[ funeral party ] gone but not forgotten

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    Anjelika|26 y.o|Mangiamorte
    Queen-Icesprite
    «insatiable bitch shrouded in darkness»
    «Everyone best are mads»
    Anjelika non aveva una famiglia armoniosa, a stento ne aveva una, anche se aveva incontrato finalmente i membri che ne facevano parte; in quanto Hamilton, si era ritrovata Gemes come cugino, non parlavano molto, non erano soliti fare cene di famiglia o altro, si vedevano raramente e in fondo le stava bene anche così, aveva ritrovato un cognome ma era tutto lì, anche perché la sua famiglia era solo Damian e quel mostriciattolo di Antares. Aveva fatto però dei progressi con lui, riusciva a prenderlo in braccio senza farsi assalire la voglia di mangiarselo; ogni tanto si leccava le labbra ma il piccoletto aveva smesso di urlarle in faccia, tanto che col tempo avevano preso anche a sorridersi, strano ma vero, la rossa stava iniziando a sentirsi una madre.
    Al contrario di lei, Damian aveva molti parenti e anche se non voleva dirlo e non lo dimostrava mai, gli voleva bene ai Withpotatoes, specialmente a Idem Tutti amano Idem , si erano allontanati e ognuno viveva la propria vita ma c'era un legame profondo tra di loro, anche se Anjelika non lo capiva fino in fondo, anche perché non aveva mai ricevuto amore dai parenti, non sapeva neanche cosa volesse dire in realtà. Avevano anche ritrovato Magnus, sinceramente non capiva bene che ruolo ricoprisse negli Icesprite, ma non si faceva mai molte domande al riguardo, se Damian si fidava di lui lo faceva anche lei, in quanto moglie. Si era sempre fidata del giudizio del marito quindi non si preoccupava della sua presenza in casa.
    Vestitevi, andiamo dagli Withpotatoes. aveva detto Damian serio come al solito ma nascondeva qualcosa, che fece preoccupare la rossa, non era il consueto uomo autoritario, sembrava turbato, anzi a guardarlo più attentamente stava persino soffrendo; Anjelika non ne era sicura, perchè a dirla tutta non sapeva bene cosa volesse dire perdere qualcuno d'importante, lei non aveva nessuno oltre a lui. In un secondo fu pronta e chiamò un elfo Bada al bambino. non aggiunse altro e affiancò il marito, come sempre, lo avrebbe seguito ovunque. April e Nathan sono morti. Un attentato in Francia. disse d'un fiato, era distrutto anche se faceva in modo che nessuno notasse quella sua debolezza. Che fare in situazioni del genere? Lei non ne aveva idea, magari una pacca sulla spalla? Neah, troppo da amic; un abbraccio? Neah, troppo dolce non era dalla rossa. Qualche parola di conforto? Ovviamente non era capace neanche a consolare, così gli prese la mano e la intrecciò alla sua, era un gesto non troppo intimo, ma la presa era salda, sicura, quello era meglio di mille parole. Quello voleva dire che lei lo avrebbe seguito, sostenuto se fosse servito e mai lo avrebbe lasciato. Il resto lo avrebbe lasciato alle persone normali.

    Quella era una giornata infinita e difficile da fare trascorrere, il dolore faceva da padrone in quel posto ma lei non sentiva niente in effetti, quella sofferenza a dirla tutta non le faceva nè caldo nè freddo, era brutto pensarla in quel modo ma per lei era davvero molto arduo capire i sentimenti specialmente quelli legati alla famiglia. Eppure, era lì comunque al fianco del marito, non osava parlare, era lì solo per lui, voleva essere lei la roccia della coppia per la una volta, la persona stabile emotivamente dato che per il compagno non era una giornata facile, anche se da lui non ci aspettava una tale debolezza; ma era umano e stava soffrendo per le perdite.
    Abbracciò come lui, la cugina Idem, provata per tutto quello che le era successo. Poi ascoltò le parole della ragazza, forse anche in modo troppo distaccato e distratto, non perché non aveva voglia di deprimersi per via dei racconti di vita vissuta con April o delle cazzate con Nate, ma fu la presenza di Visilov a destare curiosità nella donna, perché tanta attenzione al riguardo? Con quella sua faccia tosta si era presentato a quella celebrazione; le persone lì erano per un lutto importante. L'atmosfera così, cambiò radicalmente e quella che doveva essere una tranquilla onoranza funebre divenne quasi un terreno pronto ad esplodere e risucchiare le persone al suo interno. La donna s'irrigidì sentendo Damian teso, qualcosa assolutamente non andava e iniziò a pensare come fare per attaccare e proteggersi allo stesso tempo; per un qualche secondo gli occhi si fecero anche di colore acido, se solo fosse stato possibile ci avrebbe anche fatto un bel pranzetto con qualcuno dei presenti, anche se forse doveva togliersi dalla testa quella strana idea, non sapeva neanche chi fosse il Ascoltò le parole dell'uomo che dichiarava la sua innocenza, lei in realtà ci poteva anche crederci, dato che condividevano molti pensieri riguardo alla purezza del sangue ( anche se non era più così fiscale da molto tempo, e poi ora aveva pure Antares), e non solo, insomma era stronzo ma non per questo doveva aver davvero fatto quell'attentato ai loro. Anche dopo quella scenata della Withpotatotes? Beh si, perchè nonostante le parole di Idem, dettate da un fantasma, lei continuava a pensare che tutta quella situazione poteva risolversi in maniera diversa, ma il caos scoppiò in un secondo. Quel pugno diede il via alla guerra, ma non una di quelle tra ribelli contro mangiamorte, quella era ben differente, era peggio senza alcun dubbio; quello era un attentato alla propria nazione, al loro ministero. Poteva sopportare qualche morto, in fondo era il rischio del mestiere, ma se l'attacco era diretto al regime, quello era un'altra storia, era decisamente peggio. Le piaceva Vasilov, era un uomo deciso, senza scrupoli e autoritario; sapeva quello che voleva e avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per ottenerlo, solo che no distruggere il loro governo era un'idea completamente sbagliata a parere suo e doveva pagarla. No, quello non poteva accettarlo, se poi mettiamo che aveva ucciso i parenti di Damian, non fu difficile decidere da che parte stare, lei era sempre con il marito, avrebbero lottato insieme sempre contro il mondo se fosse servito.
    Impugnò la bacchetta e la puntò verso il preside mentre il marito chiamava a rapporto l'esercito, bene, avrebbero combattuto. Sorrise felice Erano mesi che non vedevamo del sangue, non vedo l'ora disse ora eccitata, le piaceva come si sentiva quando era in guerra, l'adrenalina che pompava, i pensieri che si annientavano per avere l'intera concentrazione sulla battaglia e sugli incantesimi da lanciare. Io sono pronta. disse guardando il vice ministro al suo fianco. Non si sarebbe mai mossa senza il suo consenso, voleva uccidere, ma non fare mozze azzardate o stupide, e poi Visilov era imprevedibile, forse dovevano aspettare i rinforzi prima di agire. Ma ovviamente non erano tutti intelligenti come i due Icesprite, perché vide quell'idiota di Patrick attaccare; certo che era davvero difficile stare dalla parte giusta perché le venne voglia di sbattere la muro il biondo che senza riflettere aveva agito.
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    1991's | deatheater | lost
    eugene jackson

    it seems unnatural being born together
    and then dying apart.

    how the fuck do i move on from that? | 03.07.17

    1 luglio 2017, 02.05


    Alle volte gli capitava di fare sogni tanto vividi da sembrare reali, il più delle volte ricordavano un periodo tanto oscuro da essere stato relegato nell'inconscio, ma quello era diverso; perché non si trattava esattamente di un incubo. Ne possedeva i contorni - pesante silenzio ovattato, troppa poca luce, il peso di un macigno sul petto -, ma la sensazione che dava era di quiete. Solo il pavor a guardarsi intorno, avvolto da una coltre di nebbia così fitta da sembrare polvere; e lo era, anche se Eugene Jackson non poteva saperlo. Polvere e cenere, tutto ciò che gli rimaneva. Poi il pianto disperato di un bambino a strappare la cortina di fumo denso e appiccicoso, nel quale il venticinquenne pareva essere rimasto invischiato. «Jade?» Solo un sussurro a fior di labbra, ancora prima di sollevare le palpebre nel buio, improvvisamente sveglio e vigile; la normalità da quando era nato Uran, ma mai Euge aveva portato con sé, riemergendo da un sonno leggero, una simile sensazione di vuoto. Il cuore gli batteva placido nel petto, come se nulla fosse accaduto, eppure le lenzuola madide di sudore raccontavano una storia diversa; una storia terribile, quasi giunta alla fine. «Quando fa così lo strozzerei.» la voce ancora impastata dal dormiveglia tradiva un sentimento profondo, che Heidrun spesso e volentieri si sforzava di celare dietro ad una facciata troppo facile a sgretolarsi, soprattutto quando si trattava di Uran Élite Beech. I capelli scuri della ragazza ciondolarono oltre il bordo dell'amaca sospesa, posto che le sarebbe sempre spettato di diritto, in quella casa come in un angolino riservato nel loro cuore, e solo sollevando lo sguardo nella penombra Euge si accorse finalmente della mancanza di Jade accanto a lui. Apparve sulla soglia, la Beech, i capelli biondi raccolti in una coda morbida e un bambino disperato stretto tra le braccia; non avrebbe potuto pensare ad un termine più adeguato: suo figlio non stava solo piangendo. Il visetto paffuto, rosso e gonfio, era accartocciato in un'espressione di puro dolore, lacrime troppo grandi riempivano gli occhi scuri rotolando copiose sulle guance. Non si poteva ascoltare quel suono, senza provare una fitta allo stomaco. «Ho provato a dargli da mangiare, ma non è fame. Potrebbe avere le coliche..» Dal tono con cui lo disse era chiaro che non ci credeva nemmeno lei.
    Portò le gambe nude oltre il bordo del letto, poggiando i piedi sul pavimento con la massima attenzione; non aveva sprecato tempo, la sera prima, a far notare ai suoi ospiti che proprio al di là della camera in origine destinata a Jade ve ne fosse un’altra a loro disposizione, sapendo che comunque i Milkobitch avrebbero preferito un materassino buttato sul pavimento pur di non doversi allontanare da Heidrun Crane. Li capiva, per quanto ancora gli sfuggisse la dinamica della loro relazione famigliare: non che Eugene Jackson fosse una persona portata a fare domande. Prendeva le cose così come venivano, dandole per buone anche quando a chiunque altro suonavano assurde, e in genere questo lo aiutava a vivere sereno. Occhio non vede cuore non duole, beata ignoranza, eccetera eccetera. «Devono essere quelle.. vuoi che lo prendo io?» Jade annuì, mentre l’ex serpe verde le si avvicinava tendendo entrambe le mani, sfiorando con un bacio leggero i capelli biondi, prima di fare lo stesso con la fronte liscia e bollente del figlio; gli veniva come voglia di vomitare. «Ehi, campione.» Un fruscio morbido come seta, al quale il neonato reagì spalancando gli occhi fino a quel momento strizzati in una smorfia di dolore, iridi rese liquide da lacrime salate che non accennavano a diminuire. Non si capiva ancora su quale sfumatura avrebbero virato, allontanandosi infine dal cobalto screziato di grigio caratteristico di quei primi mesi di vita; in cuor suo, osservando il volto di Uran nella penombra come fosse la cosa più bella su cui avesse mai posato lo sguardo, Eugene pregò non cambiassero mai. «Ti va di dire al tuo papà cosa succede?» e spiegargli perché ha la pelle d’oca e i peli ritti nonostante ci siano già venticinque gradi? Il neonato lo fissò per un istante in silenzio, inghiottendo aria a vuoto quasi stesse facendo un enorme sforzo per rispondergli davvero, e fu in quel momento che qualcuno suonò il campanello di casa Reb, facendo rigirare entrambi i fratelli Milkobitch nei loro letti improvvisati; «Todd vai tu, dai. Se sono i testimoni di Geova lanciagli addosso Breuge.» Quello sì che poteva rivelarsi un deterrente di tutto rispetto, soprattutto contro i venditori porta a porta e i sedicenti adoratori del Signore, a loro volta infimi eretici i quali mai avrebbero riconosciuto la grandezza di Morgan nemmeno se se lo fossero trovato davanti; ma poi, cristo santo (in tema!), alle due del mattino dovevano rompere le palle?
    Pel di carota si mosse per primo, mentre il pavor poggiava nuovamente le magnifiche terga all’angolo destro del materasso, cullando il figlio primogenito nel tentativo di colmare lo stesso vuoto che per qualche strano motivo sembrava avvertire anche lui; Jeremy e Run non tardarono ad abbandonare la stanza, spinti da qualcosa che forse andava oltre la mera curiosità; Jade si attardò giusto un secondo in più, il volto stanco, ma più rilassato ora che Uran aveva spento la sirena d’allarme con cui certamente mezza New Hovel era stata svegliata di soprassalto, poi raggiunse il resto dell’allegra – ed assonnata – combriccola all’ingresso. Spinti da una forza più grande di loro. Sarebbe potuto rimanere lì, lasciando che il peso impalpabile del bambino gli intorpidisse appena gli avambracci, le orecchie tese ad ascoltare il suo respiro ora fattosi più calmo e profondo; si era riaddormentato, Uran Beech, e avrebbe fatto meglio a chiudere gli occhi anche Eugene, allontanando da sé una realtà pronta a cadergli addosso come un cumulo di macerie, negando una verità che nel più profondo dell’anima già conosceva.
    Non era nausea, quella che sentiva, ma un proiettile a scavargli le viscere puntando al cuore.
    «Mi dispiace così tanto.» La voce di Idem. Quando li raggiunse, accalcati sulla soglia di casa e pietrificati come statue di marmo, il serpe verde fu tentato di tirare un sospiro di sollievo: era Idem! Doveva aver avuto un’ispirazione notturna, di quelle che ti obbligano a balzare in piedi e metterti ai fornelli finchè sul piano da lavoro non ti rimangono sbaffi di farina e decine di biscotti fragranti, ed era passata a condividerli; puro stile Withpotatoes, al quale Eugene non sarebbe stato in grado di rinunciare, affascinato da quella bontà intrinseca ed incondizionata. Se è vero che la speranza è l’ultima a morire, le lacrime a rigare il volto pallido della brunetta furono sufficienti a darle il colpo di grazia. A darlo a lui. Perché lo sapeva, il Jackson, che la sensazione di vuoto era un cratere; che la nebbia era polvere e la polvere cenere; che rischiava di soffocare stringendo al petto il sangue del suo sangue, un bambino addormentato. «Che succede?» Sabbia nella trachea, la lingua divenuta di feltro, la bocca arida come non bevesse da giorni, da settimane; le iridi cerulee saettarono da Idem a Jade e da questa a Run, la fronte corrugata nell’osservare la mano di lei premuta sulle labbra, la pelle gelida sotto le dita con cui il pavor le sfiorò il braccio.
    «Cosa cazzo succede?»

    ore 5.10


    La voce di Run che gli arrivava alle orecchie ovattata, distorta.
    «stronzate.»
    Lei che scuoteva la testa, allungava una mano per toccarlo.
    «Sono tutte stronzate.»
    Non lo erano.

    Riaprì gli occhi al terzo squillo del telefono, le palpebre in precedenza socchiuse per non dover vedere: i volti di chi gli stava accanto, lacrime riflesse nello specchio, troppe fotografie poggiate contro le pareti; per non dover sentire chi balbettava un mi dispiace, o il ronzio provocato dal suo stesso cuore spezzato. Riaprì gli occhi al terzo squillo del telefono e lo prese allungando una mano alla cieca, le iridi velate testardamente rivolte al soffitto, posando lo schermo contro l'orecchio destro. Sapeva chi c'era, dall'altro capo della linea, ma non disse niente. Rimase in ascolto, la testa reclinata da un lato, le labbra sottili strette una contro l'altra fino a sbiancarsi; «Euge?» Silenzio. «Io ho appena.. ho appena sentito. Mi dispiace, davvero tantis--»
    «Lo sapevi?»
    Non gli aveva mai parlato in quel modo.
    Non aveva mai provato rabbia, sentendo la sua voce.
    «cosa.. cosa?»
    «Tu lo sapevi? Prima che accadesse.»
    «Io.. io non-- no. Mi dispiace.»
    Non si era mai sentito tanto di merda, sputando addosso al castafratto colpe che il ragazzo non aveva. Eppure la parola scusa sembrava troppo complicata da formulare, pesante come un macigno a premere sulla punta della lingua, capace di solo di sprizzare veleno da ogni poro ed infettare chiunque gli fosse abbastanza vicino da prendersene una dose. Sarebbe voluto essere accomodante, come suo solito, per togliere dalle spalle dell'amico l'ingiustificata sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato, ma ci provò nemmeno: faceva troppo male schiarire la gola per sgretolare la calce che lo soffocava, rendendo la sua voce sottile e fredda, distante e nemica.
    «Avrei.. avrei potuto!» Lo interruppe, questa volta calando le palpebre e stringendo tanto forte che queste si riempirono di puntini rossi e blu, sul precipizio di una vertigine incontrollata. «Lo so. Eli, lo so.» Non se lo meritava, Elijah Dallare. Nessuno di loro meritava i suoi silenzi tirati, i toni di voce troppo alti, le parole tutt'altro che gentili, il modo in cui invece di cercare un abbraccio aveva urlato a tutti di sparire. Sentì dei passi trascinarsi oltre la soglia del salotto, nocche a battere contro lo stipite per richiamare la sua attenzione mentre il biondo cercava le parole giuste che non gli spezzassero la voce, al telefono; «Devo andare, è arrivato Al.» precedette l'amico prima che questo potesse aggiungere qualcosa, lo sguardo rivolto al cugino immobile dalla parte opposta della stanza, stesse iridi iniettate di sangue ad osservarsi in silenzio: azzurro o verde non faceva differenza, se riuscivi a bere abbastanza da velare ogni sfumatura. «Ah, Eli..» si spinse con un colpo di reni giù dalla poltrona, sforzando la propria voce così da smorzare il tono, il volto dell'ex grifondoro perfettamente stampato nella mente; non se lo meritava, Elijah Dallaire, di venire punito nel futile tentativo di cancellare un dolore indelebile. «Puoi passare da casa, domani? Ci facciamo una birra.» Lasciò cadere il cellulare sul divano, quando l'amico rispose affermativamente per poi salutarlo, l'attenzione infine rivolta ad Aloisyus; il quale, al pari di Eugene, non sembrava in grado di muovere un passo. Prima che arrivasse la lettera per Hogwarts, prima dei Castafratti e delle mattine passate a fumare di nascosto con Cole, erano stati loro tre: cugini senza nemmeno una goccia di sangue in comune, appartenenti a mondi diversi pur abitando a distanza di una strada, sempre insieme nonostante tutto. Dove andava una, andavano gli altri due - così, specifico al femminile, perché c'è dubbio che fosse Delilah a guidarli; e a toglierli dai guai, nei quali due pirla impenitenti come loro non facevano altro che sguazzare. «Quanto hai bevuto?»
    «Un po'. Tu?»
    «Non abbastanza.»
    L'altro annuì, avvicinandosi a passi pesanti per raggiungere il divano e laaciare finalmente che il corpo si piegasse: stava in piedi da tre ore, il pavor, come tutti loro; attaccato ad un telefono, rapito dalle immagini in rapida successione alla tv, le dita a stringere la testa per comprimere il dolore. Poteva quasi immaginarlo, Eugene, mentre attaccato ad una bottiglia di liquore scadente si chiedeva perché. «Sono stato al Ministero..» Smise di guardare il cugino, mentre questo parlava, tornando ad osservare le proprie mani posate sulle ginocchia nude: sembravano appartenere a qualcun altro, l'abitante di un mondo lontano in una dimensione alternativa. Non stava accadendo davvero, proprip a lui - proprio a loro. «Iceprite è già sul piede di guerra. Ho sentito che vogliono fare un sopralluogo in Francia, oggi.» Alla parola sopralluogo il venticinquenne avvertì nuovamente quella sensazione di vuoto, il bisogno impellente di espellere qualunque cosa avesse mangiato o bevuto nelle ultime ventiquattro ore; ma non si trattava di panico, non questa volta. Sollevó le iridi chiare fino ad incontrare quelle screziate di verde, che lo fissavano con un'intensitá dolcemente familiare; Heidrun Crane vi aggiungeva un sorrisetto sardonico, quando nella mente già progettava qualche piano diabolico. Tale padre tale figlia, giusto? «Credi.. credi davvero che sia morta?» Stava tutto lì, in una singola domanda posta sottovoce. «No.» Stava tutto lì, in una singola bugia detta sottovoce. «Quindi andiamo adesso.» Nom era panico, terrore o tristezza; era rabbia e negazione e furente speranza. «Perché credi che sia venuto fin qui, se no?»

    3 luglio, 18.00
    Era presente, Eugene Jackson, seduto su una delle tante seggiole poggiate sull'erba umida di rugiada nella piccola radura, ma allo stesso tempo non si trovava davvero lì. «mi chiamo idem, idem Withpotatoes. Sono… sono la sorella di Nathan ed april» Avrebbe voluto ascoltarla, quanto meno spostare lo sguardo sul volto pallido della ragazza e rivolgerle un sorriso di incoraggiamento, ma non poteva. C'erano troppe lacrime dentro quegli occhi improvvisamente scuri, a rotolare sulle guance ormai prive di colore per poi cadere sul vestito estivo; gli sembrava bellissima, Idem, e faceva ancora più male. «rimpiango di non averli abbracciati un’ultima volta. E di non aver detto loro …» Chiuse gli occhi, ritrovandosi circondato da una cortina di fumo; solo che non si trattava di fumo, giusto? C'era anche quello, sospeso nell'aria densa, ma quella che cadeva dal cielo privato della sua alba aveva l'aspetto di polvere. Polvere e cenere, come nel sogno; peccato non potersi svegliare da quell'incubo, da quello strato denso ed impenetrabile di residio bruciati che gli penetrava nei polmoni ad ogni respiro. Non avrebbe più dimenticato l'odore, Eugene Jackson, o il ronzio mescolato con le grida dei sopravvissuti; o il nome impronunciabile del poliziotto francese che era corso loro incontro, intimandogli di non avvicinarsi troppo. Al cratere nella strada, al fuoco, ai resti umani carbonizzati ed irriconoscibili abbandonati vicino al marciapiede. Scalzati decine di metri lontano dal punto dell'esplosione, dilaniati, trasformati in cenere. Era stato quello il momento in cui il pavor non aveva più trovato la forza di negare.
    «riesco a vederli sono qui. April... Delilah... ci sono tutti e quattro» La voce rotta dalle lacrime di un ragazzino poco distante lo strappò via dal ricordo agonizzante di quello spettacolo indescribile, costringendo l'ex serpeverde a sollevare finalmente la testa. «sorridono» Nate junior rise di cuore ed Euge si voltó, ruotando il busto per cercare la figura del ribelle un paio di file più indietro. «sembrano fieri di loro, di Donnie e Idem» Sarebbe stato capace di alzarsi in quel preciso momento, con il sottofondo straziante dei ricordi di Idem a fargli da colonna sonora, al solo scopo di chiudergli la bocca con un pugno fino a sentire i denti spezzarsi sotto le nocche, se la mano di Elijah non si fosse posata sulla sua spalla stringendo appena. Capiva sempre, il Dallaire, quando il sangue del Jackson ribolliva sotto la pelle minacciando di accendere una miccia invisibile. E letale. Se ne sarebbe fregato di essere in mezzo a tanta gente, in un'occasione solenne, o che Nathan fosse solo un adolescente con il cuore spezzato. Se ne sarebbe fregato perché Delilah era sua sorella e non l'avrebbe vista mai più. Quand'era diventato un estraneo?
    Non disse niente, il castafratto, e andava bene così; Euge tornò a voltarsi verso il palco, dove la figura di Idem si era improvvisamente irrigidita di fronte alla sfrontatezza di Vasilov. Rimase immobile durante l'intero scambio di battute, i battiti del cuore ad accellerare man mano che la foga del momento cresceva di intensità. Per quanto avesse bevuto, quel giorno come durante i tre successivi senza mai intervallare le bottiglie di benza con un sonno ristoratore, non si era mai sentito così lucido; qual era lo scopo di ubriacarsi se poi il cervello continuava a macinare pensieri e dolore? Strinse i pugni, quando il naso di Dragomir cominciò a sanguinare; un profondo resoiro, quando il guanto dell'uomo fu dato alle fiamme da quello che ormai, di fatto, era diventato il suo figlioccio. Che Cj Knowles lo sapesse o meno - che fosse d'accordo o meno - fotteva sega. «Sono stata a Parigi! ho visto i cadaveri, il fuoco, le ceneri... ho visto una città ferita nel profondo. Ma ho anche visto l'opportunità di fare giustizia, tra le dita fredde di uno dei morti» Solo a quel punto il serpeverde si alzó, mostrando ad un Elijah già pronto a fermarlo entrambi i palmi delle mani vuote ed un messo sorriso rassicurante. Non vado a fare una strage diceva quel sorriso un po' storto, lo stesso che rivolse a Jade - sebbene lei non potesse vederlo, impegnata a fare ciò per cui in fondo la amava - e Run, rimasta in disparte; lo avrebbero capito che si trattava di una bugia? Forse. Probabilmente. Non che importasse, a quel punto.
    Salí sul palco con due saltelli per niente aggraziati, un paio di occhiali da vista stretti nella mano destra: solo Rea avrebbe potuto pensare di infilarglieli nel taschino della camicia inamidata, con la tacita promessa di romperli in seguito; solo Rea sapeva che nessun abbraccio stentato sarebbe stato di conforto quanto quel gesto per loro familiare. Schioccó un bacio sonoro sulla testa rasata del tessorosso, e arrivato accanto a Pearl le rivolse un cenno con il capo, le labbra a tendersi da orecchio ad orecchio: la smorfia tirata di chi non ci sta più tanto con la testa. Prese il pezzo di stoffa dalle mani di lei, osservandolo per un lungo istante in silenzio, prima di chinare la testa così da sfiorare il microfono tenuto da Pearl con le labbra. «Prova, prova, SÁ SÁ! ok funziona. Mi ero scritto.. mi ero scritto un discorso. Un sacco di cartoncini colorati, tante cazzate inutili. Non voglio farvi perdere tempo, quindi ecco il succo.» abbassó lo sguardo sul brandello di tessuto, lo stemma del Drago a brillare beffardo nonostante la corrosione del fuoco. «Danette era.. è la parte migliore di me. Mi parava il culo e mi ha insegnato a sputare; in tutti i sensi, sapete.. per terra e in faccia alla vita. È la parte migliore di me e adesso senza di lei non sono più niente.» annuí alle proprie parole, il sorriso instabile ad ampliarsi sulle labbra sottili; la stoffa ora stretta convulsamente tra le dita. «Lardina, se mi senti, sappi che sono incazzato nero.. non dovevamo morire nello stesso momento?» Corrugó la fronte, volgendo il capo verso Idem, quasi sperasse di vedere accanto a lei la figura immobile della sorella; ma Eugene Jackson non lo aveva quel potere. Eugene Jackson non vedeva niente. Si infiló gli occhiali dalla montatura tonda, schiarendo la voce fattasi improvvisamente sottile, tremula dentro alla gola piena di sabbia e polvere. «Ti perdoneró prima o poi, ma solo se prometti di prenderti cura di Neil. È uno stronzetto, ma gli voglio bene.» Perplesso piegó il capo in direzione di Pearl, quasi confessandole un segreto sussurrato comunque al microfono. «Non credo di averglielo mai detto.» Concluse, allontanandosi dal gelato, riconsegnando il pezzo di stoffa alle mani di colei che l'aveva trovato. Non che gli servissero davvero delle prove, oltre al pugno assestato poco prima da Idem Withpotatoes: bastava quello, mescolato al bisogno fisico di scaricare la propria sofferenza su qualcuno. E a quel punto meglio Dragomir e i suoi cani da guardia che un volto amico, giusto? «Portate via Tupp? Non deve farsi male..» Poi, le iridi cerulee rivolte verso gli astanti, molti dei quali ormai non tenevano più il sedere incollato alla sedia «Nate, non farti venire un infarto.» Il sorriso si trasformó in una smorfia, mentre la mano destra scivolava rapida alla bacchetta tenuta nella stoffa interna della giacca leggera. «Capo! È il momento!» allargò le braccia, la voce trasformatasi in un grido di guerra per richiamare l'attenzione di Iceprite; rinforzi un paio di cazzi, se mi passate il francasismo. Avevano perso entrambi qualcuno, ed entrambi sapevano a chi dare la colpa. Cos'altro gli serviva? Ruotó su se stesso, puntando la bacchetta contro uno degli uomini di Dragomir, un gruppetto di ammantati bastardi spuntati tutt'intorno alla radura, nemmeno avessero preparato un agguato. «GLACIUS!» finiva lì, il tempo dell'attesa, della diplomazia, delle chiacchiere. Sua sorella era morta ed Eugene Jackson aveva un cratere nel cuore, di quelli che nemmeno l'amore per un figlio può riempire. Che nessun abbraccio fraterno, alcun bacio posato sulle labbra avrebbero potuto sanare. Tagliato brutalmente a metà.

    | ms.


    si beh blablabla mi ero dimenticata dello spoiler ihih. niente euge delira, va a parigi con al, al funerale sale sul palco dopo pearl- discorsone - lancia un GLACIUS random contro GALOPPINO1 di Dragomir


    Edited by j e r k . - 20/7/2017, 15:56
     
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    maple walsh
    she dreams in colors she dreams in red
    Camminava a piedi scalzi, Maple, fra le varie stanze ed immense della casa di Westerfall, beandosi di quella sensazione di freschezza che avvertiva ad ogni passo, quando la pianta nuda incontrava la mattonella fredda del pavimento. In mutande, con gli occhi ancora socchiusi, con buona parte della chioma castana raccolta in una qualche strana acconciatura, mentre altre ciocche avevano deciso di ribellarsi all’elastico nero e cadevano disordinate dietro la sua schiena, si direbbe che – data la sua esile stazza – si muovesse leggiandra, eppure ogni piccolo spostamento comprendeva uno scricchiolio, od un qualche scontro con lo spigolo di un un elemento del mobilio, seguito a sua volta da un gemito di dolore. Si era alzata dal letto velocemente, forse troppo data l’incapacità di orientarsi nella sua stessa casa, svegliata dal prepotente brontolìo del suo stomaco che la implorava per del cibo. Con la bocca ancora impastata, il segno del cuscino su di una guancia ed una piccola striscia di saliva secca risalente a quella stessa notte sull’altra, aprì l’anta del frigorifero, ma fu costretta a chiudere le palpebre data la troppa luce ch’esso emanava. Uno di quegli aggeggi babbani super hi-tech no sprechi e no consumi , che accendevano la lampadina a neon bluastra solo quando un qualche disperato decideva di affondarvici la testa dentro. Maple aprì, ma richiuse subito, solo per bearsi di quel clima antartico per un breve istante, voltandosi poi in direzione dell’isolotto posto al centro della stanza e afferrando la caraffa di caffè che Bernardine doveva aver preparato quella stessa mattina. Ancora caldo, ne versò una buona quantità in un qualsiasi bicchiere che trovò lì, probabilmente sporco di aranciata dalla sera precedente, poi si avvicinò al cesto della frutta ed afferrò la banana più nera e matura che potesse trovare, sbucciandola con i denti come farebbe una scimmia. Fu in quel momento che la figurata slanciata del fratello fece irruzione nella stanza, fermandosi per un attimo con un’espressione contrariata in volto. Doveva essere una piacevole visione, incontrare una giovane donna con una banana in bocca ed un bicchiere colmo di caffè in mano in pieno mezzogiorno. Sorrise Maple, emettendo un ”Buonfiofrno fateuone” parecchio entusiasta, poi si accasciò sul ripiano della cucina e rilasciò dalla stretta dei propri denti parte della banana che ancora aveva la buccia, ne staccò una piccola parte con le mani e la intinse nella bevanda, tanto per donarle un sapore più vivace. Con forza deglutì, mandando giù il mozzicone ed abbandonando il resto del frutto a sè stesso, sul gelido marmo dell’isolotto. ”A che ora la partenza?” aveva poi chiesto prima di prendere un altro sorso di caffè. Da quel che aveva capito era successo qualcosa in Francia, un attentato, ed il ministero aveva pensato di organizzare una cerimonia pubblica in onore e memoria dei caduti; probabilmente Maple non vi sarebbe neppure andata, se il padre non glielo avesse ripetutamente chiesto. ”Ma che figura mi fai fare – blabla – se non ti presenti ti rompo la scopa – blabla – è la tua comunità devi interessarti” e via ancora, fino alla nausea. Probabilmente non era neanche stato così pesante nel chiederle di mostrare la propria faccia alla cerimonia, ma l’aveva svegliata nel cuore della notte, e chiunque la disturbasse nel suo sonno più profondo delle otto del mattino diventava automaticamente un rompipalle cronico. Mentre aspettava una risposta dal fratello si voltò in direzione del lavabo, rovesciandovi il contenuto avanzato ed appoggiandovi il bicchiere sporco all’interno, troppo stanca di vivere per aprire l’acqua e sciacquarlo ella stessa. Ottenuto un orario di risposta annuì animatamente, come se quella mezza banana e quella poca quantità di caffeina l’avessero improvvisamente rigenerata; si gettò al collo di Connor, avvigghiandosi al suo collo come un grasso panda farebbe ad una canna di bambù, noncurante di fargli male o di averlo preso alla sprovvista. Erano sempre stati legati, i fratelli Walsh, coinvolti nelle stesse bravate da piccoli il doversi separare per frequentare la scuola di magia li aveva fatti allontanare, ma Maple aveva comunque continuato a nutrire una sorta di attaccamento morboso nei suoi confronti, come se sapesse che –senza di lui – non sarebbe mai potuta essere la persona ch’era diventata. Quindi se ne stava lì, a ciondolare, sollevando i piedi dal terreno così da diventare più pesante, con il viso incastrato nel petto forte del suo consanguineo che, ne era certa, di lì a poco l’avrebbe lanciata in direzione di un qualche spigolo appuntito. ”Connie- doveva detestarlo, quel nome - a che ora si pranza?”.
    In ritardo, come al solito, si era lavata il viso e pettinato i capelli castani con le mani, noncurante dei numerosi nodi che i polpastrelli avevano incontrato scorrendo fra le ciocche; aveva infilato i pantaloni neri saltellando in giro per la stanza, incolpando quella gigantesca porzione di parmigiana avanzata che aveva mangiato per merenda – perché mai mangiare abbinare i pasticcini al thè, quando si ha della parmigiana risalente all’ora di pranzo ancora lì, nel bel mezzo della cucina? Abbottonò la camicetta bianca, infilò le scarpe e si diede un’occhiata allo specchio, mentre le urla del fratello dal piano di sotto l’incitavano a darsi una mossa. Una smorfia di disgusto apparì sul suo volto, appariva così triste che quella fiamma di allegria e vivacità che tanto la caratterizzava un po’ si spense, aprendo una piccola breccia verso il buonsenso di Maple: stava andando ad un funerale, magari era giusto essere un po’ grigi. Scese le scale a tutta velocità, fiondandosi fuori dalla porta e salendo sul catorcio del fratello, che l’attendendeva vestito di tutto punto. Un po’ lo invidiava, Maple, ai suoi occhi appariva sempre così sicuro di sé stesso, di ciò che faceva, mentre lei il più delle volte si ritrovava ad essere incerta perfino dei suoi stessi pensieri. Una volta, quando egli non era in casa, si era intrufolata in camera sua, aveva aperto qualche cassetto e vi aveva trovato così tanti disegni da poterne aprire una mostra: era dannatamente bravo, ma non glielo avrebbe mai detto. Al contrario Maple non sapeva neppure disegnare una casa, si limitava all quadrato con il triangolino rosso in cima, magari un qualche alberello lì intorno, ma poi basta: la sua fantasia l’esprimeva in maniera completamentamente differente. Poi Connor era dannatamente intelligente, il più delle volte lo detestava per quello, per quella sensazione di inferiorità che provava quando erano messi a confronto, quando la madre cominciava con un ”guarda Connor” per poi finire con un qualche ”dovresti prenderlo ad esempio”. ”In moto, su!” aveva poi detto emozionata, voltando lo sguardo nella sua direzione. Adorava quella macchina, faceva così vintage, così diversa, così ciao mamma guarda come mi diverto – anche se sto andando ad un funerale, e non le importava del divieto duramente impostole dal padre riguardo il salirvi sopra, egli non era presente ed a Maple non sarebbe accaduto nulla. Guardava fuori dal finestrino, beandosi della luce emanata dal sole ormai basso, che andava a nascondersi, mentre il braccio esile sporgeva al di fuori del finestrino, tagliando l’aria in due. Aveva fatto le sue ricerche Maple, si era resa conto di quante persone fossero morte, di quanti innocenti avessero cessato di esistere poche ore prima. E come può qualcuno semplicemente smettere di essere? Sospirò, allacciando la cintura, riprendendo fiato dalla corsa inumana che aveva dovuto fare per non essere etichettata, ancora una volta, come ritardataria. L’ultimo funerale cui aveva assistito neanche se lo ricordava, tanto tempo era passato da quando nonna Josephine era morta, avrebbe dovuto piangere anche qui? Perché è questo quello che si fa ai funerali, no? Si piange?

    Di gente ve ne era davvero tanta, quella sera: una scia nera e grigia di volti, i più rivolti verso il basso, verso le proprie scarpe, troppo tristi per mostrarsi. Gente comune, ministri, studenti, perfino bambini, sembrava che l’intera comunità magica si fosse mobilitata, chiamata all’appello davanti a tanta ingiustizia. Alle parole della ragazza che aveva per prima preso la parola, della quale le era sfuggito il nome, Maple avvertì una prima sensazione di disagio attraversarle il corpo, un magone alla gola, un vuoto nello stomaco, una forte fitta al petto, in alto a sinistra. Poi la testa sembrò pesarle e sia mani che piedi cominciarono a formicolare. Tossì appena, seppur non aveva intenzione di dar fiato alla bocca, corrugando la fronte e deglutendo quel poco di saliva che le era rimasto per inumidire l’ormai secca gola. Stranita si voltò in direzione del fratello, incapace di non immedesimarsi in quanto la sconosciuta stava condividendo; e deglutì ancora, Maple, convinta che se avesse continuato a farlo quel vuoto che provava si sarebbe riempito. Le si inumidirono gli occhi, non tanto perché fosse dispiaciuta per la morte di persone di cui mai aveva sentito parlare, ma perché pensava a sé stessa, a Connor, alla sua vita senza averlo di fianco. Fremeva per scendere, prepotente, quella lacrima, bruciava testarda e si accumulava lungo il confine dell’occhio, desiderosa di attenzioni e antipatica, perché si rivelava più forte della sua generatrice. Ma non cadde mai, quella lacrima; non cadde perché la situazione precipitò in qualcos’altro, più grande e profondo, più complicato. Da lontano fu spettatrice, spettatrice di quello scambio di risposte pungenti fra i presidi delle varie scuole, del piccolo teatrino di quel CJ che tante volte aveva incrociato per i corridoi, spettatrice, come sempre, perché era stata incapace di prendere una posizione ed incapace di formularne una propria. Non era proprio un’onorevole scelta, quella di fare da spettatrice. In un baleno volarono incantesimi, qualche gridolino stridulo, alcuni correvano via, altri si nascondevano, altri ancora – come Maple – se ne rimanevano lì in mezzo con la faccia di chi non sa che cazzo fare. Da una parte le sarebbe piaciuto partecipare, sapete, l’adrenalina del lanciare il primo incantesimo al di fuori del castello si faceva sentire, dall’altra però avrebbe ben preferito il suo comodo letto, il tavolo della cucina, la cena di Bernardine. Il suo repertorio di incantesimi offensivi era talmente striminzito che quasi sicuramente la bambina che i più si erano preoccupati di proteggere ne possedeva uno più ampio. Siamo onesti, Maple Walsh era scarsa con la magia, ma soprattutto, quei pochi incantesimi che le riuscivano avrebbero probabilmente provocato gravi danni se messi sullo stesso livello di quelli lanciati dai più capaci. Frustrata, spaventata, terribilmente indecisa, lo ”state fermi” di un altro suo compagno di scuola arrivò ovattato, ma parve rivelarsi una delle scelte migliori per non rischiare di finir spazzata via ed in mille pezzettini. Afferrò il braccio di Connor, perché diavolo era uscita di casa quel giorno? Non voleva trovarsi lì, era di troppo, un’altra pedina da proteggere e quindi d’intralcio, l’ennesima spettatrice di un’opera teatrale, questa volta troppo piena di personaggi, troppo fitta e dettagliata, un terzo capitolo di una saga cui era per buona parte estranea ed ignara.
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    code made by tired


    No boh, oltre che essere di intralcio per tipo tuttI, Maple non fa niente <3


    Edited by tired™ - 20/7/2017, 13:07
     
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  4. t r o u v a i l l e
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    My mind's like a deadly disease
    Amelia Hepburn Black
    sheet | 18 Y.O. | ex Slytherin | Neutral | Healer | pensieve


    Rimase in attesa nel salottino di casa Black, seduta compostamente sulla poltrona, le mani incrociate sopra le ginocchia ed il capo chino, in silenzio.
    Amelia era stanca, esausta. Aveva assistito a troppi funerali nell'ultimo mese, aveva dovuto dire addio a troppe persone e persino presenziare ad una simile occasione, quando a venir ricordati un'ultima volta non erano amici stretti ma solo lontane conoscenze, le provocò un nauseante senso di oppressione.
    Non sopportava più la vista del lucido legno di mogano o della fredda pietra incisa, persino il penetrante odore di gigli riusciva a stringerle lo stomaco e costringerla a distogliere lo sguardo dalla terra smossa.
    Avrebbe voluto tirarsi indietro, fuggire da quell'incombenza, scappare e rifugiarsi fra le coperte di un letto che di casa però non aveva nulla, ma era la cosa che più si avvicinava ad un nascondiglio sicuro. Eppure nemmeno là, durante la notte, trovava pace.
    Se il caldo abbraccio del lenzuolo voleva dire essere lontani dagli abusi dei Black, questo non la risparmiava dalla guerra con sé stessa, dai crudeli scherzi che la sua stessa testa decideva di tirarle sotto forma di incubi. Quando chiudeva gli occhi era ancora là, a Villa Dallaire, circondata da quei mostri affamati che saziavano il loro appetito con la carne di innocenti mentre lei rimaneva immobile, incapace di fermarle.
    Sentiva quello stesso sangue di cui esse si cibavano lordare le sue mani. E per quanto le sfregasse, anche ora, l'una con l'altra, rimaneva lì a macchiarla di un crimine indelebile di cui lei stessa si incolpava.
    E sapeva bene a chi appartenesse, dell'unica persona che avrebbe potuto salvare.
    Chiuse gli occhi, respirando a labbra socchiuse, cercando di calmarsi, ma non ci riuscì. Il pulsare violento del cuore contro le costole era doloroso, insopportabile, e l'immagine di Emèric non le lasciava pace ed il pensiero si acuiva di secondo in secondo, più vivido e terribile, mentre attendeva chi avrebbe dovuto scortarla al funerale.
    Aveva tentato, invano, di sottrarsi a quell'impegno -vergognandosi di essere così miserabile- ma la decisione di Celia era stata irrevocabile.
    L'onere spettava a lei, un membro della famiglia era necessario -una sorta di etichetta che Amelia detestava, futili apparenze dove, se si avesse scavato più a fondo, chiunque vi avrebbe trovato solo vuoto interesse- : Perseus e Cygnus erano impegnati con il Ministero -faccende che riguardavano, tra l'altro, le dinamiche dell'incidente avvenuto in Francia, ma di cui lei veniva tenuta minuziosamente all'oscuro-, Nicéphore non era la persona più adatta a detta di sua nonna per presenziare a simili avvenimenti e questo portava ad un'unica candidata fintanto che Altair, suo padre, fosse stato assente.
    Posta di fronte a simili argomentazioni, Amelia aveva compreso che mai Celia avrebbe ascoltato le sue ragioni e sarebbe stata sorda a qualsiasi supplica, una volta che la matrona aveva preso la sua decisione, quest'ultima era irrevocabile. Se non vi fosse andata con le proprie gambe, l'avrebbero trascinata a forza ed Amelia aveva deciso di risparmiarsi almeno quell'umiliazione.
    I bordi del vestito scuro si arricciarono sulle ginocchia quando si mosse, cercando una qualche sicurezza almeno nella postura, mostrando i bordi bluastri e le petecchie arrossate. L'occhio le cadde lì, sul livido scuro come una macchia d'inchiostro su una pagina intonsa in confronto alla pelle diafana delle cosce, e le sue mani corsero a tirare l'orlo più in basso in un gesto meccanico, di difesa, per nasconderlo.
    Era più facile dimenticare, fare finta che non vi fosse mai stata una simile violenza se ella non la vedeva.
    Alzò lo sguardo, osservando distrattamente fuori dalla finestra, una macchina scura di fermò sul bordo del marciapiede e dal posto di autista ne uscì un uomo alto dal volto pallido ed un'espressione dura. I suoi occhi caddero sul pesante cappotto, nonostante la calda aria di Luglio, sul cui petto brillava lo stemma del Ministero.
    Era un Pavor.
    La sua scorta.
    Abbassò il capo, stringendo le dita sul tessuto dell'abito, cercando l'ultimo briciolo di forza prima di alzarsi e sistemarsi distrattamente le pieghe del vestito fingendo una compostezza che, al momento, l'aveva abbandonata.
    Devo essere forte, si ripeteva.
    Mosse un passo in direzione dell'ingresso ma fu subito fermata dalla figura magra e fiera di Celia, sbucò da dietro l'angolo dell'ingresso. Quasi non aveva avvertito il suono secco dei tacchi sul pavimento mentre si avvicinava troppo concentrata a non lasciarsi vincere dal tremare delle ginocchia.
    Fra le mani, la donna stringeva un cofanetto rettangolare laccato di verde.
    « prendila » non era un invito, né tanto meno una richiesta. Gli occhi di Amelia scivolarono dal volto austero della donna e da quel suo stonante sorriso mellifluo, dolce come il fiele, alle sue mani, le quali andarono a sollevare il coperchio della scatola.
    La Serpeverde riconobbe l'oggetto all'interno con una stretta al cuore.
    « la mia bacchetta...? » o meglio, quella nuova, che era stata costretta a comprare dopo che la precedente le era stata sottratta da Mephisto.
    Riportare alla mente il suo nome non fece altro che peggiorare quel peso al petto che tanto faticosamente si stava sforzando di sopportare, in silenzio. Si morse il labbro inferiore, studiando l'oggetto adagiato sul velluto.
    Era leggermente più lunga di quella che le era stata sottratta, di Sorbo-un legno scuro, quasi nero- e opaco, l'impugnatura era intarsiata in una spirale di disegni argentati interrotta a pochi pollici dalla punta dove il legno tornava liscio e privo di imperfezioni.
    Quest'ultima non aveva più il nucleo di Crine di Unicorno, bensì di Capelli di Ondina.
    Era confusa.
    Celia si era ben premurata di confiscarle la bacchetta, così da evitare ogni tentativo di fuga, la riconsegnava solo quando necessario come per i suoi turni al San Mungo e poche altre occasioni. Persino quando usciva, essendo sempre tassativamente controllata da almeno uno dei Pavor incaricati da Perseus sotto richiesta della donna, le aveva detto di ritenere assolutamente superfluo fornirle un'occasione in più per “procurarle scomodi inconvenienti”, se avesse avuto bisogno di qualcosa avrebbe potuto chiedere a quelli che Celia amava definire i suoi “custodi”, ma che effettivamente non erano altro che i suoi sorveglianti.
    Non si spiegava allora perché consegnargliela ora, per un funerale.
    Alzò il volto, confusa, ma per lo più sospettosa: quella donna non lasciava mai nulla al caso « perché? »
    Celia non sembrò turbata dalla domanda, quell'inquietante e freddo sorriso si allargò maggiormente sul volto ed i suoi occhi brillarono di una strana luce « non è carino dubitare dei regali altrui, non trovi? » le porse con maggiori enfasi il cofanetto e con tono più freddo ripeté « ed ora prendila »
    Sapendo di non avere scelta, la mano di Amelia tremò appena quando strinse le dita sull'impugnatura, nel farlo i suoi occhi non lasciarono quelli glaciali di Celia, e non poté sfuggirle quel lampo di compiaciuta soddisfazione quando la ripose fra le pieghe del vestito.
    « oh e mi raccomando fai attenzione » strascicò le parole con deliberata lentezza quando Amelia la superò « non vogliamo che ti succeda nulla di male »
    La giovane ex Serpeverde richiuse in fretta la porta d'ingresso alle sue spalle, tentando di ignorare i freddi brividi che quell'ultima frase le avevano procurato lungo la schiena.


    A malapena alzò la testa durante tutta la durata della cerimonia.
    Non riusciva a guardare nessuno, né tanto meno ad onorare i morti, riusciva a malapena a rimanere lì saldamente in piedi e non cedere sotto il suo stesso peso.
    Voleva andarsene, ma non poteva. Al suo fianco il Pavor incaricato di scortarla, Alfred Carrow -così le si era presentato, in maniera molto fredda e distaccata quando era salita in macchina- rimaneva immobile, lanciandole di tanto in tanto qualche occhiata in tralice come se avesse compreso le sue intenzioni e volesse assicurarsi che rimanesse al suo posto.
    Non una parola gentile era uscita da quelle labbra fini e crudeli, non una di conforto, per lui Amelia non era che un incarico: ai suoi occhi valeva poco più di un pacco da consegnare.
    La cosa non l'aveva turbata più di tanto, da quando era stata costretta a vivere in casa Black era abituata a comportamenti ben peggiori e se doveva scegliere, essere ignorata era preferibile al perseguimento.
    E come i ricordi che quel funerale riuscivano a riportare a galla non fossero già abbastanza, il comportamento di quella mattina di Celia le stava consumando i nervi: Celia aveva in mente qualcosa. Quel pensiero non riusciva ad abbandonarla.
    Non si spiegava il suo improvviso buon umore nel rivolgersi a lei, l'assenza di quel malcelato disprezzo mentre la guardava e quell'espressione di sordida soddisfazione, come di un gatto che gioca con il topo.
    Si sentiva in trappola Amelia, messa spalle al muro da sé stessa, dalla sua stessa mente offuscata da demoni che non riusciva a controllare; persino ora, se osava alzare gli occhi, le sembrava di vedere i fantasmi di Villa Dallaire, il volto di Emèric sporco di sangue che la giudicava o quello freddo e distaccato di Mephisto, fra la folla.
    Le sembrava di impazzire.
    Stava diventando un'ossessione.
    Ed ora, si sentiva stretta fra gli artigli di Celia. Forse era questo il suo gioco, sperare che impazzisse, giocare con quello che era rimasto della sua fragile psiche per farla crollare del tutto, come se non ci stesse già riuscendo abbastanza bene il senso di colpa e abbandono.
    Ma Amelia non le avrebbe dato una simile soddisfazione, non le avrebbe permesso di distruggerla, non su quel piano almeno.
    Chiuse gli occhi e le sembrò di sentire l'eco lontano di alcune parole «qui nessuno ti farà del male. Resisti, guarisci, e un giorno ci rivedremo».
    Una debole speranza, come quella di rivedere sua madre, erano le uniche cose le impedivano di scivolare nel baratro.
    Sospirò e tirò su la testa, tentando di dimenticare e sopportare, ma un uomo catturò la sua attenzione. Era una figura impettita, nonostante l'ausilio del bastone, avanzava zoppicando fra la folla di persone con un sorriso sardonico dipinto in volto.
    Il sangue di Amelia le si gelò nelle vene quando lo riconobbe.
    Dragomir Vasilov.
    Ad Hogwarts ne aveva conosciuto la fama, ed il solo pensiero le aveva provocato un moto di disgusto, ma la prima volta che lo aveva visto era stato al Maniero.
    Le era stato proibito di uscire dalla sua stanza quella sera perché Celia avrebbe avuto ospiti importanti, Amelia aveva udito la sua voce dal pianerottolo e il tonfo sordo del bastone accompagnare ogni suo passo.
    La curiosità aveva avuto la meglio sul buonsenso ed aveva osato sbirciare il misterioso invitato dalla soglia socchiusa della stanza.
    Le ci era voluto una frazione di secondo per riconoscerlo, appariva spesso nei giornali e chiunque si interessasse minimamente degli avvenimenti del mondo magico sapeva dare un nome a quel volto sardonico.
    E mentre Celia lo invitava ad accomodarsi nel suo studio per discutere di “questioni private” l'uomo si era voltato un'ultima volta, nella sua direzione con un bieco sorriso. Come se sapesse che lei era lì e che lo stava osservando, nonostante fosse stata ben attenta a non fare nessun rumore mentre spingeva la porta sui cardini ben oleati.
    Ricordava altrettanto chiaramente l'orribile sensazione che quegli occhi le avevano procurato, ed in un moto terrificato, aveva richiuso di scatto la porta sottraendosi a quello sguardo.
    Poco dopo aveva udito di nuovo il bastone colpire il pavimento, allontanandosi.
    La sua presenza la rese irrequieta, nervosa.
    Quando, d'istinto, mosse un passo all'indietro per sottrarsi, una presa ferrea le artigliò il braccio costringendola sul posto.
    Abbassò lo sguardo ed incontrò la mano nodosa e magra di Carrow serrarsi con maggior decisione sopra al gomito, facendole stringere i denti per il dolore dove le dita andavano a disegnare nuovi segni lividi sulla sua pelle.
    « rimani dove sei » la intimò, strattonandola con maggiore forza quando Amelia provò a dimenarsi, tentando di allontanare quel corpo -più massiccio di quanto non sembrasse ad una prima occhiata-
    « lasciami »
    A nulla servirono le sue rimostranze, i suoi sforzi per scivolare via da lui, Carrow la teneva saldamente.
    Nessuno fece caso a loro, a quella piccola lotta consumata discretamente, l'attenzione dei presenti era concentrata su Vasilov.
    E all'improvviso, un'immagine balenò nella mente di Amelia. La bacchetta.
    La mano libera corse a cercarla fra le pieghe dell'abito, ma Carrow aveva già estratto la sua, ora puntata contro il suo ventre.
    « non lo farei se fossi in te »
    Il suo corpo si irrigidì contro il legno che pungolava fastidiosamente la sua pelle attraverso la stoffa, la sua espressione si indurì.
    Cosa diavolo stava succedendo?
    La mente di Amelia non trovava pace, continuava a muoversi frenetica in cerca di una risposta, collegava e rimescolava ogni pezzo del puzzle finché la situazione non degenerò.
    Carrow non fu l'unico ad estrarre la bacchetta, figure incappucciate li circondarono all'ordine di Vasilov contro la minaccia Jeanine Lafayette, preside di Beauxbatons.
    Qualcosa scattò, il suo corpo divenne improvvisamente molle, debole, arreso all'evidenza.
    « oh, ci sei arrivata allora » la provocò divertito Carrow, stringendo con maggior forza la presa sul suo braccio.
    Amelia strinse i denti ed uno sguardo di fiammeggiante odio raggiunse il volto del Pavor.
    Celia Black lo sapeva, sapeva cosa sarebbe successo. Voleva che lei fosse lì e Carrow doveva assicurarsi che lei rimanesse fino alla fine, ma perché?
    « a Vasilov servono alleati in questo momento » il fiato acido di Carrow e la sua voce rauca le graffiarono l'orecchio quando le sussurrò quelle parole « ma sfortunatamente non vedrai la fine di questa storia, il tuo sarà un tragico incidente... queste cose succedono durante simili tragedie »
    Era tutto programmato.
    Celia avrebbe dato il suo appoggio a quell'uomo ma ufficialmente, se ne sarebbe lavata le mani, in fondo lei non apparteneva a quella famiglia e quando non le sarebbe più servita, Carrow l'avrebbe eliminata approfittando della confusione.
    Ufficialmente sarebbe stato un incidente, suo padre non avrebbe avuto in mano che soli sospetti ma nulla di concreto, e Celia si sarebbe sbarazzata di lei definitivamente.
    Il suo sguardo lampeggiò in direzione del Pavor, disgustata « se pensi che prenderò le parti di quell'uomo, ti sbagli di grosso »
    « questo è tutto da vedere » sorrise e la bacchetta affondò con maggiore forza nella carne quando pronunciò « Imperius »
    Amelia non riuscì a sottrarsi.
    La sua coscienza scivolò via dal suo corpo, quieta, silenziosa ed assistette impotente alla scena. Carrow finalmente la lasciò, ma le sue gambe non si mossero, non iniziarono a scappare. La sua mano affondò nell'abito, estraendo la bacchetta, ma quest'ultima non venne puntata verso Carrow bensì verso Vasilov, e mentre osservava le sue labbra muoversi pronunciando un “Protego”, Amelia non riuscì a fermarsi.
    Non era più lei. Non aveva più potere sul proprio corpo.


    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia


    Scusate sarà scritto a cavolo ma avevo il tempo contato çwç

    Comunque viene colpita dalla Maledizione Imperius e viene costretta a proteggere Vasilov
     
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    1992 | trainer | rebel
    ALEC LOWELL
    We are all the pieces of what we remember. We hold in ourselves the hopes and fears of those who love us
    Love makes you a liar ||03.07.17 ||
    La notizia dell'attentato in Francia era giunta come una doccia fredda, veloce ed inaspettata. Alec aveva trascorso parte della sua infanzia in Francia, ricordava le campagne e la maison in cui aveva vissuto insieme alla madre, il tiranno che l'aveva cresciuto per essere un leader ai suoi ordini, il soldatino perfetto di cui poteva muovere i fili senza pentimento. Era doloroso pensare a ciò che era andato distrutto, alle vite che erano andate perdute per colpa di un gioco di cui erano pedine, un gioco di cui nessuno aveva loro parlato. La notizia lo aveva scosso più di quanto pensasse e domandarsi quanto sarebbe passato prima che fosse il Regno Unito a diventare un bersaglio, era lecito. Se lo chiedeva spesso tanto che oramai dormire era diventato impossibile, la notte i pensieri lo tormentavano e lo tenevano sveglio, gli occhi sbarrati fissi sul soffitto della sua stanza. Aveva lasciato la casa di Alaric alcuni mesi prima ed era tornato insieme a Catarina al quartier generale dei Ribelli, non aveva funzionato anche se non poteva dire di non averci provato, semplicemente a volte le differenze erano troppe. Sapeva che Catarina si era legata molto ad Alaric e la separazione era stata alquanto dura per lei, ma tutto sommato doveva dire che se la stava cavando piuttosto bene. Era solamente una situazione temporanea ma per il momento andava bene così, in realtà era contento di essere tornato così Catarina aveva potuto legare con chi vi soggiornava e lasciarla da sola sarebbe stato più facile, sapeva che sarebbe stata al sicuro ed in buone mani.
    Papino, voglio i capelli arcobaleno! la voce dell'innocenza, che di innocente aveva davvero poco in quelle parole, lo fece voltare di scatto. Una bambina dai grandi occhi azzurri, speranzosi e e dolci come quelli di un cerbiatto, sedeva sul letto reggendo sulle gambe un vecchio album di fotografie. I bambini al quartier generale scarseggiavano pertanto aveva dovuto trovare il modo di impiegarla, qualsiasi cosa che non comprendesse impugnare un'arma era ben accetta, così un giorno le aveva mostrato delle fotografie di lui da bambino e ne era rimasta affascinata. Capelli arcobaleno? Sono tanti colori tentò di farla ragionare, inutilmente, sopratutto perchè non si poteva discutere con una bambina di cinque anni alle che sfogliava album fotografici imbarazzanti, da grande avrebbe avuto di che ricattarlo. La bambina staccò imbronciata una fotografia dall'album mostrandola al padre oh commentò l'uomo grattandosi la nuca cercando le parole per spiegare la ragione per cui si era davvero tinto i capelli di arcobaleno. Era stato per poco tempo e quel giorno stranamente anche i vestiti aveva subito un cambiamento sostanziale. Era stato per una buona causa, qualcosa a cui non avrebbe mai creduto avrebbe partecipato ma era successo e nonostante l'imbarazzo, non avrebbe mai dimenticato ciò che gli aveva mostrato una parte buona del mondo, quella parte babbana che rendeva il mondo un posto migliore. Lascia che ti racconti una storia le disse sedendosi accanto alla bambina prendendola tra le braccia e facendola sedere sulle sue gambe, permettendole di appoggiare la schiena al petto forte e muscoloso del padre. Sono andato ad una festa dove c'erano molti colori. Le persone avevano i capelli arcobaleno ed i vestiti colorati. Camminavano per le strade regalando luce e colore, lasciando che l'amore e la gioia provata entrassero nei cuori di chi incontravano era dura spiegare cosa significasse partecipare ad un gay pride ad una bambina ma era anche qualcosa che sentiva di fare, era parte di sé e non voleva che la figlia crescesse odiandolo perchè amava un altro uomo, aveva i suoi stessi geni e questo significava possedere i geni della donna che lo aveva messo al mondo e rinnegato. Non voleva che sua figlia crescesse come lei ma c'era una probabilità su un milione che lei potesse trasformarsi in un incubo, ed Alec non era certo che l'amore che provava nei suoi confronti fosse sufficiente, perciò mostrarle il mondo in ogni sfaccettatura era l'arma migliore. E poi ha iniziato a piovere e tutti sono corsi a ripararsi. Sai cosa ha fatto il tuo papà? chiese osservando come la bambina buttava indietro la testa, guardando il padre dal basso verso l'alto, improvvisamente interessata ho ballato sotto la pioggia, come quando andiamo insieme al parco e ti faccio ballare sui miei piedi la risata di Catarina era qualcosa di irrimediabilmente puro ed innocente, troppo per quel mondo corrotto che mirava solamente a sporcare la purezza di innocenti creature la pioggia si è colorata, una pioggia arcobaleno, e poco dopo si sono unite tante altre persone. Hanno ballato e cantato, e la pioggia continuava a cadere su di loro, colorandoli, le strade erano un'esplosione di colori sorrise al ricordo di quel giorno. Ciò che era cominciato per una marcia casuale era diventato uno dei giorni più importanti della sua vita. Era cresciuto, maturato, quel giorno e mai lo avrebbe dimenticato. Quel giorno era stato soprannominato liuomo arcobaleno ed era diventato la mascotte del gay pride duemilasedici, e non poteva portare alcun titolo con più orgoglio di quello. Anche mister orso vuole partecipare! si lamentò la bambina indicando il peluche abbandonato a terra, l'inseparabile compagno della figlia la prossima volta andiamo tutti e tre. E avrai i capelli arcobaleno che tanto ti piacciono, ma ora devi dormire le diede un bacio sulla testa mentre la metteva sotto le coperte e la copriva con il lenzuolo, l'orsacchiotto di peluche stretto tra le dita piccole e sottili della bambina. Al tuo risveglio sarà qui gli occhi azzurri si chiusero ed Alec uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
    Aveva deciso di partecipare alla commemorazione per le vittime dell'attentato avvenuto in Francia ma non se l'era sentita di portare con sé una bambina ancora troppo piccola per conoscere il significato di morte, era la parte del mondo che cercava di tenere lontana da lei, ancora per un po' di tempo. Solamente un altro po'.
    Raggiunse il parco giusto in tempo per ascoltare il discorso di Idem, sapeva quanto doveva essere difficile per lei. Aveva riconosciuto alcune delle vittime ed in cuor suo era felice che tra le vittime non ci fosse la sua famiglia, non credeva sarebbe sopravvissuto a tanto dolore. Fisicamente sarebbe sopravvissuto perchè semplicemente non poteva abbandonare Catarina, mentalmente invece, non era così sicuro dell'esito. Rimase in piedi, le mani congiunte dietro la schiena, mentre ascoltava parole di dolore, parole di conforto, ricordi e speranze infrante.
    Per un momento soltanto, il ricordo di ciò che era successo al capanno gli tornò alla mente riportando a galla emozioni che credeva sepolte sotto strati di cenere incandescente. Non era stato un attentato ma un vero e proprio attacco, un massacro. In un certo senso erano state due tragedie affini, solo che ora sembrava tutto più vero. Era un attacco alla comunità, ed un attacco simile non portava mai a niente di buono, le conseguenze sarebbero state catastrofiche ed Alec non era sicuro di poter affrontare una guerra, perchè di quello si parlava. Un attacco dopo l'altro porta ad una guerra, la domanda era: potevano vincere? Oppure gli attentatori avrebbero vinto? Il preside di Durmstrang si era fatto avanti minaccioso attaccando verbalmente Idem, pareva quasi che non provasse dolore per ciò che era accaduto. Dei Maghi e delle streghe erano morti, uccisi dalla follia di un attentatore, e lui non riusciva a mostrare un minimo di compassione. Per quanto potesse non andare d'accordo con qualcuno, il rispetto lo doveva ai morti, coloro che aveva perso la vita e che mai sarebbero tornati a casa dalle proprie famiglie. Mosse alcuni passi in direzione dell'uomo notando gli animi scaldarsi, c'era qualcosa di profondamente sbagliato in quell'uomo delle persone sono morte! É così difficile tenere a freno la lingua per qualche minuto? Se non per rispetto dei vivi, almeno per rispetto dei morti aveva appena dichiarato guerra al mondo magico, nel pieno di una commemorazione per i caduti di un attentato, non capiva se era serio e perfido oppure se solo stupido ed arrogante, pensava di essere invincibile e forse la paura ed il dolore negli occhi di quelle persone gli infondeva in qualche modo coraggio se dietro questo attentato ci siete davvero voi scandinavi, posso solo dire che siete caduti in basso. Addirittura un attentato per dichiarare guerra, avete palle da vendere mosse qualche altro passo in avanti oppure approfittate della situazione disperata e del caos per raggiungere i vostri scopi, in ogni caso, siete creature subdole e senza cuore. Se rispettaste i caduti, lascereste il paese il prima possibile commentò scuotendo il capo sconsolato, ancora si stupiva di quanto l'uomo potesse essere perfido. Era difficile crederlo eppure di fronte a situazioni del genere, era impossibile credere l'opposto.
    | ms.


    Non fa davvero nulla, a parte inveire un pochino contro il preside. Si prende a cuore queste cose.
    • Alexander Lowell - (8) narra di come, nel 2016, ti sei ritrovato ignara mascotte del gay pride

    PS: ho rubato il codice, vi amo <3
     
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    Oh everything's a mess

    It’s not what you painted in my head || 03.07.17
    09. «Merda!» Si era bruciata, di nuovo. Ma non corse a mettere la mano sotto l'acqua gelata, anche questa volta, non fece nulla per alleviare il dolore. Di nuovo, meccanicamente, riprese in mano la piccola padella e versò la giusta quantità di impasto all'interno, aspettò qualche minuto e poi fece in modo di farlo saltare in aria e rigirarlo. O almeno, ci provò. Perché, anche questa volta, il pancake cadde miseramente a terra, facendo uscire una nuova imprecazione dalle labbra della ragazza. Quella mattina si era svegliata presto, sopratutto per i suoi standard. La verità però era che, a dormire, non ci era andata per niente: dal momento in cui era entrata nel letto, era stata tutta la notte a fissare il soffitto senza riuscire a chiudere gli occhi e riposarsi, e quando aveva visto che si era fatta un'ora decente, si era alzata per andare in cucina. Ed ora era lì, da più di sessanta minuti, a cucinare pancakes. Perché quella sarebbe stata una giornata pesante per lei, ma in quel momento pensava sopratutto a Nathan ed Erin: voleva che si svegliassero con l'aroma che dalla cucina si diffondeva per il resto della casa, voleva che almeno la colazione fosse normale, come quelle che facevano ogni mattina, voleva donargli una parvenza di tranquillità prima di dover affrontare il funerale. Eppure, entrando in quella stanza, era chiaro come il sole che, di normale, non c'era proprio nulla: per prima cosa, davanti ai fornelli c'era Jess, in carne e coscienza . Non una delle sue copie, create mentre la ragazza rimaneva comodamente raggomitolata tra le coperte del letto. No, quella mattina non avrebbe mai usato il suo potere per scrollarsi di dosso le faccende di casa. Poi, era tutto un disastro in generale: sul tavolo c'era un piatto con una montagna di pancakes, ma altrettanti erano nella spazzatura, perché o bruciati o caduti a terra, e le braccia della ragazza erano piene di segni rossi, scottature che si era procurata mentre cucinava e non aveva avuto voglia di medicare. Continuava a dire a se stessa che sì, lo stava facendo per Nathan ed Erin, ma nel profondo sapeva che era anche per sé: avere qualcosa da fare le permetteva di non riflettere su ciò che era accaduto. Ed era decisamente meglio fare pancakes, anche se ne bruciava la maggior parte - ed insieme le sue braccia - piuttosto che anestetizzare tutto bevendo. Perché era stato questo il primo istinto della Goodwin. Ma non l'avrebbe fatto, non questa volta. Non se lo ricordava, Jessalyn, che nel momento in cui aveva perso i genitori l'unica cosa razionale da fare per lei era stata annullare tutto, affogare il suo dolore nell'alcol. Ma quella volta era diversa: la loro morte era stata qualcosa che aveva dovuto affrontare da sola. Certo, i suoi amici le erano rimasti vicini, ma il dolore, beh, quello lo provava solo lei. Questa volta invece era diverso: ci conosceva stava soffrendo come lei, anzi, alcuni molto di più.
    In quel momento Nathan entrò in cucina e Jess vide la sua espressione stupita nel vederla lì, con il braccio ustionato che reggeva la padella e un pancake mal riuscito ancora per terra, ai suoi piedi. «Ho preparato la colazione» Si sforzò di sorridere, Jessalyn Goodwin. Lei, che di solito doveva sforzarsi per avere un'espressione da cui trapelasse una parvenza di serietà. Lei, che solitamente non si faceva abbattere da nulla. Beh, la morte la fregava sempre. L'amico le si avvicinò e lei allungò il braccio per stringergli la mano, così come la sera in cui avevano appreso la notizia, appartate nell'ufficio di Keanu per non farsi vedere mentre origliavano la chiamata, aveva afferrato quella di Erin. «Avevi intenzione di cucinarti anche le mani?» Nate stava fissando le ustioni, e anche se aveva cercato di buttarla lì come battuta, dal suo sguardo si poteva notare come fosse sinceramente preoccupato. «Volevo prepararvi da mangiare come ogni mattina» Volevo un attimo di normalità «Ma non sono riuscita a calcolare i tempi, metà dei pancakes sono caduti a terra e poi ho iniziato a pensare e ..- la voce le si smorzò in gola. Per quanto ci avesse provato , non ce la faceva proprio a non pensare ad April. April, che era stata una delle prime persone con cui aveva legato, quando era arrivata al quartier generale ed aveva toccato il fondo: non sapeva chi fosse, non sapeva da dove venisse, non sapeva nulla. Eppure la Withpotatoes l'aveva voluto bene fin da subito, ed il fatto di non poter più vedere il suo sorriso, di non poter più udire la sua risata, non riusciva proprio ad accettarlo -non se lo meritavano. Nessuno di loro se lo meritava. E non ce lo meritiamo nemmeno tutti noi - i suoi pensieri volarono subito ad Idem, Darden ed Isaac. Eppure si sforzò di non pensarci, perché pensare al loro, di dolore, era mille volte peggio che concentrarsi sul proprio - perché è successo? perché? » Perché? Jess faceva fatica a comprendere come al mondo potesse esistere tanta crudeltà. Era qualcosa che il suo cervello non riusciva proprio ad elaborare. Sentì le braccia di nate stringersi intorno a lei e, per la prima volta, Jess diede libero sfogo a quelle lacrime che fremevano per uscire da giorni ma lei aveva sempre trattenuto, non tanto per se ma per mostrarsi forte davanti a tutti. Perché la normalità che la ragazza tanto desiderava richiedeva che lei rimanesse solare, che non si facesse abbattere da nulla. Eppure non ce la faceva. Ed in quel momento capì che non era così importante preservare la normalità, perché quella situazione, di normale, non aveva proprio nulla.
    12. Quel quadro era uscito fin troppo macabro persino per i suoi gusti. Connor guardava con occhio critico la sua opera, a cui si era dedicato negli ultimi giorni: all'inizio aveva intenzione di dipingere una semplice città. Ne aveva realizzato il profilo, curato i dettagli dei palazzi, si era dedicato scrupolosamente nella scelta dei colori per realizzare il tramonto che ne faceva da sfondo. Poi aveva appreso la notizia dell'attentato in Francia e, nella loro casa a Westerfall, non si parlava di altro: a tavola i coniugi Walsh non la smettevano mai di nominare le vittime, descriverne i particolari, riferire voci di corridoio arrivate a chi da un amico, a chi origliando una conversazione al mercato, e Connor non poteva far a meno di lanciare occhiate sconfortate dall'altra parte del tavolo a sua sorella Maple, esasperata quanto lui da quella situazione. Sì, gli dispiaceva immensamente per l'accaduto, ma se anche mentre stava mangiando un piatto di pasta doveva ascoltare dettagli macabri sull'attentato, significa che la situazione stava un po' sfuggendo di mano. E naturalmente tutto quel parlare di sangue e di morte aveva influenzato anche l'arte del ragazzo: la città che aveva dipinto era stata sovrastata da marcate pennellate di rosso scuro e nero, sangue e fumo. «Deprimente» Tolse la tela dal cavalletto e la abbandonò con noncuranza sotto il letto, dove praticamente finivano tutti i disegni che riteneva fossero usciti male. Quello in realtà era uscito fin troppo bene, e proprio per questo lo nascose: trasmetteva disperazione e sconforto e di certo non voleva avercelo davanti ogni giorno appena sveglio. Uscì dalla sua stanza per recarsi in cucina, dove trovò sua sorella con una banana in mano ed un bicchiere di caffè nell'altra. ”Buonfiofrno fateuone” Connor sorrise. Era bastato vedere Maple un attimo per far scomparire tutta l'inquietudine che la vista del suo stesso quadro gli aveva procurato. «Ti sveglierai mai ad un orario decente?» In questo erano l'opposto. Anche quando la notte faceva tardi, lui si svegliava prestissimo o non dormiva proprio: le prime luci dell'alba erano infatti il momento che preferiva di più per dipingere. Naturale che poi dormisse tutto il pomeriggio dovunque capitasse, anche nei posti più improbabili, era tutta un'altra storia. Avevano diversi orari, ma perlomeno quanto a routine di sonno erano uguali: per nessuno dei due era normale. ”A che ora la partenza?” «Salutiamo papà prima che vada a lavoro ed andiamo» Messaggio implicito: aspettiamo che se ne vada con la metro polvere e ci prendiamo la sua macchina. Sapeva che l'aveva colto al volo: non c'era bisogno di spiegazioni, tra quei due. Anni di complicità in bravate a danni di praticamente chiunque li aveva resi un duo perfetto. Al maggiore piaceva affermare che no, lui veniva semplicemente trascinato dalla sorella o la affiancava per non farle combinare troppi casini. La verità invece era che anche a lui piaceva mettere in pratica i loro piani malefici. A lei venivano le idee più assurde e divertenti, lui faceva di tutto per elaborare un progetto sensato e ben studiato per portarle a termine.
    Lei gli si gettò al collo come un koala, così come faceva fin da bambina. Il ragazzo perse appena l'equilibrio, rischiando di far finire entrambi per terra, ma poi riuscì a rimanere in piedi: anni di esperienza lo avevano abituato ai suoi scatti improvvisi. «Lo ripeto, i riflessi involontari da scimmia ti sono rimasti » Quando erano bambini infatti, aveva convinto la sorella di essere stata comprata dai suoi genitori al mercato nero essendo una scimmia dotata di poteri e poi loro l'avevano trasformata in essere umano con un incantesimo. «Io me lo ricordo quando ti abbiamo comprata, eri una scimmia vera!» La piccola Maple non era stata così difficile da convincere, e per un mesetto buono era andata in giro per casa a quattro zampe e esigeva di mangiare solo cibi a base di banana. Naturalmente era stato Connor ad averglielo consigliato, dicendogli che così "sarebbe potuta tornare in contatto con la sua vera natura". Crescendo, ogni volta che poteva, il ragazzo si divertiva a tirare fuori quella storia. ”Connie- solo lei era autorizzata a chiamarlo così, anche se lui faceva finta di detestarlo - a che ora si pranza?” Il suo costante desiderio di cibo lo lasciava sempre stupito « Dieci minuti? Ah e ricordiamoci di chiedere a Bernardine se ci può preparare qualcosa da mangiare durante il viaggio » Senza quella donna, i fratelli Walsh avrebbero avuto la possibilità di andare incontro a due destini: o diventare delle palle rotolanti, nutrendosi solo di cibo spazzatura, o morire di fame. Ma, conoscendo sua sorella, il loro destino sarebbe stato il primo.Decisamente.
    18. La ragazza che vedeva allo specchio non sembrava nemmeno lei. Capelli raccolti dietro la nuca in uno chignon decentemente ordinato per i suoi standard, con giusto qualche riccio indomabile che le ricadeva sul volto, una gonna nera fino alle ginocchia abbinata ad una camicia bordeaux scuro, il colletto alto abbottonato che la faceva sentire soffocata, intrappolata, come un po' tutto in quell'abbigliamento. Come quella situazione, in generale. L'unica cosa fuori luogo in quell'insieme, e dunque così da lei, erano le fasciature che le ricoprivano mani, polsi e avambracci. Piccolo promemoria di quella mattina. Uscì dalla stanza quando sentì che Patrick era arrivato, dando un'ultima occhiata al suo riflesso e, subito dopo al letto nel quale avrebbe di gran lunga preferito rimanere, per poi chiudersi la porta alle spalle.
    Il viaggio fu notevolmente silenzioso, ma era giusto così. Quando arrivarono due ragazze, Eleanor e Thea, entrambe le rivolsero uno sguardo stupito mentre lei si limitò ad un sorriso di circostanza. «Frequentano entrambe Hogwarts, vi conoscevate» le sussurrò Nate, per poi tornare a guardare davanti a sé. Era sempre un momento molto imbarazzante, quando rincontrava persone del suo passato di cui lei non sapeva nulla. Si sentiva così in colpa, quando nei loro occhi leggeva emozioni contrastanti - sorpresa, gioia, risentimento, sollievo - mentre i suoi, di occhi, non trasmettevano nulla in risposta. Come potevano ? Non tutti poi avevano la pazienza di starla ad ascoltare, di conoscere i motivi per cui era sparita, di capire il perché della sua totale indifferenza nei loro confronti.
    Arrivati all'aetas, il senso di colpa della ragazza si amplificò notevolmente: mentre andavano a prendere posto, Jess sentì le occhiate di alcuni ragazzi su di se, e qualche bisbiglio. Chissà quanti di quegli studenti conosceva, chissà quanti volti un tempo considerava amici, confidenti, parti importanti della sua vita. La invase un senso di frustrazione, di impotenza, ma sapeva che non era dettato solamente dal fatto di non ricordare nessuna tra quelle persone. No. Alla fin fine, non le aveva mai dato così tanto fastidio: aveva la speranza che ogni rapporto si potesse recuperare anche se, da parte sua, non ne ricordava nulla. Aveva recuperato quello con Isaac, con Nathan, con Dakota, con Niamh. No, in quel momento le sue emozioni erano notevolmente amplificate. E la vera frustrazione la provava perché persone a cui teneva, a cui voleva bene, erano morte, ed altre ancora stavano soffrendo per le conseguenze di quella perdita. Le lacrime iniziarono a scorrere senza possibilità di essere fermate, durante il discorso di Idem. Vederla davanti al leggio, una mano intrecciata a quella della piccola Tupp, mentre raccontava episodi felici era davvero troppo da sopportare. Eppure doveva. Ce la stava mettendo tutta per contrastare il suo istinto di scappare via da quel posto, dalla tristezza che trasmetteva.
    «riesco a vederli»Jess si girò di scatto verso Nate «sono qui»
    «Cosa fanno?»
    «Come sono?»
    Invidiò tanto la capacità dell'amico, in quel preciso istante. Perché anche lei avrebbe voluto rivederli, almeno per un'ultima volta.
    «sorridono» Ed allora si sforzò anche lei, di sorridere. E questa volta fu un sorriso autentico, sincero, fu il sorriso che aveva abbandonato le sue labbra nel momento in cui aveva appreso la notizia della loro morte.
    Ma durò un attimo. Perché, quella parvenza di serenità, si spense in un secondo. Tutto sembrò precipitare velocemente, troppo velocemente. «state pronti a difendervi» E come si poteva difendere Jess? Era inutile. Non era più una strega, non poteva lanciare incantesimi e non si era nemmeno applicata negli allenamenti così che non era nemmeno decente nel corpo a corpo. Era fregata. Ma lei odiava essere un peso. "Rifletti Jess" E poi le venne un'idea mentre ascoltava il discorso di Pearl O'Sullivan - di cui lei non sapeva il nome btw, per ragioni di comprensione lo scrivo (?). Il suo piano si poteva rivelare del tutto inutile. Sconclusionato e di incerta riuscita anche perché non lo sapeva nemmeno lei, quale fosse il suo vero obbiettivo. Ma ci doveva provare. Doveva pur fare qualcosa. Fece uno scatto verso il palco in direzione di Pearl, sentendo la voce di Erin che le chiedeva che cosa stesse facendo, e a grandi linee non lo sapeva nemmeno lei. «Potrei vederlo un secondo?» Pearl la guardò interdetta, ma alla fine le lasciò il pezzo di stoffa in mano. Jess non era sicura di poterlo fare, la sua era una semplice supposizione, stava tentando qualcosa che sentiva di saper fare, ma concretamente non aveva mai fatto. Ma lo fece: appena la bionda distolse lo sguardo, in un attimo la ragazza concentrò tutto il suo potere sul brandello che teneva tra le mani, come di solito faceva quando voleva moltiplicarsi. E ci riuscì: sul suo palmo si materializzò una copia esatta della stoffa, e velocemente se la fece scivolare in tasca, per poi ridare l'originale a Pearl. «Scusami, credevo di aver visto una cosa per un'altra» Detto questo, corse verso la sua postazione iniziale, fiera di sé perché sì, ce l'aveva fatta. Ed arrivata davanti ai suoi amici, non gli diede il tempo di attaccarla per essere scappata via senza dire nulla: tirò fuori il duplicato della stoffa, per mostrarglielo. Lei non aveva idea di cosa stesse ad indicare il simbolo che ci era inciso sopra, mentre magari loro sì. «Dobbiamo capire da dove viene, perché se non è di Vasilov o di uno dei suoi adepti possiamo provare a fermare questo scontro» Non che altri non ci stessero provando. Ma una prova materiale era sempre più convincente. E se invece avessero scoperto che apparteneva effettivamente ad uno di loro? Jess sperava con tutto il cuore di no. Desiderava ardentemente poter bloccare quel fuoco finché era in tempo, prima che si trasformasse in un incendio vero e proprio, con fiamme impossibili da domare,
    Connor invece, per tutta la durata dei vari discorsi, era rimasto al fianco di sua sorella, senza scomporsi. Eppure sapeva di dover intervenire, sopratutto in difesa degli studenti lì presenti: rispetto a loro, lui era un adulto ed aveva il compito di proteggerli. Ma sopratutto, la sua prima ed unica priorità era Maple e la sua l'incolumità. Non avrebbe mai potuto sopportare che le succedesse qualcosa. Probabilmente proprio per questo il discorso che più lo colpì fu quello di Eugene . Perché, se fosse stato al suo posto, avrebbe detto più o meno le stesse cose. E non poteva nemmeno immaginare cosa stesse sopportando in quel momento. E così in quell'istante decise che l'avrebbe aiutato a togliere di mezzo gli stronzi che gli avevano portato via la sorella con la speranza di rendere quel posto un luogo più sicuro. Si girò verso Maple, stretta al suo braccio. «Io devo fare qualcosa - tirò fuori dalla tasca le chiavi della macchina e gliele porse - prendi la macchina e vai via da qui. Tanto lo so che è da quando hai cinque anni che sogni di guidarla » Accennò un sorriso, ma era tremendamente preoccupato. Sperava che lei eseguisse la sua richiesta eppure era sua sorella e la conosceva fin troppo bene: non se ne sarebbe mai andata. «Se non vuoi andare , resta qui tra gli studenti. Ti prego Si chinò per posarle un bacio sulla fronte, per poi andare nel mezzo dello scontro ed affiancarsi ad Eugene. «Una mano a buttarli giù ti può far comodo?» Non aspettò nemmeno la sua risposta, girandosi verso di loro. «EXULCERO»
    | ms.


    Nemmeno l'ho riletto come si deve quindi perdonatemi tutto vi prego, ho troppo sonno .

    Allora, Jess fa cose inutili (?) Praticamente duplica il pezzo di stoffa che ha Pearl con la speranza di provare che non appartenga a Vasilov o ai suoi schiavetti #wat in modo da fermare lo scontro mentre Connor si immedesima nel discorso di Eugene, decide di aiutarlo e lancia un Exulcero verso gli adepti di Vasilov
     
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    02.07 -- ore 02.30 Jade stava appoggiata con le braccia sul legno della culla, e guardava in basso il piccolo mostriciattolo che ivi dormiva, il sonno agitato. Allungò una mano per spostare la copertina, pensando la faccetta triste fosse dovuta al caldo, ma il bambino non la lasciò fare, afferrandole un dito per riflesso involontario. La ragazza non ruscì a non sorridere, posando il mento sulla sbarra e mordendosi il labbro guardando suo figlio dormire, come a volte faceva nonostante la stanchezza.
    A volte si chiedeva cosa avesse fatto per meritarselo (a parte sesso non protetto). Uran era finora la cosa più bella della sua vita, un essere minuscolo che eppure aveva la capacità di renderla felice con la sola esistenza, per quanto Jade non fosse in grado di spiegarselo. Mentre era incinta, anzi, mai nella vita aveva pensato di poter essere in grado di amare tanto qualcun altro, neanche Ego che eppure ricordava piccolissima, e questo le stringeva il cuore in una morsa positiva. Sapeva che per Uran avrebbe dato la vita in qualunque momento, e questo la rendeva più forte di quanto non fosse mai stata.
    Il bambino prese ad agitarsi di più, la bocca allungata in una smorfia e versetti infelici. Prima che si potesse svegliare, allarmando tutti gli abitanti della casa (essendo stata abituata a vivere con Euge, Run e mille animali, si sentiva più a casa propria con gli ospiti Milkobitch che normalmente senza di loro), Jade prese delicatamente in braccio il bambino e il pupazzetto con cui l'avevano messo a dormire, ma neanche le braccia della mamma lo fecero desistere dallo svegliarsi e iniziare a piangere.
    «Shhh shhh... sono qui»
    Lo coccolò, cercò di dargli da mangiare, ma Uran era del tutto disinteressato a lei. «Jade?»
    «Hai svegliato papà», mormorò continuando a cullarlo. «Era questo il tuo piano fin dall'inizio, vero? Sei proprio un Beech»
    Restando sullo stipite della porta si affacciò nell'altra stanza, dove un Eugene assonnato e a letto li fissava con la domanda sulla punta della lingua.
    «Ho provato a dargli da mangiare, ma non è fame. Potrebbe avere le coliche...»
    Pur avendo sempre voluto diventare guaritrice come Lienne, non si era mai specializzata o informata granchè sulle malattie infantili, quindi la sua conoscenza derivava da internet, solito darti spacciato per i sintomi dell'influenza. Le coliche le sembravano plausibili, eppure c'era qualcosa in Uran di particolare.
    «Devono essere quelle.. vuoi che lo prendo io?»
    Annuì, socchiudendo gli occhi al bacio di Euge sulla testa, ora che era stata privata di Uran improvvisamente troppo stanca per commentare in alcun modo quel gesto tenere. Facendo attenzione a non pestare i fratelli di Run tornò a letto, acciambellandosi come un gatto senza lenzuolo, sospirando soddisfatta quando Uran smise di piangere. Si sarebbe addormentata in pochissimi secondi... se qualcuno non avesse suonato alla porta.
    Aprì gli occhi, lo sguardo sul cuscino di fianco a lei, lasciato vuoto e ancora caldo da Eugene. Guardò oltre, sul comodino, verso l'orologio a led. Non era un buon segno qualcuno alla porta a quell'ora. "Forse sono solo dei ragazzini. chissà se suoneranno anche dai Jeriton e verranno trucidati".
    Si alzò stropicciandosi gli occhi, cercando i pantaloncini che si era tolta prima di addormentarsi a causa del caldo, ma prima di lei alla porta arrivò Todd. Jade cercò di nascondere l'occhiataccia, volendo far notare che era compito suo o di Euge aprire la porta di casa (neanche più di Run) perchè probabilmente era per loro, ma non disse nulla vedendo Idem.
    «mi dispiace.»
    Non era una bella cosa una ragazza che bussa alla tua porta di notte per scusarsi.
    Jade si inumidì le labbra, e deglutì.
    «mi dispiace così tanto.»
    Ego. Lienne. I suoi genitori. Hope. Maeve. Murphy. Skandar. Lienne. Ego.
    E la lista era lunga, sebbene il pensiero che potesse essere capitato qualcosa alle sorelle per un attimo la distrusse più di tutti gli altri nomi messi insieme.
    «cos’hai fatto?»
    Ci mise un attimo, Jaden, per capire che Run non stava parlando con Idem. Stava parlando con chiunque fosse morto, con chiunque Jade, nè nessun'atro sprovvisto di poteri medium, avrebbe visto.
    "Fa che non sia Ego. Fa che non sia Lienne".
    Non era Ego, e non era Lienne, e Jade si sentì subito in colpa per il moto di sollievo nell'apprenderlo. Le vite di April, Nathan, Neil e Delilah non valevano meno.
    Si strinse le braccia al petto, le spalle leggermente sollevate fingendo un freddo che non c'era. Conosceva tutti e quattro. Nathan era sempre eccessivamente gentile al quartier generale dei ribelli, April era sua amica praticamente da sempre, prima a Hogwarts e poi nei laboratori, Neil era stato loro vicino per anni, padre di quel piccolo terremoto. Delilah era sua amica, zia di Uran, sorella di Euge.
    Dopo che Idem se n'era andata, non era stato esattamente facile tornare a dormire, tornare a vivere.
    Jaden passò la notte a cercare informazioni su quello che era stato un attentato, cercò i nomi delle vittime per scoprire chi conosceva, chi non conosceva ma avrebbe voluto conoscere, chi sarebbe stato vendicato.
    La mattina presto, tuttavia, uscì di casa, prima di accoltellare Eugene o peggio scoppiare a piangere.
    Poteva capire che stesse soffrendo, voleva capire, ma non era in grado di stargli vicino quando era solo capace a inveire contro chiunque, a insultare qualsiasi cosa facesse o dicesse per provare a rasserenarlo.
    Si sedette su una panchina nel parco più vicino a New Hovel, afferrando rapida il cellulare e chiamando Lienne per lamentarsi dell'amico in comune, ma prima che la sorella potesse rispondere riattaccò, guardando avanti a sè. Non era una bambina, non aveva bisogno di Lienne ogni volta che qualcosa non andava. Prese un grosso respiro e tornò indietro.
    Entrò in casa spedita, cercando Eugene e trovandolo senza difficoltà davanti alla tele. Gli si mise davanti prendendo fiato, pronta a dire tutto quello che pensava... ma poi richiuse la bocca, e si sedette semplicemente al suo fianco, i piedi sul divano, le ginocchia strette al petto e la testa appoggiata alla spalla di Euge.
    «Sono qui, Jackson»
    Ed era abbastanza.

    03.07 -- ore 17.00 Arci si sistemò la cravatta ancora e ancora, eppure ogni volta qualcosa sembrava non andare. Il nodo sembrava allentato, storto, il pezzo della cravatta tecnicamente nascosto spuntava fuori, o la stessa era stropicciata... dopo quindici minuti di prove, se la tolse con stizza per gettarla a terra, dedicandosi poi a guardare la propria immagine riflessa allo specchio. Non era neanche in grado di mettersi una fottutissima cravatta. La barba era ispida sulle guance, leggera ma non inesistente, curata; i capelli erano stati pettinati all'indietro, più corti ai lati, e nell'insieme Arci stava bene, bellissimo nel completo elegante e nero che aveva indossato per l'occasione... ma sacrebaguette, la camicia non poteva lasciarla così, senza niente.
    «GRINCH, SONO ARRIVATI I TUOI AMICI!»
    Arci lanciò un'altro sguardo al pezzo di stoffa abbandonato a terra. Lo raccolse rapido, infilandoselo non messo intorno al collo prima di scendere a due a due i gradini e raggiungere l'ingresso.
    «Ehi» scoccò un bacio sulla guancia a Bells, notando quanto il lutto (almeno non quello di suo fratello) le donasse.
    «Non sei ancora pronto?»
    «Meh» tirò fuori dalla tasca le chiavi del pickup, giocherellandoci. «Non ho avuto tempo, oggi ho lavorato» Ignorò volontariamente l'alzata di sopracciglia di Akelei.
    «Hai messo il profumo, però»
    «Lo sai che è la prima cosa che faccio. Allontana i malocchi. Dai andiamo, ho già salutato Yugin» Prima che qualcuno dei cata potesse notare che si era anche tagliato i capelli rispetto al giorno prima, o si fosse fatto la barba perchè risultasse più fine, fuggì fuori dalla casa, nessun saluto alle bionde che tanto avrebbe ribeccato poco dopo al funerale.
    Salì sull'auto per primo, usando lo specchietto per sistemarsi finalmente la cravatta. Ancora non sembrava perfetta, ma poteva andare.
    «Tutto bene?»
    «Mh»
    «Arci»
    «Sto bene»
    Mise in moto, e il rombo zittì la risposta. «Oscar, fai da dj? Il cd dei cartoni è già inserito»
    Il rapporto di Archibald con la morte era particolare.
    Non la temeva, non particolarmente, e neanche quando si era trovato davvero in punto di morte, nel capanno, aveva avuto paura, quando l'irrefrenabile desiderio di farsi Tiffany prima che fosse troppo tardi.
    Anzi, ad Arci la morte piaceva. Non come a Carrie, santo cielo, o almeno non negli ultimi anni, ma perchè era qualcosa di misterioso, difficilmente afferrabile, incomprensibile; finchè non la provi, non puoi sapere com'è o cosa ci sia dopo.
    Non aveva mai neanche davvero sofferto la morte di nessuno.
    Una volta la sua "nonna adottiva" era morta, e lui aveva dovuto presenziare al funerale fingendosi dispiaciutissimo per far felice la propria madre, ma la verità era che non gli importava. Non gli importava mai. I morti erano morti, e non provava quel dolore classico nelle persone (al massimo nostalgia, rabbia per i magici rapiti a Brecon e uccisi), non inveiva contro il cielo un "perchè a lui!" quando, ovviamente, il perchè era il puro destino.
    La morte capitava, era inevitabile, e nessun uomo avrebbe mai potuto fare niente per fermarla.
    Dei vivi, tuttavia, ad Arci sì che si interessava.
    I morti nell'attentato che avrebbero ricordato quel giorno non erano suoi conoscenti, eppure, nella cerchia delle persone a lui più importanti, si trovava il fratello di una delle vittime, ed Arci era terrorizzato. Delilah e compagnia erano morti, era terribile, certo, ma il mondo sarebbe andato avanti e non era interesse di Arci capire come.
    Tuttavia voleva bene a Eugene, e Eugene era il fratello di Delilah. E Eugene non sembrava così acab riguardo alla morte.
    Aveva pensato, il giorno prima, di andarlo a trovare, di provare a confortarlo, solo per rendersi conto che non avrebbe saputo come reagire al suo dolore, così come non era stato in grado a Brecon di aiutare o anche solo capire Bells e Jeremy davanti ai corpi inermi dei fratelli. Se Archibald capiva la morte, i sentimenti invece lo confondevano. Cosa avrebbe dovuto dire a Euge? Come avrebbe dovuto comportarsi? L'uomo non sarebbe stato interessato alle preghiere che Arci aveva rivolto al cielo per l'anima di Delilah, nè dei suoi conforti su un al di là migliore di questo mondo.
    Alla fine non era andato da lui. A conti fatti, quindi, a quel funerale sarebbe stata la prima volta che lo avrebbe visto dopo la morte della gemella di Euge. Voleva esserse perfetto, e temeva di fare qualche cazzata.
    «Arci!»
    «Eh?»
    «Hai perso la svolta!»

    «Bordel»
    «Hai-»
    «Ho detto che sto bene»

    «...Volevo solo sapere se potevo cambiare canzone, non mi piace Ufo Robot.» Oscar lanciò un'occhiata a Bells «Cristo, Leroy, datti una calmata»
    Ma Arci non riusciva a darsela una calmata, e non sapeva neanche bene perchè. Doveva solo presenziare a un funerale, dire a Eugene che se aveva bisogno ci sarebbe stato, nel clichè più grande del mondo, e poi andarsene. Facile!
    Insomma, era un funerale: che diavolo sarebbe mai potuto accadere?

    03.07 -- ore 17.55 Noah si sistemava il colletto con studiata meticolosità, guardando in giro ovunque, tranne sul palco. Vide i visi conosciuti degli altri special dichiarati, qualche conoscente a caso. I vip, o quelli che tali dovevano essere, gli erano del tutto sconosciuti, ma non se ne fece una colpa: in quei mesi non aveva ancora avuto il piacere nè il bisogno di imparare nomi e facce di vari misteriali o presidi di altre scuole, e ancora doveva abituarsi che quel sangue sporco di Leach non fosse più ministro della magia, ma semplicemente storia.
    Quando aveva scoperto della morte di Nathan e April, era stato quasi come scoprire di nuovo della morte di William. Eccole lì, altre due vite direttamente collegate a lui che non aveva avuto l'occasione di conoscere, di veder crescere! Doveva essere suo diritto imparare cose su di loro, come gli piaceva il tè, se avessero passioni interessanti, e invece di nuovo li aveva mancati per un attimo. Era riuscito giusto una volta a farsi portare con Levi a casa Withpotatoes per farsi presentare come prozio, un sorriso di cortesia in quella casa così... così, ed ecco che due suoi nipoti non c'erano più.
    Era il fatto che fossero fratelli di Idem, a dispiacergli soprattutto, perchè se lo erano dovevano essere almeno in parte buoni come lei. E se lo erano, Idem doveva star soffrendo come un cane.
    Quando aveva scoperto da Damian che Idem era salva, e soprattutto che Idem era la sua Idem, aveva insistito per farsi dire dov'era, per poterla andare a trovare.
    L'aveva fatto prima nelle vesti di Magnus, dimostrandosi semplicemente interessato a recuperare il tempo perso. Quando era stato sicuro che non sarebbe esploso, e che la ragazza era ancora la sua salvatrice dagli occhioni blu, fu il turno di Noah, degli abbracci nel sapersi vivi a vicenda, del «Mi dispiace» mormorato a mezzavoce nell'orecchio di Idem. «Pensavo...- Speravo-» «Va tutto bene»
    Avrebbe voluto approfittare di più della gioia di averla ritrovata, di vederla acciaccata, ma viva, colei che in fin dei conti era riuscita a non farlo impazzire nei laboratori, ma eccolo già lì in agguato, il dramma, la morte.
    Ovviamente Noah era andato alla cerimonia come Magnus, portando al braccio Levi, un sorriso triste sul bel volto, sebbene datato, e non solo per salvare le apparenze. Erano la sua famiglia. Anche se non li aveva conosciuti, anche se a nessuno importava di Magnus.
    Quando Idem iniziò a parlare gli dispiacque un po' che lei non avrebbe visto tra il pubblico il bell'americano Noah Parrish, e si trattenne dall'andare dietro un albero a "cambiarsi", decidendo di rispettare il piano originario e farlo solo alla fine della cerimonia.
    Se mai ci sarebbe stata una fine della cerimonia.

    -- Poco dopo l'entrata in scena di Vasilov, Jaden progettò la propria uscita.
    Aveva tenuto la mano sulla gamba di Euge tutta la cerimonia, un gesto che doveva essere di conforto, ma non appena le cose iniziarono a precipitare, si iniziò ad accennare a una guerra, Jaden si alzò, Uran preso dal passeggino e stretto fra le braccia in modo protettivo.
    Lanciò uno sguardo a Euge, preso da quello che stava succedendo, sapendo che lui, invece, non se ne sarebbe andato via da lì senza sapere, senza combattere, senza vendicare Delilah.
    «Porto via Uran», lo avvisò, ma per quanto volesse andarsene e mettere il bambino in salvo prima che qualsiasi cosa potesse accadere, non era altresì sicuro di voler lasciare Eugene da solo. Avrebbe fatto cazzate, preso dalla smania di agire, e si sarebbe messonei guai, si sarebbe fatto male... o forse no, ma non voleva davvero non essere al fianco suo e di Run e di tutti gli altri, come già a Brecon.
    Sfiorò il braccio di Euge, poi lasciando lì il passeggino (in ogni caso l'aveva creato lei con la luce per risparmiare: avrebbe sempre potuto rifarlo) si afrettò prima di tutto ad andare sotto il palco.
    «Donnie! Donnie!» Sperò che il ragazzo la sentisse. «Forse è il caso di portare via Tupp. Posso farlo io»
    Se doveva mettere in salvo suo figlio, tanto vale prendersi cura anche della sua circa nipotina... ma Donnie non le lasciò prendere Tupp, e questo convinse definitivamente Jade che non poteva semplicemente andarsene.
    Indietreggiò fra le sedie in mezzo alla gente, cercando un viso conosciuto... che finalmente trovò. Era sicurissima sarebbe stata a quella cerimonia, solo per dimostrarsi una brava strega inglese.
    «Mamma»
    Non parlava con lei da almeno un mese, da quando era nato Uran e lei l'aveva chiamata per farle gli auguri per il lieto evento, ma sebbene al telefono Jade e Jodie avessero deciso di vedersi il prima possibile, la donna non aveva ancora mai visto suo nipote.
    Ogni tanto Jaden fingeva con se stessa che Jodie avesse impossibilità a muoversi, o vivesse troppo lontana per far visita alla figlia, ma la verità era solamente che più il tempo passava, più il rapporto tra le due si incrinava.
    «La mamma ha chiesto di te», le diceva Ego «Che le devo dire?»
    «Che sono viva le basterà»
    «Jade» "No, un alieno. Almeno mi riconosci, grazie eh" Erano vari i motivi per cui Jade non adorasse particolarmente mamma Beech: il suo lavorare sempre e non essere mai nella vita delle figlie, l'aver abbandonato anni prima le ricerche di Lienne, la sua politica da mangiamorte, il giudizio verso Jade per l'essere andata a vivere a New Howel con due sconosciuti ed essere rimasta incinta ma soprattutto aver perso la magia. «E lui deve essere-»
    «Tuo nipote, sì. Puoi portarlo a casa? Io non posso smaterializzarmi da sola»
    Jodie aggrottò le sopracciglia. «Non so-»
    «Mamma Jaden scosse la testa. «Ti sto chiedendo un favore. Un solo favore. Puoi badare a mio figlio un'oretta, finchè la situazione non si calma? Non mi piacerebbe tenerlo qui, se non so che è al sicuro, ma io non... non posso andarmene»
    Non capiva davvero cosa Jodie stesse tanto pensando (un'ora sola col proprio nipotino, il sogno di ogni nonna! (?)), ma alla fine la vide annuire e allargare le braccia per recuperare Uran. «Non piange molto, ha mangiato da poco, se devi cambiarlo usa pure la magia, il suo pupazzo preferito è questo-» Lo creò sul momento con la luce, e glielo passò «Sì, è un pokemon, l'ha scelto lui come starter. Se si dispera cantagli le Spise Girls o cerca su internet la musichetta dei videogiochi, lo calmano»
    Si allungò a dare un bacio sulla testa del figlio, già fra le braccia della nonna, e poi fissò la madre negli occhi, grata. «Lo vengo a prendere presto... grazie»
    Jodie annuì veloce, senza sapere cosa dire, e subito si smaterializzò con un crac.
    Jade vide finalmente suo padre, rimasto seduto in disparte e anonimo l'intero tempo. Richard sillabò un «Grazie», e con un piccolo sorriso di smaterializzò anche lui.

    -- E lui che si preoccupava della cravatta! (che, per altro, alla fine era stata Pearl a sistemargliela)
    Arci si alzò in piedi quando le cose iniziarono a farsi calde, lo sguardo eccitato di chi prevede una battaglia e ne è felice. «Non immischiatevi, andatevene, non fate nulla che non farei io»
    No, certo che no. Anche Perchè chi c'era più scatenato e folle e imprevedibile di Pearl?
    Appunto. Quindi quella frase era semplicemente un invito ad agire.
    «Non ho idea di che cazzo succeda», ammise rivolto ai cata ma guardando in giro i vari sipari di quel teatro, e non sapeva se ridere, felice per l'azione, o gridare a tutti di piantarla perchè era davvero irrispettoso per i morti comportarsi in quel modo. «Dovremmo fare qualcosa?»
    Sapeva che a Bells Vasilov non piaceva, perchè secondo lei aveva volontariamente lasciato morire Elijah quella volta a Brecon, non portandolo in salvo, ma Arci invece era sinceramente grato all'uomo di non averlo fatto saltare in aria (non avere una degna sepoltura lo ansiava; e se i greci avevano ragione, e il suo spirito sarebbe rimasto a vagare legato al luogo della morte? Omelette, come minimo da morto voleva essere libero di infestare uno studio fotografico di modelle norvegesi!), quindi non era sicuro di volerselo fare nemico e andare ad attaccarlo. Insomma, non sai mai quando potresti restare di nuovo chiuso in uno spazio angusto e nel nulla provvisto di bomba.
    Ascoltò i discorsi al microfono, applaudendo a Pearl come il fanboy number uan che era, ma da dov'era non vedeva con chiarezza se lo stemma fosse effettivamente quello di Dragomir, o solo una copia.
    Quando vide Euge partire all'attacco, decise che quello era il segnale che cercava.
    Quale modo migliore di stare vicino al tuo mentore e dimostrargli supporto, se non attaccando in modo suicida un preside russo (sì, ache Arci era convintissimo fosse russo; colpa di Pearl)??
    Tirò fuori la bacchetta, e stava per attaccare con gioia feroce, felice di avere finalmente da fare qualcosa che sapeva fare quando-
    «Non così in fretta, cowboy»

    -- Appena le cose erano iniziate a degenerare, e soprattutto dopo che la bambina aveva detto quel "io ti ho visto" e Noah aveva capito che le cose iniziavano a mettersi male, si era alzato dalla propria postazione, sicuro che comunque nessuno avrebbe badato a un vecchio che se ne va, e si era diretto al primo luogo riparato che aveva trovato per tornare Noah, e dirigersi nuovamente al luogo della cerimonia in fretta per poter usare i suoi poteri in tranquillità.
    Ovviamente a Noah Vasilov piaceva (ricco, purosangue, potente, cheschifoibabbani, aesthetic), ma non era questo il motivo che l'aveva spinto a mettersi avanti a lui, le mani tese, cercando di fermare l'attacco del giovane spilungone (se vi chiedete perchè lui e non altri: well, perchè non era un fottuto suicida. Meglio iniziare dai ragazzini, e poi pensare ai grandi sicuramente più badass di lui).
    No, era stata la logica, e un senso di pacifismo nascosto che non sapeva di avere.
    Aveva vissuto tutta la sua vita con la pace; anche gli anni di colui-che-non-deve-essere-nominato pieni di attentati, li aveva sì visti, ma sicuramente non aveva mai temuto per la propria vita.
    «Credo che vi stiate tutti affrettando inutilmente»
    «Spostati»
    «Insomma, è chiaro che qualcosa non quadra»
    «Giuro, sceriffo, che se non ti levi-»

    Dio, quanto non sopportava gli adolescenti.
    La prima idea fu quella di infilarsi nella sua testa, obbligandolo a fermarsi, ma per risparmiare tempo decise direttamente di mostrargli quello che voleva mostrare a tutte quelle persone prima che iniziasse a colare sangue (figo da pinnare eh, ma meh?).
    Così, mordendosi 'interno guarda dopo aver studiato i particolari, Noah cambiò il proprio aspetto.
    Si allungò, scurendo la pelle altresì diafana, si rese gli occhi neri, il naso più grosso, le labbra più gonfie... una copia perfetta del ragazzo che aveva di fronte.
    «Cosa-»
    «E' possibile» disse, cercando di copiare anche il suo timbro di voce basso. «Che qualcuno possa voler incastrare Vasillina»
    «Vasilov»
    «E io che ho detto?»


    -- Jaden ascoltò le parole di Euge restando accanto a Tupp e gli altri ragazzini che si erano avvicinati. Non era sicura che qualcuno ascoltasse davvero le parole dette al microfono, ma le piaceva comunque che ci fosse gente che provava a parlare.
    Eccoli lì, ribelli, mangiamorte, special e maghi, tutti uniti grazie a quell'attentato. Era un sogno! Insomma, ovviamente la morte di tutta quella gente era terribile, ma il fatto che il sacrificio di molti fosse ora utile per schierare due nazioni contro il regno di terrore di un'altra nonchè maggior potenza mangiamorte, allora forse ne era quasi (ma abbastanza, ovvio) valsa la pena.
    Jaden sorrideva leggermente, e smise di farlo solo quando Euge si buttò nella mischia. Insomma, il fatto che approvasse quello che aveva detto o che tirasse un bel pugno a Vasilov, non voleva dire che le andava bene rischiasse così la vita solo per scaricare la rabbia e trasformarla in forza.
    Guardò Tupp, sorridendole istintivamente come a tranquillizzarla, e si convinse di essere nel posto giusto, sebbene parte di lei volesse combattere, per una volta, fianco a fianco a Euge... ma prima che potesse fare alcunchè, spalancò la bocca guardando un ragazzo che stava salendo sul palco accompagnato da «Vasilov?» Cercò Euge, trovando nella folla anche il preside di Durmstrang. Erano... due? «Cosa-»
    «Miei cari», esordì il Vasilov sul palco «Microfono? Dov'è il microfono? Oih, Baudelaire, stai facendo attenzione che nessuno mi uccida vero?»
    «Meh. E non chiamamrmi Baudelaire»
    «Chi non vorrebbe essere chiamato come uno dei più grandi poeti degli ultimi secoli! "La passion frénétique de l'art est un chancre qui dévore le reste"...»
    «Noah!»
    «Ah, giusto. DICEVO!... Ta-dan!»
    Spalancò le braccia, come se fosse chiaro. Vedendo che nessuno, neanche i quattro gatti che avevano avuto la decenza di guardarlo, sembravano star capendo, si schiarì la voce, ma prima che potesse parlare lo interruppe il ragazzo, che finalmente Jade riconobbe come il piccolo allievo maniaco di euge.
    «Credo che prima di attaccare qualcuno, dovremmo assicurarci che non sia stato incastrato, ecco. Soprattutto visto che i motivi ci sarebbero da parte della ribellione, per dividerci... non è un po' tutto troppo... ben orchestrato? Lo stemma, le camice nere in giro, Vasilov stesso sulla scena del crimine! Forse è meglio prima fare ricerche migliori, chiedergli almeno se ha un alibi... Per quanto io sarei per il pestare, eh»
    «Pestare è un termine così basso... oh ehi! tu che stai attaccando! Non si fa! Ma mi stavi ascoltando? Si è innocenti fino a prova contraria!»

    Jaden aggrottò le sopracciglia.
    Beh, insomma, lei tifava Lafayette, mentre Vasilov le stava sulle palle... ma tutto sommato, non conosceva abbastanza la donna per poter dire che lei, o qualche suo alleato, non fosse in grado di uccidere chissà quante persone solo per far partire la guerra definitiva contro i mangiamorte, mettendoli subito in minoranza.
    Così come non era sicura che lei stessa non l'avrebbe fatto.
    "No. Non è la stessa cosa dei laboratori, questo è omicidio di massa"

    Non poteva fare niente da lassù, ma gli pareva comunque che sotto, in platea, ci fosse abbastanza gente contro Vasilov e le sue camice nere. Lei avrebbe lottano solo se queste si fossero avvicinate a loro, a Tupp e agli altri ragazzini sul palco.
    Notò appena che il Vasilov sul palco, che ora stava tornando un ragazzo con i capelli biondicci, stava cercando di controllare il corpo di Eugene per impedirgli di lanciare l'incanto.
    | ms.



    cosa? Se arianna è team vasilov?
    Non è colpa mia se ho pg stupidi mangiamorte

    Arci -- sale sul palco, ma non fa nulla (?)
    Jade -- sale sul palco dopo aver lasciato uran, si prepara nel caso a difendere tupp/studenti
    Noah -- sale sul palco con arci con l'aspetto di vasilov per dimostrare che quello visto poteva essere chiunque, e forse lo stanno incastrando #wat + difende vasilov da euge scusami
     
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    01.07. Le brutte notizie avevano un modo particolare di influire sulle emozioni umane. Pur essendo la medesima, terribile, novità, ciascuno la plasmava e la modellava a proprio modo, adattandola al contesto socio-culturale in cui l’individuo viveva – o credeva di vivere. Una realtà malleabile e cruenta, ad avvolgersi come fili di nebbia sulla coscienza di tutti in modo differente: talvolta soffocava, talvolta graffiava la pelle. Talvolta accarezzava una materia già assente. Chi si vantava d’essere forte, poteva mostrare le proprie debolezze; chi di natura era più fragile, poteva divenire puro diamante. Chi luccicava diveniva ombra, e chi già ombra era poteva farsi fuoco. E c’era la rabbia, e c’era l’impotenza – quella, un po’ tutti.
    E c’era chi le provava tutte, e rimaneva con niente.

    C’era Rea Hamilton, svegliata nel cuore della notte dalla vibrazione del proprio telefono; le dita a cercare sonnacchiose l’apparecchio, le palpebre socchiuse nel trovare diversi messaggi non letti.
    Il lenzuolo a scivolare di lato, mentre lentamente le parole sullo schermo prendevano un senso. Gli occhi alzati di fronte a sé, su una parete nuda quanto i propri pensieri – e quel senso di vuoto dato dall’incapacità di dare forma alla stretta allo stomaco, che fosse rabbia o pura tristezza. Non era mai stata brava a gestire emozioni che non comprendeva, Rea Hamilton.
    Ed i piedi a scivolare nudi sul pavimento, in quell’andatura leggera ma stranamente armoniosa, pur essendo la testa da tutt’altra parte – la porta a socchiudersi, lasciandola scivolare nel corridoio con indosso solamente una vestaglia stretta al petto come un pezzo di vita. Occhi aperti e mente irrazionale, mentre istintiva seguiva il proprio battito verso una stanza accanto, la mano a pendere pigra sopra la maniglia. Fino a poco tempo prima, l’avrebbe chiusa a chiave. Invece, Rea la trovò aperta.
    E quello spiraglio, nel quale sfuggì un filo di luce; ed il profilo di suo fratello, ancora addormentato, ad apparire ancor più giovane con parte del volto affondata nel cuscino, i tratti rilassati ed i biondi capelli disordinati. La Hamilton chiuse gli occhi, un sospiro a rimbalzare sulle pareti della camera di Amos.
    C’erano Rea Hamilton, al mondo, che nelle tragedie altrui leggevano la surreale dedizione ai propri cari. Che un conto, conosciuto, era sapere che avrebbe potuto perdere suo fratello – ed un altro, la consapevolezza che altri avessero perso i propri.
    E c’era chi le provava tutte, e rimaneva solamente con un buco nei polmoni.

    C’era William Barrow, una sera come tante al pub magico Tre Denari. L’aria densa di fumo ed altre sostanze meno lecite, di esalazioni alcoliche e rutti di uomini e donne meno eleganti di lui. Will rideva, l’ennesimo pop corn poggiato sul pollice e l’indice a premere sulla superficie color crema, mirando ancora ai capelli spettinati della sorella. Il terzo boccale di birra era evaporato come ghiaccio in estate, colorando le gote del Barrow della rosata tinta poco sobria di un ventenne nel pieno della sua gioventù. Una di quelle sere nelle quali le preoccupazioni risiedevano solamente sulla scelta della bionda - quella frizzante e schiumosa, altrimenti si sapeva che l’ex Corvonero ne avrebbe sempre scelta una soltanto; quelle dove, il mento stretto fra le dita, gli unici pensieri erano riservati alle fantasiose sfide da proporre al sangue del suo sangue, competizioni che finivano sempre per sfociare in cori alticci e braccia di Mitchell Winston a trascinarli dentro casa. La televisione era accesa su programmi che non stava guardando nessuno.
    Fin quando, perlomeno, Bud non prese il telecomando alzando il volume: e la tv fu accesa su un programma che guardarono tutti.
    Su cenere, e fumo. Su quelle foto in prima fila dei primi morti accertati, sorridenti com’erano fino al giorno prima – quei nomi dei quali William Barrow, la sigaretta a spegnersi davanti alla bocca dischiusa, non aveva alcun bisogno. Quella risata, a crederla uno scherzo. Quell’isteria a premere sulla gola, stringendola in una morsa ferrea. E quella rissa, scatenata per furia ed inadeguatezza, utile solamente al fine di dare uno sfogo al gelo nelle vene del Barrow – a sciogliere il ghiaccio, a renderlo vivo. Quei pugni a qualcuno che non c’entrava nulla, quelli incassati perché faceva sempre comodo sentire nocche a cozzar contro il proprio sterno. Quel legno a rompersi sotto la pressione d’un calcio, quel sangue a bagnare il labbro da un naso rotto ed un taglio sullo zigomo.
    Quello stropicciato William Yolo Barrow, ferito e masticato, a cercare aria in ogni calcio. Il dito medio alzato ai Tre Denari, le gambe a fuggire la sorella verso strade di Londra del quale solamente lui conosceva il nome.
    C’erano William Barrow, al mondo, che nella sofferenza trovavano il proprio oblio, che le morti altrui le caricavano sulle proprie spalle finchè non si spaccavano, i sensi di colpa intrecciati a rabbia cieca a consumarlo dall’interno come una sigaretta fumata al contrario.
    E c’era chi le provava tutte, e rimaneva solamente con unghie ad artigliare la carne.

    C’era Heidrun Crane, che ancora intorpidita non era stata in grado di schermarsi dal potere di Idem – che dalla medium, era stata investita in pieno. Le labbra socchiuse, a cercar il respiro che fino a poco prima si trovava incastrato fra i denti; gli occhi spalancati, incapaci di dare un senso alla figura evanescente di fronte a sé, iridi un tempo cerulee piene di lacrime e cose non dette. Un passo indietro all’interno dell’appartamento, due all’esterno a cercare una solidità laddove le dita incontravano il vuoto. Il cuore ad accelerare i battiti, per stringersi poi nuovamente in un silenzio stampa che pesava nello sterno. Le dita a massaggiare il viso abbronzato, attorcigliate ora ai capelli castani – e lo sguardo a cercar quello di Idem, nascosto fra le mani, ed a spostarsi su Ian, e Jeremy. Ed a trovare infine risposta in quelli attenti di Jade, le bionde sopracciglia sollevate e la bocca stretta in una linea dura, ad esigere risposte per quel pianto.
    Heidrun non ne aveva, di risposte. Le parole di Idem a sovrapporsi e schiacciarsi fra loro, la consapevolezza a farsi largo fra le costole fino a non lasciare più spazio per altro, mentre i nomi sgusciavano fra singhiozzi e sussurri di scuse - e Neil, e Nathan, ed April. I piedi di Run a trascinarla ora all’interno, mentre Idem stentatamente cercava di spiegare l’accaduto – e le braccia della Crane a stringersi attorno ad Eugene ed Uran, prima ancora di avere la forza di parlare. Il coraggio, di parlare. In silenzio, la testa del neonato a premerle sulla spalla e le labbra a schiacciare sulla curva del collo del Pavor, incapaci di allontanarsi per formulare una frase di senso compiuto. Aveva portato lì i suoi fratelli la sera prima, Run, quando a Londra s’era trovata davanti ai fornelli priva di alcuna voglia di cucinare – così, talvolta capitava. Se fosse rimasta nel proprio appartamento, non avrebbe dovuto essere lei nella posizione di dover dire qualcosa: si cullò di quella egoista consapevolezza, la mora, nel giustificare il proprio silenzio. E gli occhi a inumidirsi, per quelli amici che aveva sempre dato per scontato – che magari non vedeva mai, ma li amava sempre. Per quella mancanza nelle viscere, sapendo che avrebbe potuto essere lei, quella divenuta solo memoria. Che era, stata lei. Ed il sapere, nelle labbra contratte ed i tremuli sospiri delle spalle, che non esisteva cura per quando si perdeva la propria famiglia – inabile, con le sole parole ed i gesti, a dare conforto. Non era in grado di darlo neanche a sé stessa, lei.
    Le prime lacrime a pungerle le ciglia.
    C’erano Heidrun Crane, al mondo, che bruciavano dell’incapacità di essere umani, con emozioni incastrate sotto le unghie a prender polvere – che si annullavano, di fronte ad una realtà che tanto si sforzava di tranciarle, ed allora smettevano di provare, divenendo tele bianche prive di pittura. E che in quella tela, avevano storie intere – e che i propri colori, li davano ad altri. E che della rabbia, e del dolore, facevano un unico macigno di ferro a troncar la voce.
    E c’era chi le provava tutte, e rimaneva solamente con il cuore a battere senza peso.

    C’era Erin Chipmunks, lo schermo del computer ad illuminarle parte del volto mentre, sorridendo, leggeva sotto voce le recensioni positive alle proprie storie, gli occhi verdi a cercar l’approvazione nelle iridi scure di Jess. Il capo a sfiorar le righe dei commenti, le dita a tamburellare nervose in attesa di Nate ed il cibo che li avrebbe fatti sopravvivere alla notte – e quella calda gioia a scaldarle il sorriso, perché Keanu si trovava ancora al quartier generale: quando il leader dei ribelli era nei dintorni, Erin sapeva che nulla avrebbe potuto andare per il verso sbagliato. Che l’avrebbe protetta sempre, anche quando non sapeva di farlo. Che avrebbe sistemato ogni cosa. Priva di preoccupazioni, lei. Il disappunto derivato da un feedback negativo, un nickname dal dubbio gusto a suscitare interrogativi – quelli sciocchi che spuntavano solo insieme alle stelle, quelli stupidi che facevano sorridere il giorno dopo – sull’identità del critico. I piedi a scivolar pesanti sul pavimento, le risate soffocate nel palmo mentre tutti e tre cercavano l’ufficio del Larrington – che lui, una risposta, l’avrebbe sempre avuta.
    E la voce di Keanu, a ripetere parole che Erin non comprese. Ed il sorriso a morir loro sulle labbra, mentre immobili ascoltavano la conversazione dell’uomo. Il respiro a non far rumore. Ed il freddo, quello che s’insinuava sulla lingua e proseguiva in gola, che corrodeva le cellule e privava della forza di rimaner in piedi – quel tremare delle spalle, e poi delle labbra, e poi degli occhi sempre più lucidi. Le dita ad artigliare Nate e Jess, reclamando con le unghie una menzogna.
    E quella domanda, infine, scivolata fuori dalla bocca di Erin quando Keanu li intravide poco fuori dalla soglia, ancora nascosti nell’ombra - è vero? che vero, quando non si desiderava che lo fosse, lo era sempre.
    Ed il petto scosso in singhiozzi, e quegli abbracci ch’erano tutto, ma non bastavano mai. Quell’annaspare fra le lacrime, il tenere la testa china per vergogna, perché aveva promesso non l’avrebbe più fatto, ma alla fine piangeva sempre. E ci si disperava, Erin, di quel pianto – con quel pianto. Le si spezzavano i polmoni finchè non riusciva più ad incamerare aria, la bocca spalancata a pretendere ossigeno che non giungeva. Il viso affondato nella maglia di Nate, o in quella di Jess. Le mani aggrappate alla camicia di Keanu, in quel sorreggersi vicendevole che per Erin era sempre stata la Ribellione. In quell’essere una famiglia senza esserne mai stati legittimati – il sentire nelle vene di aver perso un fratello, due, tre, quattro. Che poi neanche lo poteva vantare, la Chipmunks, tutto quell’amore da parte dei caduti. Ma non s’era mai limitata dal ricevere, Erin, per dare: amava senza scontrino, nessuno poteva restituirlo. E quel senso di colpa del non poter far nulla, e di quel piangere che pareva immeritato – e di quella disperazione che sentiva esagerata, ma le scuoteva il cuore ad ogni battito di ciglia.
    E di quei genitori che, Erin non poteva saperlo, l’avevano di nuovo lasciata.
    C’erano Erin Chipmunks, al mondo, che non si rendevano conto della portata di una perdita, fintanto che quella non diveniva un taglio sanguinante e soffocante all’altezza della gola, la costrizione di deglutire acido per respirare anche solo un poco d’amianto. Che di quel mondo, corrotto e sbagliato, non riuscivano a capacitarsi – ed allora piangevano anche perché, tristemente, a quella vita s’era già abituato, funerali puntuali sul calendario quanto visite dal guaritore di famiglia.
    E c’era chi le provava tutte, e rimaneva solamente con altra sabbia sotto le unghie a scavare per un futuro sempre più lontano.

    03.07. Giorni che iniziavano amari, sale in bocca e limone sulle ferite. Li sentivi appesantire il cuore al risveglio, quando s’impuntavano a inumidire gli occhi o rendere gli arti inamovibili, costringendoti a rimanere con le lenzuola strette al petto e lo sguardo fin troppo vigile a studiare il soffitto. Nelle vene, giornate così. Si sceglieva l’abito con cura distratta, un modo come un altro per impegnare la mente su qualunque cosa non fosse l’evento imminente della serata – lutti sentiti o meno, a nessuno piacevano i funerali. C’era un’aria diversa, a tali cerimonie. Sembrava più densa, ogni movimento consumato nell’atto di non muoversi affatto, la serietà di labbra serrate e sguardo costipato partecipe del dolore d’altri - o tristemente consapevole del proprio, e di come una data simile segnasse un punto di svolta: non si tornava indietro, dopo un funerale. Non tornavano indietro, dopo un funerale.
    I respiri pesanti di un addio a senso unico.

    Rea Hamilton girò distrattamente la cannuccia nel proprio frappè, le gambe accavallate sulla scomoda sedia di plastica del locale, e lo sguardo chino sulle proprie mani. Si era limitata, in quei giorni, a rimanere silenziosamente sulle sue, una pacca sulla spalla quando nei corridoi di casa incrociava Gemes od Al, e nulla più – non si era neanche, Rea, avvicinata a New Hovel per cercare Eugene Jackson, né aveva scritto lettere di sentite condoglianze a Damian. Avrebbe preferito evitare anche gli abitanti della propria casa, ad essere sinceri: non era certo rinomata per essere una spalla su cui piangere, la Hamilton. Era uscita presto dalla villa, l’abito nero a solleticarle le ginocchia ad ogni passo ed i lunghi capelli castani raccolti in una coda bassa a scivolare lungo la spalla; quando si era affacciata nella stanza di Amos, un’occhiata a lui ed al bambino dai capelli biondi e gli occhi verdi, l’unica parola che aveva rivolto al fratello era stata: usciamo. Senza un dove, senza un perché.
    Sapevano entrambi che non si trattava di un semplice invito, ma di un obbligo. E sapevano entrambi che, dietro quell’unico ordine, v’era il bisogno di evadere, di fare qualcosa.
    Fu quello a portarli ad una gelateria, uno di quei luoghi in cui mai avreste immaginato la Hamilton potesse passare il suo tempo libero – troppi ragazzini, troppi sorrisi cordiali, troppe madri a riprendere i figli per macchie su vestiti prima lindi e perfetti. Sorseggiava il suo frappè senza dire una parola, facendo languire lo sguardo, talvolta ed inosservata, su Amos e Cash. Era passato troppo poco, sempre troppo poco, dal novembre del capanno – dall’agosto della sparizione. Ancora faticava ad abituarsi a quel senso di vuoto che la coglieva quando guardava suo fratello, memore di un tempo in cui non l’aveva avuto.
    In cui avrebbe potuto non averlo.
    Cash, corrucciato, cercava di infilare un cucchiaino pieno di gelato nella bocca di Amos – Amos, le labbra serrate, faceva cenno di no con il capo: è tuo, dai; io l’ho già mangiato. E come prevedibile aveva finito per cedere, lasciando che il bambino lo imboccasse; e come prevedibile Cash finse solamente, infilando all’ultimo il gelato nella propria bocca, un sorriso sdentato e sporco di cioccolato sulle labbra. L’Hamilton minore alzò gli occhi al cielo, eppure ricambiò il sorriso. Quelli un po’ tristi, quelli che si chiedevano come la loro vita fosse giunta a tal punto, e quanto terribile sarebbe stata se non l’avesse fatto. La mano a sporgersi verso la guancia del bambino, le dita a sfiorare appena le gote morbide ed ancora paffute di Cash.
    Rea distolse lo sguardo, ora affascinato dalle proprie unghie. Lo strappò come si sarebbe strappato un cerotto, bruciore e sollievo a sopraffarsi fin quando respirare non diveniva un dono.
    Spettatrice illecita di una vita che non le sarebbe mai appartenuta. «dobbiamo andare.»

    William Barrow, quel giorno, compiva ventiquattro anni. Rise amaro di fronte all’ennesimo bicchiere di whisky, le labbra a bruciare dal troppo tabacco logorato in bocca. Era una reazione stupida la sua, e Will ne era perfettamente consapevole: avrebbe dovuto, dopo anni, essere avvezzo alla morte.
    Ma Dio, come si faceva ad abituarcisi. Si sentiva colpe che non aveva, trovando conforto nell’auto celebrarsi capro espiatorio malgrado non avesse mosso un dito – forse, proprio per quello. Continuava a domandarsi, fra una golata arida e l’altra, se avrebbe potuto cambiare le cose – si rispondeva di no, e credeva comunque di sì. Non riusciva ad accettare di essere uno spettatore passivo, guardando la propria vita attorcigliata nei palmi delle mani: doveva, santo Dio, poter fare qualcosa. Aver potuto fare qualcosa. Così continuava a ridere, nel suo completo nero, ignorando le occhiate curiose degli altri avventori – rimase seduto su quello sgabello tutto il giorno, William Barrow, muovendosi solamente per accendere un’altra sigaretta od ordinare un altro giro.
    Li conosceva, quei morti. Li conosceva, quei sopravvissuti. Come sempre.
    Ed aveva continuato a bere, inveendo su chiunque posasse lo sguardo su di lui troppo a lungo – ed aveva cominciato a gridare, perché arrabbiato. Ed era uscito per perdersi in altre strade di Londra, dove s’era semplicemente lasciato cadere contro un muro, la testa fra le mani. Non si era mosso neanche quando qualcuno s’era fermato al proprio fianco – neanche riconoscendo le scarpe di sua sorella.
    «sono solo stanco di queste morti, niv. sono fottutamente stanco.» La voce soffocata nei palmi, le lacrime a bagnare le dita.

    Heidrun Crane allungò una gamba davanti a sé, la schiena arcuata in avanti e le dita a sfiorare il piede. Le cuffie già nelle orecchie a camuffare il vuoto battito dentro il petto, la bocca una curva imbronciata di natura che raramente, Roy, portava in maniera spontanea – e che invece, in quei giorni, ben s’addiceva alla sfumatura verde scuro delle iridi. Non ricordava neanche quando avesse dormito l’ultima volta.
    Non voleva dormire, Run. Non era disposta a pagare il prezzo dell’essere tornata in vita, in quel momento – che di suo, tentava d’evitarlo il più possibile: non aveva alcuna intenzione di finire negli incubi di qualcun altro. Piegò le braccia di lato, la testa reclinata a sciogliere i muscoli del collo. Aveva passato i giorni precedenti a condividere silenzi con Euge, Al, Donnie e Tupp; talvolta la facevano entrare, talvolta rimaneva ore fuori dalla porta con il capo poggiato al muro, le ginocchia al petto. Ed era sollevata, Run, quando non le permettevano di avvicinarsi - egoista, lo sapeva. C’erano troppe cose non dette a soffocare nel sorriso tirato delle labbra piene, rimorsi ad inacidire il respiro nei polmoni. Non se li meritavano, ed Heidrun non sapeva come liberarsene. Non sapeva come accettarli. Come pensarli. Si massaggiava le palpebre, mordeva l’interno della guancia finché non cominciava a sanguinare; con i denti torturava la tenera carne della bocca, masticando sé stessa fino a perdere la sensibilità.
    Non faceva domande, e fingeva di non volere le risposte.
    Uscì di casa che faceva ancora troppo caldo, il corpo già debilitato dalla mancanza di sonno a languire sotto la calura estiva – un sorso d’acqua, uno di vodka. Un sorriso a fiorire falso come petali di plastica. La musica nelle orecchie ovattava il suo stesso respiro, s’imponeva sopra i pensieri relegandoli a tenue rumore bianco. Cominciò a correre dopo i primi due metri d’andatura lenta, i piedi a calciare il cemento quasi avesse potuto, fisicamente, spostarlo per proseguire. Non bastava mai. Allora aumentava la velocità, straziando polmoni e gambe finchè il dolore non diveniva costante, ed i muscoli dimenticavano cosa si provasse a stare bene. Serrò le palpebre, spinse più forte – il cuore sulla lingua, il sudore a scivolarle sulla schiena bronzea inumidendo la canottiera azzurra.
    Non ebbe bisogno di aprire gli occhi, per sapere dov’era arrivata. Come sei prevedibile, Crane.
    Avrebbe voluto fermarsi? . Quel giorno, quello prima. La settimana precedente l’attentato, e quella prima ancora – ma non l’aveva mai fatto, Heidrun.
    Ed avrebbe continuato a non farlo.
    In ogni caso, Gemes Hamilton le era sempre stato sul cazzo.
    Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto essere in grado di rispondere alla rabbia con la rabbia, all’odio con l’odio. Non era mai stata particolarmente razionale, e reagire in maniera sbagliata alle circostanze in cui sapeva di essere in errore, era stata da sempre una sua specialità; voleva tornare a due anni prima, quando il suo unico passatempo era pianificarne un creativo omicidio con il sorriso leggero e le sopracciglia arcuate. Così semplice, all’epoca. Rimpiangeva i tempi in cui s’avvicinava per premere una lama sul petto, piuttosto che un esitante palmo aperto.
    Non avrebbe mai pensato che sarebbero finiti così - che lei, sarebbe finita così.
    Non avrebbe mai creduto che sarebbe divenuto un dolore fisico, la necessità di vedere qualcuno – e la consapevolezza che quel qualcuno, non ne aveva alcun bisogno. Voleva sapere come stava…? Fare silenziosa presenza al suo fianco? Non lo sapeva neanche lei, ed aveva smesso di interrogarsi in proposito.
    Aumentò ancora la velocità, l’aria uno sbuffo impercettibile a raschiarle i denti – e proseguì, Run, nell’unico modo e nell’unico mondo che poteva permettersi. «come se fosse un mio problema» ringhiò bassa al nulla, utilizzando quel poco d’ossigeno che le era rimasto, deglutendo acido e saliva.
    Perché c’erano persone che si meritavano di più, la condanna di una Crane nelle loro vite – che la volevano, santo Dio, che la volevano.
    E perché un suo problema, volente o nolente, sarebbe stato sempre.

    Erin Chipmunks quella mattina si era affacciata dolorosamente alla cucina, gli occhi gonfi di sonno e lacrime. Il pugno chiuso su una palpebra, la bocca semi aperta ad aspirare aria prima che i polmoni si torcessero in un altro attacco di singhiozzi. Neanche il profumo dei pancake di Jess era riuscito a far breccia nello stomaco chiuso della ragazza. La spalla poggiata sull’uscio, Erin era rimasta sulla soglia ad osservare Jessalyn e Nathan al centro della stanza, stretti l’una all’altro con le spalle a scuotersi in un pianto silenzioso. La gola le si strinse in una morsa ferrea, gli occhi ancora a bruciare.
    Non aveva mai visto Jess piangere. Era così assurdo, così fuori posto l’esile suono che fuoriusciva dalla bocca della ribelle. Non aveva perso il sorriso neanche guardando UP, lei: nel momento in cui Erin aveva cominciato a piangere, la Goodwin si era limitata a prenderle il viso fra le mani, una risata a brillare nei caldi occhi scuri. Sono stati felici a lungo, le aveva detto. E poi adesso ha una casa volante – spoiler alert: anche un cane che parla!. Che spoiler non era mai, perché la Chipmunks costringeva i mini reb a rivedersi il cartone almeno una volta al mese.
    Jess aveva sempre le parole giuste, il sorriso giusto – mai forzato, sempre ostentato come un raggio avrebbe potuto vantare d’essere un pezzo di sole.
    Rimase immobile, di fronte a quelle lacrime. Sapeva che se fosse entrata, Jess avrebbe tirato su con il naso e si sarebbe asciugata le guance sulla spalla, una battuta sulla propria sbadataggine ed una risata a limarne gli spigoli – ed Erin non voleva smettesse per lei, avrebbe voluto lo facesse con lei. Gli amici della Chipmunks tendevano sempre a proteggerla un po’ troppo, quasi si sentissero in dovere di giustificare la bontà che Erin vedeva negli altri – non comprendevano che erano stati loro, ad insegnarglielo. Che erano loro, la sua bontà. Avrebbe voluto dirle che non doveva prendersi cura di lei, ma sarebbe stata una menzogna - Erin aveva bisogno di una Jess, nella vita. Della sua Jess – semplicemente, non doveva nasconderle le sue lacrime. Anche Jess aveva bisogno di una sua Jess, qualcuno che fungesse da roccia nei momenti di crisi: sfortunatamente, Erin non credeva di essere tagliata per quel ruolo. Non sarebbe mai stata così forte. Così lasciò quel compito a Nathan, mentre retrocedeva silenziosamente nel corridoio.
    Giunse nuovamente alla sua camera.
    Osservò ancora, con gli stessi occhi stupiti del giorno prima, il vestito nero che avrebbe indossato alla cerimonia.
    Al funerale.
    Al funerale.
    Erin nascose il viso fra le mani, e pianse.

    «non sono stati condannati per ciò che facevano, ma per ciò che erano: esseri umani. Ho sentito tante persone parlare oggi, e ve ne sono immensamente grata, ma… dov’è la rabbia? Perché non siete arrabbiati?»
    Non erano arrabbiati? William, seduto in ultima fila, soffocò una risata nel pugno, i denti a pizzicare la carne. Gli occhi rossi di pianto ed alcool, disinteressato al proprio sdrucito e stropicciato vestiario, mentre infilava una sigaretta fra le labbra. Rea, in piedi al fianco delle sedie, si limitò a reclinare pigramente il capo; Run, alla destra della Hamilton, intrecciò le dita fra loro e sorrise senza guardare la Withpotatoes. Erin, raggomitolata contro Scott, strinse maggiormente la presa sulla sua mano.
    «rimpiango di non averli abbracciati un’ultima volta. E di non aver detto loro … grazie» Barrow Junior chinò il capo, le mani incastrate sulla nuca ed i palmi a premere sul collo. Gli occhi scuri di Rea scivolarono verso il fratello, il cuore ancora a dolere di quel bacio sulla fronte che avrebbe potuto essere il loro addio, mesi prima. La Crane, a quelle parole, sentì il muscolo cardiaco mancarle un battito – lo sguardo basso, la gola a bruciare. Perché ciò che più odiava, che più si odiava, era che lei, quella possibilità, l’aveva avuta: era morta, ed era tornata. Era tornata. Aveva potuto abbracciare la sua famiglia, aveva potuto trovare, la sua famiglia – perché loro no? Perché Delilah, Neil ed i Withpotatoes no? E lo sapeva che era un non detto, ma tutti si stavano facendo la stessa domanda. Si sentiva sporca, Run. Colpevole. La Chipmunks, gli occhi umidi ed il labbro tremante, guardò Scott e Nathan, e Jess e Keanu: lei l’aveva mai detto grazie? Lo sapevano quanto li amasse?
    E non importava chi fosse Mangiamorte, chi Ribelle – chi Esperimento, chi Purosangue: guardando le foto dei Caduti, sorrisi boriosi e sguardo ammiccante (vivi, vivi, così terribilmente vivi), non poteva che essere univoca la domanda a rimbalzar loro da un pensiero all’altro.
    Perché?
    In più d’un senso, più di cento.
    L’applauso giunse inaspettato, sbagliato nel silenzio che seguì le parole di Idem. Will sollevò il capo verso Dragomir Vasilov, ma gli occhi del giovane scivolarono immediatamente su Lancaster: che la situazione stava per precipitare, poteva tranquillamente notarlo dalle spalle irrigidite dell’uomo. Quanto lo odiava. Dal discorso di Idem, pareva che tutto fosse stato un caso, che nulla avesse a che vedere con la Resistenza: William Yolo Barrow, che fosse maledetto, non credeva alle fottute coincidenze.
    Ed odiava che di mezzo ci fossero andate, come sempre, persone e bambini che non c’entravano un cazzo – non era la loro guerra. Così strinse i denti, avvicinando istintivamente la mano alla bacchetta.
    «ho salvato suo fratello, mesi or sono. È poco cortese non invitarmi alla… festa d’addio.» la Hamilton non distolse mai lo sguardo dal preside di Durmstrang, ora in piedi a scivolar mellifluo fra le sedie. C’era qualcosa di poco garbato, nei suoi movimenti – di presuntuoso, in quell’incedere elegante che premeva erba sotto le suole.
    «sono molte le cose che non tollero, ed al contrario di voi inglesi, non sento il bisogno di nasconderlo dietro falsa umiltà:» continuò a far sfarfallare le dita, Heidrun Crane, creando oggetti casuali con le manipolazioni che soffocavano quella radura – tutto pur di non lasciar spazio alla telepatia, ai medium. Li tratteneva a sé con codardia, spostando nervosamente le dita fra una vecchia moneta d’argento od un piccolo elastico lucente, qualunque cosa le sue mani volessero creare. Non fu razionale, non era mai razionale, ma nel momento in cui Vasilov cominciò il suo cammino, fra le mani si ritrovò a stringere due lame sottili ed affilate, fresche contro gli avambracci nudi. Rivolse un sorriso storto alla Hamilton, le sopracciglia inarcate. «lo trovo stranamente eccitante» sussurrò, piegando il capo di lato. Rea le lanciò un’annoiata occhiata di sottecchi, prima di tornare a guardare il preside: «ci ha lasciato morire» una pausa. «e ti ha ucciso.» sottolineò, muovendo appena le labbra. Run si scrollò nelle spalle, continuando a seguire con lo sguardo l’incedere dell’uomo. «nessuno è perfetto.»
    «nate?» iniziò Erin, mentre l’uomo – lo ricordava, dalla radura- si avvicinava lentamente a loro, elencando tutto ciò che non tollerava. Una morsa fastidiosa le contorse lo stomaco, le mani a premervi come a trattenere un conato. Aleggiava una densa nube di brutte intenzioni, quasi palpabile sotto le dita, che le dava la nausea: non era il giorno adatto, quello, per una tale propaganda. Non avrebbe dovuto esserlo. La Chipmunks cercò lo sguardo di Nate, le dita a premere l’una sull’altra nella naturale ricerca di conforto e supporto. Sporgendosi dalla sedia, vide Amalie – il cuore le si strinse, ed un sospiro di sollievo quando Vasilov le passò vicino senza neanche guardarla.
    «stato di sangue?» «sconosciuto»
    Avvenne tutto rapidamente, ed al contempo con una lentezza appiccicosa ed insopportabile. William si alzò infine in piedi, la bacchetta lungo il fianco ed un’occhiata in tralice a Lancaster – la voce un sibilo, sputato fra denti e fumo: «fai qualcosa.» Heidrun continuò a fissare la mano di Rea sul proprio polso, valutando con sincera intenzione la possibilità di staccarle un dito per uno: le aveva avvolto il braccio quando Vasilov si era approcciato ad Eleanor e Jeremy, e la Crane aveva già mosso due passi in avanti, la mascella serrata; l’aveva rinforzata quando infine era giunto a CJ, il ragazzino con la mazza della festa Dallaire. Era una fottuta questione di principio, per Run. Nessuno doveva credere di potersi comportare così, e non dover subire alcuna ripercussione: «hamilton.» un ringhio. La mora si limitò a fissarla: era una mera questione di principio, per Rea. Non era il momento adatto per mettersi a fare l’eroe – avrebbe dovuto saperlo, santo cielo, quand’era morta la prima volta. «arma.» le sollecitò ancora, consapevole che non l’aveva udita: qualunque cosa stesse per accadere, preferiva non doversi ritrovare in mezzo al fuoco incrociato con solamente scudi umani sul quale basare la propria difesa – anche perché il numero di persone che poteva sacrificare, diminuiva a vista d’occhio.
    «non sai di cosa parli, bambina.» Fu in quel momento che Erin si alzò, il cuore a battere violento contro le costole e gli occhi ormai asciutti. Tupp no. Già si odiava per non aver fatto nulla, né pensato di farlo, quando Vasilov aveva ferito, verbalmente e fisicamente, alcuni ragazzi – ma Tupp? Si ritrovò in piedi prima ancora di rendersene conto, le braccia allungate di fronte a sé quasi avesse potuto spostare la bambina da lì. Rimase in quella posizione anche dopo, la Chipmunks, quando Idem iniziò il Racconto - e gli occhi di nuovo a dolere, i singhiozzi soffocati sulla lingua. Spalancò la bocca in segno di sorpresa, quando Idem lo colpì – e gli altri tre, in piedi ma ben lontani dalla zona rossa, non poterono che sorriderne.
    William Lancaster si rivelò, come sempre, inadeguato ed inutile; fu con stizza che lo guardarono, tutti e quattro, allontanarsi dopo il tentativo fallito di riportare uno stato di quiete, d’equilibrio. Rea attorcigliò le dita alla frusta, lo sguardo a cercare inevitabilmente Eugene Jackson. «la francia ha deciso: dragomir vasilov è stato giudicato colpevole.» «cristo.» con un sospiro, lasciò la presa su Run. Barrow iniziò ad avanzare nel corridoio, facendosi spazio fra chi già s’era alzato in piedi: «fuori le bacchette, me ne fotto della Traccia» l’assistente di Strategia cercò gli occhi degli studenti, mentre si apriva uno spiraglio. «proteggete, ma non attaccate. Sono stato chiaro? non fottutamente attaccate Li credeva in gamba, ma non così tanto.
    Nel dubbio preferiva non doverlo scoprire nel peggiore dei modi – e non voleva che, presi dall’eccitazione, entrassero in una Guerra che ancora, anche se per poco, non era loro.
    E allora guerra fu.

    Un Sicarius partì dalla bacchetta di Damian, e Rea iniziò a spintonare per farsi spazio verso il vice ministro, la frusta a strisciare pigra dietro di sé. «no.» piccata e senza giri di parole, senza neanche dover specificare a cosa si riferisse, mentre lanciava una rapida occhiata ad Elijah Dallaire: avrebbe potuto interpretarlo come preferiva, quel no. Un bonus. «jackson.» un’occhiata intensa, appena uno strappo mentre cercava di superarlo per raggiungere l’Icesprite: di nuovo, non aggiunse altro. Non ce n’era mai stato bisogno. Lo sapevano tutti, oramai, che qualunque cosa fosse accaduta, sarebbe stata dalla loro parte.
    Così come sapevano, tutti quanti, che in seguito avrebbe trovato il modo per farglielo rimpiangere.
    Si volse di scatto nell’udire il grido d’un uomo, le mani di lui a puntare verso il terreno; lo conosceva? Lo conosceva. Così come sapeva qual era il potere di Fox Withpotatoes, prima che la terra sotto i suoi piedi cominciasse a tremare, minacciando di farle perdere l’equilibrio.
    Dio. Santo. Quale persona sana di mente poteva pensare che aprire una falla al centro di una radura, con centinaia di persone, potesse essere una buona idea – Fox, evidentemente. La Hamilton inspirò dalle narici, grugnendo un’imprecazione fra i denti: si concentrò sul geocineta, assaporando il potere sulla punta della lingua finchè non riuscì a coglierne un limite – ed allora lo richiuse su sé stesso, rendendolo inutilizzabile ed annullando l’offensiva. Gli rivolse uno sguardo carico di contrarietà e disappunto, le labbra una linea serrata, prima di arrivare infine vicino a Damian ed Anjelika, un’occhiata d’intesa a Nathaniel – ed un avviso, sottile, a non mettersi troppo in mostra: voleva vivere, lei. «hanno ragione» un cenno con il capo al palco, dove due ragazzi sottolineavano l’ovvio: le accuse di jeanine non bastavano, non potevano bastare, per giustificare quella guerra. I presenti all’attentato sapevano ciò che avevano visto – ma Rea lo sapeva bene, che tutto era un illusione. «non abbiamo alcuna prova effettiva che sia stato Vasilov, l’artefice, né che il documento della Lafayette sia ufficiale:» inarcò con arroganza le sopracciglia verso la donna. «dovremmo contattare le ambasciate, i politici, prima di muoverci: loro sono solo presidi» un mezzo sorriso sghembo, la frusta attorcigliata al braccio.

    «sapete cosa accomuna il preside di Durmstrang, il preside di Beauxbatons, ed un sangue sconosciuto CJ Knowles? che a nessuno frega un cazzo.» Run provò un sincero moto di amore platonico, per il ragazzino dalla testa rasata ed il sorriso aguzzo – CJ Knowles: condivideva anche il cognome con Beyoncè, andiamo. Aveva amato per molto meno. Ignorò con stizza il devi morire di Fox a Vasilov, cominciando a muoversi prima che la terra potesse anche solo pensare di iniziare a tremare; ignorò, anche se alquanto seccata, l’incanto di Patrick verso il Preside: proseguì e basta, Run.
    Non sapeva neanche per dove.
    Avrebbe voluto cercare Jeremy, recuperare Al e River, incrociare gli occhi scuri di Murphy e Sin, assicurarsi che Eleanor e Thea stessero bene; avrebbe voluto abbracciare quelle creaturine di Nathan, Jess, Kieran, Erin e Scott – perché sembravano sempre più preziosi, che quel mondo neanche li meritava. Gli unici per i quali non si preoccupava affatto, erano Jade ed Uran: perché si fidava ciecamente, Run, della Beech, e sapeva che non esisteva possibilità che si trovasse in pericolo. Non quando c’era suo figlio, perlomeno. Il che la lasciava con ben tre preoccupazioni, nonché il motivo per il quale poteva vantare di essere ancora lì: Lancaster, Gemes, ed Eugene Jackson.
    Se lo sentiva nel cuore, che sarebbero morti quel giorno.
    «e come pretende lei di essere reputato innocente quando porta con sè un esercito? quanta credibilità crede di avere con delle armi mentre si lava le mani dal sangue di quelle persone? E pensavo che fosse più astuto così: è davvero una mossa così saggia combattere contro i Francesi in un momento così importante per noi Britannici» quanto amava Helianta Moonarie, Run. Sorrise spontanea, le sopracciglia corrugate mentre cercava di districarsi fra la folla. Giunse vicino a lei e le stampò un rapido bacio sulla fronte, «you go girl», prima di poter tirare un sospiro di sollievo nel ritrovarsi di fronte al palco. Run era portata all’azione, ovviamente - velenosa vendetta allo stato brado, quelle che colpiscono prima ancora di comprendere il soggetto. Sarebbe stato dannatamente da lei lanciarsi nella guerriglia, armi spianate e cuore leggero.
    Ma non quel giorno. Non ancora, perlomeno.
    Perché c’era la sua famiglia, in quella radura. C’erano ragazzini che, santo Dio, si sfidavano sulle note di High School Musical – e c’erano bambini; e c’era chi bambino non era più, ma guardava tutto con la medesima estasiata meraviglia.
    Quando Eugene Jackson la superò saltando sul palco, lo seppe, di essere fottuta. Inspirò dalle narici, rimanendo immobile con le braccia lungo i fianchi. Quello sarebbe stato il momento di scambiare una simbolica occhiata con Gemes, un rapido segno della croce ed una benedizione che non sarebbe mai giunta – ed invece Run non fece nulla, gli occhi incollati sul Pavor.
    «Lardina, se mi senti, sappi che sono incazzato nero.. non dovevamo morire nello stesso momento?»
    «fottiti, quattrocchi.» non ora, ti prego non ora. Drizzò la schiena, gli occhi offuscati da una patina umida e salata. Non si girò verso Delilah, Run; non fece nulla per fermare Eugene, Run.
    Rimase solo lì, centro di una gravità al contrario.
    E si ritrovò sul palco, senza sapere come. Perché. E si ritrovò a stringere il viso di Idem fra le mani, gli occhi verdi a cercare le sfumature più chiare nelle iridi azzurre della donna. «april mi ha insegnato a fare i selfie» le sorrise. «nathan mi ha elencato tutte le marche di tutte le merendine» sollevò gli occhi al cielo, sospirando, la voce appena un sussurro – solo per lei. Li aveva conosciuti in un periodo assai particolare, tutti e quattro: April era stata sua vittima, prima di diventare sua amica; Nathan? Compagno di capanno. Neil e Delilah? Dentro celle nel quale Heidrun faceva passare sorrisi e merce di contrabbando. «non se lo meritano. sistemeremo tutto» bisbigliò, posando un bacio sui capelli corvini di lei. Ed allora guardò Donnie, Tupperware. Tupp. Ricordava quando, una vita prima, l’aveva raccolta nei Laboratori, stringendo a sé quegli occhi troppo grandi, per appartenere ad una bambina. Rimembrava di averla lasciata a Delilah e Neil, prima che uscissero dal Laboratorio.
    Prima di sapere, Run, che erano parte della famiglia.
    Il cuore sulla lingua, le mani strette a pugno. Bruciava di quella rabbia, Run, che annebbiava i pensieri e la mente, spingendo alla cieca nel ricercar quiete nella violenza. Fremeva dalla voglia di colpire qualcuno, di sentire la carne cozzare contro le ossa, e spillare sangue con il quale bagnare l’umida terra della radura.
    Invece strinse Donald, Donald Armstrong. «donnie, devi portare via tupp.» la voce a perdersi sulla chioma corvina, le mani di lui ad appoggiarsi decise ma delicate sulle sue braccia.
    «no» serio, Donnie. Incredibilmente presente, con quegli occhi distanti ma la voce ferma. Run lanciò un’occhiata a Jade. «bisogna portare via loro: tupp ha tutto il diritto, di essere qui.»
    Non condivideva il pensiero, Heidrun – ma non sapeva neanche come dargli torto. Si inumidì le labbra, lo sguardo ad ammorbidirsi.
    Quando si volse verso il pubblico, avevano già cominciato ad attaccarsi. Wow - cit.
    Senza guardare nessuno, raggiunse il microfono.
    «sentite,» stronzetti. Ma si mangiò l’imprecazione fra i denti, ricordandosi che v’erano anche fanciulli ancora innocenti. Nella sua testa v’era un discorso ben strutturato, con tanto di pro e contro l’iniziare una guerra proprio quel giorno, e proprio in quel luogo. Quelli sentiti, quelli che convincevano le masse che malgrado il pane non fosse abbastanza, avrebbero potuto mangiare brioche.
    Ma era pur sempre una Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.
    «avete presente il vecchio detto se li ignorate, smettono? ecco.» Reclinò il capo di lato, indietreggiando fino a trovarsi al fianco di Amalie e Cora. Rivolse loro un pigro sorriso, prima di tornare a guardare di fronte a sé – nessuno, ed un po’ tutti. «sono lieta di presentarvi un nuovissimo gioco – il copyright, grz. Si chiama la suco con una versione headcanon: io vi dico un fatto, e voi mi direte a chi…» appartiene. Apparteneva. Deglutì, sforzandosi di mandar giù la saliva. «spetta.» Si schiarì la voce, umettandosi ancora le labbra. «mi rimandava indietro le cartoline del buongiorno correggendo “la mia grammatica”, ossia le mie licenze poetiche incomprese: chi?»
    E sorrise, Run, pur non facendolo mai.

    «Dobbiamo capire da dove viene, perché se non è di Vasilov o di uno dei suoi adepti possiamo provare a fermare questo scontro» Avrebbe voluto ascoltarla, Erin. Avrebbe voluto mostrarsi ammirata per quell’atto illecito ma coraggioso, per quell’idea brillante che avrebbe, effettivamente, potuto mettere il punto a quello scontro – ma non riusciva neanche a guardare a Jess, la Chipmunks. Teneva gli occhi verdi sul palco, dove Tupp si trovava circondata da una decina di persone – e sugli incanti che rimbalzavano poco distante, troppo rumorosi a confronto con le taciturne bare a fianco. Teneva il cuore sulla lingua, Erin, le gambe ad esigere di muoversi senza una meta precisa – un obiettivo funzionale.
    Si asciugò rapida le guance, ivi poggiando le mani mentre cercava di ricordarsi come respirare senza iperventilare. «la chiaroveggenza…?» una risposta distratta ad una domanda che quella distrazione, non la meritava. Un singhiozzo, il battito folle contro le costole.
    E qualcosa che mai, avrebbe pensato di fare. «scusate.» perchè non aveva motive, lei, di allontanarsi da loro, senza di loro - eppure aveva bisogno di fare qualcosa.
    Di stupido, di avventato.
    «aiutami» si avvicinò ad Alec, la voce acuta rotta da un singhiozzo e gli occhi umidi di lacrime non versate, le dita sottili strette al suo braccio. «non lasciare che facciano così» supplicò in un soffio, sentendosi piccola ed impotente. Non aveva neanche una bacchetta, Erin – non aveva nulla, se non sé stessa.
    Inspirò. Deglutì. Serrò le palpebre.
    Aveva paura, Erin. Non di quello che s’accingeva a fare, ma di quella guerra: basta, sangue. Basta, feriti. Almeno per un giorno. «basta, per favore.» pregò allora afferrando delicatamente il braccio di Connor per cercare di abbassarlo, la lingua a pungerle fra i denti. «mi dispiace, ma per favore» implorò in un soffio, volgendo lo sguardo su Eugene Jackson. Sapeva che aveva perso sua sorella; sapeva che era arrabbiato, e triste, e disperato.
    Erin non lo conosceva, ma aveva conosciuto Delilah. Era stata gentile, con lei – le accarezzava sempre i capelli, dandole teneri buffetti sulla guancia; le chiedeva come stesse il suo pesce, e rideva della risposta entusiasta di Erin; le diceva che le ricordava qualcuno, prima di stamparle un bacio sulla fronte, esigendo la promessa che non l’avrebbe detto a nessuno perché aveva una reputazione da mantenere. Si aggrappò al braccio del Pavor e continuò a stringerlo, asciugandosi una guancia con la mano libera. «basta.»

    William strinse la sigaretta fra i denti, bacchetta già alla mano. Sentiva ancora sulla lingua il sapore d’alcool e nicotina, quando spingendo e strattonando giunse al suo obiettivo – che se ne sbatteva il cazzo, lui, di Vasilov e la Lafayette. Perché aveva un conto aperto da sempre, Will, con lui - da anni in cui gli aveva tolto tutto, da anni in cui l’aveva cancellato.
    Odiava Lancaster, Will. E non si fidava un cazzo.
    Non faceva mai nulla per nulla, e se si trovava a quel funerale, doveva essere per un fottuto motivo ben preciso. Non aveva bisogno di domandarglielo, per saperlo; in verità, in quel momento, neanche gli importava. Era altro che voleva, che esigeva, da quel vecchio bastardo del preside di Salem.
    Lanciò la sigaretta nel falò acceso dal Tassorosso, trovandosi ormai ad un passo dalla guerriglia – che superò senza neanche guardarli, ignorando qualunque incantesimo.
    «subdolo figlio di puttana,» inveì, giungendo di fronte a Lancaster. Strinse la mano attorno al colletto della sua camicia, tirando il volto baffuto dell’uomo a sé – la bacchetta ben piantata contro il collo, a pungolare la carne. «renditi utile, equilibrio di sto cazzo. Fai fottutamente qualcosa, o cristo se ti uccido.» sputò come fiele sul viso del suo omonimo.
    Sorrise perfino, Will.
    Sapevano entrambi, che non si trattava di un bluff. Si raccoglieva quel che si seminava.

    Heidrun lanciò un’occhiata di sottecchi a CJ, le sopracciglia corrugate. Si avvicinò di un passo, il capo piegato lateralmente e la mano ad allungarsi verso il volto del ragazzino, ma senza mai raggiungerlo. «la tua…» lasciò la frase in sospeso. CJ Knowles si portò due dita al viso, percorrendo l’incisione di Vasilov.
    Quella che non avrebbe più dovuto esserci.
    Chiuse il proprio sangue nel pugno, il capo chino. «sì, lo so» Sorrise, il Tassorosso.
    Sorrise come chi non avesse un cazzo per cui sorridere.
    «sta sanguinando.»
    Sorrise, perché non avrebbe dovuto.
    | ms.


    Allora:
    Rea annulla il terremoto di fox; propone a Damian di contattare le Ambasciate estere, dato che i presidi, skste ma chi siete

    Will dice ai ragazzini di difendersi ma non attaccare. minaccia Lancaster obbligandolo a fare qualcosa

    Run gioca a la suco con una morti vrs.

    Erin chiede soccorso ad alec e si aggrappa ad euge e connor come un bradipo

    E già che ci sono vi faccio un riassunto, dato che me lo sono fatta per me ihih, di quel che succede - se ho ciccato qualcosa, fatemelo sapere #wat
    - Byron cura CJ, commenta sotto voce Vasilov
    - Damian chiama l'esercito, ed a lui si aggiunge preparata alla guerra (wat) la consorte Anjelika
    - Ekate si prepara in caso di azione #wat
    - Nathaniel si avvicina a Damian cercando con il Drago una situazione pacifica
    - Amalie sale sul palco, offrendosi come aiuto per qualunque cosa
    - CJ sale sul palco, fa un discorso per cercare di riportare l'attenzione sui morti, e dice che non è la guerra della gran bretagna (e da fuoco al guanto di vasilov xk è 1 ribll)
    - Fox attacca Vasilov con un terremoto, cercando di aprire una crepa nel terreno sotto di lui
    - Patrick scaglia un Incendio a Vasilov - lo protegge Nathaniel
    - Syria si prepara in caso di azione #wat
    - Cora sale sul palco
    - Joey sale sul palco accompagnando CJ
    - Pearl sale sul palco e mostra un pezzo di tessuto che ha trovato sul luogo dell'attentato
    - Helianta protegge Vasilov e fa un discorso sull'evitare spargimenti di sangue
    - Nathan si prepara in caso di azione #wat
    - BJ niente (?)
    - Aidan si prepara a proteggere i fanciulli
    - (anje come già detto si avvicina a damian)
    - Euge sale sul palco, fa discorsetto per i morti, e attacca la ggente di Vasilov
    - Maple niente (?)
    - Amelia, sotto imperius del suo body guard, protegge Vasilov
    - Alec insulta un po' Vasilov & co e sottolinea nuovamente di evitare spargimenti di sangue - kind of
    - Jess salta sul palco recuperando il pezzo di stoffa di Pearl, lo moltiplica di nascosto (?) e lo riporta alla case base (quale)
    - Connor si aggiunge ad Euge ed attacca i galoppini di Vasilov
    - Arci sale sul palco ed accompagna Noah, dicendo che maybe sarebbe meglio assicurarsi che sia stato il Drago
    - Jade sale sul palco
    - Noah sale sul palco cambiando aspetto per mostrare che Vasilov potrebbe essere stato incastrato, e difende Vasilov
    - Rea annulla l'attacco di Fox, e approccia Damian ed Anje invitandoli a contattare le ambasciate estere
    - Run sale sul palco, e la suca con una #wat
    - William avvisa i bimbi di stare all'erta, e galoppa verso Lancaster per minacciarlo
    - Erin si attacca ad Euge e Connor e li implora di smettere #kamikaze
     
    .
  9. call me lancaster!
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    Draw a monster. Why is it a monster? || 03.07.17 - 19:30
    «non vorrete cert-» «la francia ha deciso: dragomir vasilov è stato giudicato colpevole.»
    William Lancaster aspirò l’aria fra i denti, indietreggiando d’un passo.«-ee come non detto.» ma perché i bambini troppo cresciuti capitavano sempre a lui? Gli sembrava di essere tornato a qualche mese prima, quando aveva dissuaso il Presidente degli USA Donald Trump dal premere i bottoni di cui solo lui era in possesso – e qualcuno gli aveva forse dato il merito di aver evitato la Terza Guerra Mondiale? No signori. Sospirò afflitto, le palpebre a calare su un paio d’occhi scuri e stanchi, ed un altro passo verso gli scalini del palco: non voleva trovarsi fra Jeanine e Dragomir, quando avessero iniziato a pomiciare duro.
    O forse sì?
    Lancaster sapeva che non si trattava d’altro che di una dimostrazione, quella: i due presidi si testavano a vicenda dall’inizio dei tempi, spingendosi in territorio nemico solamente per poterne delimitare contorni più definiti. Non erano altro che cartografi politici, il Drago e la Regina – ma non ci teneva particolarmente a correre il rischio di finire al centro del fuoco incrociato, in caso avessero realmente avuto intenzione di iniziare una guerra lì, in territorio straniero. Infilò in bocca un altro pasticcino, masticato lentamente e con intenzione mentre la sexual tension fra i due si faceva palpabile di respiro in respiro. Ghiaccio nel fuoco.
    Non ditelo in giro, aveva una reputazione da mantenere, ma era un membro segreto ma assai proficuo dello shipper club, nonché un lettore accanito di numerose fanfiction – talune, le aveva scritte di suo pugno.
    Si annoiava facilmente, a Salem. Skstelo se non si interessava di complotti illuministici od ordigni esplosivi come i suoi colleghi oltreoceano.
    Certamente non s’era aspettato lo scenario che si dispiegò di lì a breve, intreccio fine e delicato di strategia e milizia – perché in Inghilterra dovevano sempre scavarsi la folla da soli? Lo vide in ogni movimento, che la situazione andava peggiorando.
    Smise perfino di sorridere, William Lancaster, ora improvvisamente serio ad osservare lo spettacolo di fronte a sé: perfino lui non riuscì a celare la terribile sensazione che andava spandendosi nello stomaco, rendendo acido lo zucchero in corso di digestione. Non aveva creduto avrebbero fatto sul serio, Lancaster.
    Si era sbagliato.
    Osservò il Sicarius del Vice Ministro allontanarsi rapido dall’uomo; strinse i denti, la bacchetta in pugno. Era favorevole al libero arbitrio, ad eguali diritti a ciascuna fazione e nazionalità: avrebbe voluto fermare l’incanto prima che giungesse a destinazione, evitando così un conflitto ormai certo.
    Ma era suo compito mantenere l’Equilibrio. Non poteva mettersi in gioco, William Lancaster, a meno che non avesse bisogno d’oro con il quale appesantire il proprio piatto della bilancia. Lanciò un’occhiata all’orologio, tornò a posare lo sguardo di fronte a sé.
    «Politica estera! Non facciamo sciocchezze avventate. Sono sicuro che il signor Vasilov sarà disponibile a usare la diplomazia per discolparsi. Magari al ministero, senza tutta questa gente poco interessata ai vostri battibecchi. Senza tutti questi bambini. Mi sbaglio?» Il pirata! Lo ricordava, Lancaster – come avrebbe potuto dimenticarlo? Era legato a lui, ormai, da quando aveva riportato in vita il biondino slavato e dall’aria malaticcia (beh, quando l’aveva incontrato la prima volta, Elijah Dallaire era morto: possiamo forse far causa a Lancaster, se lo rimembrava solamente come un Biondo dalla Brutta Cera?). Aprì le mani entusiasta, William, sorridendo estasiato a Dragomir nel sottolineare le ragioni di Nathaniel Henderson: si sbagliava? Vasilov sorrise, pur senza distogliere lo sguardo da Jeanine. Sentiva lo sguardo dell’Henderson prudergli la nuca, eppure non lo guardò neanche quando, infine, gli rispose: «e lo domandi a me lo diceva il tono, quanto quell’inteso l’avesse maggiormente infervorito. L’accusa, schiaffata da un’austera Jeanine, che ancora grondava dalla bocca dei vari ospiti. «prima le signore.» un vago cenno con il capo alla francese, le labbra sui denti in un ringhio raffinato e crudele.
    Che permalosi, gli uomini del Nord; passavano intere stagioni a dirti che l’inverno stava arrivando, e poi mettevano il broncio se sottolineavi che meh, a te sembrava ancora bella stagione. Come poteva aspettarsi, Draghetto privo di Dispetto, che qualcuno potesse credergli?
    Cucciolo d’uomo incompreso. O forse compreso.
    Lancaster non ne sapeva molto più di loro, riguardo l’attentato.
    Lui presenziava solamente per il cibo.
    E perché non c’era loco nel quale Lancaster non fosse presente, quando gli astri minacciavano di plasmare la storia; e perché era suo compito, assicurarsi del nuovo assetto.
    E perché i terroristi, non piacevano a nessuno.

    «sapete cosa accomuna il preside di Durmstrang, il preside di Beauxbatons, ed un sangue sconosciuto CJ Knowles? che a nessuno frega un cazzo.» Lancaster balzò lateralmente, quando il guanto d’urina andò a fuoco. Si sistemò con garbo la cravatta cremisi, cercando di ricostruirsi quel poco di contegno che andava bruciando di secondo in secondo. Sorrise e fece un vago cenno con la mano nell’aria di fronte a sé, un pollice alzato in direzione di CJ Knowles: «buuurn commentò verso il Drago come un vero Ultras al Derby di Torino, le mani a coppa attorno alla bocca.
    Vasilov lo ignorò, ma in compenso volse il capo verso il ragazzino. Lancaster fu presumibilmente l’unico a notare il rapido sfarfallio delle labbra di Dragomir, parole incomprensibili a macchiarsi di reati ancora sconosciuti – ed il sorriso che ironico gli sporcò lo sguardo di neve, ora di nuovo verso la Francia.
    Più di un attacco volò nella direzione del preside dell’Istituto di Durmstrang, mentre Lancaster tendeva a farsi il più invisibile possibile sullo sfondo di quella competizione a chi urinava più lontano. Trovava davvero di cattivo gusto quell’accanirsi sul russo – dai, tutti credevano fosse russo- nel bel mezzo di un funerale.
    Ma anche in generale, a dire il vero: Jeanine l’aveva accusato molteplici volte di molestie sessuali, ma sia lui che la francese sapevano che di molestie, com’ella le chiamava, non s’era trattato.
    Mai fidarsi delle donne potenti: dovevano prendere a calci così tanti pregiudizi per giungere dove si trovavano, che nel cammino perdevano pezzi d’umanità e compassione. Diffidare sempre, poi, se si trattava di bionde - si tingevano per ingannare gli ingenui, era risaputo.
    Il Drago avanzò d’un passo verso la Lafayette. «li senti, jean? sei soddisfatta, ora?» commentò, sorridendo sornione, premendo il bastone nel terriccio. Non si scompose quando gli attacchi tentarono di raggiungerlo – forse consapevole che qualcuno se ne sarebbe occupato, forse consapevole di avere un piano di riserva. Sorrideva con la cattiveria maliziata di chi condivideva un segreto con il Diavolo – o che il Diavolo, lo era. Lancaster cercò di attirare l’attenzione di Fox, la mano alla gola ad indicargli di smetterla: non è il momento, figliolo. I terremoti si tengono per quando a scuola c’è una verifica per la quale non siamo preparati! Eddai: le basi proprio, eh.
    Giovani, li odio tutti. - cit.
    «ha ragione. Non ci importa in questo momento, non importa chi lo ha fatto adesso. Perchè a distruggerci non sono coltelli o incantesimi, è il dolore dell'avere quelle quattro bare davanti a noi. Rispetto: ecco quello che esigo. Quello che tutti esigiamo! Una briciola di compassione verso di noi, che ci siamo trovati nel fuoco incrociato, bloccati in un conflitto che non è nostro ma che sta avvenendo a casa nostra» Fu felice, Lancaster, di aver salvato la vita di quella giovane donna. Le sorrise con l’orgoglio che un padre avrebbe riservato alla propria figlia, o un gallerista alla propria opera d’arte meglio riuscita: le sorrise perché aveva colto il punto, Helianta.
    Spostò quello stesso sorriso sulla Lafayette, sperando di trovare nella Francia, devastata dalle numerose perdite, occhiate eloquenti e solidali: Jeanine si irrigidì, fece guizzare gli occhi chiari sulla cronocineta, ed impugnò con più decisione la bacchetta. «rispetto…» ripetè sottovoce, probabilmente solo per sé stessa.
    «e come pretende lei di essere reputato innocente quando porta con sè un esercito?»
    Superando le più rosee aspettative di Lancaster, Vasilov si volse fulmineo vers-oh. Non guardò Helianta Moonarie, come William s’era aspettato: puntò gli occhi morti, vuoti e gelidi, proprio su di lui – eppure fu alla babbana, che rispose. «non mi aspetto che un’Illecita comprenda,» inarcò le sopracciglia, ruotando il bastone verso il petto del preside di Salem. «ma lei fra tutti, signorina, dovrebbe sapere che chiunque, qui, può vantare un esercito: scandinavi» indicò i propri collaboratori. «francesi» il naso arricciato, un cenno alla Lafayette. «inglesi» un sopracciglio verso l’alto, il braccio ad aprirsi per indicare le sedie bianche degli ospiti.
    Un passo verso Lancaster, ma gli occhi ora fissi su Helianta. Colei che era morta.
    La nuova pedina di William. «americani concluse in un soffio, sbuffo caldo d’un vulcano, mentre un sorriso crudele spaccava la linea dura delle turgide labbra rosee.
    «cosa significa?» Entrambi i presidi guardarono Lancaster.
    Lui sorrise, calcolatore e superficiale come ogni bravo americano che si rispettasse: «che tutti vogliono salvare i cheesburger.» la voce d’un tono più basso, Drago e Regina e distogliere lo sguardo.
    Che sembrava il più inutile, lì dentro – ma sapevano entrambi, che Lancaster avrebbe potuto spodestarli con un distratto schioccare di dita, se solo l’avesse voluto.
    E che avevano bisogno, di lui.
    Lui, di loro, non se ne faceva nulla.
    «pensa di avere abbastanza forze da poter affrontare Francia e Inghilterra insieme?»
    Dragomir rise piano.
    Jeanine si irrigidì.
    William retrocedette d’un passo, salendo sul primo gradino verso il Palco.
    «sa come si diventa bravi uomini d’affari, Babbana?» Ovviamente no.
    Fu in quel momento, che iniziò il declino – con il sorriso del Drago a fare d’alba all’ultimo dei giorni.
    L’esercito Inglese giunse: cappe scure presero posto dietro la folla, in attesa che Icesprite dicesse loro come muoversi.
    Dragomir indietreggiò d’un passo, e di un altro ancora.
    Si stava… arrendendo? Un brivido percorse la pelle del preside di Salem, il quale rapido lo affogò in un ampio e frivolo sorriso. «subdolo figlio di puttana,» Oh, per Merlino. Alzò le mani in segno di resa verso Willy, suo vecchio amico – non poteva ancora essere offeso per il Fattaccio di qualche anno prima, no?- e lasciò che le dita di lui si stringessero attorno al suo colletto. Gli rivolse perfino un cordiale cenno di saluto, con il volto del Barrow ad un palmo dal proprio.
    Ecco, di cosa aveva bisogno Lancaster in quel momento: un bello scudo umano. Poteva tenerlo in quella posizione quanto preferiva, finchè lo teneva distante da Vasilov – non gli piaceva, quando sorrideva così.
    «renditi utile, equilibrio di sto cazzo. Fai fottutamente qualcosa, o cristo se ti uccido.» Lo trovava così improbabile, che neanche lo guardò.
    Era attirato da altro, Lancaster.
    Ora serio.
    Ora schiena dritta.
    Guardò il suo omonimo inglese, i tratti del viso ad esprimere l’autorevolezza che, anni prima, gli aveva permesso di occupare, e con onore, l’importante carica della Presidenza di Salem: non era un vecchio annoiato che guardava cantieri su GMaps, William Lancaster. Il fatto che tendessero a dimenticarlo, andava quasi sempre a suo vantaggio. «non è il momento.» non ebbe bisogno neanche della bacchetta, per allontanare da sé il ribelle.
    Perché Dragomir Vasilov rise, attirando su di sé l’attenzione di tutti. Rise, una mano a coprire pudica la bocca, l’altra a posarsi affabile sul cuore.
    Un colpo di tosse umido dal palco.
    «con un piano di riserva.»
    Il Drago sorrise ad Helianta, sorrise al suo pubblico.
    Sorrise al denso colpo di tosse, ed al primo grido soffocato che giunse dal palco. Sorrise del sangue a sporcare il legno della piattaforma sopraelevata. «sapevo che non mi avreste creduto, e vi sareste schierati contro di me» Vasilov si strinse nelle spalle, palpebre pesanti su occhi vacui come quelli d’un animale, scaltri ed alieni. «mi sono… come si suol dire? portato avanti Guardò le braci del proprio guanto.
    Solo al tonfo si volse verso il palco, lo sguardo assente a posarsi privo d’interesse sul ragazzo a tossire sangue al suolo. «a meno che jean non smentisca le accuse poste dalla sua nazione, lui morirà.» un passo in avanti, le braccia aperte con falsa modestia.
    «allora ripetimi, jeanine lafayette: come mi giudica, la Francia?»
    Silenzio.
    Lancaster salì rapido sul palco, le mani a palmo aperto davanti a Beyoncè Jr: «non toccatelo» ammonì, stranamente professionale, mentre chino su CJ ne studiava i sintomi con occhio critico: tosse, sangue, ferita che non si rimarginava.
    Beh, sapeva quale fosse la diagnosi. «sta morendo.» osservò, acuto come l’angolo di un triangolo.
    Sotto al palco, Jeanine strinse i denti.
    Strinse i pugni.
    Strinse il cuore.
    Mi dispiace.
    «colpevole.» confermò dura, senza guardare chiunque fosse caduto vittima di quel gioco: non poteva permettersi distrazioni, la matrona della Ribellione.
    I danni collaterali esistevano ovunque.
    «avete sentito la signora ancora un passo indietro, ancora il bastone a seguirne i piedi. «schieratevi con me, e vi darò la cura» una smorfia sorniona e vittoriosa, a scontrarsi con il vibrar fisico della Lafayette.
    «e dato che m’avete molto offeso, sappiate che non vi concedo altro tempo. anzi,» guardò Damian Icesprite, la maggior autorità britannica presente all’evento.
    «apre ufficialmente il conto alla rovescia.»
    Oh, melanzana in salamoia. Lancaster si posò una mano sulla fronte, le palpebre serrate. «non è contagiosa. credo. toccatelo pure?» Si alzò in piedi, misurando il palco a grandi passi. Si bloccò improvvisamente nei pressi della bambina, un ragazzo ancora aggrappato a lei quasi fosse stata la sua ancora: «ah, e dichiaro taaaaapp sotto la mia personale protezione.» le accarezzò brevemente la testa, sorridendo ai presenti.
    Amava i bambini, William Lancaster.
    Ed era una mossa meschina, di pura strategia: nessuno avrebbe osato recar danno al preside di Salem, se sotto la sua ala s’era rannicchiata la Bambina Sopravvissuta – e nessuno dei Presidi presenti, avrebbe mai potuto torcere un capello a William Lancaster.
    Che borioso, adorabile, stronzetto.
    Si voleva così bene!
    Si portò i pugni ai fianchi, orgoglioso di sé stesso. Okay, un ragazzino stava morendo, ma quando non capitava? Morivano tutti i giorni, i giovani – e quella sembrava decisamente una svolta positiva, per portare una giornata di quiete: gli inglesi si sarebbero schierati con Vasy, la Francia avrebbe finito per arrendersi e telare, e tutti felici e cont- «ah, quasi dimenticavo Vasilov alzò una mano, rapidi cenni con il braccio intorno a sé: «questo è colpa vostra,» indicò due ragazzine sul palco, Cora ed Amalie: due scandinavi puntarono le bacchette contro di loro, scagliando un Vociferans ad ambedue. Sorrise a Fox e Patrick. «questo è colpa vostra» due soldati di Vasilov puntarono la bacchetta sulla folla, la punta a rivolgere l’incanto a due giovani, Alec e Jess; mentre due Tendi volavano verso i due, Dragomir Vasilov sorrise ad Eugene e Connor. «e questo alzò il bastone verso il palco.
    Guardò Lancaster. Sorrise. «è perchè posso.» un fluido movimento del polso, ed un Soffuco scagliato con veemenza su Heidrun.
    «tic, tac
    | ms.


    Allora.
    Avete 48 ore di tempo per difendervi - o per farvi difendere. Ovviamente non ci sono PA/PD PS, quindi l'entità del danno verrà giudicata dal Fato solamente nel momento in cui nessuno posti alcuna difesa, e quindi l'attacco vada effettivamente a segno.
    Poi.
    Ihih.
    Non vi spoilero cosa accade, perchè so che alcuni non resisteranno e leggeranno immediatamente lo spoiler, quindi vi dico solamente che:
    ogni due giorni estrarrò qualcun altro. Il Fato interverrà quando opportuno a dichiarare quando il vostro tempo, quello offertovi da Vasilov, è scaduto:
    il prima possibile, dovrete dargli ciò che vuole.
    O trovare voi una cura. è possibile?
    Forse.
    Provarci non costa niente.

    // giggles, li avete scelti voi.
    /// ohoh non faccio altri spoiler alert, ma: state pronti ad ogni evenienza. ed ingegnatevi - di mente e di cuore, s'intende. VOGLIO LAVORO DI SQUADRA.
     
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  10. silvercain
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    travis cain| 1992's | healer
    Gévaudan Cash
    I cannot remember exactly when your soul whispered to mine, but I know
    you woke it. And it has never slept since.
    i live through wars || 03.07.17 - 18:00
    Inizialmente non si rese conto di quel brivido che, insistente, gli percorreva la schiena. Preferì dare la colpa alle crude immagini che scorrevano sotto il suo sguardo. L’espressione seria e concentrata era fissa sulla ferita dell’uomo appena arrivato al San Mungo, e Cain Cash, con precisione maniacale, ricuciva la sua pelle come avrebbe fatto un perfetto tessitore. Una ferita profonda, inferta da una maledizione e per la quale il dittamo non era sufficiente. A volte nemmeno la magia poteva tanto. Mia moglie! Quella stronza! Mai dare le spalle ad una donna! Si lamentava l’uomo, e Cain doveva stare a sentirlo, purtroppo, doveva necessariamente farsi i fatti altrui il più delle volte. Guardi, se si tranquillizza un po’ è meglio.
    Della serie, o ti tranquillizzi da solo o ci penso io.
    Era necessario che stesse fermo, immobile, per un lavoro perfetto. Concluso il lavoro, l’uomo disteso sul lettino lo aveva guardato con sguardo supplichevole. Dottor Cash, non resterà nessun segno, vero?! Ho un’immagine da mantenere!
    Certo che no, può stare tranquillo. Continuerà senza dubbio a far...alterare...sua moglie. E lo guardò con sguardo d’intesa, al quale l’uomo rispose con un sorrisetto divertito. A buon intenditor poche parole. Deve spalmare questo unguento due volte al giorno per una settimana e ci rivediamo qui la settimana prossima. Salutò l’uomo, esultando finalmente per il silenzio che si diffuse nella stanza non appena rimase da solo. Ma qualcosa non andava bene dentro di sé, lo percepiva.
    Fu a fine di quell’operazione, resosi conto che i brividi lungo la schiena non erano passati, e che anzi lo avevano costretto a sedersi, che capì che qualcosa non andava.
    Poco a poco, poi, quei brividi si erano trasformati in dolore fitto, bruciante, all’altezza del cuore. Portò una mano sulla divisa verde acido, temendo il peggio. Prese un profondo respiro ma il dolore non passava. Capì subito che Alec era in pericolo, gli stava succedendo qualcosa.
    Un piccolo regalo, quello, che gli era stato fatto mesi prima sul campo di battaglia nel quale non avrebbe voluto trovarsi, ma sul quale Silver ce lo aveva portato, coinvolgendolo in quella storia, legandolo ad Alec ed Alaric in una sorta di incantesimo incatenante che gli consentiva di percepire lo stato d’animo dei due ragazzi, sempre e comunque e di capire se si trovassero in pericolo di vita.
    Guardò l’orario sul suo orologio da polso, capendo che Alec in quel momento si trovava nel mezzo del funerale dei ragazzi morti in Francia. Cosa stava succedendo mentre lui era lì? Non attese di scoprire di più, ma semplicemente si smaterializzò, focalizzando come punto di arrivo la radura nella quale sapeva si sarebbe tenuto il funerale.
    Subito, come era successo in precedenza senza che lo volesse,si trovò in mezzo ad una bufera. In nessun funerale la gente avrebbe dovuto correre da una parte all’altra, in genere, si rimaneva fermi, con lo sguardo sulla tomba di coloro che erano morti e che venivano celebrati, con sguardo contrito. Ciò che Cain vide, furono sguardi atterriti, persone che con le bacchette in mano tentavano di difendersi da un gruppo di soldati posti in fondo alla radura. Con un colpo di bacchetta cambiò abito, dalla divisa verde acido – colore sgargiante che certo non si addiceva ad una battaglia e che lo avrebbe messo in risalto rispetto ad altre figure – ad un colore neutro, jeans e maglietta blu scura. Aguzzò la vista per riconoscere Alec, riconoscere sè stesso tra tutti. E lo vide, poco distante dalla sua posizione. Corse verso di lui, schivando alcuni tra i partecipanti impazziti nella folla e raggiunse il fratello ponendosi al suo fianco. Posso sapere perché cerchi sempre di ucciderti? Anzi, ucciderci, era il termine esatto. Certo, era in questi termini che la metteva Cain, per lui Alexander era un esperto tentatore suicida. Non sapeva che Alec fosse un ribelle, ed anche se forse, avrebbe potuto sospettarlo, preferiva non sapere. Se mi licenzieranno, verrò a vivere a scrocco a casa tua per sempre. Tanto cucinava anche bene. Le bacchette puntate verso Alec pronte a scagliare quella che apparve come un incanto oscuro. La velocità di reazione non fu il massimo, fu quasi impossibile percepire quel fulmine rosso, simile ad uno stupeficium per il quale però, il Protego messo in atto da entrambi non funzionò. Alec, colpito dal fascio rosso sotto gli occhi di Cain, avrebbe iniziato a gonfiarsi lentamente. Cain lo avrebbe visto, si sarebbe accasciato al suo fianco osservando il progredire di quella maledizione. E Alec doveva solo ringraziare che Cain fosse legato a lui, e soprattutto che, di mestiere, fosse un porcoddiodiGuaritore che ne aveva viste davvero di ogni, lì al San Mungo. Da un attenta osservazione, avrebbe riconosciuto precocemente la maledizione, prima che questa portasse il corpo di Alec a crescere a dismisura. Si concentrò sul corpo di suo fratello, il suo corpo ed immaginò di fermare la crescita dei suoi muscoli - perché era quello che stava avvenendo, era probabile che fosse stato scagliato un incantesimo di estensione su di lui. Si concentrò spostando la bacchetta dal volto, fino poi alle gambe e pronunciando la formula Reductionem. Il fascio di luce bianca avvolse il corpo di Alec facendolo tornare delle normali dimensioni. Lo aiutò a tirarsi su e rimase al suo fianco, pronto a rispondere ad altri attacchi, anche diretti a lui, perché sì, adesso anche lui era invischiato in quella faccenda, anche perchè se fosse successo qualcosa di brutto ad Alec, sarebbe successo qualcosa di brutto anche a lui. Ti odio, Alexander, lo sai questo? Non era vero, ma dettagli.
    | ms.


    Difende Alec
     
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  11. t r o u v a i l l e
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    Eugéne Delacroix Ryder Gene Campbell
    « take the risk or lose the chance »
    Hufflepuff ✕ 16 Y.O. ✕Rebel ✕ GUARDIAN ✕ 2043
    L'odore di tabacco gli pizzicò le narici quando le grigie volute di fumo della sigaretta si scontrarono, sospinte da una ventata più vivace verso l'interno della stanza, contro il suo viso.
    Per tutta la sua esistenza Gene Campbell non aveva mai davvero avuto il controllo e quelle stecche di tabacco compresso erano, nel loro piccolo, la sua ribellione a quel sistema. Un sorriso sbieco gli increspò le labbra, chiunque sentendo un simile vaneggiamento gli avrebbe riso in faccia: “Che idea stupida”, e probabilmente lo era, non sarebbe certamente stata una sigaretta -o cento- a cambiare le cose.
    Gene era un realista, si era arreso all'evidenza fin tanto da sapere -più di chiunque altro- ciò che andava fatto, ma c'era una piccola e insolente parte di lui reticente al farsi sedare sotto simili consapevolezze.
    Ed era essa a spingerlo per cercare quella piccola rivincita, seppur insignificante, contro ciò a cui non si sarebbe mai potuto ribellare.
    Un rumore di passi nel corridoio, Gene si voltò, tossendo dalla sorpresa, e si affrettò a gettare il mozzicone dalla finestra. Ed era troppo tardi quando si accorse del fumo che aleggiava denso sopra alla sua testa, provò goffamente a spandere e a spingerlo -inutilmente- fuori.
    Quando la porta si aprì, il giovane Tassorosso era ancora lì, a dimenare le mani per aria come un pazzo, ma questo non gli impedì di ignorare totalmente che fosse stato colto in fragrante: si raddrizzò, raccogliendo le braccia al petto ed appoggiandosi alla finestra socchiusa con l'espressione indifferente. E Dio se gli riusciva bene, aveva una gran faccia di bronzo alle volte, per non dir peggio.
    Alzò un sopracciglio, schiarendosi la voce come se quest'ultima accortezza potesse effettivamente aiutarlo a nascondere il palese odore di fumo, e guardò in direzione di Phobos con una tale faccia da schiaffi, che se possibile, se le sarebbe date da solo « sì? »
    Sapeva che il padre adottivo non era contrario al suo vizio -per quanto esso potesse consumargli i polmoni- ma aveva la strana convinzione che quando decideva di ritirarsi nella sua stanza per poter riuscire a sentire i propri pensieri -casa Campbell iniziava ad essere un po' affollata e spesso, prendersi cinque minuti per sé stesso a riflettere nei luoghi comuni poteva rivelarsi una vera e propria impresa- e magari godersi una sigaretta in santa pace fosse una qualche richiesta di aiuto.
    La verità era che il giovane Tassorosso voleva bene ad ogni singolo membro della famiglia, a Phobos in particolare, e vederlo preoccupato anche per una simile sciocchezza gli provocava una stretta al cuore. Forse era lui quello troppo sensibile.
    Ma, amen, ormai certe tare mentali non poteva di certo scrollarsele di dosso a sedici anni.
    E quando Phobos lo fissò accigliato, chiedendogli se qualcosa non andasse, Gene capì di essere anche un pessimo bugiardo.
    « oh, per la sigaretta? » si finse stupito, stringendosi nelle spalle « volevo solo svegliarmi per bene prima di scendere, va tutto bene » di questo passo, uno psicologo lo avrebbe potuto definire un bugiardo cronico. Non ricordava quante cazzate si era inventato nell'arco della sua vita ma erano sicuramente troppe « se sapevo che eri tu ti avrei lasciato un tiro »
    Rise cercando di distogliere l'attenzione del Campbell, temendo quasi che potesse capire prima di lui cosa lo stesse turbando.
    Quando lo chiamò per la colazione – certamente non perché avesse creduto alle sue parole, Gene non si spiegava perché fosse così pessimo a mentire nonostante fosse stato addestrato da tutta la vita a farlo... o forse, non ci riusciva solo con Phobos – probabilmente decidendo di lasciar cadere l'argomento per quando il ragazzo avrebbe deciso di parlarne di sua spontanea volontà, Gene tirò un sospiro di sollievo, e sorrise timidamente chiudendo la finestra.
    « Grazie papà, arrivo subito » poté quasi vedere la gioia che illuminò gli occhi del padre quando lo chiamò così, trovava quella dedizione quasi commuovente e gli era grato per questo.
    Aspettò che Phobos scendesse al piano inferiore e velocemente afferrò dalla pila di abiti sparsi sul pavimento una camicia.
    Sembrava pulita e non puzzava, quindi era una candidata più che valida « presa! » canticchiò quasi fiero di sé stesso come se avesse trovato un tesoro in mezzo alla devastazione di cui camera sua sembrava essere la protagonista. In effetti, trovare qualcosa di vagamente pulito là in mezzo non era impresa da poco.
    Raccolse da sopra la scrivania un orologio, era vecchio e con il cinturino in cuoio consumato dall'usura e dal tempo. Il quadrante, con il vetro spaccato, era fermo sulla stessa ora da quando Gene riuscisse a ricordare: le 16:26. Lo rigirò fra le mani, soppesandolo, soffermandosi a guardare la grossolana incisione sul retro -come se qualcuno vi avesse provato a scrivere qualcosa con un coltellino- era una data di cui non aveva mai davvero compreso il significato. Il 16 Dicembre 2037.
    C'erano molte domande che presto avrebbero avuto risposta e Gene non poteva che chiedersi quando questo sarebbe avvenuto. Aveva aspettato, quasi paziente -era stata bravo- ed ora era solo questione di tempo. L'ultimo sforzo.
    Valutò se indossarlo, non se ne separava mai, era l'unico oggetto che gli fosse sempre appartenuto ma l'evento a cui avrebbe dovuto assistere quel pomeriggio richiedeva un certo codice viste le illustri personalità che vi avrebbero partecipato.
    Rimase lì ancora qualche secondo ed alla fine, con un sospiro seccato decise che nessuno si sarebbe preoccupato di un ragazzino e della sua chincaglieria, così se lo fissò al polso e tanti saluti.
    Quando scese in cucina li trovò tutti lì, la famiglia Campbell al completo che si stavano litigando le frittelle ancora calde. Si fermò un momento per godersi lo spettacolo, scansati famiglia del Mulino Bianco che noi siamo più belli.
    In uno slancio di affetto e orgoglio abbracciò – o meglio saltò proprio addosso, ma comprendetelo, era in carenza di affetto- Phoebe e Zenith prendendole di sorpresa alle spalle « ciao famiglia » sorrise, baciando Phoebe sulla tempia e prese posto accanto a Dick.
    Forse era di umore fin troppo tranquillo e solare per un funerale, ma ehi, lui ancora respirava -contro ogni aspettativa- e questo gli sembrava un motivo abbastanza valido per sorridere.

    Il sorriso si era presto spento sul suo volto.
    Fissò accigliato la guerra fredda che si stava consumando fra i due presidi e, sin dal momento che era avanzato, Gene aveva deciso che no, Dragomir Vasilov non gli sarebbe mai andato a genio. Convinzione che andò a consolidarsi quando estrasse il coltello e lo premette contro la guancia di CJ.
    Aveva già estratto la bacchetta, se non fosse stato il suo compito, il suo dovere, probabilmente avrebbe fatto la stessa cosa.
    Ma non poteva intervenire, o almeno, non ancora se non voleva rischiare di infrangere la prima regola che gli era stata indottrinata: non influenzare il normale corso degli eventi.
    Ed ancora una volta si era ritrovato a scegliere: seguire l'istinto o le regole.
    Gene non era mai stato bravo di fronte alle decisioni, lo bloccavano, non riusciva a far altro che pensare a cosa sarebbe andato storto se avesse preso una o l'altra strada.
    Chiuse gli occhi, respirando a fondo, la bacchetta vibrava contro il suo palmo come se avvertisse la sua irrequietezza e lo spronasse a fare qualcosa. Ma Gene rimase immobile.
    Era un ragazzo fortunato, o almeno, lo era stato quel giorno.
    Il caso scelse per lui, l'attenzione di Vasilov venne presto catturata da altro e Gene poté correre verso il palco dove -di nuovo, la fortuna doveva proprio amarlo- la maggior parte dei suoi Protetti si era raccolta. Stavolta non ebbe paura di agire, gli era stato instillato sin da quando era riuscito a muovere i primi passi.
    Il significato di una vita, o meglio, della sua seconda.
    Si frappose fra i ragazzi e il resto degli ospiti, Gene non vedeva fazioni per cui combattere, i suoi unici alleati erano coloro che doveva proteggere gli altri erano tutti potenziali nemici.
    Cercò di intimarli a mantenere la calma, a non separarsi, nessuno avrebbe fatto loro del male finché ci sarebbe stato lui questo poteva prometterglielo.
    Ma sedare gli animi di così tante persone non era un compito facile, non riuscì a dissuadere alcuni di loro a lanciare le proprie minacce verso Vasilov o persino degli incantesimi, e li fissò allargando le braccia., sconvolto « ehi, qualcuno sta tentando di svolgere il proprio lavoro qui, evitate di renderlo ancora più difficile » alzò un dito ammonitore verso alcuni di loro « sì, dico a voi, fate i bravi e state calmi o vengo lì a darvele » ma evidentemente doveva avere l'aura minacciosa di un orsetto di peluche perché nessuno gli diede udienza.
    Offeso si impettì mentre con un gesto della bacchetta deviò un incantesimo che stava per colpire in pieno petto Amalie « bene! Grazie! Me lo ricorderò! »
    ma presto, la sua attenzione fu catturata da ben altro, Vasilov era lì, sul palco, con loro. Senza riflettere, Gene afferrò la persona a lui più vicina: Jessalyn – conosceva il nome e i volti di ognuno di loro, anche se taluni non lo avevano mai visto- e con un gesto del braccio la invitò a rimanere dietro di lui. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto con ognuno di loro, ma era solo Gene e le sue braccia non erano così grandi per ognuno di loro.
    Ed avvenne ciò che più temeva.
    Cj finì a terra, ed il suo corpo si irrigidì nel vedere quello del ragazzo scosso da violenti spasmi.
    No, non doveva succedere. Non quando c'era lui.
    Non davanti a lui.
    Gli sembrava di rivivere un incubo di cui aveva solo vaghi ricordi confusi.
    « sta morendo » fu la voce di Lancaster a risvegliarlo.
    Il Tassorosso si mosse, lanciandosi verso di lui « no! No! Merda... » e, senza francesismi, scansò il preside di Salem afferrando il volto di Cj tra le mani « ehi! Ehi! Tu non morirai qui, non oggi, hai capito? » gli gridò contro, tentando di tenerlo sveglio, vigile.
    Non poteva fallire, non poteva far morire qualcuno, no, non lo avrebbe mai sopportato.
    « Un guaritore! Mi serve un guaritore, presto! »
    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia


    Scusate fa schifo pt 2.
    Ma finché non riesco a sistemare un paio di cose a casa ho il tempo stracontato per scrivere quindi ecco.. schifus. Non l'ho nemmeno riletto (lo faccio mai? vabbé)
    Chiedo subito scusa se ho scritto castronerie, ditemelo subito che correggo <3

    Comunque vuole bene ai Campbell, tenta di proteggere quanti più ragazzi del futuro che può e tenta di aiutare CJ.
    (volevo anche difendere Amalie e Jess ma non sapendo se si potevano fare combo #wat ho aspettato)
     
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  12. silvercain
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    travis cain| 1992's | healer
    Gévaudan Cash
    I cannot remember exactly when your soul whispered to mine, but I know
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    i live through wars || 03.07.17 - 18:00
    C’è un guaritore?!
    La voce di una ragazza attirò la sua attenzione, tanto che Cain, mosso da un’etica professionale (?) dovette farsi avanti, non prima di aver detto ad Alec le ultime parole. Cerca di rimanere vivo. Sapeva che Alec sapeva badare a se stesso, e che era bravo, ma dato che la sua vita dipendeva da quella del gemello la prudenza non era mai troppa.
    E poi, ancora, la voce di un altro ragazzo lo attirò verso il palco "un guaritore! mi serve un guaritore, presto!"
    Sparì tra la folla, avvicinandosi alla ragazza appena sotto il palco, una biondina disperata che non sapeva a chi affidarsi. Aiutalo, cazzone.
    Certo, era così che gli piaceva essere ripagato del proprio lavoro, era così che voleva sentirsi appellare. Hai l’età per dire le parolacce? Cain Cash era sconvolto dalla gioventù di oggi. Mentre la bimbastronza lo trascinava sul palco – esatto, proprio in bella vista ed in primo piano per eventuali attacchi – Cain si malediceva per essersi presentato a quel funerale che, sperava, non sarebbe diventato il suo.
    Arrivò ai piedi di un ragazzino immerso in una pozza di sangue, il proprio sangue, lo valutò un attimo per rendersi conto che, se avesse continuato a perdere sangue in quel modo, sarebbe durato non più di due minuti. Tossiva, tossiva e sputava sangue. Subito, recitò un Vulnera Sanentur un incantesimo potente che avrebbe richiesto una concentrazione non da poco. E tentò di concentrarsi subito, mentre recitava la formula, anche se con il vociferare della folla e le urla era molto difficile. Si isolò completamente, quasi come se lì sul quel palco ci fosse solo lui ed il ragazzino. Le mani ferme sul petto del ragazzo, pronte a bruciare qualsiasi ferita. Era per questo che aveva deciso di essere un guaritore, per aiutare il prossimo, no? E cosa avrebbe guadagnato vedendo morire quel ragazzo sotto i suoi occhi? Niente. Se fosse riuscito o meno a fermare il sangue, lo avrebbe scoperto, ma, anche se stremato, avrebbe provato a ripristinare un po’ del sangue perso. Pensò ad una pozione rimpolpa sangue, ma dato che quasi sembrava che il ragazzo il sangue lo stesse vomitando, era difficile credere che bere una pozione lo avrebbe aiutato: l’avrebbe sputata indietro come il sangue che stava tossendo. Come ti chiami? Gli domandò per tenerlo sveglio mentre con la bacchetta ferma sul suo corpo, si concentrava per il secondo incantesimo che aveva in mente. Si concentrò sul ragazzo e sul sangue che aveva espulso e sul quale quasi galleggiava, imprecò in dieci lingue diverse nella sua mente, prima di giungere ad un compromesso con sé stesso. Portò la mano sul petto di CJ, trasse un profondo respiro affidandosi a pensieri positivi. L’immagine di una ragazza, al sicuro a casa propria, lo consolò e con mano ferma, disegnò sul suo corpo il contorno di una S. Transfusio. L’incantesimo di trasfusione del sangue avrebbe aiutato CJ a mantenere i livelli sanguigni compatibili con la vita, il fatto che si trovassero in mezzo ad una grande folla, in questo caso, avrebbe aiutato. Una goccia da ciascuno regalata a CJ. Cain rimase con il polso fermo sul ragazzino, mentre la trasfusione del sangue era in atto sotto un fascio di luce arancio. Non capisco che tipo di maledizione sia stata fatta. Ma dovrebbe sopravvivere per adesso. Continuò a trasfondere il sangue dalla folla verso il corpo di CJ.
    | ms.


    Aiuta CJ, prova un vulnera sanentur, poi pratica un transfusio


    Edited by shane is howling - 25/7/2017, 13:19
     
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    it sucks to be me || 03.07.17
    Heidrun lanciò un’occhiata di sottecchi a CJ, le sopracciglia corrugate. Si avvicinò di un passo, il capo piegato lateralmente e la mano ad allungarsi verso il volto del ragazzino, ma senza mai raggiungerlo. «la tua…» lasciò la frase in sospeso. CJ Knowles si portò due dita al viso, percorrendo l’incisione di Vasilov.
    Quella che non avrebbe più dovuto esserci.
    Chiuse il proprio sangue nel pugno, il capo chino. «sì, lo so» Sorrise, il Tassorosso.
    Sorrise come chi non avesse un cazzo per cui sorridere.
    «sta sanguinando.»
    Sorrise, perché non avrebbe dovuto.
    Premette la guancia sulla camicia, lasciando che il liquido cremisi bagnasse il tessuto rendendolo secco ad appiccicoso. Rialzò la testa premurandosi di celare ad altri quel misfatto, nascondendo quell’errore in uno sguardo rivolto al pavimento, le dita a tamburellare sulla coscia seguendo il ritmo di un cuore in tumulto. Più il battito aumentava, più un senso d’incompletezza andava a masticare il prefetto dei Tassorosso, le vertigini a rendere sfocato il palco sotto i suoi occhi. Il sangue a scivolare sull’angolo del labbro, dove lo raccolse con un guizzo della lingua. Si allontanò di un instabile passo, la mano a cercare il supporto del leggio sul quale caricare il proprio peso. Corrugò le sopracciglia, la lingua a scivolare ruvida sul palato.
    Si schiarì la voce, inspirò dalle narici.
    Blackout. Quando riaprì gli occhi si trovava ancora lì, entrambe le braccia sul legno e le gambe a perdere sensibilità, un primo moto di confuso panico a stringergli la gola. Si costrinse a lasciare la presa, premendo sui piedi per sentirsi concreto e presente. Era un malessere fastidioso, diverso da quello cui era abituato – non c’era dolore, in quel disturbo. Si grattò ancora la gola, il pugno a picchiare piano sul plesso. Ignorò le occhiate, mentre sollevava la camicia per premere sulla ferita, lo stomaco pallido e segnato da cicatrici ora scoperto.
    Concentrati, CJ.
    Ma non poteva, perché aveva una brutta sensazione. Ma non poteva, perché aveva una brutta certezza, memore delle volte in cui un sorriso s’era rivelato solo un altro modo per mostrare i denti prima di affondarli nella carne. Gente come lui si abituava in fretta ad aspettarsi il peggio – nulla di drammatico, puro e semplice pragmatismo. Chi viveva per sopravvivere, si rendeva conto prima, quando lo privavano di quel lusso.
    «sa come si diventa bravi uomini d’affari, Babbana?»
    La voce di Vasilov lontana, perché così lontana? Si sforzò di sollevare le iridi giada di fronte a sé, il palmo della mano a sfiorare una fronte fredda ed asciutta. Iniziò ad ingurgitare aria avido, incapace di farla circolare fino ai polmoni.
    Portò il pugno chiuso di fronte alla bocca, tossì. Umido, salato. La lingua sui denti a sentire il ramato sapore del proprio sangue salire dalla gola, otturare il passaggio. Asciugò la mano sui pantaloni, ignorando le dita sottili che iniziavano a tremare.
    «con un piano di riserva.»
    Una fitta al petto, un conato a spezzarlo a metà. Si chinò d’istinto, un altro colpo di tosse a scrollargli spalle e polmoni – ed altro sangue a scivolare ora fra le mani, a gocciolare sul palco e sull’erba vicina. A mescolarsi a quello del taglio sulla guancia, rovente sulla pelle. Scosse la testa a coloro che avevano mosso un passo per avvicinarsi, trascinandosi ancor più lontano – come i gatti, CJ Knowles, era nato per morire da solo. Non gli piaceva avere attenzioni su di sé, non così. Non ne aveva alcun fottuto bisogno, e non voleva altri debiti. «no» deglutì, lanciò un’occhiata stoica alle persone sul palco. «sto-»
    Cristo santissimo.
    «merda.» e le gambe, senza alcun preavviso, cedettero sotto il suo stesso peso.
    Il contatto con il pavimento giunse più soffice di quanto non si sarebbe aspettato, il braccio piegato istintivamente sotto la testa per attutire il colpo. Nascose il capo e continuò a tossire, le budella a torcersi e ribellarsi al solo atto della respirazione.
    Ma che cazzo. Rise atono a quella situazione, nascondendo sguardo e bocca al suo pubblico.
    Ed ecco, signori e signore, come veniva ripagato fare il bravo ragazzo. Avesse almeno cercato di spaccare la testa a Dragomir, avrebbe avuto la sottile soddisfazione di averci provato - ed invece no: sarebbe morto come esempio, il capro espiatorio di una guerra fra nazioni. Un effetto collaterale. Avrebbe voluto odiare gli stronzi che avevano attaccato il preside di Durmstrang, ma Cristo Santissimo, avrebbe fatto la stessa cosa.
    E poi non gli importava così tanto, di vivere o morire.
    «-una favola.» concluse, girandosi supino con gli occhi rivolti al cielo. «via i bambini, non dev’essere un - gesù» un altro colpo di tosse. Rotolò di lato sputando altro sangue, la testa a martellare cancellando ogni pensiero razionale. «- bello spettacolo.» la voce a strascicare, la bocca a muoversi senza un reale intento del Knowles.
    «a meno che jean non smentisca le accuse poste dalla sua nazione, lui morirà.»
    E da CJ Knowles è tutto, voce alla regia. Quasi diciassette anni molto intensi, è stato un vero piacere conoscervi – più o meno. «cocaine,» davvero CJ? Corrugò le sopracciglia, un sorriso ramato e divertito a sbeccare le labbra esangui. «e anche bj, in realtà» chissà cosa non andava, nella distorta mente del Tassorosso, per dargli come priorità le sue bestie – il cane, ed il fratello. Non specificò neanche che non stava parlando di droga.
    Neanche si rese conto di aver parlato.
    «non toccatelo»
    Un po’ come gli animali con la rabbia.
    Socchiuse un occhio acquamarina su William Lancaster, arcuando il collo all’indietro per cercare di dare maggior passaggio all’aria. Ogni respiro, aveva il suono umido di una bocchetta dell’acqua malfunzionante.
    «sta morendo»
    Ma grazie di cuore, buon uomo. Rise ancora – o almeno, ci provò – tentando di alzarsi su di un gomito. «esagerato.» ovviamente non ci riuscì. Finse di non averci neanche provato, quasi il suo unico intento fosse stato quello di spostare il braccio.
    «colpevole.» Prevedibile clichè.
    «schieratevi con me, e vi darò la cura» Inspirò, chiuse gli occhi, espirò. Concentrò tutte le sue forze nell’alzare il braccio destro, il pugno chiuso ed il dito medio a saettare verso il cielo. «fottiti» gracchiò rauco, ma ben udibile.
    Tanto stava già morendo, difficile potesse andargli peggio.
    «ehi! Ehi! Tu non morirai qui, non oggi, hai capito?» Colse un lampo di capelli biondi, dita a stringersi attorno al suo viso. Barry?
    Britney Spears?
    Socchiuse le palpebre, lingua ruvida sul palato. «Girino?» Gene Campbell? Fu la cosa più scioccante della giornata – e questo, dovrebbe dirvela lunga sulla (breve) vita di CJ Knowles. «non credevo di-» blackout.
    Quando riaprì gli occhi, Gene lo stava scrollando. Quanto tempo era passato? Sbuffò sangue lateralmente, svuotando la bocca. «- piacerti tanto» tentò di sorridere, sopracciglia arcuate.
    Bruciava tutto. Bruciava respirare, bruciava il cuore a battere dietro le costole. Bruciavano i pallidi raggi di sole che sgusciavano dalle fronde, bruciavano le dita altrui sulla pelle.
    «ah, quasi dimenticavo:» Un brivido.
    Una scossa di adrenalina. Giocava strani scherzi l’epinefrina, in quel suo metodico pompare più rapidamente il sangue nelle vene, attivando parti del cervello di cui a malapena si sapeva l’esistenza, finchè non divenivano necessari. C’erano priorità che andavano oltre il tempo, la memoria, il semplice rendersene conto; c’erano legami impossibili da cancellare, persone destinate a conoscere e nodi già intrecciati, a seccar la gola e rendere più fluido il sangue. Corroborante d’animo.
    Si mosse prima che il proprio corpo potesse concepire il movimento, mosso da un istinto che mai si dava pace. Premette con i palmi sul pavimento e slittò all’indietro, scivolando sul suo stesso sangue come un bambino che giocasse su uno scivolo ad acqua – e sollevò le gambe, CJ, incrociandole su quelle di Amalie Shapherd. O Mabel Winston che dir si volesse.
    E dire che CJ Hamilton non era mai stato il nipote preferito di sua zia.
    Rotolò di lato facendo presa con le gambe, trascinandola a terra prima che l’incanto nemico potesse sfiorarla. Senza preavviso, rude - ma efficace. Le lanciò un’occhiata, un sorriso sghembo e lo sguardo già opaco, il petto ad alzarsi ed abbassarsi troppo rapidamente.
    Uno sforzo eccessivo, che avrebbe fatto altre mille volte. «ti copro le spalle» biascicò, tentando di portare le dita alla fronte in un saluto militare, ironico e divertito da situazioni che sollevavano, da sempre e sempre, solamente gli angoli della sua bocca.
    Chiuse gli occhi. Blackout. Non sapeva quanto tempo fosse passato, quando infine riaprì gli occhi. Una ragazza era chinata al suo fianco, i grandi occhi chiari e preoccupati su di lui. «meh.» l’unica parola che riuscì a pronunciare, privo di voce. Valeva come non ce n’è bisogno, bionda. Non hai di meglio da fare?
    Si sentiva così… debole, di pura gelatina. Sentiva di perdere la sensibilità al proprio corpo ad ogni colpo di tosse, ad ogni viscera a stringersi e rattopparsi.
    Non vide la bacchetta di Cain Cash cercare di guarire la ferita sulla guancia; anche il taglio parve non rendersene conto, continuando beffardo a sanguinare.
    «come ti chiami?» cercò di stringersi nelle spalle, la lingua stretta fra i denti. Aveva importanza? Chiuse gli occhi, CJ.
    Una mano stretta al polso.
    Un respiro a gonfiare i polmoni.
    «aspett-» mugugnò, ora vigile, sollevando le palpebre. «decisamente no.» fu un sussurro disperato, di quelli che non scivolavano dalle labbra di CJ da almeno dieci anni – quando aveva supplicato, guardando la casa in fiamme, che il fuoco la smettesse. Che tutto, smettesse. Un conato lo costrinse ad alzarsi, strappando il braccio alla presa del Guaritore. «grazie,» che era un tipo educato, CJ Knowles.
    Strisciò un poco più lontano, cercando di raccogliersi su sé stesso, mentre tossiva altro sangue sulla camicia – il corpo in preda a piccoli tremori, un dolore sordo al petto. «ma no» che lo sentiva, il Tassorosso, che v’era qualcosa di sbagliato. Che migliorava, ed un po’ respirava, e poi diventava di nuovo tutto troppo sfocato, altro sangue a saturare le vene in maniera sbagliata.
    Cristo Santissimo.
    Raccolse le ginocchia al petto, la fronte poggiata sulle gambe. Un vago cenno con la mano di fronte a sé, debole ed appena percettibile. «e -» non ha senso, cazzo.
    È una causa persa
    . Tossì, i denti affondati nel dorso della mano. «i lieto fine non piacciono a nessuno.» Immaginò di sorriderne, il Knowles, ma forse non lo fece mai.
    Che stava una favola, CJ.
    Ma non aveva mai detto quale. Tentò di scrollarsi nelle spalle.
    Chiudo gli occhi solo un secondo, mh. Me lo sono meritato, stronzetti.
    | ms.



    Questo vale come fateggio per CJ #wat almeno sapete già cosa non fare (??)
    Eee difende Amalie ♥
     
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    Non avevo mai visto Syria così distrutta. Doveva essere davvero distrutta e, vederla così, ammetto che mi fece stringere il cuore. Mi faceva rabbia, si aggiungeva alle cose sbagliate. Erano sbagliate quelle morti. Era sbagliato che una persona tanto dolce dovesse soffrire. Era sbagliato persino che un fratello torturasse la propria sorella e ne godesse. Il semplice dolore era sbagliato. Sentendo quelle parole da Syria, la osservai Non mi devi ringraziare Sy. Per te ci sarò sempre le dissi quindi, prima di avviarmi con lei a destinazione. E dopo che fummo accomodate, praticamente non parlammo. Perlomeno io, visto che comunque Syria conosceva molte più persone rispetto alla sottoscritta, io ormai mi ero chiusa a riccio, al punto che probabilmente, non avrei avuto altra persona al mio fianco ad eccezione di papà e Sy.
    Come Vasilov cominciò a parlare, così il mio istinto meno corvico si fece sentire. Non mi feci alcun problema a commentare alle sue parole. Poco dopo, mi voltai verso Sy che parlò a sua volta e le sorrisi leggermente. Davvero, se eravamo deboli e insignificanti, perchè ci temevano? Perchè ricorrevano a certi mezzi, a certe offese? Per tali ragioni e altre che non starò ad elencare, commentai anche parole seguenti, con una sorta di sprezzamento. Odiavo quel tipo, davvero mi dava sui nervi, la fortuna era che tendevo ad essere razionale, almeno a metà. La lingua era un muscolo a sè stante, come il cuore, funzionava senza controllo, sebbene riuscii a frenarmi almeno un poco, almeno a livello di azioni, almeno quello.
    Chaos. Non avevo mai davvero compreso quel termine, prima di quel momento. Un attimo prima tutto sembrava tranquillo, poi la calma aveva cominciato ad agitarsi, come un mare quando c'è una tempesta in avvicinamento e poi, in men che non si dica fu il chaos. La tempesta si era abbattuta su tutti noi. Eppure c'era un'atmosfera strana. Forse perchè era un funerale. Sarebbe dovuta essere un'occasione di pace, quantomeno, per poter far si che i vivi potessero salutare i morti. Ok, io ero lì per Syria in primis, non sapevo chi fossero state le persone nelle bare, sapevo solamente che mia cugina aveva bisogno di me, ed io ci sarei stata, come sempre. L'attimo dopo, Mangiamorte, bacchette, incantesimi che volavano.
    Qualcuno salì pure sul palco, riconobbi anche il ragazzo che era stato ferito dal tizio che si credeva una sorta di preside, e disse cose giuste, lui come altri dopo di lui. Stavamo scordando la ragione per cui eravamo lì. E non era certo una battaglia. Udii la domanda di Syria e la guardai Pronta dissi, anche se nel mentre riflettei su qualcosa Sy, vediamo di aiutare più persone possibile le dissi quindi, riflettendo su una cosa L'unione fa la forza dissi osservandola, e mi guardai attorno e mi limitai ad un cenno verso mia cugina, sapevo che avrebbe capito. La nostra forza magica era minore, ma non perchè Mezzonsague, solo perchè ancora inesperte e giovani, ma ciò non ci impediva di combattere, semplicemente ci serviva una mano e, dunque, a mio avviso dovevamo fare gruppo, con altre persone. Ed individuai della gente, a me sconosciuta al momento, se non forse di vista. Fatto sta che mi avviai verso quel gruppo di persone con la mano ancora stretta a quella di Sy, sempre che non si scollegasse per qualche ragione.
    Mentre si avvicina punta la bacchetta verso il tizio alla mercè di Vasilov Expelliarmus enuncia, con tono chiaro, preciso. Se c'è una cosa su cui non è insicura è la capacità di avere i nervi saldi quando non si dovrebbe averli. Se riuscirà a disarmarlo sarà già una piccola vittoria, in ogni caso vedrà di diminuire la distanza dal gruppetto, così da poter davvero aiutarli.
    20 Agosto 2001
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    Sostanzialmente al momento raggiunge: Connor, Maple, Aidan per aiutarli ad aiutare Jess (?) e lancia un Expelliarmus verso il tirapiedi che ha lanciato il Tendi
     
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    Era ancora sul palco, il posto migliore per essere un possibile bersaglio, ma dai, non avrebbe mai sperato e mai creduto che potesse sul serio scoppiare una guerra, una battaglia, o qualsiadi cosa potesse star per scoppiare. Aveva creduto ad una possibile pace fino a quelle ultime parole. «Ah, quasi dimenticavo: questo è colpa vostra» le aveva puntate, sia lei che Amalie, aveva capito cosa significava, le stavano per attaccare, notando che Amalie stava per essere tratta in salvo, lei si slanciò di scatto il più lontano possibile per evitare l'incantesimo. Ecco che la guerra era iniziata, ora nessuno avrebbe potuto fermarli. Nessuno si sarebbe fermato, ne era più che sicura. «Non toccatelo. Sta morendo.» Ancora le rimbombavano quelle parole. Prima aveva cercato di slanciarsi verso il ragazzo, ma era stata interrotta dalle sue parole. Aveva sempre avuto la sindrome della crocerossina, aveva sempre avuto bisogno di aiutare gli altri quando serviva e avrebbe anche messo in pericolo se stessa piuttosto di vedere qualcuno soffrire o addirittura morire sotto i suoi occhi. Non potevano essere già al punto che uno di loro morisse, non poteva permetterlo, non lei. «Non è contagiosa. credo. Toccatelo pure?» Si era avvicinata senza aspettare un altro singolo istante. Non poteva credere ai suoi occhi, non avrebbe permesso a nessuno di morire in quel giorno, c'erano già stati troppi morti. Si era inginocchiata vicino a CJ e lo aveva osservato in cerca di una soluzione, non aveva le capacità per guarirlo, era inutile di fronte al ragazzo, ma sperava qualcuno potesse raggiungerli in modo da aiutarli. Non aveva mai parlato con CJ, lei conosceva più o meno tutti i ragazzi e le ragazze ad Hogwarts, si era informata più o meno su tutti, anche su i nuovi che ogni anno arrivavano ad Hogwarts e non poteva permettere chr nessuno di loro morisse, qualsiasi cosa avessero o non avessero fatto. «Non morire, ti prego, non morire.» E sapeva che quelle parole non sarebbero servite a niente, non sarebbero servite perché non lo poteva curare a parole ed aspettava impaziente qualcuno che sotto l'aiuto richiesto potesse aiutarlo. Era sempre così, appena vedeva uno star male che lo conoscesse o meno, le veniva istintivo prenderlo sotto la propria ala protettiva, così finiva sempre per affezionarsi a tutte le persone possibili ed immaginiabili e così in quell'istante, era diventato uno dei suoi protetti, all'insaputa di CJ. Insomma, quasi nessuno sapeva che lei avesse sotto la propria ala protettiva praticamente metà scuola, neanche tutti i diretti interessati lo sapevano. Non potendo quindi essere più d'aiuto si era alzata e si era spostata di qualche passo in modo da vedere meglio se qualcuno si stesse avvicinando a a loro. Avrebbe voluto già essere diventata medimago in quel momento, avrebbe voluto saltare tutti quegli anni che la separavano dalla su ma invece era ancora una ragazzina. Fortunatamente qualcuno si avvicinò al ragazzo e Cora ritornò da CJ, si sarebbe nuovamente seduta al suo fianco e avrebbe osservato il ragazzo al lavoro. Era concentralissimo e lei rimase in religioso silenzio osservandolo, avrebbe voluto essere come lui da grande, voleva salvare delle vite, non voleva rimanere a guardare senza poter fare nulla, ma se ci fosse stato bisogno di aiuto di qualsiasi genere lei sarebbe stata lì per essere il più d'aiuto possibile. «Come ti chiami?» Sperò che il ragazzo avesse ancora le forze per rispondere, che avesse ancora le forze di rimanere sveglio, ma continuava a perdere sangue sotto i loro occhi. Quando usò l'incantesimo di trasfusione sperò vivamente di essere compatibile con il suo sangue, avrebbe donato il proprio sangue senza nessun problema. «Non capisco che tipo di maledizione sia stata fatta. Ma dovrebbe sopravvivere per adesso.» Sospirò di sollievo a quelle parole, una parte di lei credeva nella possibilità che lui fosse salvo, che per lui adesso il dolore era finito. «Come facciamo a capire che maledizione gli è stata lanciata?» Avrebbe voluto ringraziarlo, ma voleva essere certa che lui non fosse più in pericolo, non che non si fidasse, figuriamoci, semplicemente sapeva che era meglio non dire l'ultima parola in quei casi ed infatti non sembrò star meglio, affatto. Non stava facendo altro che morire lentamente. «Non sta affatto bene. Non sta affatto bene.» Si prese i capelli fra le mani scuotendo la testa. Ci doveva assolutamente essere un modo per capire come potessero guarirlo senza considerare il fatto di unirsi a loro, aveva come la sensazione che non le avrebbero dato comunque la cura. Aveva seguito il ragazzo che si era trascinato più lontano. Aveva premuto una mano sulla ferita e non aveva intenzione di toglierla dalla ferita sanguinante anche se la sua mano acquistava lentamente un colore scarlatto. Non avevano avuto effetto gli incantesimi, figuriamoci se la sua azione poteva fermare la ferita e questo proprio la straziava. Era esattamente inutile e CJ aveva un assoluto bisogno di aiuto. «Vi prego non uccidetelo. Perchè dovete ucciderlo, smettetela. Vi prego.»
    | ms.
     
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