Oh, you took a wrong turn. now you're stuck in my world.

aperta a tutti!!&&

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    AVVISO AI LETTORI: CONTIENE SCENE...SPINTE E VIOLENTE CIAUZ papà leonard non leggere


    Insane, inside the danger gets me high
    Can't help myself got secrets I can't tell
    I've always liked to play with fire
    jamie hamilton
    07.02.18 | 15:30 h
    chronokinesis | 2094's
    wanted man
    Il sole bruciava l’asfalto della periferia di Parigi, ma per Jamie non faceva alcuna differenza – il tempo non esisteva, per quelli come lui. Chi credeva che gli scherzi della natura uscissero solo dopo il tramonto, doveva evidentemente ancora conoscere Jameson Black Barrel Hamilton, conosciuto da tutti come Jamie: che fosse mezzogiorno o mezzanotte, non aveva alcuna importanza. Voleva vantarsi d’essere un tipo coerente, un ragazzo dai sani principi.
    Ecco perché era un pezzo di merda ventiquattro ore al giorno, Jamie. Non ringraziate.
    Masticava il cemento passo dopo passo, gli scarponcini a scandire tonfi sordi mano a mano che si avvicinava al garage affacciato sul vicolo cieco. Non c’era esitazione nel respiro che placido gli gonfiava i polmoni, alcun indugio nel sorriso a disegnare una pronunciata fossetta sul mento; sembrava sempre più concreto degli altri, Jamie, quasi fosse stato l’unica persona reale sull’intera fottuta faccia della terra.
    Talvolta, pensava fosse così. Passeggiava per le strade solenne e presuntuoso, il nero dell’immancabile giacca di pelle a sporcare le immacolate viottole di quel mondo fintamente ripulito e perfetto: qualcuno l’avrebbe definito l’errore del sistema, ma Jamie era certo di essere l’unica cosa maledettamente giusta che quel sistema ancora possedeva. Se camminava, respirava, sputava e stritolava quel mondo come fosse stato suo, era solo perché così stavano le cose: quel mondo era suo, e l’Hamilton non aveva mai permesso a nessuno di farglielo dubitare.
    Suo era il mondo, sue erano le regole.
    «confido che tu sia nuovo da queste parti,» abbassò gli occhiali da sole sulla punta del naso, il sorriso a riflettersi nelle iridi verdi – un verde troppo brillante per risultare naturale; un sorriso troppo bello, perché fosse sincero. «ed ancora non sappia» incalzò, infilando la montatura scura nel taschino della giacca, avanzando nel mentre di un altro paio di metri verso il suo interlocutore. «che questa zona sia già occupata.» l’espressione serena dell’Hamilton non vacillò d’un battito, mentre il ragazzo incriminato sollevava gli occhi azzurri su di lui – ed ai vent’anni che gli avrebbe affibbiato ad una prima occhiata, dovette aggiungerne quasi una decina: doveva essere più grande di lui, venticinque o ventisei anni. Un viso troppo pulito, in quei lineamenti morbidi e fini, perché potesse essere un ragazzo di strada – una barba troppo fina e curata, nelle ombre scure sugli zigomi. L’altro ricambiò il sorriso, labbra strette a mostrare i denti in un ghigno. «lo so: da me.» ed una risata melliflua scivolò dalla bocca di Jamie, calda e corposa quanto il primo raggio di sole in primavera. Altri metri schiacciati sotto le scarpe, pochi centimetri a dividerlo dal forestiero. Aprì la bocca, la richiuse in un sorriso a metà dall’agrodolce sapore della vittoria. Dal suo quasi metro e novanta, dovette chinarsi leggermente in avanti per poter bisbigliare all’orecchio del ragazzo, la lingua a scivolare sulle labbra rendendo il respiro umido e bollente. «ultimo avviso:» il naso a sfiorare appena la pelle, il tono basso e minaccioso di chi aveva combattuto novantanove guerre, e ne aveva vinte cento. «non si fotte con il sottoscritto.» «non è quello che si dice in giro» posò una mano a palmo aperto sul muro, un’altra risata a vibrare secca nel costato. Si dicevano tante cose, del figlio dell’ufficiale Hamilton: che fosse un menefreghista, un criminale, un contrabbandiere; che se si cercava qualcosa, qualunque cosa, lui avrebbe potuto trovarla – un ricettatore. Girava voce che fosse un assassino, uno psicopatico bastardo; che dopo la morte di sua madre e sua sorella, fosse semplicemente impazzito. Dicevano che fosse un drogato – d’adrenalina, di cocaina, di molte cose che finivano in “ina” - una cattiva compagnia. Girava leggenda che la sua fedina penale venisse smacchiata in casa ogni domenica perché trasudava merda e sangue ogni fine settimana. Un malato, sadico opportunista – un machiavellico, perverso, figlio di puttana.
    Beh. Lui preferiva uomo d’affari.
    Dovevi liberarti di una presenza scomoda? Jamie Hamilton faceva al caso tuo. Dovevi fuggire in Argentina? Era il tuo uomo. Cercavi una Beretta PM12? Bastava specificare il colore.
    Ma su una cosa, si sbagliavano – perché c’era un fatto di cui tutti, in qualunque parte della Francia o dell’Est Europa, erano a conoscenza: la sua fedina penale era immacolata.
    Perché Jamie Hamilton, non era mai stato beccato.
    Quelle erano voci da sobborghi, parole che nei salotti altolocati di Parigi non avrebbero mai avuto coraggio di prendere forma: pubblicamente, Jamie Hamilton era uno stronzo - ma uno stronzo innocente. Veniva ancora inamidato e presentato con onore fra le file del resto della Guardia, omaggiato come meritava d’essere riverito il figlio di un ufficiale.
    E dire che Jamie Hamilton, quelle cose, le era tutte.
    Lo amavano così.
    «cosa si dice in giro?» sentiva il cuore iniziare ad agitarsi nello sterno, la saliva a rendere gonfia e pesante la lingua. Avanzò ancora finché entrambi non si trovarono nel cono d’ombra di una catasta impilata poco distante, una decina di centimetri a separarli. Jamie si ritrovò a deglutire, il pugno a chiudersi sul muro e le palpebre a nascondere parte dello sguardo oramai blu. Anziché rispondergli, l’altro fece scivolare una mano sul petto – e credeva l’avrebbe spinto, ma sperava non l’avrebbe fatto. Umettò le labbra inspirando lentamente, densamente. Le dita del ragazzo premettero appena sul costato, scendendo per seguire le forme di un fisico che Jamie Hamilton s’era sempre impegnato a rendere perfetto – che se aveva un mondo, doveva essere un dio. Ed avrebbe dovuto,ed avrebbe potuto, ma non si ritrasse quando il moro infilò la mano dentro l’elastico dei jeans – e per un istante, sempre per quel solo istante, Jamie Hamilton poteva permettersi di sospirare sollievo: perché per fottertene di tutto, dovevi fotterti un po’ tutto. Per quanto sorridesse sempre d’essere un ninfomane, Jamie non era un dipendente dal sesso.
    Era dipendente da quello.
    Le altre dipendenze erano troppo semplici, gestibili: droga? Sempre in tasca. Alcool? Mai uscire di casa senza la fiaschetta. Donne? Di ragazze, Jamie, poteva averne quante voleva – e quante poteva: non era un ninfomane, ma certamente non s’era mai trattenuto dallo sperimentare tutto lo sperimentabile. Gli piacevano.
    Semplicemente, non quanto quello.
    Inarcò le sopracciglia, decidendosi infine a ricambiare l’occhiata dell’altro. «cosa si dice, in giro?» domandò ancora, la voce a scendere d’un ottava divenendo roca ed intima, mentre la bocca sfiorava la curva del suo collo, arrampicandosi sugli zigomi irsuti ove strofinò le labbra. «che con te si fotte» Jamie si morse l’interno della guancia fino a sentire il sapore dolce del sangue intiepidirgli il palato. «forte» sollevò un angolo della bocca, lo sguardo a posarsi sulle labbra dell’estraneo osservando affascinate il movimento attorno ad ogni parola – ed il respiro si fece ancor più pieno, mentre la mano dell’altro proseguiva a carezzare la tenera carne dell’Hamilton. «e bene.» mise da parte il controllo e scese sulle labbra del ragazzo schiacciandolo contro il muro, la lingua a farsi strada fra i denti. Gli prese il viso in una mano sollevandolo verso di sé, le dita a scavarsi solchi nella carne della guance mentre s’insinuava aspro nella sua bocca. Afferrò il labbro inferiore fra incisivi e canini, e strinse fino a che non ricevette in risposta un basso mugolio che mise subito a tacere, il cuore a pompare sangue in circolo al doppio della velocità consueta. «hanno ragione.» ringhiò cavo in un sorriso sbilenco, ritraendosi di pochi centimetri – e rinserrò la presa sulla testa di lui tenendola ancorata al muro, mentre questi cercava ancora di avvicinarsi. Jamie reclinò il capo all’indietro, un brivido lungo la spina dorsale. Non era mai abbastanza non era mai abbastanza non era mai abbastanza - ed allora spinse il bacino contro la sua mano, facilitandogli così il lavoro. «chiedimi cosa si dice in giro» sussurrò roco strofinando il naso di lui contro il proprio, e chinandosi il poco necessario per rubargli altro ossigeno, altro profumo di colonia ad impigliarsi nei tessuti. «cosa si dice, in giro?»
    Jamie Hamilton poggiò la canna della rivoltella sulla sua tempia. «che questa è la mia zona» non gli diede tempo di mostrarsi stupito, prima di premere il grilletto.
    La detonazione vibrò nel piccolo vicolo di fronte al garage, il sangue gli inzuppò il viso in ruvidi schizzi cremisi. Il ragazzo cadde a terra privo di vita e parte del cranio. Reclinò il capo osservando la chiazza allargarsi sul cemento, liquido scarlatto ad infiltrarsi in ogni imperfezione dell’asfalto. Inserì nuovamente la sicura alla pistola, prima di riporla in tasca – e la sentì bollente attraverso il tessuto sottile della giacca di pelle. Prese un fazzoletto di carta e lo usò per pulirsi il volto, la lingua a scivolare sul labbro superiore recuperando qualche goccia sfuggita al tovagliolo – e si strinse nelle spalle, Jamie Hamilton, nel languido sorriso vuoto che rivolse al cadavere ancora caldo: «avresti dovuto ascoltare meglio.»

    «sei in ritardo» che ironia per un cronocineta, mh? Lanciò un’occhiata di sottecchi ad una delle altre Guardie, il quale indossava la medesima divisa nera che fasciava il corpo di Jamie, e piegò le labbra nell’adorabile sorriso del Jameson Black Barrel Hamilton che tutti non potevano fare a meno di amare: «ero impegnato» «sì, snapchat me l’ha fatto notare» il sorriso sulla bocca dell’Hamilton non fece che ampliarsi, scontrandosi con il primo abbozzo di risata della bocca del suo Capo, Thompson. Jamie, come prevedibile, aveva seguito le orme del padre entrando a far parte di una delle Unità di Sicurezza: Leonard era un Ufficiale della polizia, quindi cos’altro ci si sarebbe aspettato dal suo, ormai unico, figlio? Null’altro: Jamie era stato ben lieto di accondiscendere alle aspettative altrui unendosi alle forze armate – gli stronzi con il distintivo avevano un sacco di privilegi. Poco importava che Jamie fosse pigro: nessuno avrebbe licenziato il figlio di Leonard Hamilton. What a time to be a raccomandato, mh? «puoi biasimarmi?» sollevò le iridi smeraldo su Thompson, la stessa buia consapevolezza che aveva lasciato trapelare dalla (non troppo) sottile storia su snapchat dove lui e …D…Trisha? Vabbè, giacevano sonnacchiosi e satolli fra le lenzuola del suo appartamento – il selfie post rapporto sessuale, era d’obbligo. Thompson scosse il capo con una mezza risata esasperata, una pacca sulla spalla dell’Hamilton. «sei comunque in ritardo, jamie»
    Avrebbe voluto esserlo un po’ di più - ma nel limpido sorriso che rivolse al suo superiore, non glielo lasciò intendere. Non esistevano ragioni abbastanza valide per nessuna delle Guardie, che li giustificasse dall’assentarsi alla manifestazione in piazza, tenuta nel cortile dell’ex Beauxbatons, il sette febbraio: la Festa della Rivelazione, la chiamavano. Il giorno in cui, trent’anni anni prima, i maghi erano usciti allo scoperto con i babbani, e le due forze s’erano unite fra loro creando un nuovo, equilibrato, mondo: le razze avevano cessato d’esistere, gli “special” frequentavano le stesse scuole dei maghi, non esisteva più divisione di sangue che rendesse alcuni peggiori ed altri migliori. Definivano quel giorno l’inizio della Pace, la Fine delle Grandi Guerre, il Sangue Bianco del Genocidio. Apparentemente, c’erano tutte le premesse per un idilliaco e vissero tutti felici e contenti.
    Tutti tranne la quindicenne Kentucky Tavern Hamilton. Tutti tranne sua madre.
    I morti non avevano lieti fini.
    Non che a loro importasse, comunque: quando un mondo si basava sull’ipocrisia, guardare troppo da vicino bruciava sempre la vista. Ventun anni dopo i Patti con i Babbani (ah, dimenticavo: non esistevano più termini come Babbano, Mago o Special – no, troppe etichette: “siamo tutti Cittadini”, recitava il Manifesto del Ministro francese Laverne: uau.), durante quella stessa manifestazione, era crollato un pezzo di quel ch’era rimasto dell’Antica Beauxbatons: era il sette febbraio duemilacentonove, quando due donne rimanevano impigliate sotto le macerie perdendo, in tragiche circostanze, la vita.
    Era il sette febbraio duemilacentonove, quando Leonard e Jamie divennero tutto ciò che era rimasto della loro famiglia.
    L’Hamilton non li aveva mai perdonati.
    Non l’avrebbe mai fatto. Odiava quelle dimostrazioni del cazzo di una pace che pace, la era solo sulla carta; odiava dover salire sul palco insieme ai Ministri, e sorridere a quell’ammasso di stronzi che di notte lo cercavano per una bustina di coca, o per un pompino mentre la moglie era a fare la spesa. Odiava doverli proteggere, quando l’unica cosa che avrebbe voluto fare era bruciarli uno per uno: perché avrebbero dovuto morire anche loro; perché avrebbero dovuto assicurare meglio quell’ala del cazzo della scuola, prima di renderla pubblica. Perché sua sorella gemella era morta.
    Perché avrebbe dovuto morirci anche lui – perché c’era morto anche lui. Avrebbe dovuto morirci anche lui, lì – ed invece era morto a casa, giorno dopo fottuto giorno. L’intera famiglia Hamilton doveva partecipare all’evento, nove anni prima: ricordava sua madre a stringergli la cravatta, Katie ed inebriarlo di parole fino a stordirlo. Ricordava le risate, e le battute stupide, e quello stato strano di eccitazione che anticipava sempre un evento pubblico di tale portata.
    Ricordava il discorso che suo padre avrebbe dovuto tenere.
    E poi ricordava la rabbia quando Leonard aveva scoperto che a scuola, Jamie, non c’era andato per settimane – frequentava Durmstrang, all’epoca. Ricordava il pugno a picchiare sul tavolo, e l’indice puntato nella sua direzione: sarebbero rimasti a casa, loro due. Voi andate pure. Come ricordava che quello, che un tempo era sempre stato così, era il periodo in cui la rabbia non durava mai a lungo: Jamie era rimasto chiuso in camera propria per un’ora, prima che suo padre bussasse alla sua porta invitandolo a scendere in sala. Prendiamo la pizza – ma dove piace a me. Guardiamo un film – okay, puoi sceglierlo tu. Di nuovo The Ring? Va bene, va bene, di nuovo The Ring. Lo ricordava perché lo riviveva ogni notte, Jamie. Ogni volta che chiudeva le maledette palpebre, sentiva la risata cristallina di Katie ed il profumo di rose di sua madre – vedeva i loro sorrisi, e le loro stupide lacrime davanti a Hachiko.
    Poi ogni trasmissione era stata interrotta per l’edizione speciale del telegiornale.
    Poi numerosi dispersi. Poi due corpi non ancora identificati.
    Poi.
    «jamie?» «mh?» battè le lunghe ciglia scure mettendo a fuoco il viso pallido di Arlette, una delle Guardie più Anziane (ossia chiunque avesse preso servizio da almeno dieci anni). «stanno arrivando» Non domandò chi, l’Hamilton. Da mesi non si parlava d’altro che del misterioso ritorno degli Eroi, i Magnifici Otto – o, come piaceva chiamarli a lui, gli Stronzi che avevano sbagliato Epoca. L’unico commento che aveva sputacchiato fra i denti, lanciando una languida occhiata a William Yolo Barrow, era stato: ti immaginavo più alto. Inutile specificare che Jamie non fosse affatto rimasto impressionato dal Viaggio nel Tempo affrontato dai Prescelti (era un cronocineta, buon Dio: si aspettavano forse che rimanesse colpito anche dal funzionamento dei Rolex?) o dalla loro misera presenza in generale: non gli interessavano e basta. Possibile, eh, che la sua poco tolleranza fosse dovuta al fatto che quel ciula di Will II se li fosse appioppati in casa: non capiva come Barrow (Junior, a quel punto?) potesse essere così… William II Barrow da recuperare ogni randagio sotto il proprio tetto. Jamie non era una cima in storia, ma i libri li aveva letti.
    Non erano brave persone. Non erano Eroi.
    Erano solo capitati nel posto sbagliato, al momento sbagliato – erano solo otto coincidenze.
    Non comprendeva la devozione del suo collega, o di tutti quei decerebrati che avevano iniziato a chiedere autografi sui capitoli di storia del 2017: non aiutava il fatto che Barrow (senior?) fosse stato un membro della Ribellione – che l’avesse fondata. Ancor meno a loro favore, il fatto che, a quanto pareva, fossero giunti alla Pace grazie a loro - grazie ai Prescelti.
    Jamie Hamilton avrebbe scelto caos e sangue per tutta la vita, se avesse significato riavere sua sorella. Avrebbe sacrificato popoli e nazioni, se ciò avesse significato riavere la sua famiglia.
    Ed invece, lui che di tempo se ne intendeva, sapeva di non poter fare un cazzo per cambiare il passato: l’odio era tutto ciò che gli fosse rimasto.
    L’odio, ed un padre alcolizzato.
    «arrivo» rivolse uno dei suoi famosi brillanti sorrisi alla Bonfils, chiudendo con una botta secca il proprio armadietto. Attese di sentire i suoi passi in lontananza, labbra a premere fra loro, prima di concedersi un respiro a metà fra fiato e singhiozzo, fronte contro il metallo freddo e pollici a premere sugli occhi chiusi.
    Potè quasi giurare di riuscire ancora a sentire sulla lingua il sapore del sangue.
    E nel sorriso con il quale abbandonò lo spogliatoio, potè quasi giurarsi che sarebbe andato tutto bene.
    Quasi.

    L’aria grumosa di inizio febbraio gli punse le guance colorandole di un tenue rosa pallido. Il cielo era terso, ed il Parco della Memoria situato all’interno delle rovine della fu Beauxbatons, era illuminato da placidi raggi dorati. Non c’era nulla di lasciato al caso: i tavoli erano imbanditi e sempre gonfi di ogni leccornia, camerieri passavano riempiendo agli invitati (non alle Guardie? Rude) i calici di costoso champagne – tutti indossavano i loro abiti migliori ed i sorrisi più falsi.
    Anche Jamie Hamilton, sorrise l’inganno.
    Le Forze dell’Ordine a tutela degli ospiti – gli Estremisti erano difficili da debellare, perfino in una società pacifica come la loro – erano situate ai lati del giardino, divise scure ed in perfetto ordine. Un gazebo posto da un lato del Giardino fungeva da palco, ed ospitava la Ministra Berenice Laverne – impeccabili capelli color miele scuro, pelle d’ambra e penetranti occhi verdi. Anche il suo sorriso, portava l’impronta fallace dell’illusione. Jamie rispose con altrettanta, meravigliosa, liquida ipocrisia.
    «grazie a tutti per essere venuti a celebrare il trentesimo anniversario dei Patti» la voce si spanse magicamente all’interno della radura, e diversi applausi – fra cui, ovviamente, quello di Jamie – si levarono dal pubblico. «quest’anno abbiamo con noi degli ospiti speciali» piegò il capo verso sinistra, e gli occhi di tutti s’inchiodarono sulle figure inamidate dei Prescelti - sette, non otto: a quanto pareva, Jeanine Lafayette era introvabile. «hanno accettato -» erano stati costretti, ma lungi dalla Laverne rendere la popolazione partecipe di tali intrighi: una vera fortuna che non ci fosse notizia al mondo a sfuggire il radar dell’Hamilton. « - di salire sul palco per spendere un paio di parole sulla loro epoca» mh, Jamie era tutto un fremito d’emozione. Portò comunque due dita alla bocca per fischiare un incitamento a quei tanto bravi ragazzi, un poi sorriso sbilenco rivolto a Thompson poco distante: le Guardie non potevano permettersi simili atteggiamenti, e Jamie lo sapeva.
    Indovinate quanto poco se ne fottesse. «sono molto onorata di presentarvi -» ed in quel momento, accadde qualcosa.
    Qualcuno avrebbe potuto definirlo imprevisto - altri problema, alcuni perfino miracolo. Ma quando apparvero discutibili soggetti al fianco della Laverne, Jamie Hamilton pensò solo una cosa: era arrivato il divertimento.
    Finalmente.
    Le armi delle Guardie scattarono rapide verso gli Intrusi, e l’Hamilton fu tra i primi a salire sul palco a mitraglietta spianata: «in alto le mani» intimò, facendo cenno con la canna dell’arma di sollevarle dove potesse vederle.
    Peccato che. «seguite i vostri capitani» ed avrebbe voluto sospirare la frustrazione di una mancata sparatoria, riconoscendo nelle persone altri fantastici, favolosi, Eroi: invece gli sorrise, luminoso quanto un cielo in estate, abbassando l’arma per sollevare anche le proprie braccia al cielo. «muovete a tempo il bacino, sono -» «hamilton» lo ammonì la Laverne in un ringhio stritolato fra i denti, sputandolo nel sorriso affascinato che rivolse ai Nuovi. Jamie fece un passo indietro, e sollevò le mani in segno di resa. «volevo solo dargli il benvenuto» anche lui sorrise, più sincero e morbido del rarefatto ghigno dipinto sulla bocca della Ministra. «il benvenuto dove?» Jamie Hamilton ruotò gli occhi verdi sulla biondina che aveva parlato, senza preoccuparsi di risultare opportuno nella scansione a palpebre socchiuse che le rivolse. Era tante cose, lui, ma opportuno? Mai. Ed era tutto parte del personaggio, così come il languido ghigno che gli adombrò gli occhi chiari. «nel 2117 2118» rispose a Maeve Winston, inarcando un sopracciglio. «ovviamente.»
    Ovviamente.



    Edited by or-nah.gif - 21/2/2018, 22:36
     
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    justin malboro eat
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    Nel silenzio assoluto della grande sala, le note acute della suoneria rimbalzarono da una all'altra delle pareti candide e prive di fronzoli, risuonando all'interno della sala come un monito: glaciale, antico, fuori luogo. Justin adorava quella canzone; apparteneva ad un temo ormai passato, del quale il trentaduenne aveva solo sentito parlare e letto sui libri di storia, ma era proprio grazie alla musica nata prima che il mondo cambiasse per sempre, che il ragazzo riusciva a sentirsi un po' più vicino ai suoi antenati. Quasi partecipe, in un certo senso. Si trattava di leggende, miti, eroi decaduti che nessuno avrebbe mai potuto dimenticare; alcuni di loro si erano spinti al punto da dedicare e donare la propria vita per la causa, come accaduto per Phobos Campbell, di cui Just era diretto discendente, ma ad altri il lusso di deporre le armi e tornare a casa non era ancora stato concesso. Così, almeno, narrava la profezia. Non che al maggiore degli Eat importasse davvero qualcosa dei presunti viaggiatori nel tempo: nessuno di loro apparteneva alla sua famiglia, ormai persa per sempre. «Ah, merda. Scusate un secondo.» la mano destra, avvolta in un guanto di pelle nera, si strinse attorno al telefono portatile - l'IPhone che aveva scatenato tutta una serie di battute e nomignoli -, un aggeggio che il cronocineta odiava con tutto se stesso; se proprio doveva spezzare una lancia in suo favore, allora bisognava obbligatoriamente parlare di quanto fosse il top nella gamma per quanto riguardava foto e video, caratteristica in grado di mandare Justin in brodo di giuggiole. Un po' meno chiunque venisse obbligato dal ragazzo ad offrirsi come modello in svariati photoshoots / music video, ma questa è un'altra storia.
    «Devo proprio rispondere.» Era una persona educata Justin Eat, e ci teneva a rassicurare i suoi ospiti che presto avrebbe nuovamente riposto a loro tutta l'attenzione, perché solo una questione davvero urgente poteva costringerlo a mettere in pausa il loro meeting. «ciao zucchero» il sorriso gli nacque spontaneo sulle labbra quando all'altro capo del telefono una voce maschile, resa roca dalla rinomata voglia di vivere by hamilton, ricambiò il dolce vezzeggiativo con un epiteto molto meno delicato.
    Se Just non fosse stato già sposato con la creatura più meravigliosa e affascinante presente sulla faccia della terra ed in qualunque altro frammento di spazio-tempo, Leonard Hamilton gli avrebbe certamente rubato il cuore con un solo schiocco di dita. Era così burbero e mainagioia, il tipo di poliziotto che ama il suo lavoro senza mai perdere occasione di lamentarsene, quello integro e leale che ogni novellino teme e allo stesso tempo vorrebbe avere al suo fianco in una situazione a rischio. C'era da dire che beveva come un cammello assetato nel deserto, ma poteva fargliene una colpa? Nah. All'Eat certi dettagli importavano meno di zero. Gli era bastato che Leo si facesse cavalcare come un puledro selvaggio al rodeo - in senso letterale, malpensanti! - durante i festeggiamenti di Capodanno, per innamorarsi perdutamente e decidere di suggellare la loro bromance, prima ancora che l'uomo potesse in qualche modo dirsi favorevole o contrario alla cosa. Dire no a Justin era più difficile di quanto non si pensasse ad un'iniziale conoscenza sommaria.
    Ci teneva a lui, ma non era questo il motivo per cui continuava a mentirgli spudoratamente riguardo alla vera natura del suo guadagnarsi da vivere: raccontava cazzate perchè finire in galera per il resto dei suoi giorni non rientrava nel piano carriera stipulato quando ancora era un dodicenne brufoloso pronto a votarsi al crimine, e non era certo di quale fosse il limite che Leonard era disposto a superare per un amico. Nel dubbio, meglio non rischiare. «Già, la festa...» soffiò aria tra i denti, il fiato caldo ad impattare contro il tessuto di lana scura del copricapo indossato per l'occasione.
    «Dici che faranno salire Cucciolo sul palchetto con la guardia d'onore e tutto il resto?» Poteva sembrare un linguaggio in codice, ma no: Cucciolo, aka Jamie Hamilton, era il figlio maggiore di Leonard, ma Just lo considerava anche un po' suo, un piccolo bastardo adoratore di satana da cullare e coccolare; ci faceva anche grandi affari, quando saltava fuori merce rubata da piazzare in giro per ricavarne soldi puliti, ma non si trattava di un argomento che i due tiravano fuori alle cene di famiglia. «D'accordo, allora farò stirare il mio completo migliore e mi immolerò per la causa.» sorrise ancora, nascosto dal passamontagna, notando con la coda dell'occhio un movimento quasi impercettibile alla propria destra. «Cazzate? Io non faccio mai cazzate, My Little Pony.» Si mosse piano camminando senza fretta, la suola liscia delle scarpe ad impattare silenziose sul pavimento lucido; la punta del piede infine immobile a pochi centimetri dal viso pallido di un uomo. Aveva del sudore che gli colava sul viso in rivoli unti, grandi gocce incollate alle ciglia e poi giù, negli occhi scuri carichi di una consapevolezza terribile: quella di aver appena commesso un errore imperdonabile.
    Il braccio sostava a mezz'aria ancora teso, il dito indice della mancina pronto a sfiorare un pulsante nascosto sotto il bordo del bancone, lo stesso ripiano dietro il quale l'uomo sedeva sulla sua sedia con le rotelle fino a mezz'ora prima, convinto la sua giornata sarebbe trascorsa come ogni altra. Monotona e noiosa, niente di nuovo sotto il sole. Doveva solo essere grato che di fronte a lui ci fosse una persona ragionevole come Just, e non quello sciammannato di suo fratello. «Mi tocca tornare a lavoro.. Dave non ha capito bene la strategia di marketing e so già come andrà a finire. Dovrò rispiegargliela da capo.» la mano che non stringeva il telefono si sollevò, la canna della mitraglietta uzi con silenziatore a premere contro la tempia dell'impiegato. Poteva quasi sentire il suo cuore rimbombare contro il pavimento sul quale era semi sdraiato, ogni battito pronto a ripercuoterglisi nelle ossa.
    «E' davvero un po' tardo.» Quando l'amico chiuse la conversazione raccomandandosi un'ultima volta di non combinare casini - too late! -, Justin lasciò cadere il cellulare nella tasca posteriore dei pantaloni scuri, l'ennesimo capo d'abbigliamento nell'elegante outfit total black scelto appositamente per l'occasione: giubbotto anti proiettile indossato sopra ad un'aderente maglia della salute (pretesa di Holly) a maniche lunghe e collo alto, giacca di pelle e passamontagna coordinato; in quel momento lo teneva risvoltato verso l'alto a scoprire le labbra piene, come Spider Man nella famosa scena del bacio capovolto. Solo che il maggiore degli Eat non aveva alcune intenzione di limonarsi Dave sotto la pioggia incessante coronando il loro amore segreto.
    Per la cronaca, il vero nome di Dave suonava quasi come un rutto e non gli si addiceva per niente: il gesto eroico con cui poco prima aveva rischiato di immolarsi in nome della causa pareva altrettanto fuori luogo, poco adatto ad un uomo del suo calibro. «Come vi ho spiegato poco fa, Davey bello, questa banca è assicurata. Proprietari e grandi azionisti se ne sbattono allegramente di voi. Quindi, fatti un favore, stai giù. Faccia al pavimento. E pensa a quanto sarà bello poter abbracciare tua moglie una volta tornato a casa. O tua madre o il tuo cane o il tuo fidanzato, sono di ampie vedute.» gli diede una pacca amichevole sulla spalla con la mano libera, prima di rialzarsi. Nel loro ambiente finivano sempre per beccare quella persona capace di togliere tutto il divertimento al lavoro, e Dave confermava tristemente la regola.
    Sarebbe potuta anche essere una scena drammatica, l'incipit di una puntata di CSI: Miami (nel frattempo giunto alla centoventesima stagione, così come Brooklyn99), se solo mentre raddrizzava la schiena non fosse scattato l'allarme; un dettaglio che certamente avrebbe mandato nel panico qualunque rapinatore dilettante da strapazzo, ma non Justin Eat. E non tanto perché fosse migliore di tutti gli altri - lo era - quanto perché finiva per trovarsi in quella situazione un giorno sì e l'altro pure: potevano organizzare il piano e ripassarlo duemilavolte, concentrarsi sui dettagli per non lasciare spazio ad imprevisti e paure capaci di portare ad errori fatali, ma alla fine qualcosa accadeva sempre. Nello specifico, quella cosa.
    «È STATO LUI!»
    «NO LEI!!»
    Correvano, i due piccioni. Gli schizzarono davanti come Bolt e quell'altro giamaicano alle olimpiadi nella gara dei cento metri piani, le braccia cariche di borsoni neri ed il profumo fruttato della crema per le mani di sua moglia a solleticargli il naso. Finiva sempre così. Ed era la parte più divertente del lavoro, finché le sirene della polizia rimanevano lontane anni luce. «BONES SEI UN MINCH-» euaaeuuaaaeuuaaaeuuuaaeuuuaaa, il resto della frase venne coperto dalla sirena, e solo quando Prey e Holüken furono spariti oltre il suo campo visivo Just si decise ad abbassare l'arma, rivolgendo agli 'ostaggi' una desolata stretta di spalle. «così poco professionali.. RIGUARDATI DAVE!» e corse anche lui.
    Per la vita, per smaltire la pasta con la matriciana, perché voleva guidare e Prey stava già per ciulargli il posto davanti.


    «grazie a tutti per essere venuti a celebrare il trentesimo anniversario dei Patti» le dita di Just di mossero rapide, indice e medio a battere all'interno dell'incavo del gomito destro, gli occhi azzurri rivolti al cielo terso di febbraio. Il messaggio, pur senza parole, diceva tutto; e comunque il trenteduenne si sentì in dovere di aggiungere un commento audio al suo gesto, nel caso Leonard si fosse perso la leggera sfumatura ironica intrinseca. «sparamene una in vena Leo, prima che sia troppo tardi.» Sempre bello essere amico di un poliziotto, soprattutto quando tra te e lui rimaneva sempre una certa aria di non detto: sospetti, angst, troppo amore nei confronti di Justin per togliersi l'orrendo dubbio.
    Dai, alla fine lo sapevano tutti che all'Hamilton non fregava più un cazzo di niente. O quasi. Holü lo rimise in riga prendendo senza sforzo il tacco della scarpa destra sul suo piede, le dita sottili impegnate a sistemare una ciocca biondo grano sfuggita dalla morbida acconciatura dietro l'orecchio; si stupiva sempre, il maggiore degli Eat, della fortuna avuta nel trovare una donna del genere: incredibilmente bella ed intelligente, altrettanto semplice e pericolosa. Si erano trovati in un mondo nel quale l'anima gemella somiglia più ad un mito che alla realtà, e il ragazzo lo sapevache senza di lei la sua vita avrebbe preso già da tempo una piega diversa.
    Una piega sbagliata.
    «quest’anno abbiamo con noi degli ospiti speciali. hanno accettato di salire sul palco per spendere un paio di parole sulla loro epoca» allungò il collo esattamente come gli altri, ma le iridi grigio azzurre del cronocineta non avevano attenzione che per quel fustacchione del suo figlioccio, lindo e profumato nella sua bella uniforme della polizia, il faccino da schiaffi e l'aria di chi avrebbe dato qualunque cosa per essere altrove. Quanto gli voleva bene. «awwww, ma guarda il nostro bambino!» «cosa?» «cosa?» «ho una pistola e nessun problema ad usarla.» «ti voglio bene anche io, Big L.»
    E gliene voleva davvero, eh!
    Fu in quel mentre che accadde il parapiglia: i mormorii divennero gridolini soffocati, le mani delle signore ingioiellate - eaula chissà quanti soldi - a volare come farfalle impaurite sulle labbra dischiuse dalla sorpresa; Just si rese conto di quanto stava accadendo solo quando Jamie mise mano alla pistola, e lì per lì si rammaricó di non avere di fronte un bel cartone pieno di pop corn. Dovetre accontentarsi delle olive denocciolate già presenti nel suo piatto, un sostituto non all'altezza. «in alto le mani» Il tempo di un battito di ciglia e la radura si trasformò nel set televisivo di quel programma che un tempo veniva chiamato CARRAMBA CHE SORPRESA!, con le armi delle guardie spianate e i volti pallidi di quattro o cinque nuovi arrivati apparsi magicamente e contro ogni previsione, proprio come un herpes: erano cronici, impossibili da debellare una volta contratto il virus. «e pensare che una volta trovavo questa festa noiosa. perché non è così tutti gli anni???» già, perché?
    Rob, nel dubbio, non se lo chiede nemmeno.

    Make me walk, make me talk, do whatever you please. I can act like a star, I can beg on my knees.
     
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    Calliope Callie Blue
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    07.02.2118 // H: 15.30
    Si potevano dire tante, tantissime cose negative su Calliope Blue Beech Jackson, per gli amici Blue e basta, per i suoi fanz su youtube BiBiJack, tipo che fosse sempre con la testa fra le nuvole e di conseguenza non si accorgeva di ciò che le capitava intorno. O che non fosse stata una cima a scuola, e così aveva abbandonato Beauxbatons dopo essersi ritrovata a frequentare il suo terzo anno per quella che sarebbe dovuta essere la sua seconda, e sicuramente non ultima, volta. Che non coglieva l’ironia nelle battute, ma che rideva puntualmente anche senza sapere il perché stesse ridendo: lo faceva e basta.
    Ma la ragazza aveva una qualità incontestabile: sapeva come avverare i propri sogni. Anche quando tutto il mondo lo riteneva impossibile.
    Da bambina l’aveva sempre detto a tutti, che sarebbe diventata una sirena: lo scriveva sul suo diario segreto o sui muri della sua camera, lo affermava con convinzione ai suoi genitori e tutto ciò che otteneva in cambio erano risate e occhiate di compassione, e quelle solite frasi fatte come ”Anche io alla tua età lo desideravo “ o ”Ma che bel sogno! Però la realtà è diversa, bambina mia”.
    Beh, Callie aveva dimostrato a tutti quanti quanto si sbagliassero: bastava crederci sul serio, ed i sogni si avveravano.
    E lei il suo l'aveva avverato.
    Solamente, non come qualcuno si sarebbe aspettato, ma quando mai lei aveva specificato di voler possedere una pinna, nuotare in mare e parlare con gli altri animali acquatici? Aveva sempre detto sirena, non creatura indefinita mezza ragazza mezza pesce, e la limitata fantasia delle persone non era di certo un suo problema.
    E così, Calliope Blue Beech Jackson, quando non era impegnata a girare un video per il suo canale youtube con ben cinquecento iscritti (c-i-n-q-u-e-c-e-n-t-o, capite??!) passava le sue giornate in commissariato o, ancora più spesso, seduta sul tettuccio della volante di Leonard Hamilton con le braccia alzate in aria lanciando raggi luminosi blu e rossi e urlando a squarciagola.
    «MII-MOOOOO» del fatto che fosse stata la ragazza a manomettere i cavi che permettessero alla sirena vera dell'auto di funzionare non esistevano prove concrete, ma era abbastanza certa che l'Hamilton sospettasse qualcosa ma avesse deciso di chiudere un occhio: altrimenti, Callie ne era certa, avrebbe fatto aggiustare l'auto già da mesi «MII-MOOO-MI-MOOOOOOOOO» Quanto si divertiva.
    Quello era decisamente il tirocinio più bello del mondo, e sperava che in futuro si sarebbe trasformato in un lavoro a tutti gli effetti: ne esisteva forse uno migliore? Quale altro impiego le dava la possibilità di sfruttare al meglio i suoi poteri? Oltre ad usarli per fare la sirena della volante, infatti, la ragazza amava puntare, durante gli interrogatori, la luce addosso ai criminali arrestati, proprio come nei film polizieschi americani, o spaventarli sbucando dal nulla ed iniziando a brillare di tutti i colori dell'arcobaleno.
    A casa, inizialmente, non avevano preso bene la sua idea di entrare in polizia, soprattutto così presto: una ragazza all'inseguimento dei malviventi a soli quindici anni non era certo il massimo, ancor di più dopo aver deciso di abbandonare la scuola per farlo. Contro ogni previsione, era stata nonna Rude l'unica ad appoggiare quella scelta, probabilmente fiera di vedere la nipote per la prima volta interessata a qualcosa di vagamente tosto, lontano dal mondo di arcobaleni, unicorni e caramelle gommose in cui sembrava vivere fin dalla nascita: a casa Beech, Callie si era sempre sentita un po' fuori posto, troppo diversa dai racconti della madre sulle avventure dei suoi nonni e bisnonni. Se non fosse stato per la somiglianza impressionante che aveva riscontrato ispezionando vecchi album di famiglia - i tratti del viso erano uguali a quelli della bisnonna Jade - avrebbe seriamente creduto di esser stata adottata. L'altra teoria che aveva, ancora plausibile, era che fosse stata abbandonata lì dagli alieni o dal popolo degli unicorni, per poi esser stata colpita da un incantesimo per uniformarla con la razza umana.
    «Callie?»
    «Dica..? MI-MOOOO»
    «Oggi alla cerimonia puoi anche non stare in servizio eh, se vuoi»
    «E POI CHI LI FLASHA I CRIMINALI?»
    «Va bene allora..fai tu»
    «MI-MOOO-MII-MOOOOO»
    Ovviamente non si sarebbe persa quell'evento per nulla al mondo, ed apprezzava la proposta di Leonard : non dovendo lavorare, si sarebbe goduta quel pomeriggio in tranquillità, eppure per lei non era un peso dover stare all'erta ogni attimo, pronta a colpire chiunque vedesse fare cose vagamente sospette (???) con un raggio luminoso: era come vivere in un videogioco in realtà aumentata ventiquattro ore su ventiquattro. E poi era contenta che, come staff dell'evento, si sarebbe guadagnata un posto in prima fila.
    Li voleva vedere da vicino, capite? Erano leggende.
    Si era presentata quasi ogni giorno a villa Barrow ed aveva provato a sfruttare la sua amicizia con William per parlare con loro di persona, ma puntualmente, assalita dal timore, si era tirata indietro anche dopo le mille rassicurazioni dell'amico. Li voleva conoscere perché alcuni di loro erano amici dei suoi bisnonni, perché a casa aveva foto che li ritraevano e poi perché dai, venivano dal passato!!
    Non era già questo un motivo valido per adorarli?
    Solo che la ragazza si faceva sempre mille problemi prima di presentarsi alla gente, consapevole - senza però mai capirne il motivo - di non piacere spesso alle persone. E normalmente non le importava un bel niente, ma dai Prescelti provava il desiderio di farsi benvolere.

    «grazie a tutti per essere venuti a celebrare il trentesimo anniversario dei Patti» Grazie a te per aver organizzato! Naturalmente non lo disse ad alta voce, ma avrebbe voluto: amava così tanto la ministra Berenice Laverne, e si stupiva sempre del fatto che a qualcuno non piacesse. Dai, ma come era possibile una cosa del genere?? Lei l'avrebbe sposata anche in quel momento.
    Anche se, qui bisogna puntualizzare, a Calliope la crush partiva facile facile: le bastava un sorriso accennato, un abito colorato o un "ciao" e boom, lei era follemente innamorata. In poche parole: le bastava una ragazza dotata della facoltà di respirare. Per il resto, le andava bene un po' tutto. Ma forse, proprio per una punizione cosmica di cui faticava a cogliere la colpa, Callie attirava sempre l'attenzione dei ragazzi.
    Dei r-a-g-a-z-z-i.
    Ew
    Forse scambiavano il suo stare sempre circondata da maschi come denotazione di facili costumi, mentre la realtà era che trovava molto difficile fare amicizia con le sue coetanee senza prendersi enormi cotte per loro.
    Ad esempio...come avrebbe mai potuto iniziare una conversazione con Kieran Sargent?? Così bella, lì sul palco al fianco degli altri viaggiatori, così adorabile. La bionda , seduta lì con Tappo, il suo adorato coniglietto bianco, al suo fianco (l'avrebbe volentieri preso in braccio ma STAVA LAVORANDO!1!1!!) immaginò minimo dieci scenari diversi del loro matrimonio, come faceva quando vedeva per la prima volta una nuova crush: era consapevole lei stessa di non aver speranze.
    «sono molto onorata di presentarvi -»
    «UAU NUOVI AMIKI!!» Si alzò di scatto quando vide i nuovi arrivati apparire dal nulla. Anche loro...? Magiko! Nuovi amici dal passato!!! Già detto che, in momenti di grande gioia, Callie era incapace di trattenere il suo potere ed iniziava a brillare da sola? Beh, fu proprio quello che accadde in quel momento: il suo corpo iniziò a brillare di tutti i colori dell'arcobaleno, e la ragazza si guadagnò qualche occhiata scocciata dai presenti ma naturalmente nessuno si spaventò a causa sua, visto che erano molto abituati a vederla in situazioni del genere.
    «Dai Jamie per favore non spaventarli!» era consapevole dell'effetto che l'Hamilton Junior provocasse, essendo stata lei stessa per molto tempo terrorizzata a morte anche solo a guardarlo in faccia: negli anni la situazione era un po' migliorata soltanto perché aveva fatto amicizia col padre, ma la paura non era mai andata via del tutto #wat.
    Poi tornò a concentrarsi sui nuovi arrivati e per poco non svenne per la contentezza «Ma dai..- aveva sperato in quel momento dall'arrivo dei primi viaggiatori -..SEI DAVVERO LA MIA PROZIA MAEVE???»
    And I will still be here, stargazing
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    «Ma è vero che hai viaggiato nel tempo?»
    Non era la prima volta che qualcuno le poneva quella domanda, e Murphy aveva ormai la rassegnata certezza non sarebbe stata l'ultima. «Affermativo.» rispose con un sorriso ed il suo francese tremolante, sulla lingua l'accento di un mondo completamente diverso che non le apparteneva più, e del quale non riusciva a liberarsi. Spinse la tazza di ceramica colorata sul bancone, tra le mani della donna con cui il piccolo stalker era giunto nella gelateria; sul volto dai tratti spigolosi, si leggeva chiaramente imbarazzo ed una muta richiesta di perdono, che la geocineta accolse con un altrettanto silente cenno del capo. Non fa niente, diceva quel movimento impercettibile, è solo un bambino. Che anche la madre sembrasse curiosa da morire, sotto una superficie di distaccata non curanza, evitó di aggiungerlo. Dopotutto, non era l'unica a voler sapere: si trovava costretta a vivere in quella Parigi lontana anni luce dalla sua realtà ormai da mesi, e agli sguardi avidi di sapere ancora faticava ad abituarsi. Come se l'avesse fatto con tutto il resto, poi. «E non ti mancano le persone con cui vivevi prima?» Infida bestiolina di Satana. Sapevano sempre dove andare a parare, i bambini, puntando dritto al cuore del problema senza tanti giri di parole o false premure a nascondere interessi strettamente personali. Non possedevano filtri, e forse era per questo che Murphy negli ultimi tempi li preferiva agli adulti: era stanca di dover leggere tra righe fittissime di discorsi solo apparentemente chiari, stanca dei sorrisi ipocriti e di quanto vi si nascondeva sotto. Soprattutto, era stanca di dover leggere nella testa delle persone, senza nemmeno la telepatia dalla sua parte. «Timmy, adesso basta!» Non tutti la pensavano come lei, alla fin della fiera. «No, va bene.» Liquidó la madre ansiosa con un cenno della mano, prima di chinarsi in avanti sporgendo il busto oltre al bancone, il tono di voce ridotto ad un bisbiglio; meritava quel segreto da custodire gelosamente, il piccolo Timothy, un premio speciale per non essersi fermato in superficie come facevano tutti. «Mi mancano tantissimo, sempre. Penso a loro in ogni momento e so che in qualche modo... in qualche modo sono con me, anche adesso» premette la mano destra sul petto, la Skywalker, dove alla divisa aveva appuntato la targhetta con il suo nome scritto sopra. Mentire, a quel punto, non avrebbe avuto senso: Sin, Run, Stiles e i Chips, Barry e Amalie, Gemes e i compagni della resistenza. Non esisteva un solo momento, un singolo istante in ogni giornata nel quale Murphy non si rivolgesse a loro con il cuore e la mente, una fitta acuta a spaccare il torace e riaprire ferite mai del tutto rimarginate. Non viveva senza di loro, limitandosi a sopravvivere. Tim annuí, imitando il suo gesto con aria di profonda comprensione sul viso troppo giovane; sentivano tutto, quei piccoli mostri. «A me manca mio nonno.» l'accenno di un sorriso, prima di avvolgere le mani attorno alla propria tazza di cioccolata calda, sospinto con impazienza dalla madre verso uno dei tavolini.
    E, a proposito di bambini.
    «MA--» Sollevò di scatto la testa, incrociando le iridi scure di Kieran Sargent ad un passo dalla vetrina dei gelati, tanto peculiari da farla sentire più stupida del normale: avrebbe dovuto accorgersi subito di quanto gli occhi profondi e magnetici della ragazza fossero in tutto e per tutto identici a quelli altrettanto espressivi di Shot. Sembrava così palese la loro somiglianza, almeno con il senno di poi. Dillo. Ti prego dillo, dillo, dillo. Perché in cuor suo ci sperava davvero, la Skywalker, ne sentiva quasi il bisogno; ma qualcosa parve bloccarsi nella gola della mimetica quando i loro sguardi si incrociarono, un groppo denso di quella paura che le Ciatelle conoscono bene. E se Murphy fosse stata un po' più Rob, avrebbe detto a Kieran che andava bene così, poteva chiamarla mamma quanto e quando voleva, che ne sarebbe stata fiera e non si sarebbe certo sentita a disagio o infastidita. Ma Murphy era Murphy e lei e la mimetica potevano solo continuare a tenere segrete le loro bacheche .fam finché qualcuno badger non avesse imposto loro di smetterla di fare le cazzone e mettere subito le carte in tavola. «--rphy, ciao!» Si guardarono per un lungo istante, il tempo e lo spazio attorno a loro svaniti nel nulla, immobili: era sua figlia quella giovane dai capelli scuri e lo sguardo vivace, la stessa creatura che in un'altra vita aveva tenuto nel proprio grembo sentendola crescere al passo del ritmo del proprio cuore; non aveva fatto altro che pensare al momento in cui avrebbe potuto stringere quel fagottino tra le braccia, dal momento in cui Kieran li aveva fatti sedere al tavolo con le sue belle foto e una storia così assurda da risultare irrimediabilmente vera. Chiudeva gli occhi prima di addormentarsi ed immaginava il volto di Leia e Luke, la sensazione di stringere le piccole dita paffute dei due bambini guidandoli in quei primi passi che né lei né la Sargent ricordavano di aver percorso insieme. Ma soprattutto, rigirandosi nel proprio letto incapace di prendere sonno, Murphy pensava a Shot. A come fossero stati in grado di creare una famiglia tutta loro; non riusciva nemmeno ad identificare i sentimenti che aveva iniziato a provare per il ragazzo negli ultimi mesi, figurarsi proiettare il proprio cuore attraverso un possibile futuro da condividere con due figli. Eppure, incredibilmente, quando la stanchezza prendeva il sopravvento ed il respiro di Kieran dal letto accanto al suo diventava finalmente placido e regolare, quel futuro finiva per sembrarle l'unico possibile. Una convinzione profonda che la geocineta avrebbe anche voluto confessare a Shot, se quel beota non avesse iniziato ad eclissarsi con destrezza ogni qual volta Murphy tirava in ballo l'argomento, inventando scuse campate per aria e spesso nemmeno quelle. Si dileguava, punto, lasciandola con un pugno di mosche ed una crescente frustrazione pronta a trasformarsi in rabbia nemmeno tanto repressa: si potevano ancora contare sulle dita di una mano le occasioni in cui era arrivata ad un soffio dal tirargli un pugno in faccia, ma non avrebbero rimaste così poco a lungo. Ormai passava le sue giornate lacerata, divisa in due tra la voglia di baciarlo e quella di picchiarlo in testa con una bottiglia di vetro dalla mattina alla sera. Ed era proprio per questo, nella speranza di mantenere un briciolo di dignità e sanità mentale, che aveva semplicemente deciso di non rivolgergli più la parola. A mala pena lo guardava, e quando la somiglianza con Kieran si faceva tanto assurda da toglierle il respiro, tornava ad ignorarlo in favore di qualunque altra cosa, o persona. «KIER! Ti prego, dimmi che hai portato il nuovo capitolo.» scrivevano fanfictions nel tempo libero, avete capito bene: erano partite dalle fotografie, non potendo attingere alla memoria della mimetica, e da lì avevano fatto passi da psycho gigante grazie agli headcanon, riempiendo i vuoti lì dove lettere e ritratti patinati creavano buchi nella trama. «SONO RIUSCITA A SCRIVERNE DUE!» non era la prima volta che le due scambiavano quel genere di informazioni ad alta voce nella gelateria, e ormai nessuno ci faceva più caso. Il sorriso di Kieran finí per riflettersi anche sulle labbra di Murphy, stesse identiche fossette ai lati della bocca; Chariton Deadman era un cretino, ma Murphy doveva comunque ammettere che insieme avevano creato un piccolo capolavoro. «abbiamo giusto una mezz'ora per leggerli prima di prepararci per la cerimonia. voglio i commenti in diretta!» Già, la cerimonia. Aveva provsyo a sottrarsi a quella tortura cinese, la Skywalker, ma la ministra francese si era rivelata più tenace di quanto il volto pulito e i limpidi occhi verdi non avessero lasciato ad intendere durante il loro primo incontro ufficiale. «va bene, va bene. Però dimmelo, Lynch e Mabel si mettono insieme?»
    «SPOILER MA--!»


    «quest’anno abbiamo con noi degli ospiti speciali» Murphy sentì chiaramente la bocca dello stomaco sussultare con un doppio salto carpiato all'indietro, prima di chiudersi a riccio rispedendo al mittente un singulto acido. Avevano un rapporto molto stretto e confidenziale, la Skywalker e il suo stomaco, tanto da riconoscere anche la più piccola fitta, la sfumatura di un brontolio, la nota acuta di un crampo: nello specifico, quel mix di rotolamenti e tuffi nel vuoto lo identificava come inevitabile risposta ad una dose letale di ansia e disagio. Sarebbe stata ben lieta di trovarsi a bussare alle porte dell'inferno, se questo l'avesse esonerata dal trovarsi sotto quel gazebo, infreddolita e congelata dai troppi sguardi puntati sul suo viso. Probabile si trattasse solo di paranoia, una normale conseguenza dello schifo che li aveva sommersi tutti quanti, ma dopo quasi quindici minuti di attesa durante i quali la Ministra si era data da fare per zittire la piccola folla riunita, Murphy aveva cominciato a sentirsi una cavia. Le era persino passata per la mente l'assurda idea che forse, nello stile delle peggiori comedy americane, si fosse dimenticata i vestiti a casa. Abbassò lentamente lo sguardo sul proprio cappotto, la gonna semplice dell'abito scelto per lei da Kieran a spuntare poco oltre l'orlo scuro; un sospiro tra le labbra dischiuse, che sarebbe apparso quasi di sollievo se la sensazione di trovarsi sotto esame non le fosse rimasta comunque incollata addosso, come l'odore di fritto dopo un paio d'ore passate al tavolino di un mcdonald. «ospiti. cone se fossimo qui di nostra spontanea volontà.» dovette sussurrare per non farsi sentire, la testa leggermente reclinata in direzione della Sargent al suo fianco, la spalla destra premuta invece contro quella di William Barrow: nessuno di loro sarebbe mai voluto essere lì, con la consapevolezza di aver lasciato indietro le proprie famiglie a morire; e gli altri, quelli con cui si erano battuti, dispersi chissà dove o quando. Kier le strinse la mano di rimando, dita leggere avvolte in un guanto di lana, e quella presa per un istante fu sufficiente; si sarebbe fatta bastare sua figlia, la Skywalker, per tutte le vite a venire. Sulla scia di quel pensiero si sporse impercettibilmente in avanti, le iridi cioccolato all'istintiva ricerca di quelle ancora più scure di Shot: le trovò subito, le trovava sempre. Guardavano lei, ed immediatamente tornavano a fingere ci fosse qualcosa di più importante, com'era stato sin dal principio. Chissà se lo sapeva, il Deadman, che la stava facendo impazzire; per il suo bene, Murphy sperava di no. «sono molto onorata di presentarvi-» non se n'era ancora accorta, la Skywalker: avvertì come una sorta di scarica elettrica attraversare l'aria, il trambusto delle guardie e delle armi senza più la sicura; puntate su qualcuno alle sue spalle, i volti improvvisamente pallidi dei presenti rivolti oltre. Non era su di loro, per una volta, che stavano riponendo tutta l'attenzione. Le bastò ruotare il busto di tre quarti, senza lasciare la presa attorno alla mano destra di Kieran, semmai rafforzandola nel momento in cui finalmente li vide.
    Barry, zio Al. Maeve.
    Erano tornati.
    O arrivati, ma a quel punto non faceva differenza. Erano lì, di nuovo insieme.
    «OBIWAN!» forza dell'abitudine. Murphy si lanciò senza pensarci due volte, scansando una delle guardie senza preoccuparsi di mettere il proprio corpo in una possibile traiettoria di tiro, passando accanto a Jamie Hamilton senza sapere: che la loro, in fin dei conti, era stata una grande famiglia e lo sarebbe sempre stata, checché ne dicesse il sangue a scorrere nelle loro vene. Fu al collo di Al che si gettò, avvolgendo Barrow con il bravcio destro, incapace di pensare anche solo lontanamente a quanto fossero confusi, spaesati, spaventati. Come lo era lei, tre mesi prima. Come era anche in quel momento, solo con un briciolo di speranza in più nel cuore ora che poteva sentirlo battere rapido contro la cassa toracica allo stesso ritmo di quello del Crane.
    Poteva tornare anche Run.
    Doveva.
    E loro dovevano tornare a casa.

    All around me are familiar faces. Worn out places, worn out faces
     
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    holüken eat
    07.02.2118
    Non doveva sforzarsi molto per visualizzarsi seduta su una seggiola di plastica colorata, china su un foglio da disegno, la lingua rosa a spuntare fra le labbra contratte dallo sforzo e dalla concentrazione. Nessuna maestra all’epoca le avrebbe fatto notare che gli alberi non si colorano di rosa eppure questo non è il punto, il fatto è che non era difficile ricordarsi quante volte nella vita le si erano avvicinati per chiederle che cosa volesse fare da grande. Su quella stessa sedia, alle cene di Natale, quando a riaccompagnarla a casa erano i genitori dei suoi amichetti, come se la loro insoddisfazione fosse tale da dover controllare le generazioni future, avvertirle.
    - Aaah vuoi fare il poliziotto, ma sai che lo stato non tutela le forze dell’ordine che vengono sottopagate, derise e malmenate?
    - La ballerina? Tesoro mio ti conviene mettere via quella merendina fin da subito
    C’era stato il periodo in cui sapeva sarebbe diventata una supereroina, quello in cui si sarebbe specializzata in cura delle creature magiche e quello in cui avrebbe viaggiato e vissuto di ciò che sarebbe riuscita a racimolare lavorando qua e là, forse si sarebbe iscritta prima ad una scuola di danza e teatro per poter lasciare tutti a bocca aperta per le strade del mondo. Faceva viaggiare la fantasia, si immaginava in ogni posto e in ogni situazione ma mai e dico mai si sarebbe immaginata
    i'm a barbie girl, in a barbie world! life in plastic, it's fantastic!
    alzò la testa di scatto trapassando con uno sguardo gelido i muri del caveau nella speranza potessero raggiungere e congelare il proprietario del cellulare che non poteva non riconoscere. Sempre più spesso desiderava possedere un potere per avere l’immediatezza di dare fuoco a una persona senza la fatica del ricercare la bacchetta “Ah, merda. Scusate un secondo. Devo proprio rispondere.” non riuscì a trattenersi dal sorridere nell’immaginare i gesti di quello che, nonostante l’età anagrafica dicesse tutt’altro, per lei aveva il fascino -se di fascino si può parlare- di un sedicenne. Forse avrebbe dovuto ringraziare il sangue che le scorreva nelle vene e la scomodità di quel pezzo di legno che le evitavano di reagire a caldo evitando di ucciderlo e concedendole il tempo di ricordarsi perché aveva sposato un uomo come Justin Eat.
    Sospirò senza riuscire a rilassare il viso e tornare ai suoi pensieri lucidamente, perché da bambina ovunque si era immaginata fuorché lì: con le mani su una cassaforte, a pochi passi dal corpo privo di sensi di una guardia, in compagnia della banda più ridicola della storia. Lei era la banda più ridicola della storia. Avrebbe scommesso tutti i suoi averi che presi singolarmente non sarebbero sopravvissuti quarantott’ore, eppure insieme funzionavano, riuscivano in qualche modo a farla franca e sempre con un bottino in grado di far vivere loro una vita più che degna.
    Fece cenno a Prey di fermarsi, di lasciar perdere le cassette di sicurezza, di non respirare “Sshhht” era un momento cruciale, c’era quasi: con una mano strinse le aste dello stetoscopio nel tentativo di isolarsi maggiormente e poter sentire meglio gli scatti, la restante mano continuò a ruotare la ghiera lentamente, fremendo.
    click.
    Si lasciò andare in un gridolino di esultanza lanciando nel borsone ai suoi piedi gli strumenti “Hai trenta secondi per finire di svuotare le cassette che hai già aperto, ne abbiamo altri trenta per essere fuori di qua.” con un sorriso degno della prima vincitrice donna, di razza mista alle para olimpiadi si premurò di non lasciarsi dietro alcun documento, il marchingegno che l’aveva tenuta occupata per l’intero colpo conteneva le informazioni per attaccare un pesce ben più grande di quello che era la banca in cui si trovavano, chiuse la zip e controllò il timer “eee corri!”.
    Quello che accadde nei trenta secondi seguenti non fu chiarissimo, il fatto che si fossero dati delle tempistiche era puro sfizio, quello che qualcuno avrebbe chiamato Holüken e la mania del controllo, d’altronde erano entrati falsificando documenti e presentandosi come chi possedeva effettivamente del denaro in quel caveau, non era stato necessario disabilitare i circuiti elettrici, cosa fece scattare le sirene all’ultimo quindi è un mistero. E’ possibile che sentendoli arrivare Just si sia distratto e qualcuno degli ostaggi si sia lanciato in questo atto di coraggio? O è più probabile che correndo uno a caso fra scema 1 e scemo 2 abbia accidentalmente colpito la guardia a terra che, scivolando lungo la parete, è finita con il premere il pulsante di allarme? “È STATO LUI!" Coincidenze? Sfiga? A voi la scelta, fatto sta che ancora una volta, ne uscirono indenni.
    Mentre sfrecciavano per la periferia di Parigi si rese conto che avrebbe dovuto saperlo, era scritto nelle stelle che sarebbe finita così. Per tutte le volte che era stata trascinata fuori dal letto nel pieno della notte, per i commenti sussurrati a fior di labbra alle loro spalle, per tutti i soldi che entravano e per la difficoltà che aveva ogni volta, nonostante il passare degli anni, nello spiegare il lavoro di Abe. Tale padre tale figlia.
    Di domande ne aveva fatte parecchie ma andando contro il suo istinto di bambina curiosa aveva imparato che alcune volte doveva solo starsene al suo posto, che papà sarebbe stato sempre e per sempre un porto sicuro e se il momento delle risposte non era ancora arrivato doveva esserci sicuramente un motivo.
    Quel momento arrivò quando qualcosa nella gestione degli affari si spezzò, quando calpestò i piedi a qualcuno più grande di lui e Holly venne messa sul primo aereo: obbligata ad allontanarsi il più possibile. ad abbandonare il proprio Paese e qualunque cosa la collegasse ad Abe per non rischiare di diventare l’unico bersaglio di chi cercava vendetta.
    Hogwarts sarà la tua nuova casa questo le dissero, la realtà è che iniziò a crederci mai.
    Poi vennero i primi furti, i primi arresti, i primi furti senza arresto e allora festa e allora arresto per stato di ebrezza. Che schifo l’Inghilterra.
    Poi venne Justin e con lui Prey, poi la Francia e allora, in un modo tutto strano, fu davvero casa.

    Si era era fatta una doccia, si era cambiata d’abito, un tubino celeste elegante, non troppo vistoso, le piaceva potesse dire: sono qua ma potrei anche essere uscita ora da lavoro e star tornando a casa, non le piaceva essere data per scontata. Non che qualcuno là in mezzo aspettasse impaziente che Holüken e consorte si presentassero alla commemorazione, ma proprio perché non erano nessuno non voleva che le persone pensassero che non avessero altro da fare. Pensiero contorto, ma suo.
    grazie a tutti per essere venuti a celebrare il trentesimo anniversario dei Patti” la sensazione che una mano le avesse afferrato e strizzato il cuore fu fortissima, si portò una mano alla bocca dello stomaco premendo appena, tutti quegli striscioni con il numero trenta le ricordavano solo una cosa: il suo trentesimo compleanno. Non poteva accettarlo, non ora che stava andando tutto bene, non ora che si sentiva nel pieno delle sue forze e pronta a puntare sempre più in alto! Cogliendo l’occasione di far tacere Just e di portare acqua al suo mulino gli si fece più vicina e gli appoggiò la testa sulla spalla “Secondo te potremmo trarre un qualche vantaggio rapinando un’azienda di cosmetici? Per rivendere tutto sul mercato nero eccetto le creme anti age ovviamente” finse di togliergli un pelucco dalla giacca e tornò a fissare il palco.
    Quest’anno abbiamo con noi degli ospiti speciali” strizzò gli occhi nel tentativo di riconoscere le persone accanto alle forze armate, era stato un periodo di agitazioni, le voci che giravano erano molte, alcune avevano addirittura dato il via a teorie cospiratorie a dir poco geniali, chissà se per una volta avrebbero raccontato loro la verità e “in alto le mani con un vuoto allo stomaco e un battito cardiaco mancato si ritrovò l’unica in mezzo alla folla con le mani in alto e lo sguardo divertito di Just addosso, dio quanto era stupida “Dobbiamo smetterla di presentarci come se nulla fosse a queste fece un gesto che inglobava l’intero Parco della Memoria cose” inspirò sonoramente portandosi una mano alla fronte indecisa se riderci sopra o vergognarsi, ma soprattutto indecisa su come pensarla su quello che stava accadendo a diversi metri da lei, sul palco: persone che si scomodano a fare un viaggio temporale di 100 anni non portano mai buone nuove.
    She's been to private school, and she speaks perfect French, she's got the perfect friends. Oh isn't she cool?
     
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    due mesi prima.
    Ci mise un po' a riprendersi dal viaggio in passaporta, e per poco non rimise sul giardinetto inglese tagliato impeccabilmente la (scarna) cena. Odiava viaggiare magicamente. Certo, era comodo essere dove voleva in un battito di ciglia, ma a quale prezzo? Si sentiva le budelle in subbuglio, la mente confusa. Abbassò lo sguardo sull'incrocio di cane lupo che teneva in braccio, rendendosi conto che questi era messo parecchio meglio di lui; chi l'avrebbe mai detto che un trovatello fino ad una settimana fa pelle e ossa destinato alla tavola di un ristorante, fosse tanto forte di stomaco? Dopo un bacio sul naso lo lasciò andare a terra, mentre lui sistemava con cautela il moschettone (la passaporta) dentro la scatoletta di latta una volta contenente delle caramelle. Dopo essersi risistemato lo zaino in spalla, mise una mano in tasca, sfiorando il pezzo di carta ivi tenuto. Odiava viaggiare magicamente, apparteneva alla scuola del "l'importante è il viaggio, non la destinazione", ma c'erano cose che non potevano aspettare la traversata di mezzo mondo con mezzi di fortuna.
    Fece qualche passo avanti. Il ragazzo sfregò con energia le mani tra loro, e dopo essersi guardato ancora una volta intorno per assicurarsi che la zona fosse libera posò le dita a terra alla base del rampicante, a bordo muro della casa. Il cucciolo di cane, con un piccolo guaito, avvicinò il muso. «Non ora, bello» mormorò Laurent sporgendosi per dargli un bacio sulla testolina pelosa «Mi devo concentrare» Prese un respiro profondo, chiuse gli occhi. Sentiva l'energia vitale del terreno ai suoi piedi, li linfa che scorreva come sangue nella pianta; con un atto di volontà cercò di accelerare il processo di crescita della rosa, trasferì parte della propria energia nelle radici e, pur non vedendo, sapeva di essere riuscito a far crescere la pianta fino alla finestra, allargandone il busto abbastanza perchè fosse praticabile la rampicata (un po' come faceva sempre, insomma: andando via avrebbe tagliato la pianta per nascondere la sua venuta). Riaprì gli occhi con un sorriso, che dedicò prima alla pianta e poi al bastardino che lo guardava con occhioni colmi di aspettativa «Torno subito. Tu aspettami qui, cerca non fare rumore» non gli piaceva usare il proprio potere per controllare Yen, quindi sperava che il cucciolo avrebbe eseguito sulla fiducia "l'ordine" ricevuto come amico. Gli stropicciò la mano sul muso come saluto, e un secondo dopo era già aggrappato alla pianta, deciso a scalarla fino alla finestra della camera illuminata da una fioca luce all'interno. Un piede dopo l'altro, attento a non strappare fiori durante la salita, Laurent fu velocemente al secondo piano della casa. Spinse la mano sul vetro della finestra, trovandola come si era aspettato aperta, e issandosi sul davanzale entrò silenzioso nella camera da letto, guardandosi rapido intorno. Quando la luce si accese all'improvviso, dovette coprirsi la faccia con il braccio. Lo abbassò lentamente sbattendo le palpebre per abituarsi al cambio di luminosità dopo il nero della notte, incurvando leggermente le labbra quando vide quello per cui era venuto.
    «Lou» Sul volto del ragazzo si dipinse un sorriso a trentadue denti mentre, zaino ancora in spalla, si avvicinava veloce alla vecchia coricata a letto. Le scoccò un bacio sulla guancia rugosa. «Lou, dove sei stato?»
    «Su una stella, nonna» Tecnicamente Jessalyn Goodwin era bis nonna di Laurent, ma il ragazzo aveva sempre avuto un rapporto più stretto con lei, che eppure da anni non ci stava completamente con la testa e continuava a dimenticarsi le cose, piuttosto che con la sua "vera" nonna. Forse era dovuto al gene special che nonna Jess - centodiciannove anni portati egregiamente - gli aveva tramandato e che li accomunava, forse era perchè Laurent si era sempre sentito vicino alla giovane Jessalyn degli infiniti racconti della nonna, una ragazza che aveva dimenticato il suo passato dicendo addio a tutto ciò a cui questo era legato per vivere meglio il proprio futuro. Laurent non aveva esattamente scelto di tagliare tutti i ponti con la persona che era stato fino a due anni prima, ma la similitudine restava.
    «Ho girato la Cina, questa volta, quindi possiamo aggiungere una parola al nostra repertorio» Laurent iniziò a frugare nel grosso zaino che si portava appresso, posandolo poi contro il muro. Dopo essersi tolto le scarpe, si stese sul letto al fianco della donna e le lasciò fra le mani un piccolo rametto di ciliegio. Nonna Jess aveva qualche problema di memoria a breve termine, sebbene ricordasse perfettamente qualsiasi cosa avvenuta quando era giovane, e gli piaceva portarle da ogni viaggio che faceva un fiore tipico del luogo, incantato perchè non appassisse: in questo modo anche se non avesse ricordato la visita del nipote, avrebbe sempre potuto rendersi conto che era passato, e dov'era stato. I fiori, allo stesso tempo, potevano facilmente essere dono di chiunque; le cartoline, lettere, o i souvenir, Laurent preferiva evitarli: se suo padre o la sua matrigna avessero trovato qualcosa del genere in camera di nonna Jess, se ne sarebbero liberati, e avrebbero capito che era passato di lì.
    «Wàzi» annunciò soddisfatto. «Calze in mandarino. Siamo a... ventidue lingue» fece schioccare la lingua sul palato, mentre la nonna sogghignava.
    Laurent era un ragazzo con pochi desideri, e fra questi c'era la realizzazione della scommessa fatta tanto tempo prima con nonna Jess: imparare almeno una parola in tutte le lingue del mondo; non si sarebbe dato pace finchè non ce l'avesse fatta. La scelta era ricaduta su calze più per gioco che per altro, vista la sua passione per le stesse e il motto che, fin da bambino, aveva ripetuto a chiunque incontrasse sulla sua strada: «Le calze non sono mai abbastanza». Gli mettevano allegria, che devo dirvi?
    «Questo mi ricorda...» Laurent si tirò leggermente su, guardando la nonna che scavava nella memoria alla ricerca di una qualche storia. Il ragazzo le aveva sentite tutte, ma erano sempre affascinanti. Nonna Jess scosse lentamente la testa, divertita dal ricordo. «Ti ho già raccontato di quella volta che Erin ha fatto un oblivion Loquenti su Kieran, e lei ha iniziato a parlare in russo senza che nessuno la capisse per giorni?» "Almeno un milione di volte" «Raccontami tutto»
    Mentre la nonna parlava, Laurent ascoltava rapito... ma non quanto lo sarebbe stato normalmente. Pur essendo sempre stato agitato e eccentrico fin da piccolo, le storie della nonna erano sempre riuscite a richiamare la sua intera attenzione che fosse la prima, seconda, decima volta che le ascoltasse. Non quella sera. Quella sera, la sua testa era altrove.
    Infilò la mano in tasca, assicurandosi di avere ancora il pezzo di giornale custodito lì. Voleva essere lui a mostrarglielo, a parlargliene, e vedendo gli occhi della nonna farsi lucidi al ricordo degli amici - dopo tutti quegli anni? Sempre - a Laurent si strinse il cuore. I suoi genitori avevano sempre avuto paura di dire le cose a nonna Jess, per timore che una notizia sconvolgente potesse farle avere un infarto, ma lui sapeva che era molto più forte di quanto loro la dipingessero. Quando la sua nipotina Lucy le aveva detto che da quel giorno voleva essere chiamata Laurent, e che non si era mai davvero sentita una femmina, Jess non aveva battuto ciglio, limitandosi ad abbracciarla. Quando le aveva detto che avrebbe lasciato la scuola prima del diploma e sarebbe andato senza soldi a girare l'inghilterra, dormendo dove capitava e lavorando dove serviva cercando di aiutare quante più persone possibili, lei non aveva ribattuto. Quando gli aveva confessato che se n'era andato perchè erano stati suo padre e la matrigna a scacciarlo, Jess aveva scosso la testa intristita. «Potrai tornare a trovarmi tutte le volte che vorrai... e non mi è mai piaciuta quella Agnes»
    «Nonna» la richiamò quando la storia dei minireb fu giunta al termine. Aveva il cuore che batteva all'impazzata, ma sapeva che era la cosa giusta da fare. Dpo averlo tirato fuori, stirò il foglio di giornale con le dita «Credo tu debba vedere una cosa»
    Le porse il pezzo, aspettò che lei si rendesse conto. Non sentendola commentare, chiese: «E'... lei, vero? E' Kieran Sargent» Era una domanda retorica, la sua. Ovviamente la giovane ritratta sulla copertina del giornale, identica all'ultimo giorno in cui Jess doveva averla vista prima della sua presunta morte, era kieran sargent, e non soltanto perchè questo era quello che aveva scritto il giornalista: aveva visto le foto, Laurent, aveva guardato ridendo i ricordi della nonna ringraziando fosse nata in un'epoca già digitale (sebbene in cento anni la tecnologia fosse migliorata ancora). Quando alzò lo sguardo sul viso della nonna, non si preoccupò di vedere le lacrime che le rigavano le guance scavate, ma si limitò a farsi più vicino - lei sotto le coperte, lui sopra - per abbracciarla.
    «Sono...?»
    «Sono vivi»
    Forse l'avrebbe dimenticato il giorno dopo, ma Laurent non si pentì di averle detto la verità: ne valeva la pena per il sorriso dipinto sulle labbra della nonna, ne valeva la pena per il cuore che le sentiva esplodere il corpo, per la gioia selvaggia degli occhi. Il ragazzo sapeva quello che stava per dire:
    «Non ho mai smesso di crederci» «Lo so»
    Non si voltò verso il nipote, concentrata com'era a studiare la foto che aveva sottomano, il dito ad accarezzare i volti familiari, ma Laurent colse comunque la decisione nella sua voce, come se improvvisamente non fosse più una vecchietta obbligata a letto, ma di nuovo una giovane ventenne. «Raccontami tutto»

    presente.
    In quelle settimane, Laurent non era andato a parlare con Kieran Sargent, Murphy Sywalker o gli altri eroi di guerra arrivati nel presente, e i motivi erano molteplici. Tanto per iniziare, non era così facile a farsi come ci si potrebbe aspettare approcciare delle celebrità. Era arrivato in Francia dopo qualche giorno fra passaggi vari con quei pochi possedimenti che aveva, chitarra a spalle e nella tracolla un album di ricordi della nonna, al seguito il cucciolo di cane lupo, ma sebbene i Prescelti girassero per Parigi fra le persone normali, riuscire ad avvicinarli era pressapoco impossibile, soprattutto per una persona come Laurent dai capelli spettinati e i vestiti sgualciti; tutto in lui gridava straccione, ma se la cosa non gli aveva mai creato preoccupazione negli ultimi anni, doveva ammettere che iniziava a dargli noia adesso. Veniva guardato male quando faceva domande su dove si trovassero gli eroi nazionali, gli veniva sbarrata la strada con sguardo altezzoso. Non era neanche riuscito a vederli da lontano per riuscire a controllare la somiglianza fra loro e i miti che si era costruito in testa, e tutto perchè alla gente lui non mentiva mai, e si presentava con un sorriso sincero e a cuore aperto, senza nascondere chi era. A volte sarebbe stato meglio nasconderlo («Sei fatto?» «Della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. L'ha detto quel poeta famoso, Brodi Fibra» «Shakespeare» «Ah»).
    Il secondo problema, era che non era ancora certo di voler usare il nome di sua nonna per riuscire ad avvicinarsi loro.
    Nonna Jessalyn poteva essere stata felice, tutto sommato e pur senza di loro, della vita che aveva avuto e della persona che era diventata, ma Laurent non poteva fare a meno di chiedersi come avrebbe reagito lui se fosse stato strappato al mondo che conosceva e scaraventato cento anni dopo. Cosa avrebbe detto, ritrovandosi davanti ad un suo migliore amico ai suoi occhi improvvisamente decrepito? Sua nonna era arzilla per la sua età, ma poteva essere un brutto colpo per i Prescelti che l'avevano conosciuta - per i quali erano passate appena poche settimane dall'epica battaglia di Beauxbatons - vederla o anche solo saperla in quello stato. Avrebbe preferito approcciarli lentamente, riuscire a parlare loro, parlare a Kieran, e solo dopo aver imparato a conoscerli dire chi fosse e cosa già sapesse di loro oltre ai racconti che si tramandavano sui libri di storia. Dire a Kieran cosa aveva sempre significato per sua nonna.
    Ma qui si torna al problema iniziale.
    Tutti volevano un pezzetto dei Viaggiatori nel Tempo, e Laurent non avrebbe sopportato l'idea di passare come gli altri per un approfittatore.
    Era andato alla Festa della Rivelazione per vederli. Almeno da lontano, no? Era stato alla loro stessa festa a Capodanno, ma non per molto prima di essere sbattuto fuori (complice il traffico di zucchero che aveva messo su; i soldi poi li aveva lasciati ad una mamma single sua amica). Aveva bisogno di confrontare i sorrisi che gli raccontava sua nonna con le facce dal vivo. Chissà, forse sarebbe riuscito anche ad approcciarli dopo la manifestazione pubblica, o sarebbe anche solo riuscito a farsi dire dove passavano i pomeriggi o qualche cosa del genere; aveva alcuni amici a Parigi, fatti nel periodo che aveva passato a lavorare come lavapiatti in una bettola francese poco dopo essere stato scacciato di casa (altri barboni a cui lasciava gli avanzi di questa o quella cena o coperte con cui scaldarsi), forse loro potevano aiutarlo.
    Allungò il collo per guardare oltre le teste della folla quando le prime guardie salirono sulla passerella. "Andiamo... Dove siete?" Non aveva dormito per conquistarsi un posto fra le prime file, e ora fremeva dalla voglia di (un caffè) veder spuntare i Viaggiatori, stretta in mano una vecchissima foto di sua nonna con i suoi amici. Quando finalmente gli inglesi apparvero, la sua bocca si allargò in un sorriso, solo per accorgersi qualche istante dopo che loro non erano altrettanto contenti della cerimonia. "Ovviamente". Si incantò a studiare i capelli corvini di Murphy, gli occhi chiari di Helianta, e finalmente la vide, in mezzo agli altri. Aveva sempre avuto un debole per la Kieran dei racconti, per lo sguardo perso di nonna Jess quando parlava di lei. Dal vivo era ancora più bella di quanto pensasse... ma prima di poter fare - pensare! - alcunchè, le altre persone comparvero.
    Non capì immediatamente cosa fosse successo. Ci fu del trambusto nella folla quando la polizia mosse le pistole, e Laurent dovette faticare per tenersi il posto fra le prime file, felice di aver lasciato Yen fuori da lì. Per poco non venne buttato per terra dal tran tran, e quando si accorse che una bambina stava per essere travolta si avvicinò rapido spingendosi fra le persone, facendole da scudo.
    Dopo un attimo, tornò a guardare verso il palco... e aprì la bocca in sorpresa.
    «Barrow?» inclinò la testa di lato, spalancando gli occhi «Maeve» Sinceramente, ci aveva sperato, che anche gli altri amici di nonna Jess scomparsi quel lontano 2018 fossero tutti vivi e prima o poi sarebbero arrivati, ma a quanto aveva letto sui giornali - a quanto avevano raccontato i Prescelti già lì - era più possibile che fossero morti. E allora perchè li aveva riconosciuti dalle foto? Chissà come avrebbe preso la nonna la sopravvivenza di altre persone della sua adolescenza.
    Santo cielo, sembravano così confusi e sconvolti. Nessuno a parte la polizia e i medici aveva avuto a che fare con i primi Prescelti arrivati i primi giorni; per qualche motivo, pur sapendoli umani, una parte di lui se li era immaginati arrivare in armatura scintillante, un sorriso sprezzante del pericolo, i volti sporchi del sangue della battaglia appena vinta. Come mai erano arrivati solo in quel momento? Stavano per sconvolgere il loro noncosìperfetto mondo?
    Con un respiro profondo, spintonò in giro (riempiendo la gente di scusa, scusa, grazie, permesso che nessuno voleva sentirsi dire) fino a raggiungere il bordo del palco, per seguire da vicino la scena. Dopo un attimo di esitazione, portò le mani a coppa attorno alla bocca «JESSALYN GOODWIN» e chi lo sa, magari non l'avrebbero neanche sentito, magari invece avrebbero voluto ascoltare quello che aveva da dire. "che ha sempre creduti in loro, che mi ha raccontato le loro avventure fino alla noia, che li amava - li ama -, che le spiace non averglielo detto prima".


    ho riniziato questo post così tante volte che in realtà avrei potuto postare tre o quattro volte. E soprattutto, non so più cos'ho scritto qui cosa nelle versioni precedenti ihihihihihi
    è sinceramente terribile, non fa nulla di utile CIAO NONNA però mi piaceva tanto lo schema role e il pv quindi ormai dovevo postare
     
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    «sei uno scricciolo» Era un insulto? Un complimento? Dal sorriso ironico dell’uomo dedusse che la risposta corretta fosse la prima, ma dal suo buon cuore fatto d’amore e sciroppo d’acero si concesse di credere alla seconda. Arcuò le sopracciglia bionde, labbra dipinte di rosso piegate verso il basso. «ed è un problema?» finse un’innocenza che non possedeva da troppo tempo, grandi occhi verdi spalancati in quell’opacità di malizia che contraddistingueva da sempre, tutta una vita, il suo sguardo. Una domanda grondante di sarcasmo a trovare risposta nel ghigno accondiscendente dell’uomo, negli occhi di lui a scivolare sulle gambe scoperte risalendo sui fianchi spessi e morbidi: no, non era mai un problema – perlomeno non quando le luci calavano, e gli uomini abbandonavano pregiudizi e morale sotto il sole del tramonto. Non era mai un problema nel momento in cui denti le affondavano nella carne, o i polsi sottili le venivano stretti sopra la testa con una mano sola. Non era mai un problema quando dovevano premerla contro un materasso soffocandole voce e respiro sul cuscino, le gambe avvolte in vita.
    «ce l’hai almeno la patente?» però oh, a quanto pareva era un problema quando si presentava alle Gare. L’ipocrisia di quel mondo non avrebbe mai smesso di stupirla ed estasiarla. Sorrise, le dita a scivolare intenzionalmente lente verso l’imbottitura del reggiseno – e non le sfuggì il modo in cui gli occhi dell’uomo seguirono il movimento. «malfidato» sventolò audace la patente di fronte a sé, dove una Robyn Fenty aveva compiuto diciannove anni il mese precedente (una vera fortuna che non avesse mai incontrato amanti del vintage: avrebbero potuto riconoscere il nome di Rihanna). Melvin falsificava documenti da quando aveva tredici anni, e la donna che l’aveva presa sotto la propria ala le aveva insegnato tutto quel che, a sedici anni compiuti, conosceva: aveva più carte d’identità lei dell’intera Provincia, e di patenti ne stracciava almeno cinque a settimana. L’uomo, si faceva chiamare Buddy, osservò alternativamente documento e sorriso della Diesel. «non è troppo grossa per te?» Ma allora era una fissa, la sua. Vin sospirò drammatica, il capo rivolto alla Mercedes parcheggiata poco distante. Ma qual era il problema di Buddy con le dimensioni? «nulla è troppo grosso, se sai come usarlo» reinfilò la patente nel reggiseno, gli occhi a scivolare volutamente sul cavallo dei pantaloni dell’uomo. «se non l’hai imparato, significa che non hai mai dovuto affrontare il problema» il sorriso si ampliò sulla bocca morbida della sedicenne, i capelli biondi, e non coperti da una parrucca, a scivolare sulla spalla. Schioccò un bacio verso di lui sfiorando appena con il palmo le proprie labbra, un occhiolino ad addolcire la battuta – non voleva ferire i suoi sentimenti, ma iniziava a sentirsi un po’ presa in giro. Inoltre, al contrario loro, aveva una tabella di marcia da rispettare: non aveva tutta la notte per attendere i loro comodi, non tutti i suoi clienti erano in grado di masturbarsi da soli. Si imparavano un sacco di cose, quando si entrava nel giro - e la Diesel, come un simpatico quadrato d’acido, era ovunque e sulla bocca di tutti. «salite in macchina» Buddy liquidò la faccenda con un sospiro mortificato, e Vin si sentì quasi in colpa: era stata troppo rude? «grazie, sei stato molto carino» aggiunse battendo languidamente le ciglia, salutandolo mentre prendeva posto sul sedile dell’autista. Una macchina meravigliosa, presa in prestito in un quartiere poco distante. Da brava cittadina, aveva lasciato anche un bigliettino - scritto con il rossetto perché oh, mica girava con le bic nella borsetta, tanto non accettava assegni – con Torno subito. Scusa firmato con il tipico, adorabile, bacio a lato del cartoncino. Era un po’ il suo biglietto da visita, quello: tutti a Parigi conoscevano la Pontiac Bandit, ma era troppo adorabile perché qualcuno volesse sporre denuncia – e nessuno, chiaramente, sapeva fosse lei. Melvin, la propria vita, se la gestiva a compartimenti stagni: le piaceva atteggiarsi da ragazzina frivola e stupida, appiccicosa e molesta senza alcun impegno. In una società come la loro, ed in un mestiere come quello della Diesel, non era l’intelligenza a pagare – le faceva solo perdere punti.
    Osservò le bandierine sollevate in attesa del Via ufficiale, il motore della macchina a vibrare come un animale in gabbia scuotendole cuore e polmoni. La scarica d’adrenalina le dipinse un sorriso euforico sulle labbra, gli occhi a brillare famelici come quelli d’un gatto nel buio. Quando, da bambina, tutte le sue coetanee giocavano a prendere il tè con i loro amici immaginari, la non ancora Diesel seguiva suo padre alle mostre di automobili, sognando un giorno di poterne guidare una tutta sua: Memphis Martins amava i modellini, la figlia sognava motori e rombi e applausi e fama e pericolo. Fece ronzare la Mercedes, svuotando i polmoni in uno sbuffo quasi isterico; allungò la mano verso la radio, alzando il volume della musica fino a che questa non coprì il brusio del propulsore: pareva d’essere su una creatura viva, quando i rumori della macchina cessavano d’assordare.
    Tre. Scosse il capo, labbro morso fra i denti.
    Due. Un brivido lungo la schiena, un’ultima occhiata ai suoi avversari.
    Uno.

    «quanto tempo ho ancora?» Russell, il suo uomo di fiducia (ossia il senza tetto del Super Mercato: era il suo preferito, e conosceva un sacco di storie affascinanti), la osservò battendo languido le spesse palpebre scure. «cinque minuti» Ma che cazzo! Sbuffò esasperata, il sacchetto con i contanti di un mese di gare clandestine ad osservarla facendosi beffe di lei dal bordo del marciapiede. Perché… perché dovevano… «pesare così tanto» si lamentò, spostando ancora gli occhi verdi su Russ. Poteva aiutarla lui, no? Era chiaramente un esemplare di gorilla allo stato brado, sotto tutta quella ciccia dovevano pur esserci, statisticamente parlando, dei muscoli. Giusto? Lui non la degnò d’una occhiata. «quattro» Bestia. Non ce l’avrebbe mai fatta, in quattro minuti. Si guardò sconsolata attorno, le labbra strette fra i denti.
    I'm outta time and
    All I got is four minutes, eh
    .
    Fu in quel momento che lo vide. Come… come aveva potuto non pensarci prima. Un sorriso estasiato le curvò la bocca, gli occhi gonfi di je ne sais quoi ad ammiccare a Russell. «sfida accettata»
    E questa è la breve storia di come Melvin Diesel, caricando il denaro su un carrello della spesa ed usando lo stesso come uno skateboard, giunse a destinazione: il suo garage. Okay, non era suo, era di Leonard, ma il suo garage. Con l’anima a grondare orgoglio ed affetto, Vin osservò Baby brillare sotto le luci del primo pomeriggio, amandolo con la stessa intensità con cui amava …beh, chiunque. Era una ragazza semplice, che ci volevate fare. Baby, per inciso, era il suo elicottero. Una volta imparato a guidare le macchine, nessun motore era mai stato un problema per lei: navi, yacht, elicotteri, aerei, moto, monopattini, sedie a rotelle elettriche. Se la cavava una meraviglia anche sugli animali, ma aveva come la sensazione che la sua bravura nella cavalcata non fosse dovuta alla patente C. Un minuto, e sarebbe iniziata la Festa, quella che (come sempre) paralizzava la città impegnando tutte le forze dell’ordine: insomma, quando avrebbe avuto un occasione altrettanto perfetta? Non per commettere crimini, figurarsi – poteva essere una delinquente quotidianamente, ma quello non poteva permetterselo così spesso.
    Salì sull’elicottero, caricò i guadagni. Alla Diesel i soldi non interessavano, altrimenti sarebbe rimasta in Canada con i nonni: le piaceva essere indipendente, ma alle proprie regole.
    Non ne aveva, per inciso. Viveva alla giornata: carpe the fuckin diem.
    Donare il ca$h ad un ente di beneficienza sarebbe stato troppo… un clichè, e non sarebbe stato affatto divertente – ecco perché, alzandosi in volo sui cieli parigini, una volta raggiunta una quota accettabile Melvin Diesel svuotò il proprio sacco sulla città al grido di «S'ILS N'ONT PLUS DE PAIN, QU'ILS MANGENT DE LA BRIOCHE!!» mic drop.

    Non era fatta per quella vita di stenti e fughe, Vin. Si appoggiò ad una colonna, la fronte premuta contro il marmo ed i polmoni a dolere per la corsa. Parcheggiato Baby, si era cambiata in sette (7) minuti abbandonando la mise da pilota (sì, certo, aveva una divisa…che era da hostess, sì, ma si accontentava) in favore di abiti eleganti e di classe: cioè, secondo voi si perdeva la Cerimonia annuale? Quando trovava più clienti? Figurarsi. Sbottonò un poco la camicia bianca, allentando la stretta del fiocco nero a penderle sul petto. Lisciò le pieghe della gonna, e fece scivolare i piedi nelle decolleté nere. Il severo caschetto color ossidiana la faceva apparire ancor più pallida del solito (record), ma metteva in risalto le labbra cremisi ed i sottili occhi smeraldo: gli Addams, perfino dopo secoli, avevano ancora un certo fascino. Quando fu certa di essere presentabile ed impeccabile, fece la propria entrata trionfale nel Giardino. «cosa mi sono -» si fermò al fianco di Holly, l’unica che in quel mondo triste le permetteva di ritirare fuori i puns sul daltonismo che era solita usare con mamma, la testa reclinata contro la propria spalla. Cosa…cosa stava succedendo. Dov’era lo champagne? E le tartare? Togliendo la papabile clientela, lei era lì per il cibo gratis ed il vino. «persa?» Ma soprattutto. «dov’è il punch» Questione di priorità.


    melvin vin diesel
    I've been lookin' for a driver who is qualified
    So if you think that you're the one, step into my ride
    canadian
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    «No» La ragazza sbuffò esasperata, alzando gli occhi al cielo anche se consapevole del fatto che non avesse molto senso farlo, quando suo padre era a circa seimila chilometri di distanza da lei e si ostinava a non voler comprarsi un telefono nuovo, preferendo ancora limitarsi a parlare da un capo all'altro del cellulare e non prendendone uno di ultima generazione in grado di fare le classiche video chiamate in 3d, come facevano tutte le sacrosante persone normali. Perché lui doveva fare sempre l'alternativo? Oramai Tokyo aveva perso ogni speranza di aprirgli le porte del futuro, imparando ad accettarlo così com'era. «ma papà, io qui sto lavorando!» Era vero, del resto: oltre al fatto che, lì a New York, si stesse divertendo da matti tra feste ed eventi esclusivi, la ragazza stava cercando effettivamente di allargare il suo business quale trovando agganci per ampliare il suo canale YouTube e trasformarlo in qualcosa di più. Magari, conoscendo i produttori giusti, poteva fare un programma televisivo tutto suo: oramai aveva iniziato a fare vlog dalla tenera età di dodici anni, e si sentiva già una donna vissuta dove, e sulla soglia dei suoi diciotto anni desiderava qualcosa di più che pubblicare video sulla sua pagina. I V-Log erano qualcosa che avrebbe potuto continuare a fare per quanto ancora, due o tre anni?? Si sentiva già la vecchiaia addosso, Tokyo, e sapeva che la fine dei suoi giorni in giro per il mondo era vicina: non aveva più l'età. Già ne sentiva gli acciacchi ogni volta che non si metteva una sciarpina ed al primo colpo di vento si beccava una broncopolmonite - che in realtà era più un raffreddore, ma Tokyo tendeva ad esser un tantino drammatica - o quando si alzava dal letto e sentiva un ginocchio fare rumori preoccupanti o i piedi gonfi dopo esser stata seduta troppo tempo. Si stava facendo vecchia. Quindi, in quelle due settimane a New York, la ragazzina stava provando a costruirsi una carriera stabile: magari poteva diventare la nuova Licia Colò della televisione mondiale. L'importante poi era non ridursi a fare pubblicità con koala di peluche. «Non puoi perderti il trentesimo anniversario dei Patti, è il t-r-e-n-t-e-s-i-m-o ! Ho già appeso uno striscione alla porta!!!» La ragazza si ritrovò di nuovo a sbuffare, questa volta però tentando di trattenere un sorriso: anche senza la chiamata-ologramma, Tokyo sapeva che suo padre avrebbe potuto capire comunque che era riuscito a convincerla. Del resto, lo faceva sempre: era impossibile non accontentarlo, rimanere fermi nella decisione di restare a New York, quando nella testa della ragazza si formava chiaramente l'immagine del padre che, tutto sorridente, appendeva al portone di casa Lovecraft una specie di striscione ricavato da un vecchio lenzuolo con su scritto qualcosa di maledettamente scontato come "Buon 30simo anniversario!!" «okay, ci vediamo tra qualche giorno » E poi, del resto, aveva già considerato l'idea di tornare: doveva assolutamente fare un intervista ai viaggiatori arrivati dal passato, i suoi fanz lo esigevano ormai da settimane!
    E Tokyo Lovecraft non li deludeva mai.

    «scusa - scusa - perdonami devo passare - sono di corsa, non lo vedi? » La mora si faceva a fatica spazio tra i passanti per le strade di parigi, maledicendosi mentalmente per aver deciso di mettersi i tacchi - alla fine, era una nanetta comunque, quei dieci centimetri in più non aiutavano molto - e odiando un po' suo padre per averla lasciata indietro. Quando le aveva detto "se tra cinque minuti non sei pronta esco senza di te", la mora non ci aveva creduto sul serio, prendendola come l'ennesima minaccia che non veniva poi mai messa in atto. Ed invece eccola lì, sola a dirigersi verso il Giardino ed in ritardo per la cerimonia sicuramente già iniziata. Fantastico.
    Quando finalmente arrivò, notò che qualcosa non quadrava: si guardò intorno spaesata, sempre però con la sua go pro in mano pronta a filmare qualunque cosa per poi avere materiale da pubblicare sul suo canale, e infine fu lieta di vedere Vin a pochi metri da lei, con una faccia confusa quasi quanto la sua. «VIIIIN!» La strinse in un veloce abbraccio non appena fu a pochi passi da lei : con tutti i viaggi che faceva e le persone che si avvicinavano a lei solamente per diventare conosciute, Melvin era per la Lovecraft una delle uniche amiche che aveva. «Non potevi passare a prendermi con Baby? Ho dovuto prendere la metro» Tokyo la odiava, ma solamente perché aveva una paura matta che si schiantasse da un momento all'altro. Come del resto aveva paura di quasi qualunque mezzo di trasporto: solo che, potendo scegliere, preferiva di gran lunga schiattare nell'elicottero di Vin o in qualsiasi altro aereo all'aria aperta piuttosto che sotto terra come un ratto da laboratorio. «ma...che succede?» Adocchiò da lontano Laurent, felice di trovare un'altra faccia amica: tra il mese in Thailandia e la sosta subito dopo a New York, era passato fin troppo tempo dall'ultima volta che aveva visto l'amico. «JESSALYN GOODWIN» Mh? Perché stava urlando il nome della nonna? Eh vabbè, allora... «SHARYN WINSTON!» così, giusto per solidarietà.
    takeshi tokyo lovecraft
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