che sentisse i suoi respiri. Se li prendesse, se li voleva. E deglutì, Jamie.
    Perché era un bastardo, e lo sapeva. Era un infame, e sapeva anche quello. Non se lo meritava, e gli spezzava il cuore di continuo senza mai fare ammenda. Perché sembrava non imparare mai. Perché sapeva solo rovinare tutto quel che toccava. Crudele. Sadico.
    Ma «lo sai che ti amo, vero?» e lo baciò prima di sentire la risposta, perché non voleva sentirla. Nessuna delle ipotesi era corretta, o accettabile. Così premette le labbra sulle sue, gentile. Una volta; due. Alla terza smise, aprendo la bocca con la propria, la lingua a scivolare oltre le labbra. Non era mai familiare. Avrebbe dovuto, ed invece non lo era, scariche a scivolare in ogni terminazione nervosa rendendo il battito folle ed incessante. Lo sentiva in gola e sulle tempie. Lo sentiva più in basso, nel corpo spinto contro quello del Barrow, senza un solo spazio che non fosse loro.
    Se lo sarebbe tenuto così per sempre, se avesse potuto. Quegli istanti in cui poteva pensare di essere quella persona, di poter avere tutto, di non aver bisogno di rovinarsi per sentirsi un essere umano. Lontano dal mondo. Dalle persone.
    Dalle conseguenze.
    Si distanziò quanto bastava a permettergli di togliersi completamente la maglia, e sorrise ai capelli arruffati. Le guance arrossate.
    Un sorriso che non aveva mai visto nessun altro, per inciso. Un informazione che avrebbe tenuto per se.
    «quanto dura la tua pausa?»

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    William Barrow aveva avuto molte idee idiote in vita sua, ed era convinto che quella rientrasse in quella particolare lista. Si sarebbe fatto licenziare, come minimo. Ma ne sarebbe valsa la pena? Difficile dirlo, dipendeva se Jamie era disposto a fargli da sugar daddy. Non gli sfuggì l’aria divertita dell’Hamilton, ma se la fece scivolare addosso come se fosse di poca conseguenza- nonostante tutto, apprezzava quell’attenzione. O gli avrebbe tirato una testata da diversi anni, cosa che si meritava tutta. «Ciao» incredibile che, non importava quanto tempo fosse passato, il Barrow finisse sempre con l’essere catturato dalla sua voce. Voce che cercò di seguire con le labbra, ma che si allontanò troppo in fretta per i suoi gusti. Non mise il broncio perché era un adulto, ma poco ci mancò: Jamie e i suoi stupidi giochi. Come se avessero tempo per tutti quei preliminari. Trattenne un sospiro quando le mani dello special si insinuarono sotto la sua camicia e sulla pelle calda, conscio del fatto che chiunque avrebbe potuto passare dietro alla porta. Anche se l'idea che qualcuno avrebbe potuto sentirli non gli dispiaceva come avrebbe dovuto. «Dio, mi sei mancato» un sospiro delirante, parole a scivolare con una sincerità disarmante dalle sue labbra. Negli ultimi mesi era poco il tempo che aveva potuto dedicare a Jamie, e la mancanza si faceva sentire in ogni fibra del proprio corpo. Non erano sempre gli stessi i turni al Cheshire, e spesso era capitato che i loro orari non si sovrapponessero. Sollevò le braccia così che Jamie potesse spogliarlo dalla divisa, felice per una volta di lasciare il controllo nelle mani altrui. «lo sai che ti amo, vero?» fu allora che William sorrise contro le labbra dell’Hamilton, il cuore a saltare un battito come faceva sempre quando sentiva quelle parole- una novità che non smetteva mai di stupirlo. Ancora non lo credeva reale, che qualcuno come Jameson Hamilton amasse lui. La risposta di William era una che aveva passato anni a sussurrare sulla sua pelle come una preghiera, che aveva urlato ai quattro venti in stati di ubriachezza molesta, e che entrambi conoscevano. Eppure, non si sarebbe mai stancato di ripeterglielo. Fece per rispondergli, ma le sue labbra furono prese in ostaggio da quelle dello special; non sarebbe stato lui a lamentarsi. Spostò una mano sul fianco dell’altro, l’altra a scendere verso il suo sedere perché era pur sempre un uomo debole. Quando Jamie portò il capo indietro, Will fece per inseguire le sue labbra, portando da un istinto che urlava di godersi quel momento finché aveva tempo. Al contempo, non era per niente giusto che lui fosse già mezzo svestito mentre l’Hamilton vantava la sua solita compostezza. Portò le mani sui primi bottoni della sua camicia, le sue dita a inciampare e ad incastrarsi sui bottoni dalla foga. «Quanto dura la tua pausa?» rimase momentaneamente interdetto dal sorriso sul volto di Jamie -sotto al JamieExpress in tutti i luoghi e laghi. Dio, sarebbe dovuto essere abituato dopo diciassette anni, eppure ogni volta falliva miseramente. «Abbastanza» soffiò sulle sue labbra, le dita a riprendere la loro discesa mentre altre parti erano occupate a far sentire a Jamie esattamente quanto avesse bisogno che si dessero una mossa «dipende quanto sei bravo» e se aveva tutta l'aria di essere una sfida, era perché lo era. Decise di averne avuto abbastanza, avrebbe strappato quei due maledetti bottoni che gli rimanevano. Portò le mani al lembi della camicia e fece scivolare il tessuto dalle spalle dell'Hamilton-
    elisa 🍵, [21/08/2023 22:57]
    palla lo faccio?

    🔮 Palla Magica Bot, [21/08/2023 22:58]
    🔮 Le stelle dicono...
    Ovvio

    Ovvio.
    Anche lei pensava che Jamie si meritasse di essere giudicato dalla Giustizia Divina.
    «Uh-» molto eloquente, il Barrow, ma rimase interdetto per un momento nel vedere le macchie che avevano tutta l'aria di essere succhiotti. Sul suo fidanzato. «Cosa sono questi?» alzò gli occhi sul viso dell'Hamilton, occhi limpidi a specchiarsi nelle acque torbide dell'altro- non riusciva a leggerlo. Non vi era alcuna accusa nel tono del Barrow, se non una genuina confusione. Perché era impossibile. La sola idea faceva ridere. Giusto?
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    Jamie Hamilton era un ragazzo complesso che arrivava senza libretto d'istruzione. Andava interpretato, scelto, montato con i pezzi da imballaggio; principalmente, preso come giungeva, perché era alquanto difficile che fosse disposto a concedere altro di sé se non quello che voleva mostrare. Neanche al suo peggio, e ce n’era stato parecchio, aveva mai offerto il pacchetto completo. Era diviso in parti ineguali, ciascuna terribile a proprio modo: l’assassino a sangue freddo, e quello a sangue caldo; l’amante, l’amato; giudice, giuria e boia; il simpatico ragazzo della porta affianco a cui chiedere lo zucchero, e quello da sbattere contro le porte chiuse di un ascensore; il ladro, il truffatore; l’ordine ed il caos. Non si escludevano a vicenda, riuscendo paradossalmente a convivere tutti compressi in sorrisi di cui sceglieva le sfumature strada facendo.
    Il bugiardo.
    Neanche William lo conosceva. Non davvero, non completamente. Il Barrow credeva di farlo, e l’Hamilton gliel’aveva lasciato credere perché quel che sapeva era già abbastanza senza dover scendere nello specifico, ma c’erano momenti in cui le bolle di vuoto che Jamie teneva fra loro, inevitabilmente, esplodevano. Un fottuto caleidoscopio a cambiare disegno a seconda di come lo si guardasse, Jameson; doveva ancora abituarsi al fatto che Gugi ora guardasse, e – peggio ancora - vedesse. Era stato la sua ombra per gran parte della loro vita. Essere visto come entità a sé, era qualcosa a cui ancora faticava ad abituarsi.
    Forse perché non voleva. Jamie sapeva che fosse meglio non guardare, perché non c’era nulla che meritasse di essere visto. Che se non era stato completamente sincero con lui, l’aveva fatto per loro. Un modo malsano, ed impostore. Una realtà manipolata: il pacchetto completo non aveva un posto nella società, figurarsi al fianco di Will. Eppure Jamie quel posto lo voleva; era suo, Cristo Santo. Se l’era guadagnato, e fottutamente meritato, e non farci questo, Gugi. Per favore.
    La versione migliore di Jameson Black Barrel Hamilton, era comunque la peggiore immaginabile.
    Non c’era un lieto fine alla sua storia. Non esisteva il cosiddetto arco di redenzione, una volta trovato il bacio del principe: quelle erano stronzate da favola, e la loro vita era tutto eccetto che una fiaba. Le persone non cambiavano, e l’amore non era mai abbastanza. Un cinico? Un disilluso? Forse. Ma si conosceva abbastanza da non mentire a se stesso, Jamie – che era molto più di quanto potesse dire gran parte del resto del genere umano, quello che credeva al “con me è diverso” e “posso aggiustarlo” – conscio di quel che fosse, e quel che non fosse.
    Ad esempio, non era una brava persona. Era un bravo sicario, un eccellente affarista, ed un discreto imprenditore. Un amante squisito. Un mediocre collega, pur essendo un perfetto Cacciatore. Non era un bravo amico, così come non era stato un bravo figlio.
    Non era un bravo compagno.
    Non gli aveva mai impedito di smettere di esserlo: un compagno, un figlio, un amico – perfino una persona. Biasimava se stesso, sì, ma anche gli altri che insistevano a permetterglielo, rendendolo puttana di una speranza infida a pungolare il fianco e suggerire che forse non dovesse essere bravo; forse esserlo sarebbe stato abbastanza. Se lo sarebbero fatti andare bene.
    «Uh-»
    Si immobilizzò.
    Jamie Hamilton era il cattivo di quella storia solo perché William gli aveva dato gli strumenti per esserlo. Il suo cuore, ad esempio. Chi mai avrebbe fatto qualcosa di così stupido ed insensato come dare il proprio cuore a Jamie Hamilton, santiddio. Avrebbe dovuto ricacciarglielo nel petto a forza, con un sospiro stritolato fra i denti ed un sorriso mormorando servisse più a lui; era stato egoista a tenerselo, sapendo che stringendo avrebbe finito per spremerlo.
    (Sara: Jamie… senti. Senti. Parliamone...ti va…
    Jamie: mh… nah.)
    Fu fastidio. La prima emozione a incrinare gli occhi blu dell’Hamilton, posati oltre le spalle del Barrow, fu fastidio. Noia all’idea di dover affrontare quella conversazione, con una patina di rabbia precoce, accesa da qualcosa che doveva ancora accadere.
    Istinto.
    Troppo istinto per una creatura logica e razionale. L’Hamilton era entrambe le cose, e non sempre funzionavano contemporaneamente. Combatti o fuggi, ma lui voleva farle ambedue. Passò la mano sulla bocca, tamponando il rossore con il palmo asciutto. Il fiato ancora corto a stabilizzarsi; polmoni a contrarsi ed espandersi, mentre il cuore rallentava l’andatura portandolo ad uno stato di quiete che -
    (Sara: jamie…….. per favore…. Pensaci…..)
    - sapeva avrebbe rimpianto. Li aveva anche Jamie, dei rimorsi.
    Riguardavano tutti William.
    Seguì il suo sguardo sul proprio corpo. Si obbligò a non irrigidirsi, passando cauto la lingua su ogni dente. Prendere tempo.
    «Cosa sono questi?»
    Alternative. Così tante alternative di fronte a sé; scelte, strade che aveva già percorso e che avrebbe battuto altre cento volte. Svuotò il proprio sguardo da ogni emozione, era bravo a farlo, lasciando solo il piacevole tepore dei baci appena scambiati. La pelle ancora calda dell’impronta del Barrow. I capelli scompigliati, come quella mattina e le migliaia precedenti.
    La soluzione più ovvia, ed anche la più codarda, sarebbe stato riavvolgere il tempo a prima che entrassero in quella stanza. Quel segreto, Jamie, avrebbe potuto portarselo con sé ancora per un po’, magari abbastanza da ripetersi che sarebbe stata l’ultima volta. Sarebbe stato semplice, e non avrebbe lasciato di sé neanche un’ombra, non un deja-vu. Fece scivolare i polpastrelli sul braccio del Barrow, spostando lo sguardo da quello dell’altro per seguire il movimento delle proprie dita.
    Poteva mentire. Poteva e voleva mentire. Sarebbe stato facile. Esistevano diverse tipologie di menzogne al mondo, ma la vera bugia, quella che i bugiardi come l’Hamilton usavano più di frequente, era quella che gli altri volevano sentirsi dire. Will ci avrebbe creduto non perché fosse uno stupido credulone, ma perché avrebbe voluto crederci; perché l’Hamilton l’avrebbe accompagnato a credere fosse l’unica soluzione possibile.
    Andiamo, William. Mi conosci. Un’altra bugia.
    (E Jamie voleva farlo.
    Così come voleva essere onesto, brutalmente onesto, e ridere crudele di come il Barrow avesse potuto essere così ingenuo da credere che l’Hamilton fosse cambiato – che la loro relazione potesse essere l’unica, quando Jamie riusciva a sentirsi vivo solo negli errori.
    Voleva essere cattivo, perché era la versione di sé che gli riusciva meglio. Raffreddare lo sguardo; rendere quella stretta una morsa, e chiedergli cosa cazzo si fosse aspettato, uh?.
    Voleva attaccare. Voleva far male, così da potersi convincere fosse stata una sua scelta. Un suo calcolo. Un suo disegno. Voleva strizzare il cuore di William fottuto Barrow II fino a perderne carne e sangue dalle dita serrate, e poi sfregarle fra loro con un sorriso.
    Ma Sara ha bisbigliato, piano, al suo orecchio: è Will, Jamie. È il tuo Will, ricordi?
    Che era vero.
    Jamie non voleva fargli male. Non intenzionalmente. Non guardandolo in quegli occhi troppo grandi, e troppo onesti, e troppo familiari. Ritrasse le zanne, perché non voleva morderlo. Non era quello il segno che voleva lasciare. Non era così che voleva essere ricordato – perdonato; amato.
    Era vero, che lo amasse. A giurarci su Dio, o su chi cazzo crediate, Jamie amava William.)
    Deglutì. Continuò a guardare le proprie dita, scendendo fino alla mano di Will, che strinse piano nella sua.
    Non farlo. Ti prego non farlo.
    «ha importanza?» mormorò, piano.
    Molto piano.
    Sollevò la mano del Barrow, studiandola sotto la luce elettrica della stanza. Avrebbe accettato l’inevitabile violenza di quella taciuta ammissione, ma non prima di aver posato delicato un bacio sulle nocche, strofinando appena le labbra. Sopracciglia corrugate, perché c’erano cose che non sapeva, e che non avevano importanza.
    Non significavano niente.
    Jamie Hamilton non sapeva come essere diverso da se stesso.
    jameson black barrel
    hamilton

    If my sea dug a hole
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    But I loved you to death,
    could you handle the pain?
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    jamie nella sua hans era
     
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    Quando William era piccolo, c’era un gioco che puntualmente gli veniva presentato davanti. Uno di quei giochi vecchio stile, ormai una rarità in un mondo che si era evoluto oltre la necessità del giocare a domino. A dire la verità, non sarebbe stata la sua prima scelta, ma una delle sue cugine più piccole insisteva per provarlo ogni volta. Anche da bambino, William era sempre stato preciso, metodico e calcolato nelle sue scelte. Gli veniva naturale allineare i pezzi di plastica uno dietro l’altro, non troppo lontani o vicini, disporli secondo una fantasia sempre più elaborata. Quello che disprezzava più di tutto, e il principale motivo per cui quel gioco non gli andava a genio, era il momento in cui il primo pezzo di domino crollava, trascinando insieme a lui ore di lavoro. L’unica cosa che William poteva fare era osservare impotente, relegato al ruolo di spettatore che, anche volendo, non avrebbe potuto influenzare il destino di quello che era stato messo in moto. Al momento, il Barrow si trovava su quel precipizio, inerme davanti al primo domino che cadeva, e poi un secondo, un terzo ancora- ancora e ancora a disfare e a tirare e distruggere.
    Tracciò i bordi del livido violaceo sulla pelle di Jamie, come un bambino che ancora non aveva imparato a tenere le mani a posto, che ancora non era stato bruciato dalla fiamma dei fornelli. Non aveva idea di cosa fosse riflesso sul suo volto, dopotutto non era mai stato padrone della propria mimica facciale come lo special davanti a sé. Sollevò appena lo sguardo, guardingo e spaventato, un animale con le orecchie appiattite sul capo e i canini ad affondare nelle labbra. Quello che vide riflesso nelle iridi cerulee di Jamie fu fastidio. Poi niente. Vuoto, desolato, terribilmente solo.
    Sarebbe stato così facile fare finta di niente.
    Riavvolgere il tempo, fermare i pezzi uno dopo uno e riportarli al loro stato originale. Perfetti. Inviolati. Immacolati.
    Ma William conosceva bene il suo partner, forse meglio di se stesso, aveva speso la maggior parte della sua vita a fianco a lui e sapeva che non l’avrebbe fatto. Sarebbe stato troppo facile, e Jamie Hamilton amava farsi del male più di ogni altra cosa. Forse era l’ebbrezza del momento, la malata e perversa sensazione che finalmente scrollava il muscolo cardiaco dal suo sopore. Il Barrow non ne aveva idea, e non gli interessava scoprirlo in quel momento.
    O forse quella di William non era altro che una pia illusione. In fondo, non gli sembrava di conoscere affatto l’uomo che aveva davanti.
    Seguì il movimento dei polpastrelli del cronocineta sulla propria pelle, lo lasciò fare, incapace di mettere fine a un contatto che disperatamente bramava. Sempre, nonostante tutto. Era debole, William Barrow, e Jamie lo sapeva meglio di tutti. Sapeva che per lui avrebbe fatto sempre un’eccezione. Anche quando intrecciò le loro dita, e quel traditore del suo muscolo cardiaco decise di tornare in vita proprio in quel momento.
    «Ha importanza?»
    Ha importanza?
    No, supponeva che ormai non avesse più importanza.
    Non aveva mai avuto grandi pretese nella vita, William Barrow. Di certo, non che qualcuno lo amasse. Che lo stringesse al proprio petto quando il mondo diventava un po’ troppo. Era ben contento di farsi bastare se stesso, perché almeno, su quello, avrebbe sempre potuto fare affidamento. E poi Jamie Hamilton si era fatto strada nella sua vita con la forza di un tifone e William aveva dimenticato cosa volesse dire respirare.
    Deglutì, quando il cronocineta abbassò il capo per poggiare un bacio sulla sua mano, ma non trovò la forza di ritrarla. Di sottrarsi a quell’ennesima presa in giro. Distolse lo sguardo, poggiandolo sul pavimento, lontano da qualsiasi cosa che fosse Jameson Hamilton. Voleva andarsene da quella stanza e sbattere la porta, urlare e urlare ancora fino a che la gola non avesse sanguinato e fosse stato troppo esausto per continuare a inveire contro il suo migliore amico. Voleva restare lì e poggiare la fronte contro la sua spalla come aveva fatto decine di volte, cercare conforto nell’odore familiare -di casa- del suo dopobarba e chiedergli cosa avesse fatto di sbagliato. Sapeva bene di non essere mai stato abbastanza, il Barrow, non la persona più intelligente o più carismatica nella stanza, ma non aveva mai dovuto plasmarsi in qualcosa che non era per l’Hamilton. Aveva creduto, forse ingenuamente, che c’era stata una ragione se Jameson l’aveva scelto una volta, e ogni volta dopo quella. Evidentemente, si era sbagliato. William restò così, immobile, congelato nel tempo, con entrambe le braccia lasciate lungo i fianchi. Pareva una marionetta a cui avessero tagliato i fili all’improvviso, dimentica di cosa volesse dire avere un battito. «perché?» non riconosceva la sua stessa voce, ruvida e gracchiante, fragile nella sua stessa manifestazione. Un sussurro, una supplica, impossibile da non cogliere nel silenzio della stanza. Svuotò attentamente il volto di ogni emozione, distese le linee della bocca laddove minacciavano di tremare e impose ai suoi occhi di rimanere asciutti, testardo nel disperato tentativo di mantenere un briciolo di dignità. Voleva vomitare, William. Aveva bisogno di nascondersi dove nessuno l’avrebbe trovato e farsi sempre più piccolo. Voleva affondare la lama del coltello ancora più a fondo solo per ricordarsi cosa volesse dire provare qualcosa che non fosse la voragine nello stomaco. «da quanto tempo, jamie?» perché, almeno quello, meritava di saperlo. Da quanto tempo andava avanti, quanto poco ci avesse messo a buttarlo via come la carta stropicciata di un pacchetto di sigarette. «li conosco?» uomo, donna, whatever in between, sapeva bene che l’Hamilton non si era mai fatto scrupoli. E, in effetti, non era ironico? Le relazioni di William finivano sempre nello stesso modo, un loop continuo a cui non riusciva a scampare. Nemmeno se ne accorse quando le sue dita trovarono il polso di Jamie, istinto a sovrascrivere raziocinio, il pollice a poggiarsi sopra il battito dello special. Disperatamente a cercare un tocco, un conforto che sapeva di non poter più trovare nella pelle dell’altro. «e non mi dire che non ha importanza, cristo-» la voce non si ruppe, non si ruppe perché si rifiutava, perché odiava quello a cui si era ridotto. Aggrottò le sopracciglia, il petto a sollevarsi e abbassarsi un po' più velocemente, la lingua a inciampare e a rifiutarsi di collaborare «eri il mio migliore amico» un filo di voce, niente di più che un sussurro, la confessione di un uomo che stringeva tra le dita -incredulo, ostinato- l'ultimo pezzo del domino per evitare che crollasse. Era il mio migliore amico. Perché prima di essere il suo partner, l'uomo con cui voleva spendere la sua vita, era stato il suo migliore amico. E quel giorno, William sentiva di aver perso entrambi.
    william rowan barrow II
    And some things you just can't speak about
    But you dream of some epiphany
    Just one single glimpse of relief
    To make some sense of what you've seen
    french
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    tutti nella loro hans era quando ormai le parole sono superflue
     
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    Lento. Tutto incredibilmente lento. Il mondo avrebbe dovuto crollare, non fermarsi. Un respiro solo sembrò costargli giorni, mesi, fatti di lento incamerare ossigeno, trattenerlo, e soffiarlo facendo meno rumore possibile. Combattendo contro la pressione ai polmoni. Temeva che un movimento più azzardato spezzasse il friabile equilibrio di quel castello di carte; la mano in quella del Barrow, era la cazzo di spalla contro la porta ad impedire che il vento facesse collassare la costruzione su se stessa. Trattenerla in bilico, seppur per poco. Ancorarla alla propria gravità. Riusciva a sentire gli ovattati rumori provenienti dall’esterno, un mondo che mai come in quel momento gli era parso distante. Insignificante. Stava per scoppiare una guerra, ed il cronocineta riusciva a pensare solo che fosse la battaglia sbagliata, e che in quella giusta avesse già perso. Armi di cilindrata troppo grossa; spade tenute dalla lama anziché dall’elsa.
    L’incrinatura nell’assetto dell’universo quando William Barrow guardò ovunque eccetto che verso di lui.
    Poteva ancora sentire il calore delle dita a sfiorare la pelle, disegnando contorni che non gli appartenevano, ma erano suoi comunque. Non sapeva come dirglielo. Non sapeva come farglielo capire ed avere senso, perché raramente nella parte più livida e macilenta di se stesso, l’Hamilton aveva senso per qualcuno che non fosse se stesso.
    Non ha importanza.
    Non l’aveva in quel momento. Non l’aveva avuta quando a tracciare quelle impronte, erano state bocche diverse dalla sua. Il sesso non significava niente. Lo considerava un passatempo come il biliardo e le freccette; uno sport come il tennis e la pallavolo. Non era intimo. Non era Jamie. L’aveva fatto sapendo fosse sbagliato, consapevole che lo sporcarsi d’altri avrebbe spezzato il cuore di Will, ed era stato tutto parte del perverso e malsano gioco che continuava a perdere contro se stesso.
    Perchè?
    «perchè?»
    Premette con forza la lingua sul palato. Era stato una guardia. Un soldato. Era un cacciatore, ed un mercenario che scambiava il denaro per vite umane. Di colpi, nella sua vita, ne aveva presi.
    Pochi avevano fatto male quanto quella domanda. Quel tono così ruvido da farlo sentire scorticato ed esposto. Vulnerabili alle infezioni. Serrò le palpebre, ingoiando il sangue mescolato alla saliva, permettendo al ronzio del neon di riempire quel silenzio.
    Lo sai, perché.
    Scosse appena il capo, una volta. Un gesto involontario a rilasciare parte della tensione della mascella, così serrata da temere che i denti si sarebbero spaccati lacerando l’interno delle guance. Perchè? Lo conosceva da quand’erano ragazzini; la risposta ce l’aveva di fronte a sé, ed aveva spalle larghe e pelle nuda. Era così semplice da risultare banale, così ovvio che non vide la necessità di rispondere, socchiudendo le palpebre per pesare occhi blu sul profilo del Barrow.
    Non ce l’aveva, un cazzo di perché. Era egoista, alla ricerca del piacere anche - soprattutto - dove non avrebbe dovuto. Respirava per spingere i propri ed altrui limiti, valicandoli solo per poter dire di essere tornato indietro integro. Le conseguenze gli sembravano sempre così lontane, quando a parlare era la carne. Ed era vero, che gli piacesse soffrire. Non razionalmente, chi mai l’avrebbe voluto per se stesso?, ma gli piaceva comunque, perché lo faceva sentire reale e sbagliato e umano. Era una creatura abietta e sporca, Jamie Hamilton; scontato trovasse se stesso solo nelle parti peggiori.
    Non aveva giustificazioni da offrire a Will, e non voleva dargliene.
    Il peggio, il fottuto peggio, era che una parte di lui fosse felice avesse trovato quei segni. Soddisfatta. Sorrideva languida di quel dolore, dell’essere visto per quel che era, e non quel che William Barrow aveva desiderato fosse. Sadico, nella terrena dimostrazione che le eccezioni non esistessero; che lo amasse, ma restasse un bastardo. Voleva ridere, piatto e distaccato, ed assorbire quella sofferenza come una cazzo di spugna emotiva, risucchiando finché di loro non fosse rimasto un cazzo di niente.
    Sadismo e masochismo erano sempre andate mano nella mano, nella vita del cronocineta. Devastava tutto quel che aveva, ingrassando il lato perverso che voleva incutere terrore ed odio.
    Perchè?
    Non farmelo dire.
    «will...» un bisbiglio roco, quello di Jamie. Non rotto, ma affilato comunque: una bottiglia già spaccata in partenza, i cui cocci scricchiolassero sotto le scarpe. Non era un tono di scuse, il suo; non era dispiaciuto, Jamie Hamilton.
    Non sapeva come esserlo. Non sapeva dare un nome al battito lento e pesante nello sterno, od al perché misurasse ogni fiato a scaldare lo spazio fra loro. Forse era quello, essere dispiaciuti?
    Voleva capisse. Non voleva dirglielo.
    Aveva importanza?
    Non aveva mai avuto molto con cui poter amare qualcuno. Quanto di buono c’era stato in Jameson, era rimasto sepolto insieme a sua madre e sua sorella. Qualunque cosa l’avesse legato a Leonard, era stato più odio che amore; con Melvin, più bisogno che amore. Ma Will. L’aveva odiato, e ne aveva avuto bisogno, e comunque amato più del resto, perché era il suo migliore amico. Si era fatto scegliere; se l’era stretto al dito come una promessa.
    Non l’aveva mantenuta. Ed allora se l’era agganciato alle costole, nascosto dietro ossa e buio. Aveva pensato che dargli il proprio meglio, sarebbe bastato ad eclissare il resto.
    Tutto il fottuto resto, Jamie?
    Faceva ridere, con il senno di poi. Quasi ne sorrise perfino in quel momento, con i brandelli ancora sanguinanti del cuore del Barrrow a colare fra le falangi.
    «da quanto tempo, jamie?»
    Oh William. William. Ancora non l’hai capito?
    Jamie non aveva mai smesso.
    Passò qualcosa di brutale e ferito, negli occhi dell’Hamilton. Si obbligò a trattenere il respiro, moderando il battito e la rabbia a sfrigolare sotto pelle. Non sapeva neanche con chi cazzo lo fosse, furioso.
    (Forse perché non lo era, e quella era paura.
    Ma Jamie? Jamie. Jamie Hamilton non aveva paura di niente.)
    Si disse che… pensava sarebbe andata peggio, sapete. Che avrebbe fatto più male.
    Non sentiva niente. Si sentiva vuoto come i cadaveri che si lasciava alle spalle nei vicoli. Si sentiva slegato dal mondo come la fottuta linea artificiale dell’equatore, costretta ad una forma solo perché gli uomini potessero avere un riferimento e dargli un senso.
    «ti amo da quando abbiamo quindici anni» mormorò.
    Non era una scusa. Non era una richiesta di perdono. Era un dato di fatto, la realtà nuda e cruda. Era la cosa più sincera di se che avesse mai avuto, quella verità lì. Perchè non poteva essere abbastanza? Aveva solo quello. Quei segni? Non avevano importanza. C’era una supplica a cui non sapeva come dar voce, negli occhi chiari dell’Hamilton. Aveva sempre potuto contare sulle parole, ma quel sentimento era qualcosa di troppo vivo per essere costretto a morire fra le corde vocali, strizzato dalla lingua sul palato.
    «li conosco?»
    «no.» per quello aveva una risposta facile, spontanea.
    Non corresse il plurale.
    Erano signori nessuno. Quel che passava il convento, nella migliore delle ipotesi, se non pedine mosse quanto bastava a trovarle in una posizione più comoda per mangiarle. Battè le palpebre. Distolse lo sguardo dal volto di William solo per posarlo sulle dita premute sul suo polso, cosciente che l’altro avrebbe sentito la parte più vera e primitiva di Jameson Black Barrel Hamilton: un animale in trappola.
    Il cuore nel costato. Il sangue nelle vene. Il caos nei liquidi occhi turchesi. Era qualcosa di contenuto a malapena, Jamie. Una bestia con pelle d’uomo solo per caso.
    Ma.
    «e non mi dire che non ha importanza, cristo- eri il mio migliore amico»
    Ma.
    Non lo capiva? Non lo sapeva? Era proprio quello il punto: era il suo migliore amico, il suo amante, l’unico perno al mondo alla sua fottuta salute mentale. Scardinarlo gli veniva più naturale che rimanerci appeso.
    Perchè. Perchè era montato al contrario, come tutti i fottuti Hamilton.
    Non significava che lo amasse meno, o che non gli importasse. Lo faceva. Di nuovo, era quello il punto.
    Voleva essere crudele, e dirgli che fosse sempre stato quello, ma non gli era importato finché l’altro non aveva deciso dovesse significare qualcosa. Voleva dirgli che lui l’aveva amato anche per quello; che a William Barrow II di Francia le cause piacevano solo perse, e l’Hamilton era sempre stata la sua scommessa preferita. Che se lo amava, era perché avesse un motivo per farlo, e migliaia per non farlo.
    Tacque. Continuò a guardarlo cercando d’imprimerselo – l’incredulità, soprattutto.
    Non permettermi di farci questo. Parole in trappola, smarrite fra cervello e bocca. Quando dischiuse le labbra, ne uscì solo un debole «per favore»
    jameson black barrel
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