[ funeral party ] gone but not forgotten

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    withpotatoes do it better

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    idem | 1993's | medium | rebel
    withpotatoes
    What is a ghost? Something dead that seems to be alive. Something dead that doesn't know it's dead.
    these are hard times for dreamers || 03.07.17 - 18:00
    Idem Withpotatoes non aveva mai viaggiato. Gli unici luoghi che avesse mai visto, erano Londra e Brighton. Al contrario della sua famiglia, non aveva mai sentito il bisogno di esplorare il mondo, contenta di ciò che aveva a portata di mano. Le piaceva l’abitudine del conosciuto, il sapere che dopo la panchina rossa, avrebbe trovato quel che era stato un cestino dei rifiuti, e del quale era rimasto solamente un vecchio palo. Scopriva luoghi che conosceva alla perfezione ogni giorno, meravigliandosi di nuove decorazioni nei giardini dei vicini, o di alberi a cui non aveva mai fatto caso: non aveva mai avuto bisogno di biglietti, Idem Withpotatoes, per viaggiare.
    Era tutto nella testa.
    Ciò non le impediva di sognarlo, immaginare luoghi esotici nei quali sapeva non avrebbe mai messo piede: strade trafficate e dal sapor di spezie in India, uomini in giacca e cravatta in Giappone, spiagge assolate nel Sud America. Si era creata un mondo del tutto ideale, e le bastava crederlo così, per viverselo. Di certo, le bastava perché popolasse i suoi sogni, cliché ed irrealtà a divenire forme concrete. Dondolava pacata su un’amaca arancione, un cappello di paglia a coprirle la chioma corvina, ed un paio di occhiali da sole più grandi di lei a nasconderle il volto. Nella mano destra reggeva una bevanda tassativamente dentro la metà svuotata di un cocco, un ombrellino rosa a spuntare dal bordo come un fiore in primavera. Il calore era confortante, nulla a che vedere con il sole che, nella vita vera, era in grado di ustionarla non appena metteva piede fuori casa: era placido, quel sole. Era ciò a cui chiunque aspirava quando pensava al mare. Non c’era alcuna preoccupazione, nel sorriso allegro della Withpotatoes onirica – non c’era traccia della guerra, non c’era traccia dei Laboratori, non c’era traccia di Leon. Quant’era che, addormentandosi, non veniva consumata da un incubo?
    Più di quanto avrebbe mai ammesso.
    Aveva abbandonato i Laboratori dieci giorni prima, rimanendo in quello che era stato definito coma leggero per cinque giorni: in quei cinque giorni, i Dottori avevano detto che non v’era alcun danno cerebrale quantificabile nel cervello di Idem, ma non potevano invece assicurare nulla riguardo i possibili danni psicologici che avrebbe potuto presentare una volta sveglia – quel genere di traumi, la Withpotatoes lo sapeva perfettamente, non erano visibili da una TAC. Si sveglierà quando sarà pronta, era quasi certa di averli sentiti bisbigliare. E quando Idem aveva ripreso conoscenza, dopo essersi assicurati che non fosse una mina vagante, le avevano permesso di tornare a casa - ti aiuterà, un ambiente familiare. Avevano, ovviamente, ragione. Rientrare nel suo appartamento dopo quattro mesi di assenza, era stato quasi soverchiante per la Withpotatoes. Aveva dimenticato le tende gialle appese in cucina, gli utensili colorati che rendevano la stanza un'opera d'arte; aveva dimenticato la coperta di patchwork sul divano, o gli origami appesi al lampadario che rendevano il soffitto un cielo. Per non parlare del poter riabbracciare tutta la sua famiglia – ed i suoi amici, ed i suoi colleghi. Li aveva stretti a sé così a lungo, da essersi impressa sulla pelle i loro spigoli ed i loro angoli, quei difetti che erano sempre stati meraviglia - ed i profumi ad impregnarle gli abiti e le narici, balsamo su ferite che neanche si era accorta di avere, finché non avevano smesso di sanguinare. In quell’eccesso d’affetto e di bisogno, nel conforto di saperli caldi e vivi sotto i polpastrelli, Idem aveva ritrovato il proprio equilibrio, il posto nel mondo che per settimane le era mancato quanto ossigeno. Le bastò per dimenticare i mesi di assenza - ci mise meno di un battito di cuore, per riprendere dimestichezza nell'averli.
    Abituarsi al non possedere più la magia, invece, era stato un altro paio di maniche. Si era sentita sbagliata nel proprio corpo quando, impugnando la bacchetta, non aveva percepito nulla all’infuori del confortante legno di ebano stretto fra le dita: non era più una strega. Se la risolse con un sorriso mesto ma sincero, arresa mesi prima a quella possibilità: le dispiaceva, certo, ma non per sé. Avere o non avere la magia, considerando il suo lavoro, non le cambiava nulla - si, era strano non poter usare accio per recuperare un block notes, ma non era quello a rattristarla. Idem sapeva quanto per Damian Icesprite fosse… difficile, rapportarsi con chi non era una strega od un mago purosangue. Poteva accettare di perdere la magia, la Tassorosso, ma non avrebbe accettato altrettanto facilmente la possibilità di perdere suo cugino – era questione di priorità, per Idem. Ma il vero problema, il nucleo della linea serrata delle labbra quando nessuno la guardava, era un altro: il suo potere. Idem Withpotatoes era una medium. Nei Laboratori non avevano mai accennato a quale fosse la capacità acquisita dalla Withpotatoes. Forse, neanche l’avevano saputo - d’altronde non ricordava di aver mai mostrato le sue capacità, durante i test: lei stessa ne era stata ignara finchè non era stato tardi, troppo tardi. Idem era una ragazza naturalmente curiosa, ma sapeva sempre quando porsi un freno («la propria libertà finisce quando inizia quella altrui», le ripeteva sempre Nonna Seti.). Non si era mai osata a porre domande, ritenute inopportune e intime, agli Special che facevano parte della sua vita, trovandolo spesso un argomento delicato da affrontare, troppo personale: negli anni si era limitata ad apprendere cosa evitare per non arrecar loro alcun fastidio, specialmente nel caso di poteri controversi come quello di Oliver – telepatia: roba difficile, da gestire. Aveva cercato di capirli quando necessario, come nel caso di Brandon - affascinante, la metamorfosi: sperava ancora di scoprire lati del Lowell celati negli occhi castani di Bran, ma consapevoli in altri. Aveva chiesto a Jade se poteva crearle un taglia carte, a Murphy di far sbocciare un fiore, a Sin se potesse domandare al pesce rosso di Erin se preferisse le briciole di gamberi o quelle di alghe. Aveva osservato con estasiato stupore una copia di Jess portarle il caffè in camera, e Nathan usare la manipolazione dell’aria per sollevare pop corn da lanciarsi fra in bocca.
    Ma non aveva mai, Idem Withpotatoes, avuto modo di vedere in azione quel potere -il suo: sapeva che lo possedevano sia Aveline che Morrigan, ma non era certo un argomento di conversazione semplice da tirare fuori fra una spremuta d’arance e l’altra. Era stata superficiale, Idem - e molto umana, in quel suo evitare di indagare sulla morte, argomento spigoloso e terrificante. Sentiva voci che non avrebbero dovuto esserci; sentiva mani che neanche esistevano; vedeva volti, Idem Withpotatoes, del quale non avrebbe dovuto aver memoria. Nathaniel Henderson, il suo nuovo professore (nonché cugino spirituale), le aveva detto che doveva solamente abituarcisi, che le avrebbe insegnato come gestirlo: non doveva averne paura – e Idem, di Nate, si era sempre fidata.
    Ma non lo rendeva più facile. Non aveva avuto cuore, in quei giorni, di rivelare alle persone che le erano vicine la reale gravità della situazione - di quanto la cogliessero alla sprovvista le apparizioni, di quanto fossero disperati quei lamenti. Come non aveva mai parlato del suo soggiorno nei Laboratori: Non ricordo quasi nulla, e sorrideva, ripetendolo all’infinito.
    Così spesso, da cominciare a dimenticarlo. Così spesso, da non farlo mai.
    Cercavano di tornare alla loro vita, che diritto aveva Idem di rovinare loro i piani? Aveva rassicurato Nathan ed April per ore, prima che riuscisse a convincerli a partire: Nathan aveva una conferenza in programma da mesi al festival della scienza applicata alla magia in Francia, dove sull’argomento erano più elastici; April l’avrebbe accompagnato, ovviamente: nessuno si fidava più a lasciar viaggiare Nathan da solo. «e poi,» aveva aggiunto la Withpotatoes, scrollandosi nelle spalle con un sorriso. «devo fare shopping: se non ti comprassi io qualcosa di carino, Idem, andresti sempre in giro vestita come nonna Seti» A nulla erano servite le proteste della Withpotatoes maggiore sul buon gusto della nonna: nessuno le aveva dato corda.
    E per giusti motivi.
    Ma nel sogno? Nel sogno non esisteva nulla, di tutto quello. Non c'era spazio per i problemi, fra i dorati granelli di sabbia. Languiva di quel dolce calore del sapersi finalmente al sicuro, Idem Withpotatoes, della familiare certezza che tutto sarebbe andato bene, perché era finalmente a casa. La sua famiglia stava bene, i suoi amici stavano bene. Andava tutto bene, giusto?
    Doveva, andare tutto bene.
    «è bello essere a casa.» Credette di averlo pensato lei stessa, Idem - di fatti, nel sonno, sorrise. «so che non è casa nostra, nathan, ma è come se lo fosse» quello era strano, perfino per Idem. «ci abitano idem ed isaac: certo, che è casa nostra.» Si rigirò nel letto, la testa ad affondare nel cuscino. «quando era una bambina, si addormentava ovunque. Mamma mi lasciava portarla a letto in braccio – era così piccola!» Corrugò le sopracciglia, l’amaca a farsi più distante sotto i polpastrelli. Idem si aggrappò al sogno con la cieca disperazione di chi stringeva la nebbia fra le mani tentando di tenerla ancorata a sé, pur sapendo che non fosse possibile. L'istinto di Idem cercava di tenerla incastrata nel sonno: avrebbe fatto meglio ad ascoltarlo.
    Nel momento in cui si rese conto di star sognando, si svegliò. «spiaggia» biascicò, rotolando supina. Premette le mani sugli occhi, un mugolio assonnato a sgusciare dalle sottili labbra dischiuse.
    «si è svegliata. Dobbiamo dirglielo?» «magari si riaddormenta. Lasciamola riposare, ne ha bisogno» Che fosse addormentata o meno, Idem avrebbe riconosciuto ovunque quelle voci. Con ancora i palmi a premere sul viso, sorrise. April e Nathan volevano farle una sorpresa! Ma non era brava a fingere, Idem – quindi, con un risolino, si mise a sedere poggiando le spalle allo schienale del letto, le palpebre assottigliate per cercare di cogliere i profili dei fratelli nel buio: beccati. «siete tornati prima!» sussurrò entusiasta, tastando il comodino alla ricerca degli occhiali. Prima si trattava di un oggetto puramente scenico, ma si era resa conto di essersi talmente abituata alle lenti, che senza non riuscire a vedere nulla. «ehi.» Non un ciao, non un abbraccio a tradimento mentre ancora, insonnolita, cercava la montatura. Non distaccato, quello mai, ma... Esitante. Tremulo quanto denti in inverno. Li osservò, le corvine sopracciglia corrucciate. «il viaggio non è andato bene?» si scambiarono un’occhiata, Nathan ed April. «diglielo tu» supplichevole, la sorella, nell’appellarsi al maggiore: le sorelle Withpotatoes cercavano sempre gli occhi di Nathan, quando avevano paura. Era l'unico che riuscisse a suonare convincente, nel suo ottimismo, anche con una lama puntata alla gola: non era contagioso, te lo tatuava addosso. «è successo qualcosa?» domandò, un tuffo al cuore. Avevano annullato la convention? Non avevano premiato la geniale idea di Nathan, ed April aveva protestato finendo per farsi cacciare?
    Non capiva, Idem. Non lo faceva mai, finché non desiderava non averlo fatto.
    «mi dispiace tanto.» il tono basso ma deciso a rotolare di sincero rammarico. Il fratello avanzò di un passo nella sua direzione, le mani allungate verso di lei. «ce ne stavamo per andare, ma… avevano bisogno di noi» chi aveva bisogno di loro? Perché si stava giustificando? Non le doveva alcuna spiegazione, non così: era solo felice di riaverli a casa. Rimase immobile, temendo che perfino respirare potesse interromperlo. «ti vogliamo bene, idem. Ti prego, dillo anche agli altri.» perché doveva dirglielo lei? perché suonava come un addio, anziché come un bentornato? Reclinò lievemente il capo, il cuore ad appesantirsi sulla lingua. La situazione stava prendendo una piega assurda - o forse era lei, ancora addormentata, a cogliere parole che non avevano ragione d'esistere.
    «april…?» lanciò un’occhiata alla sorella, il sorriso più bello del mondo a piegar le labbra di April. Quel sorriso che per anni non aveva fatto altro che spezzare cuori, gli stessi cuori che, sempre April, aveva cercato di aggiustare tenendoli gentilmente fra le mani, promettendo loro che qualcuno li avrebbe amati di più, meritati di più.
    E gli occhi gonfi di lacrime, i capelli scuri ora a nasconderla mentre abbassava il capo. «mi dispiace tanto, idem. Ci abbiamo provato»
    Un tonfo al piano di sotto, lo stridio di sedie che cozzavano contro il pavimento. Piegò il capo dall’altra parte, Idem Withpotatoes, le mani a cercare gli occhiali.
    «idem?» la voce di Isaac – asmatica, confusa. Conosceva quel tono di voce: dì a Nathan che non può continuare a far esplodere il mio paiolo; dì ad April che non sono la sua bambola; Darden non sta davvero lanciando coltelli contro la porta, vero?. «nathan.» fu una preghiera, quella sussurrata dalla voce di Idem. Così flebile, che avrebbe potuto essere eresia o dogma. Condanna o redenzione.
    «IDEM?» i piedi a pestare le scale, la porta di Darden che sbatteva contro il muro, un mugugno di Oliver nel corridoio. «è stato tutto troppo improvviso.» Trovò finalmente gli occhiali, e li indossò.
    Così. Nel suo pigiama rosa di flanella, gli scompigliati capelli corvini a scivolarle sulle spalle, le gambe incrociate in parte sotto le lenzuola azzurre.
    Così, Idem, quando il suo mondo cadde a pezzi.
    «idem!» Non guardò Isaac, quando trafelato spalancò la porta della sua camera. Masticava le parole biascicandole, gesticolava. Teneva fra le mani il cellulare, e continuava a ridere nervosamente, preoccupazione isterica a rizzare i peli sulle braccia. «stavo cazzeggiando su internet, come sempre, e … quest’assurda notizia… un attentato? Pft, mi sono detto. Ma c’è stato davvero, un attentato. In Francia. Assurdo, vero? Assurdo.» Continuò a guardare un punto fisso nel vuoto più assoluto, la Tassorosso, il freddo a gelarle il petto – non respirava, non guardava, non sentiva; non sbatteva neanche più le palpebre, Idem. «non vuol dire… figurati. Voglio dire… stanno bene, no? certo che stanno bene.» una prima nota angosciata a costringere le labbra di Isaac ad un sorriso difettoso, appiccicato storto sulla tela sbagliata. Idem non vide Darden ed Oliver poco fuori dalla camera, le braccia incrociate al petto. Aveva chiesto ad entrambi se potessero, solo per pochi giorni, rimanere a dormire con loro: ne aveva bisogno, dei loro respiri. Dei loro battiti fra quelle mura.
    «diglielo, idem» Nathan lo guardava. No. No. Perché, finchè non l’avesse detto, non sarebbe stato vero. Poteva essersi trattato di un sogno, giusto? Non sarebbe stata la prima volta che incubi del genere tentavano di ingannarla, masticandola dall’interno lì dove era più tenera. «vero, idem?» incalzò Isaac, gli occhi da bambino nel viso squadrato di un giovane uomo.
    «fino alla fine, idem.»
    «ti vogliamo bene, sempre. Prometti che lo ricorderai. Prometti che lo dirai anche a loro.»
    Erano Withpotatoes, loro. nessuno veniva lasciato indietro od abbandonato.
    Era una promessa. Era una promessa?
    Doveva essere una promessa. Per lei, lo era.
    Non si accorse di aver cominciato a piangere, finché una prima lacrima non le scivolò sulla guancia, un attutito pof sulle lenzuola. Non era neanche certa di star respirando, Idem Withpotatoes. Sentiva lontano l’eco delle parole di Isaac, smorzate quasi si fosse trovato all’interno di una bolla d’acqua. Ma nessuno si mosse, nella quadrata stanza di Idem Withpotatoes.
    Nessuno voleva saperlo - e tutti già lo sapevano.
    Guardò Nathan Withpotatoes ed April Withpotatoes, le braccia a stringersi e sorreggersi. Sorridevano piano, di quei sorrisi che non erano più parte del loro mondo. Piangevano traslucidi, di quell’opalescenza che nessun essere vivente avrebbe dovuto possedere.
    Vivevano piano, Nathan ed April. Così piano, da non farlo affatto.
    «mi dispiace.» e non seppe mai se la voce fu la sua, o quella di Nathan, o quella di April. Nessuno parlò.
    Nessuno si mosse.
    Ed una seconda lacrima accompagnò la prima – ed una terza, ed una quarta.
    Non potevan- «sono morti.» Fu Darden la prima a parlare. Idem si ricordò come funzionare, portando le mani a nascondere il viso.
    Non poteva essere vero. Non poteva essere vero.
    «idem?» ancora ci sperava, Isaac. Anche Idem, ancora, ci sperava, mentre cercava di soffocare singhiozzi sul palato: il suo corpo l'aveva capito prima della sua mente, ed aveva cominciato a collassare dall'interno.
    «grazie di tutto, idem. Ringraziali, ti prego.» «ce la farete. Siete insieme. Qui non è poi così male, sai.» Non esisteva un qui, per Idem, se loro non potevano esserci. «non è giusto» soffiò soltanto, sulla propria pelle, strappandosi le parole dalla lingua con il capriccio di una bambina che fra le dita avesse zucchero e colla. «la vita non è giusta, lo sai: ma voi sì. Potete ancora farcela.» sorridevano, loro. «cambia questo mondo, idem withpotatoes» Idem non sorrideva.
    Una risata amara, di quelle che si trattenevano dall’essere semplicemente grida disarticolate. La voce a rompersi, spaccandosi come pietre sul cemento – crudele, distrutta, Darden Larson. «non l’hai ancora capito, isaac?» Idem guardò Darden, ma lei non ricambiò l’occhiata, i furenti occhi azzurri a guardare il Lovecraft.
    Non l'aveva capito? Si, l'aveva fatto.
    Tutti loro, l'avevano fatto.
    «sono morti, isaac. Sono tutti fottutamente morti.»
    Rimasero immobili e silenziosi così a lungo, che Idem dimenticò come si facesse, a muoversi. Lo definivano trauma, ma dubitava che un solo termine potesse bastare a quantificare quel nulla - le dita a tremare, il battito lento a pompare sangue denso nelle vene, gli occhi velati di lacrime che andavano asciugandosi sulle guance lasciandole aride e secche. Poteva essere passato un minuto, quando Idem prese il telefono, o un’esistenza intera: non avrebbe saputo dirlo, la Tassorosso. Spostando il braccio alla ricerca dell’apparecchio, le parve di dover trapassare strati infiniti d’acqua e sabbia, uno sforzo eccessivo per il corpo esile e già provato della Withpotatoes. C’erano troppe emozioni, in quella stanza - dolore, rabbia, impotenza. Il vuoto a risucchiare dall’interno. Asciugò il volto sulla spalla, e compose il numero.
    Una volta.
    Due volte.
    Alla terza, Gemes Hamilton rispose. «ehi» si schiarì la voce, il capo chinato ad osservare la mano abbandonata in grembo. Umettò le labbra, serrando le palpebre. Riusciva a percepire il proprio cuore assordarla, pesante in gola e fra le dita, incapace di rimanere quieto nel proprio posto d’appartenenza. Non voleva dirlo, Idem. Erano quelle cose per le quali piangeva l’anima, ma che accadevano sempre ad altri: tragedie simili, non potevano sfiorare i Withpotatoes. Erano troppo buoni. Idem ci aveva sempre creduto, nel lieto fine.
    Ma come poteva, perfino lei, continuare a sperare, se ogni volta glielo strappavano dal petto? Tacque per una manciata di secondi, deglutendo bile e lacrime. «puoi venire a casa?» Non ci provò neanche a mitigare il tono penoso di quella domanda, la supplica implicita fra le parole: si limitò a stringere il telefono, le nocche a sbiancare. È successa una cosa brutta. «è urgente» soffocò un singhiozzo obbligandosi a respirare dalle narici, le palpebre ancora serrate. «per favore.» concluse in un sussurro, sentendo la voce morirle in gola.
    Erano tutti morti. Chiuse il pugno sul pigiama, sollevando appena lo sguardo di fronte a sé. Gli occhi blu di Idem si posarono sulle figure evanescenti nella stanza, le corde vocali a vibrare di quella disperazione priva di lettere che consumava dall’interno. Si sciolsero in due pozze di languido e tormentato dolore, le iridi di Idem Withpotatoes – il blu che i pittori potevano solamente immaginare guardando il mare.
    «e sveglia anche Al.»

    Era ancora notte fonda, quando Idem e Isaac giunsero a New Hovel. La Tassorosso era caduta in una trance meccanica e cordiale, il sorriso a intiepidirle le labbra e la morte a seguirla come un’ombra: aveva indossato una camicetta bianca ed una gonna a fantasia floreale; i capelli corvini, trattenuti da un cerchietto rosa pastello, avevano una piega impeccabile. Sarebbe parsa un giglio, Idem, se non fosse stato per i suoi occhi – gonfi, arrossati, straziati. Quelli non mentivano mai. Una bambola di porcellana spaccata dall’interno. Avrebbe potuto aspettare, lasciare quel compito a qualcun altro, ma non l’avrebbe mai fatto: sentiva, nelle vene e sulla lingua, che era suo dovere. Che quel mondo non era giusto, ma lei sì: meritavano di sapere, loro. Meritavano di venirne a conoscenza prima che la notizia venisse schiaffeggiata loro in faccia dal notiziario, o dalle bocche troppo larghe di qualche vicino ben informato: voleva essere lei.
    Doveva, essere lei.
    Non aveva mai avuto una reale scelta.
    Il labbro inferiore cominciò a tremare così intensamente da obbligarla a stringerlo fra i denti, impedendogli di continuare quella danza a cui nessuno l’aveva invitato. Si volse verso Isaac, il blu degli occhi di Idem a trovare il proprio conforto nella calda, e triste, terra delle iridi di lui. E così, per il semplice bisogno di sentirlo vivo, Idem lo strinse a sé, circondandogli il collo con le braccia. Sentì le lacrime scivolarle nuovamente sulle guance inumidendo la maglietta di lui, ma non gli diede importanza; sentì le spalle minacciare di rompersi in singhiozzi, ma li ingoiò tutti: non poteva permettersi di crollare, perché non era certa ne sarebbe uscita indenne. Aveva bisogno di sé stessa, Idem: lo doveva a tutti loro. Lo doveva a Leon.
    Lo doveva a Idem.
    Si allontanò da Isaac, le dita ad indugiare sulle sue spalle. «grazie.» bisbigliò, un angolo delle labbra a piegarsi in un sorriso. Grazie del passaggio. Grazie per essere qui. Grazie di essere mio fratello. Grazie per volermi bene. Grazie per essere rimasto. E quel mi dispiace a cui aveva dato voce troppo spesso, nell’ora precedente – e che sentiva sempre sincero, sempre lacero. Annuì, indicandogli con il capo una piccola costruzione poco distante. Lei, aveva un’altra destinazione – una casa più grande, ma non lontana dalla meta di Isaac. Insieme? domandavano gli occhi del Lovecraft, troppo giovane per la spietatezza che aveva dovuto affrontare. Insieme, rispondevano quelli di Idem, riflessi di una vita che avrebbe voluto meritare. Non avevano bisogno della vicinanza fisica, per rimanere l’uno con l’altra. Erano una famiglia.
    Così, si divisero.
    Salì i pochi gradini che la separavano dalla porta d’ingresso, la gola secca e lo sguardo già umido. Intrecciò le dita fra loro, un sussurro incrinato a sfuggire dalle labbra rosee: «mi dispiace», le ripetè di nuovo, sentendo le ginocchia farsi deboli. «anche a me». Strinse gli occhi mentre un sospiro a metà fra un ansito ed un singhiozzo le infiammava i polmoni, le dita a premere delicatamente il campanello.
    Ed attese, Idem. Mentre il trambusto cresceva al di là della porta in legno, grugniti e tonfi a far vibrare il pavimento sotto i suoi piedi, la Withpotatoes cercava di stamparsi sulla bocca un sorriso degno di fiducia – quelli che offriva ai suoi pazienti, quelli così genuini che era impossibile spacciarli per falsi. Li sentiva davvero, quei sorrisi: la tristezza le curvava gli occhi, non le labbra. Le aprì un ragazzino dai capelli ramati e le palpebre pesanti, il profilo pallido e lentigginoso fiocamente illuminato mentre socchiudeva l’uscio. «ehi.» dovette tossire, la voce tremula a vibrarle sul palato. «todd, chi è?» ed altre facce, altrettanto assopite, spuntarono dall’appartamento di New Hovel: riconobbe Jeremy, l’assistente di Stiles; riconobbe Heidrun, e dietro di lei lo sguardo torvo di Jade. «idem?» Scioccamente, annuì, e grosse lacrime rotolarono lungo le gote chiare della Tassorosso. «mi dispiace.» implorò ancora, non sapendo più per cosa chiedesse scusa: per essere piombata lì nel cuore della notte ed averli svegliati; per quel pianto incontrollabile del quale a malapena si rendeva razionalmente conto; di quel sorriso sporco di tragedia. Heidrun avanzò, la schiena dritta e gli occhi improvvisamente vigili. Seguì lo sguardo verde bosco di lei, Idem, il cuore a saltarle un battito. Lo sentiva nei piedi, il muscolo cardiaco.
    Abbassò il capo, la gola a stringersi. «mi dispiace così tanto.» Run si portò una mano alla bocca, le labbra dischiuse. «cos’hai fatto?» Domandò debolmente, un’onda a lambire la costa.
    Non lo stava chiedendo a Idem. Non stava guardando Idem.
    E non fu Idem, a rispondere, mentre dall’interno della casa sbucava un intorpidito Eugene Jackson con un braccio a coprirgli gli occhi, e l’altro a stringere a sè un bambino.
    «tu che dici, Crane?» la donna, le braccia incrociate sul petto, si spezzò in un sorriso amaro e letargico. Se il suo tono avesse potuto essere imbottigliato, Idem realizzò, sarebbe stato un’ottima bomba nucleare: letale e corrosivo. Le bastò quel tremolio, quella risata di vetri scheggiati a spargersi sullo zerbino, per scioglierle il cuore e gli occhi. «sono morta.»
    E Delilah Jackson, pianse.

    Il sole filtrava dorato fra le fronde dell’Aetas, il parco di Hogsmeade. Il nuovo Ministro della magia britannico, aveva riflettuto apaticamente Idem, era stato gentile a permettere loro di celebrare i funerali fra quei tronchi, dove ancora rimbalzavano le note stridule di una giornata ignara di tutto – ignara di tutti. Chiudendo gli occhi, poteva percepire la densità dell’aria schiacciarle la pelle, levigandola come l’oceano avrebbe fatto con una pietra.
    Ma non sentiva alcun calore, Idem Withpotatoes. Ci provava, solo il cielo sapeva quanto ci stesse provando, ma non sentiva niente. Non l’aveva mai creduto possibile, lei; era sempre stata convinta che la fiamma ad arderle nello sguardo e nel petto non si sarebbe mai affievolita, scaldandola e scaldando chiunque la circondasse: quale tragedia, rendersi conto che talvolta non bastava. Continuava a ripetersi, in quegli occhi cobalto persi fra una nube e l’altra, che sarebbe tornato, che aveva solamente bisogno di tempo. Aveva bisogno di convincersene, incapace di accettare che, talvolta, le persone potessero cambiare: lei, lei fra tutti, non poteva. Aveva passato ventiquattro anni a render conto del fulgido ottimismo che le riluceva nello sguardo, non sarebbe stata coerente se avesse permesso a quello di spezzarla.
    Non dopo tutto quello che aveva fatto. Non per loro: non era quello che April o Nathan avrebbero voluto per lei. Torcendosi le dita fra loro, la Withpotatoes si domandava cosa continuare - a vivere, a sorridere: non sembrava esserci differenza, nella vita di Idem; conosceva gli stadi del lutto, d’altronde era una psicomaga, ma era ben diverso sapere qualcosa, rispetto al saperlo applicare – non esisteva un libretto d’istruzioni, quando la tua famiglia moriva in un attentato. Un attimo prima c’erano, e quello dopo non erano che presenze perlacee in un angolo della stanza, a ridere di una vita che non gli apparteneva più.
    Nathan ed April. Fra tutti, fra tutti, erano gli unici che non l’avevano mai giudicata. Per loro non era mai stata quella strana, quella della quale vergognarsi, quella diversa, quella cui sorridere perché suscitava tenerezza: erano stati i suoi migliori amici, i due fratelli, prima ancora di essere la sua famiglia. Non sapeva più chi essere, Idem, senza di loro.
    «non so cosa fare» confessò, in un sussurro labile destinato alla memoria di foglie e radici, il tono sottile e tormentato di un albero caduto solo. Indossava un corto vestitino giallo, spiga di grano fra fili d’erba - il preferito di Nathan, un regalo di April. Se lo stringeva addosso con il bisogno che un bambino soffocava nella trapunta ricamata dalla madre, la speranza sopita che nascondervi il viso avrebbe fatto desistere i mostri dall’attaccare. Poco importava che i mostri di Idem avessero già attaccato: sperava ancora, dopo due giorni, che non fosse vero. Deglutì, le unghie a premere nei palmi per richiamarsi ad una realtà che aveva ancora necessità della sua presenza. La cerimonia sarebbe cominciata di lì a breve, e la Withpotatoes non avrebbe mai lasciato gli altri ad affrontarla da soli - la sua famiglia, Donnie, Eugene. Non era difficile ricordarsi che anche loro avevano perso qualcuno, che non era sola in quel lutto – era semplicemente surreale, credere che anche loro riuscissero a convivere con quell’aspirante vuoto dentro. Li ammirava, Idem Withpotatoes. Era orgogliosa di avere persone del genere nella propria vita. Ma aveva bisogno di spazi, di respiri a cui confidare il proprio dolore senza sentirsi in colpa, senza il tremulo mi dispiace che le stringeva la gola ogni volta che sforzava le labbra ad un sorriso. Così lo ripetè, sapendo che qualcuno, ad ascoltarla, c’era sempre. Ci sarebbe stato sempre, ormai.
    «non so cosa fare.» più vicino ad una lacrima concreta, che non ad una sentenza razionale. Tenne gli occhi fissi sulla corteccia di fronte a sé, lo sguardo liquido a sfumare il tronco in una distratta pennellata marrone. «non devi fare niente» il sussurro freddo di una vita strappata. «devi solo essere…idem. Hanno bisogno di te» Ed allora si morse il labbro superiore, ruotando gli occhi su Nathan Withpotatoes. Suo fratello maggiore, la sua certezza e la sua risposta – colui che l’aveva sempre accettata, e che per primo le aveva rimboccato le coperte. Colui che aveva sempre una soluzione a qualunque problema, in grado di far sorridere non appena le labbra si curvavano in un broncio. «ma io ho bisogno di voi. non conta niente?» ed avrebbe un po’ voluto gridarla quella domanda, Idem, anziché sentirla scivolare sulla lingua come un granello di sabbia all’interno di una clessidra. Appena udibile, appena uno screzio sulla superficie opaca di una realtà astemia dal tanfo di distilleria – incoerente, ingiusta, bugiarda. April, poco distante, sospirò piano. Fu un gesto molto umano, per qualcuno che umano non era più. «non è giusto.» Deglutì l’ex Tassorosso, sentendo la gola stringersi ad ogni ansito. «siete…eravate, così buoni. mi mancate già.» ammise, serrando le palpebre e lasciando che le lacrime rotolassero lungo le guance, dove rapidamente le asciugò con il dorso delle mani. «ci sono tante cose che non sai. non siamo le persone che credevi» April inarcò le sopracciglia, avanzando di un passo verso di lei. Nathan le lanciò un’occhiata, un sorriso sghembo a piegare appena le labbra sottili. La sorella allungò le mani verso Idem, che istintivamente cercò di raggiungerle – vita e morte, astratto e concreto. Un brivido la percorse quando i polpastrelli attraversarono le dita di April, il pugno ora chiuso a stringere aria e rimpianto. Niente. Il cuore di Idem Withpotatoes, saltò un battito – o forse dieci, o forse cento. «ci sono cose di cui non vado fiera. Ho…» deglutì, distolse lo sguardo. «ho lavorato per i Dottori» Non le domandò in che senso, Idem. Non poteva importarle di meno cosa April avesse o meno potuto fare nel suo tempo libero: era certa, la Withpotatoes, che fosse buona.
    Certamente, non aveva meritato di morire in un attentato.
    C’erano tante voci, riguardo l’accaduto: alcuni riversavano le colpe sui babbani e sulle loro guerre di religione, puntando l’indice contro l’estremismo islamico che, nell’ultimo periodo, mieteva vittime quante foglie ad ingiallirsi sui rami in autunno; taluni accusavano i servizi segreti, sempre babbani, intenzionati a scatenare una guerra.
    Chi c’era, rimembrava il dorato stemma di Durmstrang, prima che tutto fosse fuoco e cenere.
    «non ha importanza» supplicò lieve, cercando le iridi scure di sua sorella. Non aveva più importanza, ormai. Le dispiaceva non gliene avesse mai parlato prima, ma di certo non avrebbe cambiato opinione su April: non avrebbe cambiato opinione su nessuno, Idem. Del buono che vedeva negli altri, faceva il proprio specchio. «io…» Nathan, le mani portate a coppa sulla bocca, la osservò con la disperazione di chi portava sulle proprie spalle il peso del mondo – uno di quei pruriti al palato impossibili da grattare, che soffocavano i respiri in singhiozzi. «non pensavo che… non avrei dovuto…» avrebbe voluto stringerlo, pregarlo di parlarle. Anche solo abbracciarlo un’ultima volta. «nath?» «idem?» Sobbalzò, lanciando un’occhiata alle proprie spalle – una voce viva, una presenza calda, un paio d’occhi indagatori. «sta iniziando la cerimonia» E la Withpotatoes annuì, i pollici a raccogliere lacrime che non s’era accorta di aver versato. Sorrise triste, di quella melanconica nostalgia priva di parole e tutta di tormento. «arrivo.» ma quando si volse verso Nathan ed April, loro non c’erano più.
    Per giungere alla radura, laddove si sarebbe tenuto il funerale, bastava seguire i fuochi fatui che, pallidi, indicavano la via – sempre dritto fino alla quercia bitorzoluta, quindi girare a destra. Il luogo adibito alla funzione era più curato e meno spoglio di quanto ci si potesse immaginare, se non si considerava la presenza massiccia di Idem ai preparativi: sedie bianche costellavano ordinatamente il corto prato ben tenuto, un piccolo corridoio libero al centro permetteva a chiunque di raggiungere facilmente il palchetto sopra elevato, laddove erano incorniciate le foto di coloro che erano state vittime dell’attentato.
    Sorrideva, Nathan Withpotatoes. Sorrideva, April Withpotatoes. Sorridevano, Delilah Jackson e Neil Armstrong, in quei fotogrammi che ripetevano, infinito ed all’infinito, la stessa ilare sequenza.
    Non sorrideva, Idem. Non sorrideva, Donnie.
    I morti sorridevano sempre di qualcosa che ai vivi ancora sfuggiva.
    E quelle simboliche bare vuote, a risuonar l’eco delle parole non dette.
    Idem rassettò un abito già impeccabile, gli occhi a scivolare sulle numerose teste che già avevano preso posto, e su quelle che avevano preferito rimanere in piedi ai margini della radura. Era stata sua premura promuovere l’evento a chiunque, non solamente a chi era interessato direttamente alla perdita di qualcuno di caro: tutti, quel primo luglio, avevano perso qualcosa. Non era necessario essere soldati al fronte per perdere una guerra. Non si trattava di una cerimonia religiosa, non era mai stata tradizione dei maghi, o almeno sicuramente non dei Withpotatoes, quella di riporre la propria fede in una creatura superiore – la fede, loro, la lasciavano agli esseri terreni. Si trattava di una funzione a cui avevano aderito alcuni fra i maggiori esponenti del mondo magico, simbolicamente presenti a portare il supporto della propria nazione: v’erano ambasciatori da ogni luogo, partendo dalla Cina fino a giungere allo Zimbabwe, ministeri esteri e qualche Primo Ministro Magico. Riuscì perfino ad intravedere, seduto sull’ultima sedia dell’ultima fila, il preside di Salem, William Lancaster. Jeanine Lafayette, preside di Beauxbatons, avrebbe cercato di raggiungerli in serata, o almeno così le era stato riferito dai suoi Portavoce: in Francia v’era ben più di un coccio da raccogliere, più d’una famiglia da stringere.
    Più di una battaglia persa sul quale piangere.
    Drizzò la schiena, un sorriso timido a spuntare dalle labbra pallide come una crepa in mezzo alla neve. Si fece strada nel corridoio, un rispettoso cenno con il capo a tutti coloro che ne incrociarono la sguardo – li guardò tutti, Idem, pur senza vederne nessuno. Una mano si allungò per porgerle un mazzolino di margherite, e la Withpotatoes si fermò giusto per rivolgere un’umida, ma grata, smorfia ad Erin, gli occhi gonfi ed il labbro tremulo. Si rese conto che molti seduti fra quelle file dovevano essere ancora studenti: era grata, la ex Tassorosso, che fossero lì. Che per una volta, una volta, vedessero che il mondo non girava solamente attorno ai caduti, ma anche – e soprattutto – a chi rimaneva in piedi, le braccia a sorreggersi e i cerotti ad unire i sanguinanti lembi di pelle. Non era solo un funerale, quello: era il simbolo di ricordi indelebili, e di una civiltà che si sforzava di andare avanti anche per loro.
    Non sarebbero rimaste vittime senza nome di una guerra priva d’età.
    Raggiunse la prima fila, dov’erano stati predisposte le sedie per i membri più stretti dei defunti. Si sistemò nella penultima seggiola verso l’esterno, la spalla destra a sfiorare la sinistra di Donnie, e l’altra a bearsi del vivo calore di Oliver. Inspirò e chiuse gli occhi, aprendo la mano verso il biondo fratello telepata: non sarebbe stata la prima a violare i suoi spazi personali, conscia di quanto fossero importanti per Oliver, ma se avesse voluto una mano da stringere, lei sarebbe stata lì. Lei sarebbe sempre, stata lì.
    Che loro lo sapessero o meno, che lo volessero o meno. «ehi» bisbigliò, cercando di schiarirsi la voce, lanciando un’occhiata a Donnie. Donald Armstrong non aveva seguito suo fratello in Francia, preferendo l’abitudinaria e tranquilla vita di Londra: eppure, dallo sguardo vuoto che perpetuò di fronte a sé, pareva che anche lui fosse partito con Neil. Un’altra taciuta vittima. L’unico cenno che le diede di averla sentita, fu quello di stringere le braccia attorno alla vita sottile della bambina tenuta testardamente in braccio, i lunghi capelli di un castano dorato a scivolare ordinati sulle spalle: Tupp. Era stata là, la bambina, con i suoi genitori.
    L’unica superstite dell’attentato. Nessuno sapeva come fosse stato possibile, e già qualcuno gridava al miracolo.
    Tupperware non aveva detto una parola da quando, quella notte stessa, era stata riportata a casa: Donnie l’aveva presa con sé senza neanche ascoltare le condoglianze dei francesi, la porta già chiusa loro in faccia. Qualcuno le aveva infilato un fiorellino azzurro dietro l’orecchio , ed i petali cobalto evidenziavano le sfumature più chiare delle iridi verde scuro. Non piangeva. Guardava un punto fisso davanti a sé, il labbro inferiore sporto all’infuori, ma non piangeva.
    Idem asciugò rapida una lacrima sulla spalla, mentre il primo ambasciatore prendeva posto sopra al palco, tossicchiando greve al microfono alcune parole di conforto.
    E la cerimonia iniziò.
    Tutte le nazioni dissero la loro, innalzando con un'unica voce lo stesso, sofferto, pensiero: ci dispiace per la vostra perdita, vi siamo vicini. Per qualunque cosa abbiate bisogno, noi siamo disponibili ad aiutarvi. È stata una tragedia inaspettata, ed attendiamo che le forze francesi riescano a comprendere l’origine dell’esplosione. Nessuno si azzardava ad alimentare una miccia già accesa, lasciando la scintilla a sfrigolare nel vuoto.
    Nessuno s’osava ad accusare, addossandosi una guerra.
    Fu il turno dei veterani, coloro che erano sopravvissuti a battaglie antiche ed a traumi sempre recenti: è difficile, ma bisogna andare avanti. Non sono morti invano – non sono morti soli. Accompagnati da ricordi dei loro vecchi compagni, nomi che dopo decadi ancora erano in grado di stringergli la gola. Idem Withpotatoes ascoltò tutto con l’interesse che avrebbe riservato ad un documentario, sentito ma non proprio: era emotivamente accanto a tutti loro, ovviamente, e soprattutto apprezzava che fossero stati disposti a parlare in una, e per una, situazione del genere, ma.
    Ma, non si fece altro che parlar di morti, di ciò che avevano perso. Come se loro, tutti loro, non sentissero quella mancanza in ogni battito, in ogni millilitro di sangue al cuore. La morte non era un argomento sconosciuto, di quei tempi - di quella vita. Ci convivevano, era qualcosa che veniva dato fin troppo per scontato, il motivo che spingeva molti a vivere alla giornata. A scegliere una fazione. Non era così che aveva immaginato l’addio ad April e Nathan. Non era quello l’arrivederci che tutti loro meritavano.
    Non voleva fossero ricordati così.
    Non voleva ricordarli così.
    Attese che anche l’ultimo degli ultimi scendesse dal palco, quindi lanciò uno sguardo al proprio fianco. «vieni con me?» domandò sottovoce, cercando gli occhi della bambina. Tupp la osservò a lungo, prima di spostare le iridi color muschio su Donald, che pareva essere in grado di mettere a fuoco solamente lei. Quando la bimba gli strinse la mano, lui lasciò uscire un respiro tremulo a fior di labbra, e deglutendo vistosamente ruotò il capo verso Idem. «posso venire anche io?» Non avrebbe neanche dovuto chiederlo, e certamente non con il tono aspro e tagliente di chi non apriva bocca da giorni. Fu più una supplica, quella di Donald Armstrong, gli occhi rossi e spalancati a pregarla di non lasciarlo solo. Anche Idem si ritrovò a deglutire, ed annuendo alcune lacrime scivolarono involontariamente lungo le guance, bagnandole il sorriso. «mi farebbe molto piacere» rispose, le dita a serrarsi attorno al braccio del babbano. Non rispose alla stretta, Donnie, ma non si ritrasse neanche. Ti prego, lasciami entrare. Non devi farlo da solo, te lo prometto. Si alzò, il capo chino ad evitare gli sguardi dei presenti, e con cautela giunse sopra il palchetto, accompagnata a poca distanza dall’elettrocineta e la bambina. Si schiarì la voce, un colpo al petto, e strinse nervosamente il fiocco giallo fra i capelli corvini. Solo quando ebbe finito i preparativi lasciò che gli occhi scivolassero sulla folla d’innanzi a sé, le labbra a sfiorare il microfono curvate in un sorriso timido. «grazie di essere venuti.» esordì, le dita a stringersi attorno al leggio - unica dimostrazione di quanto le costasse essere lì sopra, la completa attenzione del pubblico su di sé. Il nervosismo di Idem non era dato dall’impaccio del parlare davanti a tutti, ma dall’intima incapacità di rendere a parole quanto ogni respiro le spezzasse i polmoni, e quanto ogni battito stesse combattendo per renderla la Idem Withpotatoes che tutti conoscevano. Quella di cui avevano bisogno. Quella di cui Idem, in primis, aveva bisogno.
    Quella che ancora ci credeva.
    «mi chiamo idem, idem Withpotatoes. Sono…» era? Corrugò le sopracciglia, il labbro inferiore stretto fra i denti: la morte non le avrebbe tolto anche quello. «sono» confermò. «la sorella di Nathan ed april» un cenno con il capo alle pellicole al proprio fianco, gli occhi a scivolare sui profili dei fratelli. Si morse l’interno della guancia, e tacque il paio di secondi che le permisero di assicurarsi di avere un tono di voce più sicuro, meno simile all’effimero sventolare d’una foglia ambrata. «avete presente il gioco con l’aeroplanino tipico dei genitori per far mangiare i bambini?» strinse la bocca, un sorriso nostalgico a riempirle le iridi di un impossibile color fiordaliso. «nathan lo faceva sempre, con me. non mi piacevano…» una smorfia, il cuore a mancare un colpo. «…gli spinaci. Così si inventava ogni volta un mezzo di trasporto diverso, e ne elencava tutte le capacità. Si trattava sempre di prototipi inventati da lui, sapete. Nathan è …era un genio, sin da ragazzino. Bastava dargli uno stuzzicadenti, e lui era in grado di progettare una leva per aiutare nonna Seti a spostare i suoi vasi» ed il tono di voce si fece caldo e distante, denso di quell’ammirazione che aveva nutrito per suo fratello da tutta una vita. Non ricordava, Idem, un momento in cui avesse dubitato di Nathan. In cui avesse immaginato una vita senza di lui. «con april ho imparato a fare le trecce» inspirò, espirò tremula. Erano informazioni che non avevano alcuna rilevanza per altri, ma che avevano tutto per Idem: erano pezzi della sua vita, quelli. Erano ciò che l’avevano resa Idem. «e passavamo le giornate a farle al nostro vecchio cane, Bau» una risata tagliente e delicata, dall’amaro sapore di miele e sangue. «fu april a chiamarlo così, nonna insisteva per mikhail smirnov» arricciò il naso, il capo abbassato sulle proprie mani. «april riusciva sempre a scamparla, con nonna seti: l’unica, posso assicurarvelo» Lasciò uscire l’aria in uno sbuffo umido e inquieto, la mano ad asciugare rapida la guancia destra, ridendo piano di ricordi che aveva sempre reputato banali, e che banali non lo erano più. «è più difficile di quanto pensassi, scusate.» deglutì, un’occhiata di sottecchi di fronte a sé e l’ombra di un sorriso colpevole sulle labbra. «è così» reclinò il capo all’indietro, lo sguardo al cielo. «ingiusto. È così ingiusto che non ci siano più. perché?» ed alla fine si lasciò sgusciare fuor dalla bocca quella domanda patetica e triste, la supplica di una bambina che non riusciva a comprendere. «non sono stati condannati per ciò che facevano, ma per ciò che erano: esseri umani. Ho sentito tante persone parlare oggi, e ve ne sono immensamente grata, ma… dov’è la rabbia? Perché non siete arrabbiati?» perfino lei, perfino lei, era furiosa – di quella rabbia triste che si depositava nei polmoni, cenere in colpi di tosse al vento. Di quella così sottile che si confondeva nelle lacrime, ma che tale rimaneva: rabbia per un gesto privo di senso. Non erano morti perché ribelli, tutti loro.
    Erano morti privi di crimine, a causa di chi, il crimine, lo chiamava giustizia. «com’è potuto succedere? Doveva essere una festa. perché nessuno…» vuole un colpevole. «perché a nessuno importa? non è giusto. Non è giusta, quest’abitudine alla morte. La vita è preziosa, ed è una meraviglia, e non è...» Giusto. Non si trattava di una guerra di fazione, quella – non era una lotta politica, non era stato un raid ministeriale per stanare ribelli: erano morte persone innocenti ed ignare, oltre a membri della Resistenza.
    Erano morti dei bambini.
    Scosse il capo, le labbra ad inumidirsi. «questo è il motivo per il quale vi ho invitati qui, oggi. non esistono distinzioni, capite? Purosangue, esperimenti» Ribelli, Mangiamorte. «europei o americani. È in momenti come questo che dobbiamo rimanere uniti. Non abbiamo…» corrugò le sopracciglia, inspirando umida dal naso. «non dobbiamo permettere che simili attentati capitino ancora, e non dobbiamo lasciare che siano questi a separarci.» una pausa, il capo ancora chino.
    Silenzio. «nessuna vendetta li riporterebbe indietro. Non siamo qui per sottolineare le mancanze, ma per enfatizzare quello che ci hanno dato. e per imparare arcuò nervosamente un piede, poggiando il peso sulle dita. «rimpiango di non averli abbracciati un’ultima volta. E di non aver detto loro …» alzò gli occhi, trovando le traslucide figure di Nathan ed April di fronte a sé, a rendere opaca e lattiginosa la platea alle loro spalle. La voce le si ruppe a metà frase, seguendo l’altalenante percorso del proprio cuore. «grazie» un mezzo sorriso. «per le notti insonne passate a passare attrezzi a nathan, per i pomeriggi passati nei camerini dove april mi passava ogni genere di abito. E per i pranzi dove nonna ci serviva le patate al cartoccio più agghiaccianti – scusa, nonna, ma è vero – di Brighton, e noi di nascosto facevamo morra cinese per decidere chi le avrebbe finite. E per tutte quelle volte che mi avete detto che sarebbe andato tutto bene. E per tutte quelle volte in cui mi avete creduto» Gli occhi le si riempirono di lacrime, rendendo ancora più instabili i già sottili volti della sua famiglia. «e per avermi voluto bene sempre. E per avermi stretto la mano quando avevo paura. Sono onorata di essere vostra sorella» il tono ridotto ad un sussurro. «ieri e oggi, e domani e dopo ancora. e mi dispiace così tanto» un singhiozzo soffocato fra i denti, attutito da una risata triste. «di non avervelo detto quando eravate ancora vivi.» e di non avervi stretto abbastanza, e di avervi lasciato andare. «non ce n’era bisogno, idem» Serrò le palpebre, inumidendosi le labbra. «viviamo in un mondo fragile,» sorrise, la ex Tassorosso. Sorrise onesta, e gentile, e con negli occhi i sorrisi di Nathan ed April. «non aspettate che sia troppo tardi.» Allora guardò la sua famiglia, uno per uno, ed i suoi amici. Non avrebbe commesso ancora lo stesso errore. «so che mi odierete per averlo detto,» un sorriso sbilenco, lo sguardo ad ammiccare a Darden. «ma sono grata di essere vostra figlia, nipote, sorella,» e guardò Darden, Isaac, Oliver, Gemes. «cugina,» e cercò Damian, Anjelika, Shane – e Nathaniel, una nota ilare a curvarle la bocca. «collega,» guardò Stiles, e tutti coloro che lavoravano al San Mungo. «amica,» e cercò gli occhi di Euge, e Phobos, e Keanu, e tutti i ribelli e coloro che l’avevano accettata, malgrado le sue stranezze, durante il percorso di studi ad Hogwarts. «ma anche semplice conoscente. E volevo ringraziarvi dei sorrisi casuali,» fece spallucce, lo sguardo abbassato. «migliorano sempre la giornata. Mi dispiace di…» non essere normale. Di avere qualcosa che non va. Di avervi messo in imbarazzo, o di avervi regalato un fiore perché avevate un paio d’occhi belli. «so di non essere un granchè, ma sono tutto ciò che ho. Grazie per la pazienza?» fu più una domanda che un ringraziamento, le palpebre assottigliate ed un sorriso stentato sulle labbra. «migliorerò nei miei biscotti. La prossima volta nessuna intossicazione alimentare, lo prometto» Allungò una mano al proprio fianco, stringendo nel palmo la piccola mano di Tupp. Sollevò appena gli occhi sui fantasmi di Neil e Delilah, annuendo piano. «e vi prometto anche proteggerò sempre ciò che mi è rimasto. Ciò che mi avete lasciato» cambia questo mondo, Idem Withpotatoes.
    E tutto tacque, mentre Idem volgeva un sorriso impacciato dalle lacrime a Donnie e Tupp, le dita avvolte a quelle sottili della bambina.
    E tutto tacque finchè qualcuno, dalle ultime file, non si levò in piedi e cominciò ad applaudire.
    | ms.



    SURPRISE BITCHEEES.
    Volete sapere chi è il qualcuno misterioso? Avete già qualche idea, qualche teoria del complotto sulla vita? Per sapere se avete ragione o meno, dovrete attendere.
    Ho postato per prepararvi psicologicamente, darvi modo di iniziare il post, ma voi non potete ancora rispondere a questa discussione - manca qualcosa, manca un motivo.

    NEXT: 21:00.
    Tutti connessi per la verità.
    O per un'altra menzogna.


    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 11:59
     
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  2. vasilov‚ idc
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    Draw a monster. Why is it a monster? || 03.07.17 - 19:30
    «molto toccante,» commentò, il dödliritus stretto fra i denti a spegnersi in un ultimo, argenteo, filo di fumo. Dragomir Vasilov, il Drago, concluse il suo secco applauso con il più bieco dei sorrisi a denti stretti, gli occhi freddi incastrati sulla sottile e lontana figura di Idem Withpotatoes. Si beò, narcisista e peccatore, dell’espressione stupita e ferita della ragazza. Non fu l’unico ad alzarsi in piedi, il preside dell’istituto di Durmstrang: in molti, stupiti e poco deliziati dalla sua presenza, si alzarono fulminei dai posti a sedere, gli occhi a scivolare sulla sua scura figura.
    Dragomir conservò il cordiale sorriso apatico sulla bocca carnosa, vestito nei suoi impeccabili abiti neri. «ma non faccia promesse che non è certa di mantenere, signorina Withpotatoes» il tono di voce glaciale e cruento che non aveva bisogno di attrezzi esterni per giungere alla diretta interessata, o a chiunque altro fosse presente all’evento. «non credo che la sua presenza qui, oggi, sia una buona idea, preside.» Arcuò entrambe le sopracciglia alle parole della giovane, il bastone già puntato al suolo a sorreggerlo verso il centro del corridoio di caldi, frementi, corpi umani. «ho salvato suo fratello, mesi or sono. È poco cortese non invitarmi alla… festa d’addio.» reclinò il capo, l’espressione granitica a siglarsi in un mellifluo non detto. «inoltre, sono stato mandato per espiare la mia nazione dai peccati che taluni» schioccò la lingua sul palato, un passo verso il palco. «ci hanno ingiustamente attribuito.» fece scivolare lo sguardo vuoto sulla folla ivi riunita, un sorriso più marcato nell’intravedere il profilo di Lancaster. Quando William lo salutò, il Drago non rispose. «vede, credo che Lei, e molti dei presenti, si sia fatta un’idea errata, sul mio conto» avanzò, lento ed inevitabile quanto la colata d’un vulcano, marcando ogni passo con un tonfo sordo del bastone da passeggio. «sono molte le cose che non tollero, ed al contrario di voi inglesi, non sento il bisogno di nasconderlo dietro falsa umiltà:» un altro passo, e gli occhi, di uno spettrale languore, ad incatenarsi a quelli di chi sapeva, Vasilov, essere… babbani - prima di divenire abomini: il passo da bestiame a mostruosità, di quei tempi, era sempre più sottile. «il sangue ributtante,» un altro passo, la bocca già storta nell’inquadrare la sfilza di studenti ai suoi fianchi. Vasilov conosceva molto, molto bene, il corpo docenti e gli studenti di Hogwarts, un’altra istituzione che avrebbe volentieri raso al suolo. «il sangue debole,» si soffermò nei pressi di coloro che sapeva essere mezzosangue – la ex caposcuola Quinn, il giocatore di quidditch Milkobitch, le cugine Hollins. Con il bastone, pungolò il mento di Eleanor per costringerla ad alzare il capo, scuotendo il proprio con malcelato disgusto. Quale immensa vergogna, per Christopher Quinn, l’essersi macchiato della nomea di sangue Sprecato. «per non parlare degli Illeciti, coloro che sono capitati nel nostro mondo per un errore,» si riferiva ai nati babbani, chiaramente. Si spostò d’un altro passo, giungendo così di fronte alla tal Kavinsky, gli occhi a esortare taglienti il vicino Moonarie. «e tali rimangono.» avvicinò la mano ai biondi capelli dei due, fermandosi prima di poterli toccare.
    Non entrava in tale confidenza con gli Sporchi, se poteva evitarlo.
    Anche se, qualche eccezione, poteva farla. E l’avrebbe fatta, per una più che buona causa. Il sorriso si fece più marcato, più affilato, più cosciente, figlio d’una promessa d’altre labbra, mentre le iridi ghiaccio cozzavano contro l’alto profilo di un ragazzo. Si posizionò di fronte a lui, Vasilov, la testa alzata per incontrarne gli occhi chiari. Ed allora la mano la allungò, stringendola su parte del viso di un ben conosciuto Knowles.
    Un Dimenticato da dimenticare. «qual è il tuo nome?» alzò la mano libera per impedire a chiunque di avvicinarsi, o di osare interferire. Premette il pollice sulla carne, rendendo pallidi lividi violacei. Un sorriso – il suo, il loro. «cj.» Sbattè le palpebre, Dragomir Vasilov. «e chi sei, cj Un gioco – il suo, il loro. Il ragazzo scosse lentamente il capo, gli occhi a bruciare verso qualcuno alle spalle di Vasilov. «non sono un tipo paziente» incalzò, schiacciando maggiormente su cicatrici antiche. Quando CJ riportò l’attenzione su di lui, lo fece con una lentezza appiccicosa ed intenzionale che gli diede il voltastomaco. «nessuno» e quella smorfia, e quel sapore d’ironia a sfrigolare sulla pelle.
    Vasilov sorrise, lanciando una pacata occhiata ai loro spettatori. Qualcuno non guardava – gli ambasciatori, quelli che masticavano politica e tramezzini al cetriolo – qualcuno veniva trattenuto, qualcuno sembrava sul punto d’intervenire.
    Qualcuno sorrideva – c’era sempre qualcuno a riderne.
    Nessuno avrebbe mosso un dito per un Nessuno, e lo sapevano tutti – non potevano iniziare una guerra solamente perché gli approcci di Dragomir tendevano ad essere intimi; non potevano rischiare di farlo alterare, minacciando la già precaria posizione del ragazzino. In sostanza, quella era la sua partita.
    Di nuovo.
    «stato di sangue?» sapeva già la risposta.
    E Christopher già sapeva, che quella sarebbe stata la domanda. Dragomir rinserrò la presa.
    «sconosciuto.» e non tollerava quegli intermezzi, come i suoi colleghi poco prima. Che non erano né carne né pesce, non voluti da alcun mondo. Figurarsi da Vasilov, che con quelli come loro tappezzava il proprio ufficio. Allora fece scivolare la mano dalla fronte del Tassorosso al mento, pressando sulla carne con la sottile lama nascosta nel pollice. Un taglio lungo, lento, che gocciolò caldo sul guanto di Dragomir e corrosivo sulla camicia bianca dello studente.
    Lui sorrise. Il Drago calcò maggiormente.
    «vasilov.» Lancaster lo richiamò. Il Drago, ancora, calcò di più. Quando Christopher silenziosamente rise, fu lui stesso a premersi involontariamente contro la lama, accompagnando la ferita al suo concludersi – il sangue a colare denso sul collo, su zigomi troppo marcati. Sentì alcuni movimenti alle proprie spalle. «non agitatevi, è tutto sotto controllo. Non v’è alcun bisogno che interveniate, siamo a posto. Giusto, christopher? Dì loro come stai.» un respiro caldo, quello di Dragomir.
    Uno sguardo caldo, quello di CJ. Si portò la mano al viso, sporcando le dita di sangue. Sollevata davanti agli occhi, il giovane osservò il preside di Dursmtrang anziché il proprio sangue infetto, abietto, non riconosciuto. Spostò lo sguardo sui presenti, guardando tutti e nessuno con le bionde sopracciglia arcuate. Immorale e vizioso, chiuse la mano lievemente a pugno, portando alla bocca un ben teso dito medio. «una favola.» e guardando Dragomir, leccò con studiata lentezza il sangue dalla propria pelle, senza celare l’intento poco velato dietro quel gesto universale.
    Ed era lì tutto ciò di cui aveva bisogno. Poggiò il manico del bastone sul petto del Tassorosso.
    « vasilov, è abbastanza. Credo che tutti abbiano capito dove volevi arrivare, mh? Diteglielo, su, così è felice.» Quanto sarebbe morto male, quel vecchio bastardo d’un americano. Sospirò, gli occhi incollati sulla camicia chiazzata del ragazzino.
    Sarebbe stato per un’altra volta. D’altronde, anche lui avrebbe preferito iniziare una battaglia per motivi più nobili, che non un sangue sporco – troppo suscettibili, quegli inglesi. Retrocedette d’un passo, il bastone nuovamente al suolo. «è così?» domandò, tornando al centro del corridoio. Guardò Lancaster, ora in piedi a poca distanza da lui – e gli sorrise, perché ambedue sapevano che quel marcio a inaridirsi fra loro avrebbe piegato prima William di Dragomir. A Lancaster piaceva l’equilibrio, ma non abbastanza da sacrificare sé stesso.
    Un vero peccato.
    «avete realmente compreso?» avanzò ancora, allungando il braccio al proprio fianco per macchiar d’ignominia gli abiti dei presenti, sangue su tessuti leggeri a disegnare un preciso percorso, ed infine lanciò il guanto colpevole a qualcuno fra le prime file, attento solo che non fosse uno dei, sempre più rari, Sangue Puro, trovandosi infine nei pressi del palco. Guardò la bambina, il fanciullo. La donna dal vestito giallo e gli occhi blu. «come ho già detto, non amo nascondere le mie intenzioni.» e quando invece lo faceva, sceglieva con cautela chiunque potesse ricondurre i fatti a lui, un segreto dischiuso nel buio del proibito. Il che portava ad un’unica, mirabolante, conclusione. Si volse verso gli spettatori, le spalle alle bare: «questo, è quello che faccio;» indicò con la mano ora nuda il sangue al suolo, il ragazzo che aveva ferito. «un attentato? Non è nel mio stile.» osservò Damian Icesprite, il vice Ministro inglese. «ecco perché sono qui: per proclamare la mia innocenza. Non mi piacciono le accuse infondate, sono così...» si umettò le labbra, gli occhi socchiusi. «pericolose.» sorrise.
    Sapevano tutti cosa quelle parole volessero dire.
    «io ti ho visto.» Il tono acuto e capriccioso della bambina a farsi strada fra i presenti, orticario quanto una pianta velenosa. Il sorriso si gelò sulle labbra di Dragomir, mentre da sopra la spalla volgeva una prima annoiata occhiata all’infante. Ne seguì un silenzio denso, dove risuonavano solamente respiri e sfrigolar d’abiti. «non sai di cosa parli, bambina.» rispose, voltandosi infine verso la fonte di tal accusa. Salì sul primo gradino e si piegò sulle ginocchia, avvicinando il volto a quello della pargola stretta alla gamba del ragazzo. «questi sono affari degli adulti.» reclinò il capo, ed ancora sorrise. «renderle incombenze tue, non sarebbe affatto piacevole.» accennò ad avvicinarsi ancora, ed entrambi gli adulti sul palco si mossero come un sipario a chiudergli la visuale sulla creatura: alzò lo sguardo, Dragomir Vasilov, ritrovandosi ad una troppo vicina Idem Withpotatoes. Devo forse specificarlo che delle sue perdite, non poteva importargli di meno? Pur trovandosi uno scalino sottostante, riusciva ad essere più alto di lei, il capo ora abbassato per incrociarne gli occhi blu.
    Ma lei non stava guardando lui.

    «ricordo il sole a illuminare la piazza, rendendo il calore dei corpi ammassati intollerabile. Stringevo la mano di Tupp, la quale era estasiata dal trovarsi fra altri bambini della sua età – emozionata dalle bancarelle, dai vestiti colorati, da i droni che si sollevavano sopra le teste dal sanguigno colore di un sicarius. C’era il particolare odore delle fiere, non so se avete presente…» «…quello di sudore misto a zucchero, e del bruciato di invenzioni non particolarmente riuscite. E quello chimico, sostanze delle quali neanche i loro scopritori sanno pronunciare il nome.» la testa piegata da un lato, il sorriso distratto a piegarle le labbra. Delilah sussurrava al suo orecchio, lo sguardo azzurro a premere concretamente su Vasilov, il tono un basso ringhio – e Idem ripeteva ogni parola, le difese abbassate per permettere alla Jackson di parlare tramite la sua bocca. «non sono esattamente una persona da persone, ma …» «Cristo, per Tupp potevo fare un eccezione. Non era neanche troppo male – non il mio genere, ecco. Essere circondata da persone intelligenti era una novità» e gli occhi di Idem seguirono quelli di Delilah, posandosi leggeri su Eugene e Fox. «i bambini ridevano di battute che gli adulti non capivano più. poco distante una giostra aveva cominciato a girare…» «… e tupp ci ha costretti a fendere la folla per raggiungerla: cosa fanno, le luci ed un po’ di musica, ai bambini. E lei aveva sempre amato quegli…» «…stupidi cavalli. Si arrampicava sulla sella affermando di essere una principessa, e sapete una cosa?» Idem abbassò lo sguardo sulla bambina, la voce sottile. «lo era davvero. Andava tutto bene, finchè le cose non sono…» «...precipitate fottutamente rapidamente. Nessun preavviso, nessun grido – finchè il primo edificio non è collassato su sé stesso, portando con sé tutti coloro all’interno. E poi un secondo, ed un terzo, e» «poi erano ovunque, e c’era solo gente che scappava. Il resto è molto … confuso. Persone che cercavano di fuggire portando in braccio i feriti. I maghi cercavano di smaterializzarsi, ma senza successo. Grida, pianti – e mi hanno spinta, e tanti sono stati schiacciati da piedi che cercavano la salvezza. Ricordo di aver spinto Tupp in un fottuto tombino, promettendole che saremmo tornati a prenderla. E ricordo,» «Cristo santissimo, quel fottuto stemma dorato, e le vostre fottute casacche nere: eravate lì» Idem scese lo scalino, trovandosi vertiginosamente vicina a Vasilov. Sollevò la testa per poterlo guardare in volto, le sopracciglia corrugate mentre le lacrime delle quali neanche si era accorta s’asciugavano sulle guance. «non mi prendere per il culo, preside di sto cazzo:» «perché stavano ridendo, loro, mentre tutto bruciava. Perché?» strinse le labbra, la gola stretta in una morsa di bruciante ira disperata. «perché ci avete fatto questo?»
    Vasilov rimase immobile, limitandosi a sbattere le spesse palpebre prive di ciglia. C’era qualcosa di serio, e primordiale, e pericoloso nel suo sguardo – privo d’umanità come uno squalo ch’avesse percepito una goccia di sangue nell’oceano, un lupo selvatico trovatosi a distinguere una minaccia da eliminare da un semplice contrattempo. «i morti non dovrebbero parlare.» una languida occhiata a Lancaster, allusiva e conoscitrice silenziosa di una realtà che non avrebbe dovuto essere possibile. «siete degli stupidi.» ed allora sorrise, piegandosi in avanti per avvicinare le labbra all’orecchio della Withpotatoes, così che quel sussurro fosse solo per lei – per loro. «ma ecco cosa succede, quando ci si mischia ai babbani. Se la sono cercata.» Non seppe mai, la Withpotatoes, quanto di quel gesto fosse suo, e quanto di Delilah Jackson. Entrambe si trovarono d’accordo nel stringere la mano a pugno, e colpire con netta precisione il naso dell’uomo – le conoscenze della Jackson, l’impotenza di Idem.
    La carne a cozzare contro la carne.
    Il sangue a spillare dal volto dell’uomo, un grugnito basso e disumano a denti stretti – ed Idem con le dita strette al petto, lo sguardo meravigliato ma la postura fiera di chi non rimpiangeva nulla. Drizzò le spalle – lui, lei. Nella folla, qualcuno cominciò a muoversi - il silenzio ad anticipare il primo rombo di tuono, asfissiante e denso nei polmoni.
    «degli stupidi.» ruppe la quiete per primo, Dragomir Vasilov, premendo con maggior fervore il bastone nel terriccio umido. Eppure rideva, sporco di sangue e di cattive intenzioni, crudele e vizioso. «e ne pagherete il prezzo.»
    E fu in quel momento, che giunse il rombo.

    «dragomir.» un ringhio, più che un suono umano. Una bestemmia, più che un nome – quasi che il solo pronunciarlo ad alta voce, fosse un crimine. Vasilov non sorrideva più quando, stringendo i denti, si ritrovò ad alzare il capo incrociando la lontana figura di Jeanine Lafayette farsi strada fra gli arbusti – l’oro, il bianco ed il celeste a mescolarsi in quel piccolo corteo raccolto dalla preside di Beauxbatons. I suoi occhi bruciavano, le pupille sembravano aver ingoiato l’anello azzurro delle iridi. Prese un fazzoletto dal taschino, Dragomir, tamponando il sangue che avevano osato strappargli dalle vene – e solo Dio sapeva quanto avrebbero pagato per quel furto, quanto il tempo avrebbe mietuto le giuste vittime. «jeanine.» rispose, pacato ed affilato quanto un ghiacciaio in Antartide. A seguire la donna, alcuni dei suoi fedelissimi - almeno una ventina di francesi occuparono parte della radura, in quella sfortunata ventura. Non credeva sarebbe stata così sciocca da presentarsi lì, in quell’occasione – eppure ci aveva sperato, come dimostrò nella smorfia malevola che le rivolse.
    «cos’hai fatto.» Reclinò il capo, trovandosi ormai ad un paio di metri di distanza dall’elegante e slanciata donna dai capelli dorati e lo sguardo d’inferno.
    Apparenze.
    «è così che vuoi giocartela, Jeanine?» piegò morbido il capo, una tacita sfida negli occhi.
    «come hai osato vibrava di rabbia, la Lafayette. Vibrava come una corda tirata troppo a lungo giunta infine al punto di rottura, il tono aguzzo di una lancia forgiata con il fuoco.
    «io?» contese ancora, sorridendo di quella dolcezza che strangolava il cuore in petto. Inarcò le sopracciglia, avanzando di un passo nella direzione della donna. «pensaci bene, jeanine. Stai molto attenta a quel che dici.» Fu il turno di Jeanine di sorridere, fredda e crudele come un cristallo.
    «bambini, andiamo: vi sembra il momento opportuno?»
    Lancaster sarebbe stato il primo a morire. Non lo guardò mentre si spostava fluido fra la folla ivi riunita, giungendo preciso e concreto al centro del sipario – sparti acque opportunista, un passo indietro per evitare di ritrovarsi nella linea di fuoco. Non era un brav’uomo, William Lancaster.
    Odiava l’ipocrisia, Vasilov. Il preside di Salem reggeva un dolcetto da ambedue le mani, e sorrideva di un’allegria che percepiva solamente lui – inadatto, l’uomo, lo era stato sempre. Pareva un tale idiota, da rendere assai difficile prenderlo sul serio.
    Stratega bastardo. «politica, meh. c’è il cibo, ci sono tante belle persone-» si fermò per ammiccare a qualcuno nella folla, le sopracciglia cespugliose arcuate. «non litigate.» e malgrado il sorriso non vacillasse, il tono si fece serio e greve, la minaccia sottile che s’arrampicava sulle braccia per stringere i polmoni. «non è il caso di discuterne davanti a tutti.» ed invece, lo era. Lo guardò, Vasilov – e lo guardò Jeanine, la stessa eguale risposta nei loro occhi.
    «non vorrete cert-»
    «la francia ha deciso: dragomir vasilov è stato giudicato colpevole.»
    Tutti trattennero il fiato – perfino gli alberi, le nuvole. Il brio di Lancaster scivolò al suolo come acqua di una cascata, raccogliendosi placida ai suoi piedi.
    Tutto rimase immobile per istanti che parvero infiniti, mentre le parole di Jeanine rimbalzavano come dardi da una corteccia all’altra, segnando l’inizio della fine.
    Il trionfo di lei. Il sorriso di lui.
    William Lancaster si spostò, guadagnando posizione nelle retrovie.
    «sai cosa significa, Jeanine?» chiese mellifluo, abbassando lo sguardo sulle proprie mani giunte sul bastone. Non aveva aspettato altro, Dragomir – ma non aveva creduto che la Lafayette si sarebbe spinta a tanto. Lei annuì, secca. «sì.»
    Vasilov si inumidì le labbra, alzando la mano destra al cielo. Una risata ironica gli scosse debolmente le spalle, tentatrice e subdola quanto la carezza d’una puttana. «come la signora desidera.» schioccò le dita, e tuniche nere comparvero ai margini della radura – sempre stati lì, i suoi adepti, in attesa di un segno dal loro Signore. Asciugò una goccia di sangue dal labbro superiore passandovi la lingua, mentre le mani altrui scattavano alle armi.
    Lancaster, immobile, li guardò con il giudizio secco che Dio doveva aver provato scagliando Adamo ed Eva sulla Terra.
    Quello che aveva cambiato tutto.
    Dragomir Vasilov sorrise – di quell’idiozia, di quella tela d’inganni e falsità.
    «e allora guerra sia.»
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    E questo, infine, è il momento delle spiegazioni.
    Il primo luglio c'è stato un attentato in Francia, sono morti in molti - in troppi. Il tre luglio è stata organizzata una cerimonia per ricordare i defunti, una placida radura al centro del parco Aetas.
    Ora.
    TUTTI, ovviamente, sono invitati a partecipare - studenti, adulti, maghi, special, ribelli, mangiamorte. Volendo, potete portare anche pg fittizi (cosa sono? pg in costruzione, che non hanno ancora una scheda - o che siete intenzionati, prima o poi, a fare).
    La situazione è difficile e spinosa, come potrete immaginare. L'inizio della fine.
    Ci troviamo in una situazione di stallo, e chiunque di voi potrebbe cambiare le carte in tavola. Perchè, ovviamente, ora siete voi a decidere come agire: ed avete completa carta bianca. Potete provare a fare un discorso, attaccare una delle due fazioni, cercare di calmare le acque o incrementare il caos - oppure potete andarvene, o potete parlare fra voi, cercare aiuto e decidere insieme. Comprendere cosa sia realmente successo, quel primo luglio.
    Potete essere auto conclusivi, in caso sarà il Fato a specificare come si evolve la situazione - ma non si tratta di una quest, o di una mini quest: nessun punto esperienza, nessuna fascia, nessun limite.
    è il momento di entrare nel gioco, di far vostro questo gioco: dimostrate di non essere solo pedine.
    Dimostrate che questa scacchiera, è anche vostra.
    Che un nuovo mondo abbia inizio.
     
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  3. t r o u v a i l l e
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  4. thundër
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    2001's | gryffindor | l. rebel
    byron d. winston
    It feels like a tear in my heart. Like a part of me missing and i just can't feel it.
    can you hold me? || 03.07.17 - 18:00
    Morte.
    Una di quelle pochissime costanti che accomunavano l’umanità intera. Non le importava nulla dello stato di sangue, dell’età, non discriminava in alcun modo. Lei si avvicinava ad ogni singola persona al mondo e lentamente, distruggeva tutto ciò che amavano. Quel giorno, aveva deciso di distruggere ben più di una famiglia. Osservava dritto di fronte a sé, verso le bare vicine all’altare della chiesa. Lacrime che inesorabilmente gli solcavano il volto e bruciavano, a contatto con delle ferite ancora fresche su entrambe le guance. Sentì una mano stringere la propria e si girò verso di essa. Guardò verso il basso, dove una ragazzina di qualche anno meno di lui lo fissava, accennando un sorriso. «Non ti preoccupare.» Pronunciò quelle parole in sua direzione, per poi cominciare a stringergli la mano con una forza eccessiva. Provare ad allontanarsi era inutile, mentre il volto della bambina si trasformava in un corpo scheletrico, quelle parole che prima volevano essere rassicuranti sembravano diventare una minaccia. «Io non ti lascerò mai.»

    Fu l’urlo del Grifondoro a squarciare il silenzio della mattina a casa Winston. Acuto, visto come la sua voce non si era ancora totalmente sviluppata. Il respiro incredibilmente affannato prima di scendere dal proprio letto. Si trovava nell’appartamento con Leaf, quindi grazie al cielo poteva sperare che Mae non l’avesse sentito. Sembrava provato da un semplice risveglio, il che aveva qualcosa di poco credibile. Una corsa in cucina, per recuperare dell’acqua, ritrovandosi faccia a faccia con il fratello. «Non sapevo di aver preso un gallo per svegliarmi la mattina.» Si limitò a pronunciare quella frase, prima di mettersi a bere il proprio caffè. «Stai bene?» Il più giovane inizialmente si limitò ad annuire, un leggero sospiro. «Sì, tranquillo, era solo un incubo.» Quella frase si poteva tradurre molto semplicemente. “Per favore, non dirlo a Mae.” Per quanto strano, riteneva quel sogno quasi normale. Non avendo mai avuto un’effettiva famiglia fino a pochi anni prima, Byron aveva avuto la fortuna di non dover mai presenziare ad un funerale, o insomma, ad una specie di celebrazione, se così si poteva definire. Finì per bere di corsa il suo zucchero con un po’ di caffè, senza nemmeno mangiare altro, consapevole di come lo aspettasse una colazione dalla madre adottiva. «Però non raccontarlo a nessuno, eh.» Un piagnucolio quasi scherzoso, come una lamentela, se si trattasse di una qualche paura infantile di eventuali voci su lui che se la fa a letto. Sarebbe bastato a farsi prendere meno sul serio e a non far preoccupare gli altri, a quel punto. «Vado da Mae, sennò devo dire addio alla cravatta.» Accennò un sorriso quindi verso Leaf, prima di dileguarsi di corsa per raggiungere casa Makota. Un piccolo nido di amore ed adozioni, che in quel momento non poteva che essere decisamente piacevole. Deglutì, relativamente nervoso, entrando con indosso solamente un paio di ciabatte ed un pigiama azzurrino che poteva essere definito come imbarazzante, ma non troppo. Aveva provato ad essere relativamente furtivo, ma non faceva affatto per lui, così come dimostrò la domanda proveniente dalla Winston. «Leaf ti ha di nuovo svegliato con l'acqua ghiacciata?» Si fermò immediatamente sui suoi passi, voltandosi in direzione della Corvonero. Un sorriso nervoso sul volto, prima di sospirare ed annuire. «Sì, ancora...» Menzogna, super menzogna, e il radar di mamma l'avrebbe assolutamente colta. Ne era certo, ma doveva perlomeno provarci. «Corro subito a cambiarmi!» Per evitare domande scomode, si mise a correre per raggiungere camera sua, ma nemmeno un Muffliato lo avrebbe salvato dal sentire le preoccupazioni altrui. «Hai messo la canottiera?» Si fermò solo per qualche istante, guardando indietro relativamente confuso. «Ma... sono ancora in pigiama!» Calò il silenzio. Mentre il gelo si avvicinava sentivo anche molto freddo il cielo si oscuri. Il giovane sapeva di aver sbagliato, poteva percepire la furia preoccupata a qualche corridoio di distanza. «HAI DORMITO SENZA?» Ricominciò la corsa, urlando giusto un «MA È ESTATE!» consapevole che non sarebbe bastato a scagionarlo e che qualcuno, quella mattina, avrebbe mangiato un pancake con meno sciroppo d'acero rispetto al solito. Un ultimo sguardo allo specchio, annuendo ad una figura di sé più elegante rispetto al solito. «Ci sono!» Esclamò in direzione di Mae, prima di dirigersi verso la bionda con una cravatta nera in mano ed un sorriso accennato. Questa era poi stata allacciata solo dopo aver controllato più e più volte la presenza di una canottiera, così come la perfetta stiratura dei vestiti. Gli sembrò quasi di vedere una lacrima sul volto dell'altra, semplicemente mentre si dirigevano verso il luogo prestabilito, ma probabilmente si trattava solo di un'impressione.

    Si era allontanato dalla sua famiglia, posizionandosi vicino ad un gruppo abbastanza numeroso di studenti. Si sentiva più a suo agio, per quanto non li conoscesse tutti. Voleva evitare un confronto, il dover dare una spiegazione a quell'urlo che già sapeva avrebbe significato inutili preoccupazioni su preoccupazioni, dato il cuore di mamma di Mae. Aveva ascoltato il discorso di Idem Withpotatoes e in qualche modo, pur non avendo particolarmente a cuore molti dei caduti, aveva finito per comprenderlo a fondo, per commuoversi, un paio di lacrime che si facevano strada, ma senza bruciare. Non provava rabbia in quel momento, era più una tristezza generale ed una sorta di compassione verso coloro a cui importava davvero. Coloro che avevano perso qualcuno di veramente importante e fra tutti, lo sguardo cadde su Tupperware. Una bambina privata dei genitori lo toccava più di qualsiasi altra cosa. Più di quella coraggiosa e sofferente ragazza che aveva fatto commuovere quasi tutte le persone lì riunite. Perché quasi? Beh... senza alcun dubbio, su quell'uomo -se così lo si poteva definire- non aveva fatto alcuna impressione vera e propria. Ad ogni passo, ad ogni parola, gli sembrò di sentire il proprio sangue ribollire nelle vene. Non aveva mai incontrato Vasilov in vita sua, ma sapeva semplicemente che era il preside di Durmstrang e adesso, era al corrente di come fosse uno stronzo epocale. «È colpa sua.» Un sussurro, udibile solo da altri studenti vicini, prima di muovere qualche passo in direzione del Tassorosso preso di mira dall'uomo. Finì per estrarre la bacchetta dal fodero, stringendola con forza nella mano destra. Controllo. In una situazione rischiosa come quella, era indispensabile. «una favola.» Osservò quel rivolo di sangue e, per quanto il gesto simbolico dopo una critica simile fosse decisamente potente, non riuscì a rimanere immobile. Fece qualche passo in sua direzione, quando l'uomo si era allontanato. «Aspetta...» Si limitò a pronunciare, prima che l'altro si mettesse ad interromperlo, «il sangue mi dona». Alzò gli occhi al cielo, prima di pronunciare l'incantesimo. «Epismendo» e poi tenere ancora stretta la bacchetta «un'infezione ti avrebbe sicuramente donato meno, lo stesso vale per il morire dissanguato.» E sì, probabilmente sarebbe potuto succedere anche solo con quel taglio. Aveva rotto fin troppo le scatole a Dakota per informazioni sul suo lavoro e su come curare gli altri, in fondo. Accennò un sorriso, che non scomparve nemmeno a quella che sembrava quasi una minaccia da parte dell'altro. «devi imparare a farti i cazzi tuoi.» Non si mosse da quella posizione, un «figurati.» Quasi a sfottò per l'assenza di un ringraziamento vero e proprio da parte dell'altro. Fece quindi qualche passo indietro, cominciando a guardarsi intorno alla ricerca di Maeve, Leaf, Dakota o qualsiasi altro volto conosciuto. Quella situazione non sembrava essere delle migliori, anzi. E insomma, quando c'erano di mezzo attentati e i presidi di tre delle principali scuole del mondo magico, persino un Grifondoro poteva tentennare.
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  5. don't joke with icesprite
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    damian| 1983's | vice minister
    Icesprite
    silence says a lot.
    more than you think.
    these are hard times for dreamers || 03.07.17 - 18:00
    Quando Damian aveva appreso la notizia della morte di April e Nathan Withpotatoes, suoi cugini, si trovava al Ministero. All’inizio, si era trattata di una notizia flash senza alcun nome e priva di dettagli, ma i sospetti che potesse trattarsi di un attacco magico si erano subito diffusi sulle bocche degli impiegati dell’apparato Militare del Ministero. Così, alcune tra le figure di spicco di ogni settore erano state inviati in Francia per capire meglio la situazione. Perseus Black non aveva esitato ad inviare i suoi pavor in borghese, così come non avevano esitato a recarvisi impiegati di altri settori, come era stato per la francese Akelei Beaumont e persino la Guardiacaccia di Hogwarts, Pearl O’Sullivan. Alla fine, però, forse Damian avrebbe preferito non sapere. La chiamata ad Idem era avvenuta al mattino presto, ancora prima dell’alba e la ragazza, con voce spezzata dal dolore, aveva confermato il coinvolgimento di April e Nathan.
    Erano i suoi cugini, Damian li aveva visti crescere e nonostante troppo spesso le idee sulla vita avessero provato a separarli, erano sempre rimasti in buoni rapporti, e Damian conservava gelosamente ricordi sulla loro infanzia insieme. Magari non aveva passato gli ultimi anni di vita a stretto contatto con loro, ma rimanevano suoi cugini. E poi c’era Idem. Discorso complicato. Stava soffrendo come forse mai aveva sofferto in vita sua, e Damian probabilmente non sarebbe riuscito ad esserle vicino come avrebbe dovuto. Non solo perché di indole non era portato a ciò – non era sicuro di saper consolare, per esempio. - ma soprattutto perché, da poco tempo, aveva appreso che lei fosse una ribelle e questo, anche se l’uomo cercava di non ammetterlo ad alta voce – probabilmente non ce n’era nemmeno bisogno - pesava sulle sue spalle come un macigno. Un segreto nascosto per anni, e Damian poteva capirne i motivi. Lo capiva, certo, ma non lo accettava. Come poteva accettarlo? Ancora una volta una scelta di vita che tentava di dividerli, e questa volta avrebbe potuto essere la volta definitiva, ma l’Icesprite non voleva, per troppi motivi. Uno tra tanti era rappresentato dal fatto che Idem lo aveva accettato per tutto quel tempo, consapevole che lui fosse, forse, l’emblema di ciò che lei avrebbe dovuto odiare di più, ed invece non aveva fatto altro che amarlo. Come aveva fatto a stargli vicino per tutti quegli anni? E quante volte lui l’aveva delusa ma lei non glielo aveva mai fatto pesare davvero? Mai come in quel momento di vita, Damian, si era ritrovato a ricredersi sul proprio essere: non era solo bianco o nero, come chiunque aveva avuto motivo di pensare, ma sotto il manto scuro che rappresentava il suo essere era dipinto di un grigio brillante e soprattutto umano.
    Il pensiero della morte dei suoi cugini lo aveva accompagnato per tutto il tragitto verso casa. Era rientrato ripetendo le stesse azioni quotidiane in un muto silenzio, un muto silenzio che non aveva destato sospetto in coloro che vivevano in casa con lui. Damian era spesso silenzioso dopo una nottata di lavoro, cosa dovevano aspettarsi? Nemmeno Anjelika sembrava essersi accorta che qualcosa non andava, era tutto così normale. Niente avrebbe potuto far sospettare la distruzione silenziosa che si faceva spazio nel cuore del Vice Ministro, un ricordo alla volta.
    Solo Shane percepì quel dolore, una costrizione intensa all’altezza del cuore, che lo aveva costretto a svegliarsi non appena Damian aveva varcato la soglia di Villa Icesprite. Un dolore ambulante, così poteva essere definito. Il rosso era corso giù per le scale saltando i gradini due alla volta, rischiando di inciampare alla fine della rampa e tenendosi al muro per non cadere. Cosa è successo?! Aveva domandato, ritrovandosi dinnanzi a suo zio appena entrato, ammutolito e distrutto da quella notte. Lui non aveva risposto, aveva semplicemente chiuso gli occhi un attimo, portato la mano alla fronte e tratto un lungo respiro. Vestitevi, andiamo dagli Withpotatoes. Anjelika era comparsa in lingerie sulla porta della sala, incurante del fatto che Magnus fosse nei paraggi. Con la bacchetta aveva fatto volteggiare un abito perfettamente in tinta con il rosso del cielo mattutino, senza battere ciglio. Solo dopo aveva domandato Perchè? Domanda più che lecita, raramente si presentavano a casa degli Withpotatoes alle sette del mattino.
    Anche Magnus comparve sulla porta, e per Damian fu ancora più difficile formulare quelle parole, così come guardarlo negli occhi. In effetti evitava lo sguardo di chiunque quella mattina. Damian era bravo con le parole, certo, faceva parte del suo lavoro, ma non si trattava di un discorso diplomatico o qualcosa di puramente politico, ciò che risultava complicato era rendere a parole ciò che era successo e che li riguardava da molto vicino. Non sarebbe riuscito a dirlo in altro modo, non ne era capace. April e Nathan sono morti. Un attentato in Francia.
    Risparmiò loro la parte che riguardava i sospetti del Ministero su un possibile attacco di natura magica, così come evitò accuratamente di spiegare, per ciò che il Ministero poteva sapere, i dettagli dell’accaduto. Poi si rivolse a Magnus.
    I tuoi pronipoti, nipoti di Seti. Magnus non aveva avuto l’opportunità di conoscere bene i suoi pronipoti, Damian non era sicuro nemmeno che gli importasse più di tanto, non erano nemmeno davvero parenti in fondo e poi April e Nathan erano spesso impegnati per lavoro e giravano un po’ l’Europa.
    Shane aveva portato le mani al volto, diventando tanto più simile ad un dipinto di Munch che ad un essere umano, ed era sbiancato. Così, era passata la loro giornata, nel pianto silenzioso dei cugini, nella sofferenza generale e nei nodi alla gola.
    Shane aveva deciso di non partecipare al funerale, Idem poteva capirne i motivi, così come poteva farlo la sua famiglia. Morte significava sofferenza e Shane non poteva addentrarsi in mezzo ad una folla sofferente senza uscirne illeso lui stesso. Era il suo potere, la sua condanna.

    Damian aveva partecipato al funerale dei suoi cugini nonostante la caterva di lavoro che aveva lasciato arretrato al Ministero, in cui continuavano a giungere aggiornamenti sull’attentato, dettagli che andavano rivisti e catalogati, calcolati infine per giungere ad un motivo, ad un nome. Intanto il sospetto che l’attacco fosse di natura magica era diventata una certezza, ma nessuno del Ministero della Magia inglese era stato presente a quell’attentato e fosse tornato indietro per descriverne i dettagli in modo assoluto.
    Ehi... Le salutò con tono neutro, accostandosi alle cugine prima dell’inizio della celebrazione funebre, posò una mano sulla spalla di Idem per farle sentire la propria presenza. Lo stesso, poi, fece con Darden, accarezzandole appena un braccio. Vederla così cresciuta lo sorprendeva ogni volta, era diventata una donna, ribelle ed irriverente, ma una donna e lui non se n’era nemmeno accorto. Le riunioni di famiglia, se così potevano essere definite, sorprendevano sempre l’Icesprite, lo portavano a pensare “ed io dov’ero tutto questo tempo?” dov’era lui mentre loro crescevano? Il lavoro lo aveva divorato per anni, e quei brevi sprazzi di realtà quasi lo inquietavano. Le strinse in un abbraccio, un abbraccio vero, di quelli che non era solito dare e che era sicuro valesse più di altre parole di circostanza. La piccola Idem, con il suo discorso, attirò numerosi applausi, ma un uomo tra tutti, inaspettatamente, spiccò tra la folla.
    Vasilov. Forse fu in quel momento che Icesprite decise di tenere vicina la propria bacchetta, lanciando uno sguardo allusivo a sua moglie al suo fianco. O forse, non si era nemmeno reso conto di essere rimasto allerta tutto il tempo, quasi come a voler prevedere come quella giornata si sarebbe andata a concludere. La mascella si serrò, diventando dura come la pietra.
    Vasilov, la pensavano allo stesso modo su parecchi argomenti, avevano avuto modo di confrontarsi altre volte durante le riunioni che venivano svolte a periodi e che comprendevano figure di spicco del mondo magico. Vasilov aveva un pensiero, aveva uno scopo e Damian lo appoggiava, appoggiava quegli ideali e questo era per loro un punto di incontro. Allo stesso tempo, però, il Vice sapeva di dover tenere gli occhi sempre aperti su di lui. Ascoltò le sue parole, e l’intervento dei presidi di Salem e Beauxbatons. Lo stupore nel volto di Damian non era presente, forse un po’ lo sospettava. Non una guerra tra Mangiamorte e Ribelli, quella era una guerra tra Nazioni. E Damian Icesprite, nemmeno a dirlo, tifava per casa sua. Conservatore, lo era per molte cose, a volte un po’ chiuso ed anche un po’ xenofobo. La pensavano allo stesso modo sui sangue sporco, lui e Dragomir, e l’uomo del nord ne era ben informato, com’era anche informato del fatto che mai avrebbe dovuto mettere bocca negli affari inglesi - cose che, alla fine, non lo riguardavano affatto o lo riguardavano in parte - . Ma sapeva che era un essere incontrollabile, il Drago, beneficiava del suo nome e Damian ne accettava l’origine. Questo non significava, però, che avrebbe lasciato che quello straniero sfasciasse l’Inghilterra, compromettendo la vita di centinaia di persone inglesi, tra cui, sì, Mezzosangue, Purosangue ed Esperimenti. Non lo aveva capito ancora, Vasilov, che controllare era meglio che distruggere?
    In quanto Vice Ministro, Icesprite aveva il compito di impedire lo scoppio di una battaglia non organizzata dal Ministero, aveva il compito di proteggere e tutelare i maghi inglesi, di non lasciare che il Signor Vasilov aggredisse i cittadini inglesi – per di più tra cui i suoi familiari, per di più al funerale dei suoi cugini, per di più, ancora una volta, cugini che lui stesso aveva fatto ammazzare.
    Gli stermini non facevano parte dell’indole di Damian, troppo sangue, nonostante a volte fossero necessari. Capiva il movente di Vasilov, il problema era che Damian lo capiva ed era questo piccolo dettaglio a creare, nel Vice Ministro, un vuoto ancestrale ed una confusione altrettanto profonda.
    Ma c’era qualcosa di più grande, qualcosa che andava al di là della semplice voglia di fare pulizia, Damian lo sapeva, ed era certo, allo stesso modo, che le motivazioni che avevano spinto Vasilov ad un tale gesto fossero soprattutto altre. Tante domande attanagliavano il suo pensiero: perché proprio in Francia? Non sapeva tante cose, il Vice, ma era certo che Vasilov non avesse lasciato le cose al caso. Comunque, non attese che Idem – o chi per lei, a questo punto - finisse il discorso, era tutto molto chiaro, sapeva del potere di sua cugina, aveva sempre ammirato chi come lei fosse in grado di avere un contatto con l’aldilà, perché riteneva l’aldilà il posto in cui tutto è risaputo. Solo i morti potevano sapere come fossero andate le cose ed ad ogni parola, Damian aveva costruito un castello sulle fondamenta di ciò che già sapeva e che aveva scoperto in quanto Vice. Bastardo. Strinse i denti, in una smorfia che appariva simile ad un inquietante sorriso. Non attese di accertarsi della cosa, non attese di sapere cosa sarebbe accaduto dopo. Estrasse la bacchetta da sotto il lungo soprabito nero, l’aveva tenuta stretta tra le dita durante tutta la cerimonia, aveva temuto che accadesse qualcosa di simile a quello che stava avvenendo su quella radura, ma il Ministero era informato sulla portata che avrebbe avuto la cerimonia, troppe persone, e si sa, quando ci sono tante persone è necessario avere anche tanta sicurezza. Expecto Sicarium.
    Il pensiero doloroso non dovette cercarlo a lungo, era diretto anche a loro: April e Nathan.
    Damian aveva diciassette anni, aveva appena concluso i suoi studi ad Hogwarts con il massimo dei voti, ed era andato a trovare, insieme a sua nonna Lewi, zia Seti ed i suoi cugini. Era, da sempre, il cugino più grande, per cui avrebbe dovuto essere il più responsabile, e poi era così intelligente - cit nonne Lewi e Seti - le nonne erano sicure che andare al mercato insieme e lasciare Nathan, Idem, April e Darden con lui fosse l'idea del secolo. Mi raccomando con Darden, Damian! E' così piccola. Il caldo afoso ed insopportabile, però, lo aveva costretto a non essere così responsabile come avrebbe dovuto. Aveva portato i bambini in giardino e per farli contenti (e far smettere di piangere la più piccola, annoiata) aveva ghiacciato il laghetto dietro casa, facendolo diventare un perfetto campo da pattinaggio. Non avevano i pattini, piccolo dettaglio, ma era stato divertente finchè Nathan non si era slogato un polso. A parte questo, era stato un bel pomeriggio ricco di risate e sguardi illuminati e felici, una giornata che avevano ricordato i giorni a seguire, gli anni a seguire e poi, probabilmente, era stata dimenticata, come tanti ricordi del passato che vengono dimenticati dai bambini. Questo ricordo, che Damian non aveva dimenticato, creò in lui un profondo senso di nostalgia e dolore, data la situazione attuale, che gli permise di compiere quella la formula.
    La figura di un sottile mamba nero comparve nell’aria per farsi strada sul terreno e sparire poco dopo aver udito le parole di Damian. A Reynald Bolton. Mandate l’esercito. La guerra era iniziata ancora prima che Vasilov formulasse nel suo pensiero l’idea di attaccare.
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    Edited by shane is howling - 17/7/2017, 16:17
     
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    Un funerale, non era esattamente un evento a cui mi piaceva andare. Non per chissà che ragione, semplicemente mi saliva spesso tanta rabbia in quelle occasioni. Fatto sta che Syria voleva andare, principalmente come occasione per ricordare altre persone morte anche se non avrebbero dovuto. Quanti morivano per.. che ragione esattamente? Io ero con lei, ma per ragioni diverse. In primis per farle un po' da spalla, poi perchè comunque volevo evitare andasse in mezzo a troppa gente da sola. Non avrei dovuto preoccuparmene forse, ma tendevo a preoccuparmi per molti, specie se parte della mia famiglia, quella vera si intende. Quindi eravamo lì sedute, in mezzo ad un sacco di gente sconosciuta, altri che conoscevo di vista per lo più. C'era anhe qualcuno di quelli che avevo aiutato. Indossavo un abbigliameno semplice, composto da maglia a maniche lunghe, pantaloni e stivali tutto nero. Aggiungete i capelli del loro castano scuro e voilà, persino la mia bacchetta in legno d'ebano era scura, la sola cosa che spiccava era la carnagione pallida, avevo anche la collana di nonna, nascosta sotto la maglia, per sicurezza.
    A tenere il discorso fu una certa Idem Withpotatoes, una tipa con un nome strano, ma era sorella dei due ragazzi morti. Mi si strinse il cuore, davvero poteva essere chiunque. Erano morti in molti in Francia, ma quanti altri avrebbero potuto essere lì? O al posto di altri? Era meglio non pensarci. Quando la giovane donna cominciò a parlare, prestai tutta la mia attenzione a lei, ascoltando quelle parole colme di forza ma non solo, anche speranza. E mi trovai pure d'accordo su molte cose che disse. Voltai il capo un momento verso Syria, che sedeva al mio fianco. Un solo sguardo che parlava chiaro. Volevo in qualche modo farle capire ciò che stavo pensando, se vogliamo. Non appena terminò di parlare, ci fu un momento di silenzio, sino a che qualcuno non applaudì dal fondo e mi voltai ad osservare chi fosse. C'era qualcosa di sbagliato in quell'applauso e infatti, proveniva da una persona che nemmeno si poteva definire tale, già da come si poneva mi faceva pensare ad un serpente, anzi peggio mai offenderei un serpente nobili creature.
    Fatto sta che cominciò lui il suo discorsetto, e se lui guardò Syria e me con quello sguardo disgustato, io glielo restituii senza problemi Debole? Non siamo noi i deboli, qui esclamai senza farmi problemi, che mi sentisse, non mi nascondevo. Mai lo facevo e mai lo avrei fatto. Continuò pure la sua passeggiata, fermandosi davanti ad un ragazzo, col quale decise di prendersela. Non ero un granchè a controllarmi, anzi, o secondo voi perchè ero finita spesso nella sala? Non certo perchè accettavo quelle cose. Strinsi i pugni, davvero mancava un pelo e scattavo. Guardai verso Idem, un secondo, ecco quello era il funerale di sua sorella e suo fratello, perchè quel.. coso, doveva fare così? Alla fine ecco che fece il suo percorso e lo seguii con sguardo carico d'odio, il problema era che riuscivo a trattenere la maggior parte dei muscoli, ma non la lingua, quella andava per conto suo Qui qualcuno ha paura dissi semplicemente, anche se forse solo Syria e pochi altri lì attorno avrebbero sentito, ma solo per la distanza. Non andavo a sprecare voce per un essere di quel genere, ma lo sguardo rimase puntato su di lui, non certo perchè ero interessata a ciò che diceva, sapeva solamente minacciare, null'altro. Poi ci fu un po' di confusione, arrivò la Lafayette che comunicò che quel tale era stato dichiarato colpevole. In sostanza in men che non si dica, fu il chaos, la guerra era iniziata. Come comparvero gli adepti del coso, così scattai in piedi Sy dissi semplicemente verso mia cugina, porgendole la mano sinistra mentre la destra andava alla vita, al fodero, prendendo la bacchetta d'ebano e stringendovi attorno le dita. Era tempo di cambiare le cose, anche se di poco, tutto poteva cominciare da lì.
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    must have changed me some,
    a f t e r . a l l . »
    before you start a war you better know what you're fighting for
    02.07 -- ore 02.14 Ci sono persone che la sentono nell'aria, preventivamente. Una brezza fresca portatrice di cattive notizie, un malessere allo stomaco che non è dovuto a nient'altro, una serie di coincidenze che ti portano lentamente a scoprire cosa capiterà solo quando ormai è troppo tardi per cambiare le cose. Tragedia.
    Nathaniel non credeva a cose simili. Non era forse l'uomo più ottimista della terra, e sapeva bene che certe volte le cose brutte accadono (Brecon ne era un esempio recente), ma tendeva a non pensarci, a non tendere l'orecchio alla ricerca di un dolore futuro che, comunque, non avrebbe potuto impedirsi.
    Per lui quella serata era una come tante; cena alla buona con quello che aveva trovato in frigo davanti a un qualche telefilm in streaming, cazzeggio sul suo forum per vedere le nuove discussioni, se qualcuno aveva risposto al topic riguardo lo shippaccaso appena estratto, qualche messaggio sulla chat pubblica dello shipper club, giusto per non restare indietro con i nuovi tormentoni.
    "Avete sentito della francia? Assurdo!" Forse da quei messaggi avrebbe potuto capire "Dicono che è probabile fra le vittime ci siano degli inglesi" Forse avrebbe dovuto capire. Immaginare. Preoccuparsi. Fare qualche chiamata. Invece, con la calma tipica di chi è convinto che tanto le disgrazie capitano sempre agli altri (andiamo, lui aveva già dato), aveva continuato a stare sereno nel suo torpore domestico. Finchè non avevano suonato alla porta.
    Andò ad aprire quasi saltellando, pieno di gioia inaspettata, vedendo nell'anteprima del campanello elettronico il faccino della sua ragazza, ma spalancata la porta capì subito che qualcosa non andava. Lei non andava. Non era una visita di piacere, un "passavo di qui" che a volte Aveline buttava lì andando a casa di Nate senza un vero preavviso (e Nathaniel sperava sempre che fosse una bugia, come a volte le leggeva negli occhi, e che in realtà fosse andata da lui di proposito).
    «Amore-..?»
    Nathaniel allungò titubante la mano, due dita a cercare di accarezzarle la guancia morbida senza riuscirci, perchè Aveline si era già spinta in avanti, nascondendo il viso contro il suo petto. Nate fu veloce a portarle una mano sul fianco per stringerla a sè, indietreggiando lievemente e portandosela appresso per chiudere la porta dietro di loro. Posò le labbra sulla chioma arancione, un gesto protettivo e gentile. Non sapeva cosa fosse accaduto, ma poteva immaginare che fosse brutto. Brutto davvero.
    «Non-...»
    Nathaniel non l'avrebbe forzata a parlare, nè mai avrebbe sciolto l'abbraccio per primo. Passava semplicemente le dita con calma fra i capelli di lei, per tranquillizzarla, la bocca ancora a sfiorarle la testa, e fu Aveline a decidere quando staccarsi, e fu Aveline a dare a Nathaniel la notizia. Con quale parole, non è importante, come importante per il professore non era neanche il come, in quel momento, quanto il chi.
    Nathan.
    April.
    Neil.
    Delilah.

    E forse, altre persone che conosceva, altri visi già intravisti da qualche parte, ma decise che non si sarebbe perso a pensarci. Non quando c'era Avelne a cui doveva pensare. «Ti faccio una tisana»
    Ti faccio una tisana, accompagnato da un bacio sulla fronte e senza lasciarle il fianco mentre la portava in cucina, che voleva dire che capiva, che voleva dire che avrebbe accettato qualsiasi reazione della rossa per la morte della sorella, che voleva dire ovviamente che lei avrebbe potuto passare la notte, e tutto il tempo che avrebbe desiderato, a casa sua.
    E mentre Aveline sorseggiava seduta al tavolo, lo sguardo gonfio e fisso nel nulla e non davvero alla tv accesa su una vecchia puntata di Friends, Nathaniel scriveva a chi conosceva, chiedeva se stessero tutti bene (Jericho? Eli? Euge? Jay? Lydia? Alec? Tutti?), chiedeva conferme sulle notizie date da Aveline. Ma andiamo: che conferme vuoi in più quando la tua ragazza è una medium? Stesso potere che per altro aveva da poco sviluppato Idem. Quale tragica ironia per le due sorelle delle vittime!
    Digitò veloce a Idem, chiedendosi quale sarebbe stata la cosa migliore da dirle. "Volevo inviarti un sicarius, o fare un salto da te, ma in questo momento mi è difficile. Se ti serve qualsiasi cosa, sono con Aveline a casa, sempre raggiungibile, sempre pronto per parlarne. Ti sono vicino, scimmietta, anche se non posso davvero dire di capirti."
    Aveva già chiesto a Elijah se avesse sentito Euge, cosa ne pensasse, se secondo lui fosse il caso andare subito a trovarlo o lasciarlo qualche ora al suo dolore e alla sua rabbia con la nuova famiglia, ma doveva chiedere anche a Aveline. «Vuoi andare da Euge?» non un sussurro, quello di Nate, ma una domanda lecita mentre posava la mano sul braccio di Aveline. Non avrebbe usato un tono di voce basso, come parlando ad un bambino o a una bambola pronta a spezzarsi; poteva capire, purtroppo per averlo vissuto in qualche modo sulla sua pelle e non solo per sentito dire, cosa lei stesse provando, e sapeva come aveva voluto che la gente si riferisse a lui.
    «Non voglio vederla...» Nathaniel aggrottò le sopracciglia, cercando di capire. Jaden? Tupperware? «Non voglio vederla, Nate... non ce la faccio. Non ancora»
    "Ah".
    Delilah, giusto. Nate avvicinò la sedia alla sua, i visi vicini ma non abbastanza per baciarla, la mano ancora sul suo braccio. Un semplice "sono qui". «Vorrà dire che la terrai fuori, e noi cercheremo di tenerci impegnati, ok?» Lo schioccò veloce di un bacio sulla guancia. «Andiamo domani dopo un bel sonno ristoratore da Euge. Ora ci facciamo una dormita, con in sottofondo Ross che cerca di conquistare Rachel in modo imbarazzante, mh? E se ti va parliamo un po' accoccolati; di quello che vuoi»
    E sorrideva Nathaniel, sapendo che non sarebbe stata una bella dormita. E sorrideva, perchè il volume acceso con Friends era più per se stesso, che non sarebbe riuscito ad accettare il silenzio. E sorrideva, pur soffrendo anche lui, perchè per Aveline voleva essere sempre ciò di cui aveva più bisogno, fosse un insegnante, un migliore amico, una sostegno.

    03.07 -- ore 18.00 abbandonato sulla sedia, Nathaniel si massaggiava stancamente gli occhi senza sorridere, temendo che avrebbe potuto addormentarsi da un momento all'altro. Pur non essendo grande fan del caffè, quei due giorni ne aveva bevuti più che normalmente in un'intera settimana, ma si stava lentamente rendendo conto che basarsi sulla caffeina per tenersi sveglio poteva non essere un'idea vincente. "E' solo un funerale. Non devo fare niente, se non essere qui, vicino a chi ne ha bisogno. Ce la posso fare". Quando notò che Aveline lo stava guardando, si allungò a tradimento verso di lei, baciandole il naso e incurvando poi leggermente le labbra.
    «Mi dispiace»
    «Non hai bisogno di chiedere scusa per niente»
    Dire che si era svegliato all'alba, non sarebbe del tutto corretto, quanto lo sarebbe invece far notare che Nathaniel, per la seconda notte di fila, aveva di nuovo dormito appena. Stringere Aveline fra le braccia era sempre un dono del cielo, agli occhi di Nate, e le notti passate così erano le sue preferite... ma il pensiero dell'attentato in Francia non aveva fatto che martellargli la testa, l'idea che April fosse così giovane, Nathan così buono, Del così coraggiosa, Neil così in gamba, Tupp, da loro lasciata sola, così innocente. E i loro amici e familiari così distrutti per quanto successo. Anzi, Aveline non era distrutta, di più. Forse il suo potere l'avvicinava all'idea della morte in un modo che Nate non comprendeva, forse il suo rapporto con la sorella e il compagno era molto più profondo di quanto il ragazzo pensasse, o solo stava affrontando il lutto diversamente dal Nate dodicenne, che per i primi giorni di certo non era stato diplomatico come Aveline, il cui unico problema sembrava non riuscire a dormire bene. «Non devi alzarti ogni volta che mi alzo io» «Scherzi? Non ti lascio da sola con i miei tè. Ti preparo una camomilla».
    Durante il giorno erano infine andati da Euge, da Idem, Damian, Lydia (in fondo, erano stati studenti anche suoi)... Nathaniel aveva fatto attenzione che nessuna notizia dell'attentati finisse sotto gli occhi di Aveline (erano così disumani i fatti, e disumani i giornalisti), e semplicemente era stato vicino a lei e a chiunque gli paresse ne avesse bisogno.
    Aveva cercato di non pensare all'ultima lezione degli special con Neil, al sorrisone che gli avevano sempre riservato Nathan e April entrando in casa WP, ai ricordi di una Delilah bambina che lo prendeva in giro.
    Lui il lutto non sapeva affrontarlo, nè voleva farlo. Semplicemente, non sembrava vero.
    Quando Idem iniziò a parlare, Nathaniel guardava altrove. La mano stringeva quella di Aveline, ma gli occhi erano distanti, al verde, alla vita. Ovunque, ma non alle bare vuote.
    Non aveva voluto partecipare al funerale di sua madre, più di dieci anni fa. Sembrava assurdo essere lì quel giorno.
    «questo è il motivo per il quale vi ho invitati qui, oggi. non esistono distinzioni, capite? Purosangue, esperimenti, europei o americani. È in momenti come questo che dobbiamo rimanere uniti. Non abbiamo… non dobbiamo permettere che simili attentati capitino ancora, e non dobbiamo lasciare che siano questi a separarci.»
    Non sbuffò ironico, Nate, perchè non voleva che Aveline pensasse che trovasse divertente quel discorso. Tuttavia, sarebbe stata la verità.
    "E' così una Idem". Come se non fosse nata nel loro stesso universo, capite? Come se non fosse stata cresciuta a pane e torture, a censura e discriminazione. Nate era il primo a sapere che gli special non valessero poi meno degli altri... ma siamo sinceri: un discorso del genere, era idilliaco. Era quasi stupido, di fronte a tutta quella gente. "Che sia io lo stupido? Magari la morte può davvero avvinare le persone, una Idem e un Damian"
    «...rimpiango di non averli abbracciati un’ultima volta...»
    «...E per tutte quelle volte che mi avete detto che sarebbe andato tutto bene. E per tutte quelle volte in cui mi avete creduto...»
    «volevo ringraziarvi dei sorrisi casuali. migliorano sempre la giornata...»
    «...e vi prometto anche proteggerò sempre ciò che mi è rimasto. Ciò che mi avete lasciato...»

    Chissà se anche al funerale di sua madre qualcuno aveva parlato in quel modo, magari gli Hades, magari suo zio.
    Chissà se anche al suo funerale ci sarebbe stata una Idem a dire cose carine.
    Strinse la mano di Aveline, per farle sentire che era vicino, sempre, e se voleva- «molto toccante,»
    Si voltò verso la voce che, senza vergogna, si era alzata dalla file.
    Magia magia, chi sarà mai?

    Sembrerà una frase già sentita, ma le cose precipitarono molto male e molto in fretta. Il magico trio dei presidi, già apparsi a Brecon a dimostrare la loro importanza sulla scacchiera, erano di nuovo al centro della scena, al centro dell'azione. Vasilov per primo, con le sue constatazioni fredde nell'avvicinarsi a gente a caso per il parco, Lancaster, il solito fuori dai giochi (quello che Nate avrebbe protetto a costo di uccidere altri, se le cose fossero andate così male; Lancaster reggeva fra le dita la vita di troppe persone, di troppe persone che amava), e infine Lafayatte, che accusò il primo senza mezzi termini.
    Ovviamente, poteva essere qualcosa di infondato.
    Ovviamente, poteva essere del tutto vero. Era un po' nello stile del drago, a farci caso, e Delilah, parlando attraverso Idem, sembrava confermarlo.
    Nate non era sicuro di che cosa stesse accadendo, di quale sarebbe stata la scelta migliore, la cosa più giusta. Ma di una cosa era sicuro.
    «A Reynald Bolton. Mandate l’esercito.»
    La guerra, non era una soluzione. Soldati addestrati a uccidere in una folla di innocenti, contro un uomo come Vasilov, non erano una soluzione. «Scusami»
    Lasciò la mano ad Aveline, affrettandosi al luogo dove gli adulti stavano discutendo di cose da grandi. «Damian»
    Secco, ma con un sorriso sulle labbra che doveva essere accondiscendente. «Politica estera! Non facciamo sciocchezze avventate. Sono sicuro che il signor Vasilov sarà disponibile a usare la diplomazia per discolparsi. Magari al ministero, senza tutta questa gente poco interessata ai vostri battibecchi» Calcò il tono della voce «Senza tutti questi bambini»
    Si voltò verso Vasilov. «Mi sbaglio?» Probabilmente sbagliava. Vasilov era un drago. Non sembrava certo il tipo interessato a vite innocenti o disposto a farsi mettere in gabbia tanto facilmente. Perchè se finora aveva (blandamente) negato la sua partecipazione all'attentato, sarebbe dovuto cambiare qualcosa al ministero nemico?
    Però Nate un po' ci credeva, abbastanza da fare un tentativo. Oltre al fatto che sotto sotto doveva un favore a Vasilov (aveva pur sempre salvato parecchi a Brecon, sebbene non tutti).
    Aveva sempre appoggiato il governo, pur non essendo al cento per cento d'accordo, ritenendolo un valido compromesso alla guerra. Se il regime causava discontenti, allo stesso tempo dava lavoro, un tetto sopra la testa, sicurezza. La guerra causava solo morti, e arricchiva chi già era ricco.
    Valeva davvero la pena imbarcarsi a freddo in una guerra contro la Germania e gli stati alleati? Signore, erano nel 2017, non negli anni trenta. Erano migliori di così. Avevano imparato la lezione.
    | ms.



    Va da Damian e co, e cerca di calmare le acque #ceseprova
    ho praticamente abusato solo di Aveline, ma due giorni sono lunghi #wat sicuramente per messaggio ha sentito tutti i suoi amiki e familiari più stretti,
    dal vivo come fa comodo a voi ♥


    grazie sara che ti fai rubare il code mlmlml anche se non sapevo cambiare il colore ai simboli, nè se si potesse fare (?) quindi ZAC!


    Edited by mephobia/ - 19/7/2017, 02:19
     
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    She dreamed of paradise
    every time she closed her eyes.

    books may well be the only true magic || 03.07.17
    01.07.17||«Vai che la so!» La ragazza non si accorse nemmeno delle occhiate confuse che le rivolsero gli altri clienti nel bar, tanto era concentrata sullo schermo del suo computer. E voi penserete, che se ne fa una studentessa di Hogwarts di un portatile? La suco con una. Il primo ed unico gioco che aveva iniziato a creare in Amalie Shapherd una sorta di dipendenza: da quando aveva iniziato non era più riuscita a farne a meno. La colpa naturalmente era della sua migliore amica Erin Chipmunks e del giorno in cui lei e la sua coinquilina Jess le avevano aperto le porte del meraviglioso mondo dello shipper club. Di solito la giovane corvonero non si interessava di pettegolezzi e quelle cose lì, che considerava futili e stupide. Le aveva considerate sempre un male perché toglievano tempo a quello che per lei era la priorità: leggere. Un libro ti apriva la mente, ti consentiva di apprendere nuove cose, di estraniarti dalla tua vita per vivere nei panni di un'altra persona almeno per un po'. Era sempre rimasta ferma in questa convinzione eppure, sfortunatamente, le era bastato un pomeriggio di lavaggio del cervello da parte di quelle due e boom, era stata contagiata. Era stata istruita (?) sulle varie ship e le avevano persino fatto aprire un account su pinterest. A lei, che non aveva nemmeno mai avuto un cellulare. «La tecnologia babbana è qualcosa di cui non puoi fare a meno, fidati di noi.» E così era stato.
    Non aveva smesso di giocare, nemmeno quando aveva capito che le stava sfuggendo tutto un po' di mano. Non si era fermata, nemmeno quando qualche giorno prima aveva fatto un enorme figuraccia con una delle sue concasate. Facile immaginare quale. Quella mattina non aveva lezione e dunque si era dedicata completamente al gioco: già dal primo pin si era fatta una mezza idea, ma con due era più sicura di poter indovinare. Tirò un sospiro di sollievo quando la risposta di Eugene fu scartata, e quando vide la seconda immagine sapeva che era fatta. Si rese conto si essersi fatta prendere troppo la mano quando scrisse anche lei in caps, come il suo avversario che era certa di aver battuto, "LEAMOS" e non riuscì a trattenersi aggiungendo anche un "BAAAM!". Era andata, totalmente, e la colpa era solo e soltanto della Chipmunks. Quando ebbe la conferma che la sua risposta era giusta, non trattenne l'entusiasmo. «Mamma mia quanto sono brava a sucare!» E questa esclamazione la riportò alla realtà. Si guardò intorno, tirando un sospiro di sollievo nel notare come la stanza fosse vuota, ma poi incrociò i suoi occhi. «Shapherd, davvero, non voglio nemmeno saperlo» Detto questo, la bruna uscì dalla stanza senza dare tempo ad Amalie di spiegare, mentre sentiva le guance andarle a fuoco. Perché , si chiedeva, perché ogni santa volta che faceva una figuraccia Arabells Dallaire era presente? Doveva essere una sorta di maledizione. Ma almeno quel giorno non l'aveva ricattata. Per ora.
    In ogni caso, l'unica cosa buona che aveva tratto da quella situazione era proprio l'aver imparato ad usare le tecnologie dei babbani: al termine delle lezioni ad Hogwarts era tornata nella sua città natale, Southampton e, come ogni estate, si sentiva tremendamente sola. I suoi genitori non si erano nemmeno degnati di chiederle come era andato l'anno scolastico, se avesse degli amici, se stesse bene. Niente. Averla in casa o non averla per loro era la stessa cosa. E a lei stava bene così. Aveva smesso molto tempo prima di preoccuparsi di attirare la loro attenzione, di far di tutto pur di provare a conquistare il loro amore. C'aveva messo molto tempo, Amalie Shapherd, a capire che il problema erano loro, non lei. Che in fondo non aveva nulla di sbagliato. Che era possibile per qualcuno volerle bene, anche se i suoi genitori non lo facevano. Quell'estate però, invece di dover aspettare giorni per ricevere una lettera di risposta dai suoi amici, con il cellulare aveva la possibilità di rimanere in contatto con loro in pochi secondi. Certo, amava ancora scrivere e mettersi d'impegno per usare una calligrafia leggibile, ma la tecnologia, beh, era qualcosa di cui non poteva far più a meno. Come non poteva far a meno dei meme che le inviava Erin e delle loro videochiamate in cui facevano interagire i loro gatti, o dei messaggi di Syria che riuscivano a strapparle sempre un sorriso.
    E fu proprio grazie al suo computer che quella mattina, mentre era impegnata a scervellarsi per abbinare pin alle persone che conosceva - di vista o di fama #wat - che apprese la notizia: un attentato in Francia. Rimase pietrificata sul colpo, perché la violenza - immaginare il dolore, il sangue, la sofferenza - era sempre ciò che di più odiasse al mondo. La cattiveria delle persone la lasciava sempre tremendamente interdetta: non riusciva a capacitarsi del fatto che una persona potesse togliere la vita ad un'altra. Per lei era inconcepibile. Ma quando si trattava di più persone, beh, era anche peggio.
    Non sapeva chi fossero le vittime. Non sapeva se era un attacco fatto da babbani o se riguardava la comunità magica, e non poteva chiederlo a nessuno dei presenti nel bar perché beh, loro credevano che la magia fosse soltanto una leggenda, una fiaba da raccontare ai loro figli prima di andare a dormire. Raccolse le sue cose e uscì di fretta da quel posto, diretta a casa sua: per quanto non amasse stare con i suoi genitori, era consapevole del fatto che, se quell'evento riguardava il mondo magico, loro ne erano al corrente, lavorando per il ministero. Arrivata davanti alle porte della villa degli Shapherd, fece un grande respiro, intimorita da ciò che potesse attenderla oltre quella porta: e se era rimasto coinvolto qualcuno che conosceva? O peggio, qualcuno a cui voleva bene? Era pietrificata sul posto, eppure si sforzò di trovare in sé il coraggio per farsi avanti e varcare le porte di quella casa. E lo capì subito che sì, come aveva temuto, quell'attentato riguardava anche il mondo magico: trovò i suoi genitori impegnati a spostarsi da una parte all'altra della casa, freneticamente, senza notare il rientro della figlia. Non che quello fosse una novità. Dopo attimi in cui la ragazza rimase imbambolata davanti alla porta, senza saper bene cosa fare, sua madre sembrò finalmente accorgersi di lei. «Ah, sei qui. Bene - almeno le aveva rivolto la parola. Quale onore. - io e tuo padre stiamo andando a Londra, c'è stato un attentato e la nostra presenza è richiesta al ministero. Staremo via qualche giorno - si fermò un attimo a guardarla, come per capire cosa farne di lei. Amalie si chiese il perché: in tutti quegli anni, non si erano mai preoccupati di lasciarla sola durante uno dei loro viaggi. Quando era ancora bambina la scaricavano a casa della nonna, quasi infastiditi dal solo fatto di aver qualcosa a cui dover dare una sistemazione, mentre dal momento in cui l'avevano considerata abbastanza autonoma si erano limitati a lasciarla a casa e risolversela da sola-presumibilmente ci sarà una cerimonia pubblica, vedi di esserci. Abbiamo un nome di famiglia da tenere alto » Come se Amalie non si sarebbe presentata in ogni caso: non le importava nulla del nome di famiglia e quelle cazzate varie che i suoi genitori ritenevano così importanti, e non c'era occasione in cui non cercasse di ricordarglielo. A volte, lo faceva senza neppure accorgersene, come quando era stata smistata tra i Corvonero e non tra i Serpeverde, come il resto della famiglia. Spesso, troppo spesso, le sembrava di non fare proprio parte degli Shepherd, non nel profondo. Perché era troppo distante, troppo diversa. Se solo avesse saputo la verità. «Ci sarò. Ma potete dirmi quante persone sono rimaste coinvolte? Chi sono?» Le conosco? Hanno lasciato figli orfani? Genitori in lutto? Parenti ed amici in lacrime? «Vivian, dobbiamo andare!» Suo padre, in salone, era già posizionato davanti al camino con un pugno di polvere volante in mano. La donna si avviò verso di lui, lanciando un'ultima occhiata ad Amalie «Ora non abbiamo tempo Delphine » Detto questo, si posizionò al fianco del marito e poi, uno dopo l'altro, scomparvero davanti agli occhi della ragazza. Delphine. Il suo secondo nome che, da generazioni, si trasmetteva nella famiglia materna. Spesso la ragazza si dimenticava persino di averlo. Eppure sua madre a volte ce la chiamava, ed ognuna di queste volte Amalie ci leggeva una sorta di minaccia implicita della donna: quello era anche il suo, di secondo nome, e lo usava come a rimarcare il loro legame. "Sono sempre tua madre, non puoi odiarmi del tutto". E, per quanto lo volesse, per quanto ci provasse, Amalie non ce la faceva. Perché, che in realtà non fosse sua madre, lei non lo sapeva.

    03.07.17||Era arrivato il giorno del funerale. Per quanto fosse un'occasione dolorosa, la ragazza era felice di poter andare a Londra e rivedere volti conosciuti: per lei, stare lontana da Hogwarts era una tortura, non tanto per la scuola in sé, ma per le persone che si trovavano tra quelle mura. Aveva appreso, dalla gazzetta del profeta arrivata a casa il giro prima, i nomi dei morti nell'attentato. E non aveva potuto evitare di tirare un sospiro di sollievo nel vedere che nessuno di essi appartenesse a qualcuno che conosceva. Erano nomi di cui aveva sentito parlare vagamente, e forse aveva incrociato una o due volte per le vie di Hogsmeade o di Diagon Alley. Ma un attimo dopo si era sentita male per loro, e sopratutto per i loro familiari, e si era sentita in colpa per essersi rilassata, anche solo per un momento. Dopo essersi preparata, uscì di casa diretta alla stazione: il treno per Londra sarebbe arrivato dal lì a pochi minuti. Non vedeva l'ora di imparare a smaterializzarsi per non dover andare in giro usando i mezzi pubblici : si sentiva tremendamente fuori luogo, mentre camminava per le strade di Southampton indossando un abito nero ripescato dall'armadio di sua madre. "Se mi vuole all'altezza della situazione, non può lamentarsi se prendo i suoi vestiti".
    Salita sul treno, camminò tra i vari vagoni fino a trovare quello giusto: al suo interno, una ragazza dai lunghi capelli biondi dormiva con la testa poggiata al vetro: Coraline Krum. Amalie entrò facendo meno rumore possibile e si sedette davanti a lei, per poi poggiarle delicatamente una mano sulla spalla per svegliarla: in realtà lei l'avrebbe lasciata dormire, ma sapeva che l'amica non gliel'avrebbe perdonato. Le aveva mandato un messaggio in cui le aveva ordinato di svegliarla al suo arrivo, nel caso si fosse appisolata. Quando aprì gli occhi, le rivolse un ampio sorriso. «Cora! Mi sei mancata un sacco!» Lungo il resto del tragitto, il principale argomento di discussione fu proprio l'attentato. Entrambe dissero quello che sapevano o che avevano ascoltato di sfuggita da conversazioni altrui, così da avere un quadro generale della vicenda più ampio. E, tra racconti e speculazioni , in poco tempo arrivarono a Londra.

    Ci misero un'altra mezz'ora prima di arrivare ad Hogsmeade. Un'altro motivo che fece aumentare il desiderio di Amalie di imparare a smaterializzarsi. All'interno del parco, le due ragazze si avvicinarono subito al resto degli studenti. Amalie si fermò un secondo per cercare con lo sguardo Erin, ma tra quella folla era quasi impossibile: in ogni caso, le aveva mandato un messaggio non appena era uscita di casa, e sperava di incontrarla almeno prima di ripartire. Salutò velocemente i suoi compagni di scuola, chi con l'accenno di un sorriso, chi alzando la mano velocemente. Non era certo il luogo opportuno per essere esuberanti, ed in ogni caso la ragazza non lo sarebbe stata nemmeno in un'altra occasione. Ascoltò in silenzio e con attenzione le varie persone che parlarono davanti alla platea, ma fu solo durante il discorso di Idem Withpotatoes che sentì un liquido salato sulle labbra e, portandosi una mano al viso, si rese conto di aver pianto. Anzi. Le lacrime continuavano a scendere, senza che riuscisse a fermarle. Non era mai stata in grado di assistere al dolore e alla sofferenza di altre persone senza rimanerne profondamente toccata. E vedere quella ragazza parlare dei suoi fratelli, dei bei momenti passati con loro, stringendo la mano della bambina sopravvissuta all'attentato che aveva perso i genitori, beh, era quasi troppo da reggere. E le sembrò così surreale udire l'applauso di Dragomir Vasilov, in un momento del genere. Da quel momento, ciò che accadde le sembrò così distante. Era come vedere un film e non poter far nulla per intervenire. Ma in quel caso non importava, perché era una finzione. Questa però, era la realtà. E non è così che dovevano andare le cose. Vide i presidi delle tre scuole l'uno contro l'altro. Vide Damian Icesprite evocare il suo Sicarium. Ma in tutto quel casino, ciò che più la colpì fu la piccola Tupperware e il suo coraggio nel rispondere a Vasilov, accusandolo. Provò un inspiegabile moto di affetto dei suoi confronti e, quando capì che ormai lo scontro era iniziato ed il caos stava per scatenarsi, fu mossa dall'istinto di andare da lei e proteggerla. Quella bambina non era sopravvissuta ad un attentato per venire ferita in uno scontro che non doveva svolgersi lì, in un giorno di lutto, tra persone che non c'entravano nulla, tra bambini. No, Amalie non l'avrebbe permesso. Si girò di scatto verso Cora «Devo fare una cosa, ma torno. Giuro che poi torno.» Non aspettò nemmeno la risposta dell'amica, prima di farsi spazio tra le persone e dirigersi verso il punto in cui Idem aveva tenuto il suo discorso. Era ancora lì, le mani ancora intrecciate a quelle di Tupp. La bionda si chinò in modo da trovarsi all'altezza della bambina. «Io sono Amalie. Sono qui per darvi una mano» Le rivolse il sorriso più rassicurante che riuscisse a fare, in un'occasione del genere. Poi spostò lo sguardo su Idem. «Vi aiuterò come posso» Vi voglio aiutare. Era quella la natura di Amalie. E, ancora prima - o dopo, in termine di anni - era stata quella la natura di Mabel. Perché il suo desiderio innato di proteggere le persone, specialmente i più piccoli, in lei non era svanito. Ed in quel momento era intenzionata a far tutto il possibile pur di proteggere la piccola Tupp, come un tempo aveva fatto di tutto, aveva dato tutta se stessa, pur di assicurare il meglio a Jekyll, Hyde e Gray, i suoi fratelli minori. In fondo, che si chiamasse Amalie Shapherd o Mabel Winston non faceva differenza. Che vivesse nel 2017 o nel 2040, non era poi così importante. Al di fuori di tutto questo, lei era sempre la stessa.
    | ms.


    Lucky di Luglio:
    • Amalie Shapherd: 1. Gioca a "la suco con una" con Eugene*
     
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    it sucks to be me || 03.07.17
    Sedeva con il capo chino, le dita giunte fra loro. Non aveva granché voglia di parlare, CJ Knowles, mentre studiava con apatico interesse le proprie nocche scarlatte: e dire che lui, quei defunti, neanche li conosceva. In sedici anni di vita, non aveva mai realmente partecipato ad un funerale che non fosse il proprio – quello di ogni sua identità, di ogni nome vergato con inchiostro e chiavi sui muri di Londra – eppure non era nuovo alla morte, sussurro inquieto all’orecchio che gli conciliava il sonno ogni notte. Aveva visto decine di persone morire, lui: al Rodere, per le strade di Londra. CJ stesso aveva tolto la vita a più di un qualcuno. Poco importava, in fin dei conti, che fosse stato del tutto non intenzionale: la morte non guardava gli intenti puri, ma i fatti sporchi.
    Si grattò distrattamente la nuca, i corti capelli biondi a pizzicargli i polpastrelli. Con quel viso smunto e gli occhi sottili, la camicia bianca che a malapena copriva tatuaggi e vecchie bendature, non poteva che sentirsi intimamente inadeguato, fuori posto – fuori mondo, fuori tempo – fra quei perfetti sconosciuti.
    O peggio, fra gli imperfetti conosciuti.
    Non era un luogo da CJ Knowles, quello. Ed allora perché gli importava tanto? Non l’aveva detto a nessuno, il Tassorosso. Neanche aveva ostentato interesse all’accaduto, un’occhiata annoiata alla donna dai capelli corvini e gli occhi celesti che aveva loro lasciato un volantino, né si era mostrato particolarmente entusiasta, quando gli altri avevano proposto di partecipare. Si era stretto nelle spalle, una sigaretta fra i denti e le labbra a disegnare una linea disinteressata – come se a lui, la questione, non toccasse affatto. D’altronde, aveva fin troppi problemi personali per sobbarcarsi quelli altrui, reduce di guerra incapace di affrontare battaglie forestiere. Doveva esistere a CJ Knowles, CJ Knowles – e già quella lotta, l’aveva persa in partenza.
    Ma avere una memoria del cazzo, lo fotteva ogni volta.

    marzo 2013


    Pioveva, ma CJ non dava segno di percepire la pioggia gocciolargli sul viso, disegnando percorsi freddi lungo il collo, sul petto troppo magro. Perché la realtà era che a CJ Senzacognome, di quell’acqua, non poteva importare di meno. Non aveva uno scopo, il dodicenne. Era passata una settimana da quando i Reynolds l’avevano disconosciuto, lasciandolo a languire in strade che, presto e come sempre, sarebbero divenute il suo ossigeno ed il suo sangue – e che quello stesso sangue avrebbero assorbito, negli anni a venire, con apatica brama. Non sapeva cosa fare, dove andare; non sapeva neanche più chi essere, CJ, o se ancora poteva essere qualcuno. Ci voleva poco ad abbandonare una vita che s’era cominciato a dar per scontata, molto di più ad abituarsi a non averla. Non mangiava da giorni, sostava ad ogni fontanella. Non dormiva da sempre, gli pareva, con le spalle a cozzare contro il basso muretti di cemento.
    Non sapeva neanche come piangere, CJ. Ed allora si limitava a sedere scomposto sul marciapiede di una Londra ignara, gli occhi verdi a sfiorare i passanti. Nessuno li vedeva, quelli come lui – nessuno se ne preoccupava, di un altro ragazzino smunto a lasciar la propria impronta sul cemento. Nessuno faceva caso, a quel sorriso amaro e gli occhi troppo tristi per appartenere ad un bambino. Così pioveva, e CJ non aveva alcun motivo perché potesse importargliene – della pioggia, di quel cuore a battere contro le costole.
    Non aveva più nessuno.
    Non aveva mai avuto nessuno, CJ, fino a sei anni prima; non aveva avuto modo di conoscere la mancanza, o di riconoscere quel vuoto a lambire le costole che lo consumava ogni notte, soffocando il respiro sul palato. Non aveva potuto sentirsi solo per anni, CJ, ignaro di cosa significasse avere qualcuno.
    E se l’era vissuta meglio, lasciate che ve lo dica. Perché non s’era mai sentito così … invisibile, abbandonato. Dimenticato. Stava lì e neanche pensava, il fu Reynolds, le mani abbandonate in grembo senza nulla da stringere. Non aveva neanche la forza di domandarsi cosa stesse facendo BJ, o quale cazzata i suoi genitori gli avessero propinato per giustificare la sua assenza. Chi se ne poteva sbattere, di uno come lui.
    Di CJ al mondo, ce n’erano altri cento.
    Quando l’ultima goccia compì il suo percorso dai capelli rasati alla punta affilata del mento, si rese conto che non pioveva più. Almeno, non su di lui. Sollevò lo sguardo al proprio fianco, trovando un paio di brillanti stivali di gomma giallo canarino – ed arrampicandosi sui pantaloni a fantasia floreale, giunse fino al volto di una ragazza dai capelli corvini e gli occhi zaffiro, un ombrello tenuto sopra la testa di CJ, e l’acqua a scivolarle sulle guance. «piove» fu la sua giustifica, il naso arricciato ed un sorriso a curvarle le labbra. Lui non le rispose, limitandosi ad osservarla in silenzio. «rischi di ammalarti?» tentò lei, la cui smorfia allegra non vacillava neanche sotto lo sguardo indagatorio del ragazzino. «io amo la pioggia. Piace anche a te?» se gli piaceva la pioggia? Un mezzo sorriso sardonico curvò la bocca sottile di CJ, gli occhi abbassati ironicamente sulle proprie ginocchia. «mia madre diceva sempre che quando piove, è perché un angelo sta piangendo» Tu pensa. Mia madre diceva sempre che quando piove, la fottuta biancheria è da fottutamente ritirare, se non vuoi una cinghiata. Ma questo non lo disse, alla ragazza dal viso ovale e gli stivali di gomma. «nathan preferiva la teoria pipì, nonna … meh. Diciamo che c’entra Chernobyl» CJ inarcò un sopracciglio, un’occhiata di sottecchi alla giovane. «ad april la pioggia non è mai piaciuta. posso sedermi qui? almeno possiamo stare sotto lo stesso ombrello» «rihanna?» ironizzò in tono rude, uno sbuffo di tosse nel deserto. «ello-ello-eh-eh-eh» E per la prima volta dopo quella che pareva un’eternità, e che di fatti un po’ lo era, CJ sorrise. Sincero, sapete. Di quelli che sorgevano spontanei prima ancora di poterli pensare – di quelli che avrebbe potuto avere in un’altra vita, in un altro CJ. «non so neanche perché mi piaccia. Forse è il rumore.» E malgrado non avesse ricevuto risposta da parte del ragazzino, si sedette comunque al suo fianco, l’ombrello stretto fra le spalle a coprire entrambi. «no, sono indubbiamente gli stivali. Guarda come sono colorati!» mosse i piedi di fronte a sé, facendo scuotere il capo ad un ragazzo che di quel mondo, a neanche tredici anni, aveva già visto troppo.
    Rimase lì per ore, la ragazza. Gli raccontò della sua famiglia, delle tradizioni australiane, del capitalismo. Non capì mai, CJ, perché lo fece: compreso ch’egli non avrebbe risposto alle sue domande, smise di fargliene; compreso che lui non avrebbe contribuito alla conversazione, continuò a parlare. E lentamente, appoggiato contro quel muro, il dodicenne sentì la tensione sciogliersi, il respiro farsi più quieto, gli occhi più leggeri. Nessuno si era mai rivolto a lui in quel modo – come un essere umano. Quando smise di piovere, senza alcun preavviso, CJ si alzò. «devo andare a casa» la frase più lunga che avesse pronunciato da quando si erano incontrati.
    La menzogna più cruda che CJ ebbe mai pronunciato. «i miei genitori mi aspettano»rettifico: quella, fa la bugia maggiore - a sfiorar la bestemmia. Ed un sorriso amaro e consapevole, tagliente e tagliato, piegò le labbra del futuro Tassorosso con la veemenza di un vetro scheggiato.
    Che in dodici anni, nessuno aveva mai aspettato CJ. Frasi del genere le aveva sentite ripetere alla televisione così spesso, da poter risultare perfino convincente. «ti accompagno» gli occhi celesti spalancati, gli stivali già ben piantati al suolo mentre le mani andavano a pulire gli abiti dalla polvere ed il fango.
    Avrebbe dovuto dirle di no, che non ne aveva bisogno – anche perché, una casa a cui tornare, non l’aveva. Avrebbe dovuto semplicemente andarsene, CJ.
    Ma era solo un bambino. Prese lo skateboard sotto braccio, nascondendo un sorriso verso il pavimento. Sorrideva di sé stesso, quel bambino – di quell’ancora, testardo, crederci malgrado non avesse più nulla. Quanto poteva essere patetico? E gli occhi gli punsero di lacrime che non avrebbe versato, ed il labbro sanguinò, stretto fra i denti, di quel sangue di cui avrebbe imparato ogni più ramata sfumatura.
    Che coppia strana, il ragazzino smunto e la giovane donna dagli stivali colorati ed il passo leggero – l’uno a strisciare, l’altra a volare. Camminarono fianco a fianco per diversi isolati, la voce di lei a riempire il pesante ed asmatico silenzio del ragazzo. Perché sapeva che quella non era la sua vita: la mora era solo una di quelle rare parentesi che duravano mezz’ora su un’esistenza intera. Il giorno dopo, lei, non avrebbe avuto più alcuna memoria degli occhi verdi di un malandato dodicenne qualunque – non ci aveva neanche provato, CJ, a farsi ricordare.
    Dimenticarsi di CJ era tradizione, lungi da lui spezzare la catena d’eventi.
    «sono arrivato» sputò quindi fra i denti, davanti ad una porta come altre. Che senso aveva prolungare qualcosa che si era già concluso in partenza? «oh.» Rimasero in silenzio per un paio di secondi. «mi ha fatto piacere incontrarti. Tieni,» frugò nella borsetta, e gli porse una scatola di biscotti. «grazie di avermi fatto compagnia.» ma lui guardava i dolci, non lei.
    Così neanche la vide, quando si avvicinò per abbracciarlo.
    Si irrigidì immediatamente, memorie di volte in cui le costole gli erano state spezzate per molto meno – con molto meno. Smise perfino di respirare, le braccia lungo i fianchi.
    Che in dodici anni, dodici anni, nessuno aveva mai abbracciato CJ, se non per fargli male.
    Quindi era quello, che si provava?
    Deglutì, prese i biscotti senza battere ciglio.
    Quella era la vita che non avrebbe mai avuto, uno come lui. Eppure, per una frazione di secondo, riuscì ad immaginarsi che CJ avrebbe potuto essere, se un abbraccio non fosse stata eccezione– se una mano allungata verso di lui avesse significato un dolcetto, e non un pugno.
    Non la ringraziò neanche, quando le diede le spalle.
    Salì i pochi gradini che portavano alla porta della casa qualunque della via qualunque, di una Londra qualunque di un mondo qualunque. Sperò che se ne andasse, ma lei non lo fece.
    Suonò il campanello, sentendo la vergogna stringergli lo stomaco in una morsa ferrea e sanguinolenta. «allora io vado, ciao!» Non la salutò. Lanciò un’occhiata alle proprie spalle, vedendola poco distante. Di tanto in tanto si voltava nella sua direzione, quasi volesse assicurarsi che in casa, ci entrasse davvero. Così aspetto, CJ, gocciolando sullo zerbino.
    «e tu chi sei?» quando un uomo, un giovane uomo, si affacciò dalla porta, le sopracciglia corvine corrugate, la ragazza era già sparita. Strinse i pugni così forte, il dodicenne, da sentire le unghie perforare la carne. E chiuse gli occhi, il dodicenne, perché li sentiva umidi di tutto ciò che non aveva.
    Deglutì. Sorrise piano, di quell’ironia che da sempre coglieva solamente lui, di quelle ferite che sanguinavano solamente su di lui. «nessuno» quel nessuno che sarebbe sempre stato, da quel momento. L’inizio di una precoce fine. «ho sbagliato campanello.» e con quel sorriso ancora a pungolargli la gola, e quelle lacrime a bruciare dietro le palpebre, CJ ignorò le spallucce di Nathaniel Henderson.
    Scese gli scalini.
    Si guardò attorno.
    Ricominciò a piovere, nella vuota e grigia strada di una Londra qualunque.
    Ed ad un CJ qualunque, i biscotti stretti al petto, continuò a non importare.

    Non aveva mai saputo il nome della ragazza con gli stivali di gomma, finchè la sua famiglia non era morta.
    «so di non essere un granchè, ma sono tutto ciò che ho. Grazie per la pazienza?»
    Ed ecco perché CJ Knowles, quel giorno, non aveva una gran voglia di chiacchierare. Non che di solito fosse un ragazzo di molte parole, ma quando si rientrava in un territorio che riteneva personale, aveva solo due modalità: si chiudeva in sé stesso, o dava fuoco a qualcosa.
    E dire che ne aveva paura, del fuoco.
    Sorrise vacuo al nulla, il capo ancora chino. «che tipa.» sputò al cielo, arcuando entrambe le sopracciglia, dolente. Era onesto, CJ, ma viveva anche d’ambiguità – che con lo stesso sorriso, avrebbe potuto dar fuoco ad una chiesa o chiedervi dello zucchero.
    Gli bastò il fruscio, per spingerlo in piedi. Fu irrazionale, ed alquanto sciocco con il senno di poi, ma non fu neanche possibile biasimarlo: quando si cresceva fra pallottole e sangue, ogni applauso suonava come uno sparo. Il cuore già a mille, CJ, le dita a cercare le lame nascoste nei pantaloni.
    Riconosciuto l’uomo, avrebbe dovuto tornare al proprio posto. Riconosciuto l’uomo, comprese che quello, era il suo posto. Osservò da sopra la spalla Sun, Obi, Sersha, Joey e BJ. Fu istintivo, come toccarsi la tasca dei jeans per cercare la forma del telefono sotto la stoffa azzurra.
    Un po’ li odiava, per quel loro obbligarlo a mettersi in prima fila, pur senza fare nulla. Un po’ era ingiusto, quel bisogno di CJ Knowles di vivere come carne da macello, per cuori di cui a malapena conosceva i battiti.
    «sei leale,» e ci sarebbe morto, di quella lealtà. «ti prendi cura degli altri,» In un modo così sbagliato, in un mondo così sbagliato: non era altruista, né generoso, CJ. Era solo un cinico bastardo che cercava di portare realismo nelle vite altrui. «sei quello di cui la nostra casata ha bisogno, CJ Knowles».
    Neanche l’aveva detto, ai Freaks, della spilla dorata a bruciare nel taschino posteriore dei pantaloni.
    Neanche l’aveva detto, a CJ, di darsi una possibilità.
    «sono molte le cose che non tollero, ed al contrario di voi inglesi, non sento il bisogno di nasconderlo dietro falsa umiltà:»
    Siediti, CJ.
    Fatti i cazzi tuoi, CJ.
    Non ti è familiare, CJ - ignoralo.
    Dio, così fottutamente bravo, il Knowles, a fare ciò che non avrebbe dovuto. Eccelleva nell’ignorare gli altri, tanto quanto nell’ignorare sé stesso – e questo, dovrebbe dirvela lunga.
    «per non parlare degli Illeciti, coloro che sono capitati nel nostro mondo per un errore. e tali rimangono.»
    Che figlio di puttana. E non riuscì a cancellarsi, il Tassorosso, la sensazione di conoscerlo - tant’è, era certo di non aver mai avuto a che fare con il preside di Durmstrang. Ne aveva già piene le palle del proprio, non esattamente nella sua indole andare a ricercarne altri.
    O forse sì?
    Inspirò. Quando espirò, si ritrovò la testa di Dragomir Vasilov ad un palmo dalla propria, gli occhi freddi a studiare il suo aguzzo profilo. C’era qualcosa, in quello sguardo, che nessun essere umano avrebbe dovuto possedere – come un buco nero: vuoto primordiale ad attirare materia. La risucchiava, la materia.
    Se lo aspettò, CJ Knowles. Sorrideva già, sordido e criminale, quando la mano guantata di Vasilov si strinse attorno al suo viso, esigendo l’attenzione del Tassorosso. Sapeva dove premere. Non che i lividi di CJ fossero nascosti, certamente, ma sapeva dove premere - e fu una consapevolezza strana, che gli torse le interiora in un nodo di magistrale fattura. Impassibile, il futuro prefetto dei Tassorosso, mentre ad un soffio dal mento Dragomir Vasilov gli domandava quale fosse il suo nome.
    E CJ seppe, dove l’aveva già visto.
    E CJ condivise, nel sorriso che corrotto ed acido gli curvò le labbra, quel segreto con il Drago.
    Quel gioco che divertente, lo era sempre stato solo per lui.
    «CJ» strascicato, masticato come cuoio fra i denti.
    «e chi sei, cj?» quello che non arriverà a compiere diciassette anni, ma santo Dio se non ti sputo in faccia. Inspirò dalle narici, gli occhi incollati a quelli di lui. Fino a poco tempo prima l’avrebbe fatto, sapete. A nessuno fregava un cazzo di CJ, e CJ aveva sempre piacevolmente ricambiato la moneta sbattendosene le palle, di tutti gli altri - ma. Ed un ma, c’era sempre.
    Ma se avesse fatto il coglione, non sarebbe stato l’unico a rimetterci, lo sapeva. Non più.
    Cristo. Ecco perché si viveva meglio da soli.
    Vaffanculo.
    Colse un movimento, uno sguardo a pungergli la guancia indenne. Sollevò gli occhi oltre la spalla di Vasilov, incrociando lo sguardo corrucciato di Phobos Campbell, il corpo massiccio già in piedi e bacchetta alla mano. Che caso umano. Un giorno avrebbe compreso, il docente di corpo a corpo, quanto poco ne valesse la pena, lui. Di quelle preoccupazioni, di quelle labbra strette fra loro. CJ si fece improvvisamente serio, dimentico dell’ironia sferzante quanto della sensazione di freddo in piena estate – lo sguardo ora affilato, bruciante di quella serietà che nessun sedicenne avrebbe dovuto possedere, legata indissolubilmente alle proprie vene. Un po’ morto, CJ Knowles, lo era da sempre.
    Da tutta una vita.
    E non c’era niente da salvare.
    Gli fece un lento e secco cenno con il capo, la guancia morsa fra i denti. Perché peggiorare la situazione altrui, quando già la sua era una merda? E sapeva anche qual era la sua colpa, CJ. Sapeva di meritarselo, in ogni respiro denso di disgusto ed in ogni sguardo a giudicarlo.
    Era nato, CJ. E già quello, era stato un errore di troppo.
    Un sospiro sulla lingua, quando Vasilov premette sui tagli che gli costellavano parte del volto. Un ansito a cui non diete ossigeno per uscire. «nessuno.» confermò.
    Di nuovo.
    Ed allora, sorrise. Pareva così leggero, così scontato, in quella risposta – quasi scherzosa, una battuta fra vecchi amici. Una sentenza come un’altra, sapete.
    Non quella che ti fermava il cuore ogni volta, figlia della verità da attacco cardiaco.
    Sapeva quale sarebbe stata la domanda successiva. Per quanto si fosse arreso a quella realtà anni prima, privo di preoccupazioni nel trovarsi un posto nel mondo, non poteva che trovare fottutamente ironico, il parere a cui, di lì a poco, avrebbe dovuto dar voce. Perché non gliene fregava un cazzo, del proprio stato di sangue – ed era quello ad averlo macchiato di reato, sedici anni e mezzo prima. Roba che ti spingeva a porti qualche domanda, e che in quelle risposta trovava il vuoto secco di un abbandono immeritato. Che pareva così tranquillo, CJ Knowles. Così pacato ed arrendevole, incurante e negligente, nell’ammettere di non essere mai valso un fottuto mezzo penny.
    La realtà, era che non li biasimava. «sconosciuto.» Non li biasimava proprio per un cazzo.
    Nessuno si meritava un CJ Knowles, nella propria vita: l’inferno avrebbe dovuto cominciare dopo, non prima di morire.
    Consapevole, di tanto - di tutto. Si limitò ad arricciare di poco il naso quando la lama cominciò a tranciare una carne già debole e provata, incidendo la pelle come il marchio d’una vacca da bestiame. Non si sprecò neanche a guardare l’uomo che cercò, inutilmente, di fermare il gesto – e che riuscì, prevedibilmente, a rendere il taglio più profondo.
    Che fottuto clichè.
    Rise perché già sapeva, CJ – rise perché non gli era rimasto un cazzo d’altro per cui ridere, per quel sangue a inumidirgli il collo della camicia era quanto più profumo di casa ch’egli avesse. Rise perché non gli importava, di vivere o morire. Rise perché poteva, e perché le cicatrici aveva smesso di contarle a dieci anni. «non agitatevi, è tutto sotto controllo. Non v’è alcun bisogno che interveniate, siamo a posto. Giusto, christopher? Dì loro come stai.»
    Non si stupì, di quel Christopher a gorgogliare nell’aria di fronte a loro. Già sapeva, CJ Knowles, con chi aveva a che fare.
    Che fottuto bastardo.
    Gli sorrise, lento e sornione, portando le dita a sfiorare i lembi di pelle appena offesi. Sentire i polpastrelli umidi di sangue, il suo sangue, non era certo una novità. Così non le guardò, quelle tracce di cremisi, preferendo incastrare gli occhi in quelli del Preside. Sì che si trattava di un ragazzo diplomatico, ma non fino a quel punto – non era certo conosciuto per la sua pazienza, CJ. Così, con tutta la calma del mondo, chiuse il pugno mostrando un gocciolante dito medio a Vasilov, la lingua a seguirne il profilo dalle nocche fino all’unghia – il sapore ramato in bocca, quello della morte negli occhi giada sporchi d’azzurro. «una favola.» rispose, laconico ed ironico, umettandosi le labbra con il più sfavillante dei sorrisi.
    Tutti dovevano fottutamente morire, lui voleva fottutamente meritarselo.
    Il bastone sul petto, a vibrare del pacato battito cardiaco di CJ Knowles. Fallo. Cristo, fallo. Ci sperò, CJ.
    Un po’ ci sperava sempre.
    «vasilov, è abbastanza. Credo che tutti abbiano capito dove volevi arrivare, mh? Diteglielo, su, così è felice.» William Lancaster aveva solamente procrastinato un momento destinato a venire.
    Quelli come CJ Knowles, dal sangue e lo sguardo sporco, non duravano mai a lungo.
    Rimase a guardare Vasilov mentre si allontanava, l’arringa d’un condannato che avesse il mondo ai propri piedi. Non cercò lo sguardo di nessuno, CJ, sorridendo ancora alle spalle del preside di Durmstrang. «tieni.» Figurarsi. Abbassò il capo verso il braccio allungato di Joey, una bottiglietta d’acqua ed un pacco di fazzoletti stretto nel pugno. Davvero? Inarcò un sopracciglio, il sorriso ad ardere sui denti. «bevitela.» lo ignorò. Non si trattava di non aver bisogno d’aiuto, ma di non volerlo. Lui, lui fra tutti, avrebbe dovuto capire quanto CJ avesse bisogno di quel dolore. Per sentirsi vivo, per sentire di meritarsi ogni sbuffo d’ossigeno sul palato – per rendere concreta la condanna mentale dov’egli era sia vittima che carnefice. Un capro espiatorio, sangue esterno a gorgogliare per quello interno.
    Per redimersi dalle sue colpe, capite. E perché gli piaceva, farsi del male. Punirsi per reati senza nome, per quella rabbia che ribolliva nei polmoni priva di una via d’uscita. «aspetta…» chinò ancora il capo, dall’alto del suo metro e ottantacinque, incrociando i vispi occhi di un Grifontonto. Bacchetta alla mano, occhi sulla ferita. No. Non voleva sentirsi in debito con nessuno, il Tassorosso. Sapete cosa fottutamente significa essere incapaci di dimenticare? Ricordava ogni, maledetta, cosa, CJ – che non lo lasciava dormire, che non lo lasciava vivere. L’avrebbe ricordato per sempre, quel grifonpirla di uno Winston.
    Non poteva, CJ, portarsi dietro anche quello. Coloro che ci provavano, gli facevano più male che bene. Così gli sorrise, gli occhi ridotti ad una fessura. «il sangue mi dona.» commentò semplicemente, tamponando la ferita sulla spalla. Quella camicia, aveva già preso i suoi colori – bianco e rosso.
    Ovviamente, Byron Winston, fece il cazzo che gli pareva. Era sempre così, con la gente: cercavano di salvarti, e non comprendevano quando non volevi, essere salvato. Serrò le palpebre, strinse i denti - non capivano, non capivano mai. Non ci provavano neanche a capirli, ed allora li etichettavano come stronzi. Sapete una cosa?
    Facevano bene.
    Avanzò di un passo nella sua direzione, gli occhi già rivolti al palco dove Vasilov era giunto. Osservò il guanto seguire una traiettoria distratta verso la folla, e lo puntò come un cacciatore ch’avesse intravisto la propria preda. Si chinò verso Byron, così che non avesse dubbi sulla calorosa gratitudine di CJ Knowles: «devi imparare a farti i cazzi tuoi.» bollente, il Tassorosso.
    Che grato lo era davvero, e che per quel motivo lo odiava. Che se non avesse smesso di farsi i cazzi altrui, Byron Winston, sarebbe diventato come lui: gioventù destinata a bruciare troppo in fretta. Lo scavalcò rapido, senza guardarsi alle spalle – senza guardare se qualcuno lo stesse seguendo. «cj!» Non ora, cazzo. Si volse di scatto verso BJ, occhi verdi a scontrarsi, e perdere sempre, in quelli scuri di lui. Malgrado Bernie si fosse alzato, CJ risultava più alto di lui: più sottile, certo, eppure più concreto anche rispetto allo spessore del Serpeverde. Pareva occupare più spazio, con quella violenza a poco trattenuta sotto la superficie. Si fermò e lo osservò, uno sguardo truce verso BJ. Gli stava forse venendo un attacco epilettico? Voleva parlare del tempo? Perché non era il momento.
    «come fa a saperlo?» Finse di non capire. Conoscendo BJ, in realtà, c’erano molte probabilità che effettivamente non avesse capito. Inarcò un sopracciglio. «come faceva Vasilov a sapere il tuo nome?» Sperava che nessuno fosse stato abbastanza attento da accorgersene. Si limitò a sorridere, lasciando che la piega sghemba delle labbra parlasse per sé – non facendolo affatto. Non voleva davvero saperlo, BJ.
    E non poteva dirglielo, CJ.
    Cercò di superarlo lasciando il quesito privo di risposta, ma la mano di lui gli strinse il polso. CJ si irrigidì d’istinto, il corpo un fascio di nervi a fior di pelle. Inspirò dalle narici, ruotando con estrema lentezza i glaciali occhi cobalto sul Reynolds. Lo sapeva, Cristo!, che non voleva essere toccato.
    L’accusa nei suoi occhi, lo lasciò interdetto. C’era qualcosa di ferito, nello sguardo di suo fratello. Qualcosa che sfiorava il confine della paura, in quella rabbia gelida e calda a scivolargli sulla pelle. «Ti ho chiesto come!» CJ lo guardò a lungo, privo di sorriso e d’allegria. Si strappò la mano di lui dal braccio, veemente e crudele, senza mai distogliere lo sguardo.
    Perché se quello che vedeva in lui significava anche solo un quarto di quel che CJ credeva, non aveva capito un cazzo. E se lo credeva una persona simile, non faceva che mostrarsi per quel che CJ non credeva fosse: un fottuto Reynolds.
    Sembrava tanto buono, il ramato. Tanto dolce, con quei sorrisi impacciati e le sopracciglia buffe. Era sempre parso CJ il cattivo, fra i due – quello sbagliato, quello perso in partenza.
    Com’era che finiva sempre lui, a sentire il cuore spaccarsi.
    Com’era che era sempre lui, quello a crederci un po’ di più.
    Ed a rimanere sempre fottuto. «vaffanculo, reynolds» rise amaro, sfilacciato quanto carta velina. Rise come se avesse avuto vetro a recidergli le corde vocali, dissoluto e tentatore. Rise perché non c’era un cazzo da ridere. Ed ora, ditemi: era davvero CJ Knowles, lo stronzo?
    «perchè sono una fottuta star.»
    Sì.
    Ma lui non ci provava neanche, a nasconderlo.
    Slittò fra la folla fino a raggiungere le prime file, dove già era in atto una rivolta: i francesi avevano ufficialmente dichiarato guerra all’Europa dell’Est – mossa poco saggia, considerando che Durmstrang comprendeva anche parte della Russia: sì che Putin era babbano, ma meglio non inimicarselo. Comunque, lecito un atto di belligeranza in territorio straniero.
    Certo, perché no?
    «levati, spostati, giù con la testa» bisbigliò, scavalcando le file. Perché si era rotto il cazzo, CJ, di quel mondo sbagliato.
    Come gli aveva detto un tempo BJ, non si finiva fra i Tassorosso per sbaglio: ed era in errore per tante cose, il Serpeverde – ed era in errore in tante cose, CJ - ma non quello.
    Vide il guanto, sorrise. «posso? grazie» senza attendere risposta, né guardare in faccia l’uomo dalle quali mani strappò l’indumento ancora zuppo del suo sangue, con fluida eleganza si ritrovò davanti a tutti, CJ Knowles: davanti a sé, i presidi ed il palco. Dietro di lui, il resto degli invitati.
    Non farlo, CJ.
    Fatti i cazzi tuoi, CJ.
    Strinse il guanto nel pugno finchè la lama ivi nascosta non gli tagliò il palmo, altro sangue a colare sulle dita.
    Guardò Idem Withpotatoes, gli occhi blu spalancati a guardare il ragazzo, la bambina, e la bionda corvonero che li aveva appena raggiunti – Amalie.
    Inspirò, espirò. Vaffanculo.
    Si spostò lateralmente, in modo da non essere d’intralcio a nessuno – e soprattutto, non essere visto.
    Con la mano destra slacciò la zip dei pantaloni, mentre la sinistra reggeva, ad una distanza di sicurezza, il guanto di Vasilov: benvenuti a la suco con una versione CJ Knowles, eretici.
    Urinò sul guanto ammiccando agli uomini di Durmstrang sparsi di fronte a lui, un sorriso languido e melenso dal sapore di cianuro. Infilò nuovamente nei pantaloni lo strumento, e si diresse verso il palco. Poco prima di salire, nei pressi dei due presidi, lo lasciò cadere al suolo.
    Dio santo, quel sorriso.
    Salì sfrontatamente sulla piattaforma sopraelevata, labbra curvate verso l’alto ed occhi sottili a ricercare le figure ivi presenti. Non c’era nulla di confortante, in CJ Knowles.
    Nulla d’amabile.
    Eppure fece un breve inchino, prima di giungere al microfono abbandonato sul leggio. «si stacca?» prima che qualcuno potesse replicare, lo strappò dal supporto: no, non si staccava. Si schiarì melodrammaticamente la voce, alzando le braccia per attirare l’attenzione generale.
    Pareva così sicuro di sé, CJ. Gonfio d’adrenalina come un antistaminico d’emergenza. Sorrideva di quella gloria ch’era vanto solo dei quadri, gli abiti ed il volto imbrattati di sangue. Sorrideva come chi non aveva niente da perdere.
    Sorrideva come chi sapeva, prendendo parola, che nessuno l’avrebbe preso sul serio.
    E come chi, sul serio, faceva tutto. «prova, mh, prova.» tamburellò sul microfono, un suono a gracchiare dalle casse.
    Dovevi farti i cazzi tuoi, CJ.
    Lo so.
    «ehilà. Per chi non mi conoscesse,» pausa. Un sorriso sardonico ed allusivo a Vasilov, morbidi occhi verdi a scivolare poi sul resto dei partecipanti: «sono cj.» si morse il labbro inferiore e si allontanò dal leggio. «sinceramente, mi interessa poco che voi mi ascoltiate o meno: sono un sangue sporco, lo so, non merito tali attenzioni – ma indovinate un po’? per alcuni potrebbe essere sciokkanteh» dall’alto dei suoi sedici anni, quell’età che permetteva di toccare l’Ade ed uscirne indenni, guardò i due presidi: che sembrava tanto un buffone, CJ Knowles.
    Ed invece non lo era affatto – non lo era mai. «ma non sono qui per voi.» non smise di sorridere, eppure il tono s’era fatto serio.
    Cristo, CJ, sei un coglione.
    «ad april non piaceva la pioggia,» perché lo stai facendo, CJ. «e nathan era convinto che fosse la minzione degli angeli» sorrise a labbra strette, le sopracciglia inarcate.
    Perché Idem era stata gentile, con lui.
    E senza saperlo, senza ricordarlo, l’aveva salvato.
    Ve l’avevo detto, che a CJ Knowles non piacevano i debiti.
    «metteva anche la Nutella sulla pasta, se è per questo – april, invece, preferiva usarla come fanghi rigenerativi sulla pelle» un sopracciglio arcuato, un cenno con il capo alla foto della ragazza. «beh, direi che hanno funzionato.» perché che April Withpotatoes fosse bella, non era di certo un segreto.
    Ricordava tutto, di quel pomeriggio sotto la pioggia. Almeno quello, almeno sempre. «april inventava una ninna nanna diversa per darden ogni notte, lo sapevate? E per natale sceglieva lei, la carta dei regali» non guardò la ragazza. Non guardò Idem. «nathan si occupava delle luci, le preparava fin da ottobre.» si spostò verso le altre foto, ben attento a non incrociare lo sguardo di nessuno. Che lo prendessero pure per uno stalker: finchè Idem avesse continuato a sorridergli in quel modo, potevano anche etichettarlo come maniaco. Si inumidì le labbra. «e non so nulla di delilah e neil, ma andiamo: se la loro figlia, – come ti chiami?» lo sapeva, come si chiamava. Voleva solamente che fosse lei, a dirglielo. «come? Non ho sentito – voi avete sentito?» le fece cenno di alzare la voce, mentre timida spuntava da dietro una gamba di Amalie. «TAAAAPP» si mostrò offesa, le sopracciglia corrugate. CJ sorrise, volgendosi nuovamente al pubblico.
    Ma non parlava a loro, lui.
    Aveva un obiettivo ben fottutamente preciso, mentre tutti mettevano mani alle armi – ed un po’, quel mirino al petto, se lo sentiva nel cuore.
    «se tapppp ha tenuto testa ai… Forestieri, non dovevano essere poi così male» un sorriso opaco, screziato di un’ironia palpabile quanto aria nei polmoni.
    Santo Dio, CJ. Chiudi quella bocca.
    «avete realmente capito dove voglio arrivare No? Inarcò le sopracciglia, cercando mani alzate da interpellare - «no, sun, non è il momento adatto per uno spogliarello» – ma erano effettivamente in pochi, ad aver prestato attenzioni alle sue parole.
    Qualcuno, però, lo stava finalmente guardando.
    CJ passò vicino ad Idem, Amalie, Tupp, ed il fratello di Neil, un cenno d’inchino nella loro direzione. Tornò al leggio, infilò una sigaretta fra i denti.
    Guardò Dragomir Vasilov, o in qualunque altro modo gli piacesse essere chiamato, e smise di sorridere. «non vorrei fare il corvopalla della situazione, ma se non erro – shapherd, sentiti libera di correggermi – la brexit ha iniziato il suo iter lo scorso ventinove marzo» si strinse nelle spalle, falsamente pensoso. Alzò un dito e picchiettò sul labbro inferiore. «ora: considerando che ci troviamo sul territorio della gran bretagna,» Prese un fiammifero, lo sfregò sulla parte ruvida finchè lo stoppino non prese fuoco.
    Non poteva certo apparire troppo buono, o normale: aveva una reputazione da mantenere, CJ Knowles.
    «sapete cosa accomuna il preside di Durmstrang, il preside di Beauxbatons, ed un sangue sconosciuto CJ Knowles?»
    Si accese la sigaretta stringendola fra i denti.
    E guardò lui, CJ. Non tutti coloro che avrebbero potuto fargli rimpiangere di essere nato – non i ministeriali, non i suoi insegnanti. Di certo, non i suoi amici.
    Guardò Vasilov, CJ Knowles.
    «che a nessuno frega un cazzo.» lanciò il fiammifero ancora acceso sul guanto pregno d’urina, ora una piccola e mal controllata torcia.
    Simboliche, quelle fiamme.
    E CJ Knowles, che un subdolo bastardo lo rimaneva, schioccò le labbra fra loro e lasciò cadere il microfono.
    «mic drop.»
    Gesto assolutamente non necessario ed infantile? Ovviamente.
    Sorrise.
    Dopotutto, era pur sempre un Hamilton CJ.
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    Edited by selcouth - 20/7/2017, 01:46
     
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    Syd Fox | 1991's | Muggles
    Withpotatoes
    «All the happy families are alike; Every unhappy family is one of her ways. »
    The bond that connects your true family is not a bond of blood, but of respect and joy in each other's life
    Fox aveva avuto momenti di pieno buio nella sua vita; come quando aveva deciso di lasciare Jericho, le aveva sempre voluto bene, dalla prima volta che l'aveva vista a casa Hades, ma il suo posto era per la strada, con i Withpotatoes, la sua seconda famiglia Anche se gli hanno dato il cognome e l'hanno abbandonato . Aveva vissuto un periodo difficile quando era stato catturato e messo nei laboratori; aveva pensato molte volte di morire per non sentire più quel dolore terrificante invadergli il corpo, ma aveva sempre avuto i suoi migliori amici quelli che per lui erano TUTTO. Gli horseman erano più di una gang del ghetto che spacciavano, che truffavano e rubavano, non erano quattro identità separate ma unite da uno scopo in comune, loro erano una persona sola; loro quattro pensavano all'unisono quasi, si completavano, si poteva dire che erano perfetti: Fox e Khai erano considerati ingenui e irrazionali, sempre pronti a far casino a fare guai senza pensare alla conseguenze mentre Del e Neil erano quelli più seri e razionali, che pensavano attentamente ogni mossa prima di fare una qualsiasi azione, ma non avevano mai giudicato Fox per quello che faceva o diceva, anzi sapeva di essere amato.
    Era riuscito grazie anche a loro ad affrontare quelle notti di dolore, era riuscito ad apprezzare il potere e insieme erano riusciti a farne buon uso, tornando a truffare la gente.
    Era stato un momento non felice, quando gli avevano detto che sarebbero partiti per la Francia, aveva solo sorriso ma sentiva in cuor suo che quello sarebbe stato un addio, ricordava come si era aggrappato a Khai e lo aveva stretto a se Noi ce la caveremo aveva detto, come per tranquillizzarli; Gli disse che ci avrebbero pensato loro alla casa e a Donnie, che avrebbero mandato avanti loro gli affari con Eugene. Ma gli mancavano, specialmente Del, era cresciuto con lei e non ricordava un solo giorno in cui lei non era stata presente. (« Ma come cazzo ti sei vestito? » - « Ho un appuntamento con una ragazza » - « Se non ti cambi te li brucio addosso » ) che amore di ragazza, ma se era in difficoltà correva sempre, in fondo era dolce e premurosa con le persone che amava anche se non lo dava mai a vedere.
    E poi c'era Neil, così autoritario e stronzo, non sembrava neanche il fratello di Donnie, erano così diversi ma aveva Khai e col tempo si era smorzato nel suo carattere duro, ma come poteva non farlo, aveva accanto due bambinoni era impossibile tenere il broncio ad uno come Fox era così irresistibile (« Fox spostati da lì o ti uccido » - « Non potresti mai farlo » - « non sfidarmi...» ).
    Il Geocineta aveva avuto momenti di buio, ripeto, ma li aveva sempre affrontati con qualcuno accanto, ed era sempre riuscito ad andare oltre, aveva imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno; ma in quel giorno successe qualcosa che non si aspettava, non era pronto, non lo sarebbe mai stato per una cosa del genere.
    Al, che ci fai qui a quest'ora?
    Mi dispiace Fox, so quanto ci tenessi...
    Il cuore si era spento, aveva smesso di battere, era morto lì sulla porta, il corpo a terra completamente vuoto. Aveva perso i membri della sua famiglia. Cosa avrebbe fatto ora? Khai era nella sua stessa situazione; per la prima volta i due ragazzi erano come morti, una parte di loro lo era e se l'amico doveva affrontare il lutto di due persone, lui doveva fare i conti con ben quattro persone. I Whitpotatoes erano coloro che lo avevano accolto in casa durante le sue notti di vagabondaggio, prima di Del, aveva anche deciso di prendere il loro cognome, nonostante non avessero lo stesso sangue loro erano comunque casa sua. Poteva un cuore reggere un tale peso? No. Era un automa che si muoveva senza capire cosa stava succedendo intorno, quanto ci avrebbe messo per uscire da quel tunnel senza luce? Non aveva nessuno che potesse aiutarlo. Guardò Khai, con sguardo spento, vuoto e lontano, non riusciva a non smettere di piangere, lo faceva da ore, come non aveva fatto da anni, forse solo da piccolo aveva pianto così tanto, ma non era neanche così molto sicuro.
    Fox...li vendicheremo
    Ben detto fratello rispose il moro all'amico, erano rimasti solo loro due e avrebbero esatto (voce del verbo esigere) la morte di coloro che avevano ucciso i loro compagni di vita.
    Fox, non era una persona vendicativa, lui era più un tipo porgi l'altra guancia mentre ti rubo il portafoglio, ma quella era una situazione nuova e sentiva dentro di se un profondo odio e sentiva che sarebbe scoppiato da lì a breve. Sarebbe andato in Francia se fosse servito, l'avrebbe setacciata da cima in fondo per trovare i colpevoli, nessuno sarebbe sopravvissuto. Nessuno.
    Ecco perché quando s'incontrarono tutti lì, fu come un pugno nello stomaco, come poteva quel bastardo di Vasilov essere presente? Perchè di lui non si era mai fidato, aveva la faccia da un cattivo della marvel, anzi neanche perchè a lui piaceva Loki, era piuttosto uno spietato stronzo della DC comics. ( Si a Fox piace la Marvel, uccidetemi)
    Fox, stai tremando..così farai partire un terremoto...e farai venire le convulsioni a me disse Khai poggiando una mano sulla spalla dell'amico, per tranquillizzarlo, ma non stava funzionando, Syd era teso come una corda di violino non riusciva a non tremare, con le braccia tese sui fianchi a pugni chiusi non smetteva di pensare che lui fosse il colpevole della morte dei ragazzi. Rimase così, con una smorfia sul volto mentre l'uomo sputava frasi con arroganza, stava praticamente offendendo tutti, che voglia di prenderlo a pugni e per uno come Fox era davvero strano pensarla in quel modo, ma cazzo avevano portato via metà della sua vita.
    Solo che le parole di Idem, o di Del che seguirono lo lasciarono di stucco. La sua Delilah, anche se il volto era della Withpotatoes era come sentir parlare la sua migliore amica; gli occhi si fecero lucidi, stava per cedere di nuovo al pianto, con Khai al suo fianco che stava per fare lo stesso, avevano davvero preso un duro colpo i due ragazzi, si sentivano a metà senza gli altri due. Erano come un vaso vuoto senza fiori, inutile, Fox in primis era come un manichino al quale mancavano gli arti e la testa, un peso morto e senza vestiti. Sentire le parole degli ultimi istanti di vita dei due amici, gli fece raggelare il sangue, e poi quel pugno. Cazzo se era da Del. Sorrise soddisfatto nel vedere la dolce Idem sferrare un gancio al preside. Cazzo si... sorrise per un secondo, facendo comparire subito dopo una smorfia maliziosa, avrebbe attaccato l'uomo senza troppi giri di parole, a lui era bastato per capire che c'era lui dietro all'attentato, credeva alle parole della donna. Avrebbe vendicato la sua famiglia, lì in quel posto. Non aspettò oltre e aprendo finalmente le mani con il palmo verso il terreno, trasformò la rabbia in energia, fece una smorfia, un ghigno cattivo, anche se sul bellissimo volto non poteva che apparire sexy. Khai, tieniti a qualcosa o vola disse serio mentre il terreno in pochi secondi prese a tremare, prima lentamente poi prese a rompersi con una lunga linea a saetta si dirigeva verso Vasilov Devi morire Urlò verso di lui.
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  11. nefelibata ;
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    1987's | werewolf | rebel
    patrick howe
    I want to live life and never be cruel. I want to fly and never come down. And live my life and have friends around.
    we never change, do we? || 03.07.17 - 19:30
    Patrick odiava i funerali.
    Non riusciva a comprendere il senso di quei "complessi di cerimonie e atti (civili e religiosi) per accompagnare al sepolcro un defunto e rendergli tutti gli estremi onori". Era fermamente convinto che, più che per rispetto verso i morti, si trattasse di un'occasione per non sentirsi in colpa verso di loro. Per essere ancora lì, quando forse se lo meritavano meno di loro. Per non averli protetti nel giusto momento, o anche solo per essere stati degli stronzi tempo addietro con quelli che oramai non erano nulla più che cadaveri. In effetti non era rimasta neanche quell'ultima dignità, alle persone morte durante l'attentato in Francia. Nonostante trovasse ogni volta più e più ragioni per non presenziare a questi eventi, alla fine cedeva. Non sotto richiesta altrui, ma per un'ammenda con se stesso. Spesso trovarsi in lutto in compagnia durante tali occasioni gli permetteva di allontanarsi dalla bottiglia, di tenere duro, un giorno dopo l'altro. Appoggiò lo sguardo su Adrianne, accanto a lui, sforzandosi di sorridere. «Sai, più che triste sono incazzato.» Un sospiro, e sentiva che l'altra in qualche modo avrebbe capito. Descrivere i propri sentimenti non era il suo forte, così come l'essere in grado di mantenere la pazienza. Odiava la morte e ciò che essa portava con sé, odiava perdere i propri compagni e tra tutti i caduti, non riusciva ancora a togliersi dalla mente l'immagine di Delilah Jackson. Una di quelle ragazze con un'energia fuori dal comune, un fuoco che chiunque avrebbe definito come impossibile da spegnere. Si era unita ai guerriglieri da meno di un anno, ma si era già dimenticato come erano senza di lei. Sfortunatamente, era stato obbligato a ricordare. Erano miracolosamente riusciti ad andare d'accordo fin da subito, da quel primo "ciao troietta". Sembrerà stupido, ma faceva decisamente in fretta ad affezionarsi alle teste calde. Sempre le prime ad andarsene, in fondo. Tranne lui. Perché cazzo era ancora lì? Non aveva fatto nulla di particolarmente buono in vita sua, particolarmente migliore rispetto a molti che giustificasse il perché di un apparente bontà divina nei suoi confronti. Forse si trattava di una vera e propria maledizione. Costretto a vedere amici morire, costretto a togliere vite lui stesso mentre imperterrito, continuava a vivere, ad incrementare il peso che portava sulle proprie spalle. Era fin troppo perso nei suoi pensieri, da non riuscire neppure ad ascoltare ciò che Adrianne gli disse. Tutto sommato, un lato positivo c'era. Lei si trovava ancora lì, non era in Francia durante il fatto. La sua ancora, che incredibilmente riusciva a sopportarlo. Diede un bacio veloce sulle labbra della più giovane. «Vado al quartier generale ad avvisare i piccoletti, puoi svegliare Ska?» Per una volta, vista la situazione, non vi fu uno dei soliti scambi di battute. Raggiunsero l'Aetas in gruppo, tutti in lutto. La perdita di un compagno colpiva tutti, chi più e chi meno.

    Aveva ascoltato distrattamente il discorso di Idem, eccessivamente emotivo per colpa di qualcuno. Era un mistero scoprire di chi si trattasse fra le varie ragazzi, visto come ormai il ciclo fosse quasi una costante nella sua vita. L'unica certezza in momenti come quello era il poter contare sul Barrow. Appena aveva avvistato William, lo aveva abbracciato -forse stringendo troppo- un «Mi sei mancato, amico.» in sua direzione. Poteva già percepire le lacrime scendere durante le prime frasi dell'ex segretaria dei ribelli. Aveva cercato di allontanarsi da Adrianne almeno un minimo, per potersi lasciare completamente andare alle emozioni anche degli altri che si riversavano su di lui. Tristezza, da parte di praticamente tutti coloro che avevano partecipato al controincantesimo. Fu incredibilmente strano passare da quella sensazione ad una decisamente più forte ed intensa, ma decisamente diversa.

    Rabbia.
    Pura e semplice rabbia.
    Gli bastò osservare Vasilov per cominciare a percepire il nervoso aumentare. Una goccia dopo l'altra a riempire quel minuscolo bicchiere dedito a sostenere i sentimenti del licantropo e a tentare di mantenerli insieme, senza che egli esplodesse. Sentì le unghie della mano sinistra premere talmente forte sul palmo della mano mentre stringeva il pugno da aver creato dei piccoli tagli. Nel notare il suo comportamento verso quel ragazzino che non gli aveva fatto nulla di male, scattò in piedi. La mano destra all'altezza della vita, pronta ad impugnare la bacchetta. Lo stesso uomo che aveva abbandonato suo figlio al suo destino, che aveva deciso di salvare casualmente solo i purosangue presenti all'interno di quel maledetto capanno. Le accuse della preside di Beauxbatons sembravano fin troppo fondate ed in quel momento, l'argine si ruppe. Non gli importava del perché erano lì riuniti, non davvero. Non voleva pensare a chi ci sarebbe andato di mezzo, in quel momento non contava nulla. Quella rabbia, quella sensazione di pura e semplice furia. Cieca a qualsiasi stimolo esterno, ad un professore che tentava di calmare le acque, al ragazzino di prima che faceva il proprio discorso. Riusciva a vedere solo il Drago, bacchetta alla mano. Pronto ad uccidere, consapevolmente, di fronte a centinaia di persone, senza alcun rimorso. Cominciò a compiere un passo dopo l'altro in sua direzione, accorciando le distanze sempre più velocemente. «Tu, brutto gigantesco pezzo di merda.» Scusate il linguaggio, per l'Howe la fascia protetta non è mai esistita. Puntò il catalizzatore in tua direzione. «Non ti è bastato abbandonare a sé stessi coloro che non ritenevi "giusti", eh?» Non riusciva a comprenderlo, in alcun modo. Quell'uomo era un enigma vivente ed avevo finito per sopportarlo ancor meno del cubo di rubik non ancora risolto che aveva a casa da anni. «Non vuoi ordine, non vuoi un mondo migliore, vuoi solo gettare tutti nel caos più totale.» Era colpevole, indubbiamente, secondo la mentalità dell'ex grifondoro. Il trentenne sembrava quasi sputare quelle parole, un livello di disprezzo nella voce probabilmente mai sentito prima da parte sua. «Volevi una fottuta guerra, Vasilov?» Non era un sorriso quello che si faceva strada sulla voce dell'uomo, ma un vero e proprio ghigno. Lo avrebbero potuto definire malvagio, addirittura, ma si trattava dell'esasperazione di una persona che era solo e unicamente stanca di rischiare di perdere tutto giorno dopo giorno, per colpa di uomini importanti che si credevano al di sopra del mondo. «Incendio!» Lanciò l'incanto non verbale, tentando di indirizzare il getto di fiamme verso il collo del preside di Durmstrang. «La avrai.» Se anche l'Inghilterra intera non risponderà, di certo alcuni lo faranno. Non era la prima volta che dava tutto se stesso per un ideale, probabilmente non sarebbe stata l'ultima.
    | ms.


    A parte il resto, insulta Vasilov e gli lancia un Incendio all'altezza del collo, circa <3
     
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    18.00 -- Un attentato. Altre morti. Come se non fossero bastate tutte le altre vite rubate e lanciate in pasto alla morte. Un attimo prima erano vive e l'attimo dopo erano morte. Nessuno rimaneva indenne di fronte alla morte, mentre la vita lentamente scivolava via. Non sapeva dire quanto era rimasta ad osservarsi allo specchio, quasi fosse stata trasportata in qualche mondo lontano, ultimamente era sua abitudine appostarsi davanti allo specchio, non per egocentrismo, ma non riusciva veramente a capire le emozioni che provasse e guardandosi cercava di capirle, arrivare ad una conclusione. Lei era sempre stata quella che non si demoralizzava di fronte a niente perché vedeva il mondo sempre mezzo pieno, ma cosa c'era di ottimista nella morte di qualcuno? Che non era toccata a lei? No di certo, questo era un pensiero veramente meschino che neanche si era fatto spiraglio nella sua mente. Il suono di uno scampanellio l'aveva riscossa, si era data un'ultima pettinata e a passi lenti si era diretta verso la porta. Sapeva benissimo chi si nascondeva dietro di essa e immediatamente aprì la porta, trovando la forza di fare un sorriso, un sorriso tirato, ma era comunque un sorriso. Quel giorno non sarebbe stata allegra, no di certo, poteva permettersi di essere allegra tutti gli altri giorni della sua vita, ma quello sarebbe stato un giorno a parte. Non si era mai vestita completamente di nero prima d'ora, ma in quell'occasione aveva scelto di vestirsi proprio così, sentiva che era per rispetto, per tutte le persone che erano molte e che nemmeno conosceva mentre attorno a lei, molte persone si disperavano alla vista di persone a loro care che si erano spente come una candela alla fine del cerino, catapultando tutto in una pesante cappa di oscurità. «Ciao Ekate, grazie di esserti proposta di accompagnarmi.» Ne avevo veramente bisogno. «Allora, andiamo?» Odio farmi vedere così. Era per quello che non aveva accennato ai propri sentimenti, le bastava capirli, comprenderli, ma non condividerli, era abbastanza orgogliosa da non volerlo fare nonostante quella con cui stesse parlando fosse sua cugina.

    17.30 -- La morte la terrorizzava, la spaventava in un modo che non sapeva neanche descrivere. Non sapeva dire da dove nascesse questa paura, non aveva mai perso nessuno, non aveva mai visto morire nessuno sotto i proprio occhi a differenza di alcune persone che conosceva. Qualcuno avrebbe detto che la paura della morte fosse lecita, che tutti gli esseri umani avevano paura di morire, la morte separava le vite che si erano intrecciate, ma le separava anche dai beni materiali, la morte non si risparmiava, era per tutti. Qualcosa però succedeva in lei quando veniva pronunciata la parola "morte" quasi fosse un taboo per lei, taboo di cui nemmeno lei era a conoscenza. Nonostante ciò aveva scelto di prendere parte al funerale anche lei, le dispiaceva moltissimo per tutte quelle perdite, una morte ingiusta quella nell'attentato, non si sapeva bene chi era stato o perché l'avesse fatto, non si erano trovate molte informazioni sull'attentato. Aveva cercato di sapere il più possibile rovistando in tutti i giornali possibili ed immaginabili per avere solamente qualche informazione in più. Quel giorno invece si sarebbe tenuto il funerale e tutte le persone erano state caldamente invitare a parteciparvi, sua sorella aveva preferito non venire e quindi si era accordata con Amalie per andare assieme al funerale e già che c'erano avrebbero anche potuto di vedersi dato che non si vedevano dalla fine dell'anno scolastico.

    Ciao Amalie tesoro, ci vediamo quindi sul treno. Ti chiedo solamente un grandissimo favore, se mi addormentato, svegliami. Sul serio, non farti problemi.


    Questa non era una richiesta da poco, tutti sapevano quanto odiasse essere svegliata quando dormiva, ma diciamo che il concetto si attribuiva solo quando si parlava di matttiba presto e poiché era tutto tranne che mattina presto, avrebbe ben accettato di essere svegliata. Inoltre non avrebbe mai lasciato l'amica ad annoiarsi tutto il tempo da sola mentre lei avrebbe dormito.
    Si era infine preparata, abiti assolutamente freschi e non scuri perché i funerali e i colori scuri secondo lei non andavano d'accordo e ingrigivano solamente l'atmosfera. Era uscita di corsa, chiudendo la porta a chiave e non aveva rallentato finché non aveva raggiunto la stazione che fortunatamente non era poi così distante da lei. Abitava più distante da Amalie, quindi quando sarebbe salita sul treno non avrebbe avuto nessuno con cui parlare. Finalmente era privata e il tintinnio delle chiavi che aveva ancora in mano finalmente era finito e le chiavi avevano trovato pace nella sua borsetta. Era salita sul treno fino a cercare il suo posto, quello che cercava sempre di prendere quando doveva salire sul treno. Si era seduta ed aveva appoggiato la testa al finestrino. Dopo qualche minuto il treno aveva ripreso la sua corsa e le immagini sfrecciavano veloci sotto il suo sguardo. Come se non lo avesse immaginato, in poco tempo si era addormentata con la tempia appoggiata al vetro. Un tocco delicato sulla spalla l'aveva risvegliata e si era trovata il sorriso di una ragazza bionda ad accoglierla. «Cora! Mi sei mancata un sacco!» Non si era nemmeno accorta che fosse arrivata, come al solito quando dormiva non sentiva veramente niente. «Amalie! Come stai? Anche a me sei mancata moltissimo! Hai visto cos'è successo? Hai nuove news sull'attentato?» Ed era così che lungo tutto il tragitto l'argomento principale fu proprio quella disgrazia che aveva mietuto molte vittime e fra le notizie e le ipotesi, arrivarono a Londra.

    19.00 -- Non conosceva molte persone lì, la maggior parte di quelle che conosceva erano ovviamente studenti di Hogwarts. Non aveva spostato lo sguardo verso i presenti, non aveva salutato chi conosceva, non aveva rivolto parola a nessuno ancora, era semplicemente rimasta al suo posto, al suo fianco aveva sua cugina. Non sapevano ancora in cosa si sarebbe trasformato quello che doveva essere un semplice funerale. Le parole della ragazza che aveva parlato, Idem Withpotatoes, aveva sortito in lei una sorta di risveglio, aveva sentito la potenza delle sue parole, la sua sofferenza, le sue emozioni le era erano entrate nelle vene ed entrano entrate in circolazione lungo tutto il corpo, come una scarica elettrica. Ekate si era girata ad osservarla, aveva capito cosa voleva dirle, dopotutto si capivano abbastanza facilmente le due cugine forse per il carattere, forse perché si conoscevano ormai da tempo. Quando ebbe finito di parlare ci fu un attimo di silenzio, interrotto poi bruscamente da un applauso proveniente dal fondo, uno di quelli secchi e ironici che le davano tanto i nervi. Era poi uscito fuori dalla sua ombra un uomo, si era avvicinato ad alcuni ragazzi dicendo cose sprezzanti, aveva già capito che si sarebbe rivolta a lei e sua cugina appena si era fermato all'altezza della sua fila. «il sangue debole» Si era già alzata in piedi appena aveva iniziato a parlare, le sue parole ribollivano in quello che lui definiva sangue debole. «Debole? Non siamo noi i deboli, qui.» Le parole della cugina parlarono anche al posto suo. Non capiva perché c'era sempre questo odio verso di loro semplicemente perché entrambi i genitori non fossero maghi, di come avessero rovinato quella che doveva essere una razza pura. Aveva sempre odiato quelle due parole, non riusciva proprio a tollerarle. «Oh che peccato, noi siamo nate deboli. Abbiamo rovinato la vostra agoniata purezza. Siamo un po' antichi di mente mi dicono, eh? Il mondo si evolve e non potete impedirlo. Non potete.» Non era riuscita proprio a trattenersi. Quella voglia di un mondo puro ormai era irrealizzabile, ma c'erano persone che ancora ci credevano. Strinse i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nella carne, lasciando i segni, ma doveva fermarsi, doveva almeno provarci, quello era un funerale e già stava precipitando tutto nel caos, non avrebbe dovuto immischiarsi anche lei, non sarebbe stato rispettoso nei confronti di Idem che aveva perso parte della sua famiglia. Ma quando mai lei seguiva il suo subconscio, seriamente, elencatemi almeno una volta che l'avesse seguito. Si era dato il via al putiferio, era stato abbastanza chiaro. «Sy.» Non aveva bisogno di altre parole, aveva già sfoderato la bacchetta che portava sempre con sè. Mai uscire senza bacchetta. Quello le ricordava la missione a cui aveva partecipato, doveva ringraziare di essere ancora viva. Strinse la mano sinistra della ragazza. «Pronta?» Non aveva aspettato una risposta, la loro intenzione era quella, avrebbero cambattuto. Non si nominavano gli Hollins invano. Si slanciò verso quelli che aveva visto comparire ai margini della radura. Avrebbe potuto lasciar perdere e scappare? Sì. Avrebbe voluto scappare? Neanche per sogno.

    19.20 -- C'era moltissima gente, non era mai andata a nessun funerale, ma quello, non era solamente un semplice funerale, lo sentiva, alcuni non erano solo lì per quelle vittime. Coraline ed Amalie si erano avvicinate subito al gruppo di studenti che si era formato. Come Amalie, aveva salutato chi conosceva, donando un sorriso ad ognuno di loro pur sapendo che non a tutti sarebbe bastato e ovviamente avrebbe capito. Ascoltò completamente il discorso di Idem e anche lei si commosse, si era detta fortunata di non aver perso persone a lei care, ma allo stesso momento si sentiva straziata dalle parole della ragazza. In poco aveva sentito un gruppo alla gola, il pizzicore agli occhi che si erano arrossati e si potevano notare delle lacrime che erano scivolate lungo le guance, era una ragazza di per sé molto emotiva e quelle occasioni erano praticamente un colpo al cuore per lei. Non avrebbe saputo dire cosa avrebbe fatto lei al suo posto, come avrebbe preso la morte dei suoi parenti e se fosse stata comunque forte come Idem che nonostante il dolore che provava per la perdita. Finito il discorso, un uomo si avvicinò ad alcuni suo compagni di casata e di scuola, rivolgendosi in modo acido. «Devo fare una cosa, ma torno. Giuro che poi torno.» Amalie si alzò subito dirigendosi verso la bambina. Lei si era letteralmente bloccata, l'unico movimento che dava segni di vita era quello della mano che andava ad asciugare le lacrime dalle guance. Voleva aiutare, ma era rimasta impietrita e non aveva scelto il da farsi. C'era troppa gente che aveva reagito in modi diversi e c'era chi era già pronto ad usare la violenza, ma lei ne era assolutamente contraria e in quella confusione che si stava andando a creare non sarebbe stata la cosa migliore attaccare o la situazione sarebbe peggiorata. Si riscosse alzandosi finalmente anche lei, aveva sospirato e si era guardata attorno. Non se ne sarebbe andata, sarebbe stato ingiusto, voleva aiutare, ma non voleva neanche combattere o almeno non ancora. «Voglio essere anche io d'aiuto, per qualsiasi cosa abbiate bisogno.» Aveva detto quando ormai i suoi passi l'avevano condotta da Idem e Tupp, aveva rivolto loro un sorriso di incoraggiamento e aveva guardato la bambina chiedendosi cosa stavano pensando in quel momento. Erano presenti perfino dei bambini, molte persone sarebbero state in pericolo, c'era bisogno di più aiuto possibile anche perché non prevedeva una fine felice all'insegna della pace.
    You already know how this will end.
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia
     
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    «Remember this feeling. This is the
    moment you stop being the rabbit»

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    henderson | moonarie
    nate joey
    « Grown up? Me? I suppose I have.
    Killing things, and almost
    k i l l i n g . m y s e l f ,
    must have changed me some,
    a f t e r . a l l . »
    before you start a war you better know what you're fighting for
    Aveva pianto come un idiota, lo ricordava bene. Anzi, ricordava tutto, di quel giorno. Ricordava che la camicia pizzicava, che la cravatta lo soffocava. Ricordava di aver pensato che i fiori rossi fossero bellissimi, ma inutili, come inutile era tutto quello. Ricordava la ragazza dagli occhioni e l'abitino corto, il sorriso triste rivolto al cugino. Ricordava che Lèon a un certo punto l'aveva preso in disparte, e gli aveva stretto fra le dita il braccio con tanta forza che i giorni a seguire sarebbe rimasto il livido. Era solo un assaggio, ovviamente, un richiamo; a casa sarebbe stato peggio. «I ragazzi non piangono, Joseph»
    A Lèon raramente interessavano le apparenze, ma se c'era una cosa che non sopportava era che suo figlio adottivo apparisse debole. Cercava sempre di lanciare una certa immagine di Joseph, nonostante l'aspetto mingherlino e fragile del ragazzo, e l'immagine di un ragazzino che piange la madre, evidentemente, non era fra queste. Chiamatele pure tattiche di marketing, perchè lo erano: il ragazzino biondo era un prodotto da vendere agli occhi di Lèon, valutato ai suoi occhi tanto quanto il suo guadagno in sterline per combattimento.
    Che importava se Joey voleva piangere al funerale di sua madre? Che importava se pensava di essere responsabile del suo suicidio, e Lèon gli avesse dato ragione?
    Joseph Moonarie non doveva piangere, o mostrarsi interessato. Nè a quel funerale, nè a nessun funerale.
    Neanche in caso di attentato.
    Di fratelli lasciati soli.
    Di figli orfani.
    Di giovani vite spezzate.
    «E' lo stesso completo della festa di Pasqua?»
    «Forse»
    «come hai lavato il sangue?»
    «Esistono incantesimi»
    «Puzza di naftalina»
    Joey si voltò verso di lei. «Il tuo puzza di troia... ah no, scusa» Portò la mano al petto, gli occhi enormi in un'espressione dispiaciuta. «Quella devi essere tu»
    Gli importava del commento della ragazza almeno quanto poteva importarti dei piccioni zoppi a causa dell'inquinamento: un cazzo.

    Joey presenziava a quella cerimonia accanto ai suoi amici per una semplice questione di immagine e compagnia nei loro confronti, seduto sciallamente con sotto la sedia il classico zaino grigio che non si era permesso di lasciare nella casa che aveva occupato a inizio estate, per paura qualche altro barbone lo trovasse.
    Ascoltava le parole della ragazza con gli occhioni azzurri sul palco, ma la disgrazia accaduta lo toccava solo per metà. Erano solo sconosciuti, tutti quanti. Per quanto gli apparisse lecito sentirsi così investito di emozioni come alcune delle persone accanto a lui (Amalie, banalmente, co le guance rigate da luccicanti lacrime), e per quanto un po' addirittura le invidiasse, lui non provava niente.
    Dispiacere, ovvio, indignazione per il modo stupido in cui tanta, troppa, gente era stata lasciata sola dopo la ore dei loro cari, rabbia... ma finiva qui. Non si disperava, Joey. Non aveva un nodo alla gola, una stretta al cuore, il naso pieno e gli occhi pronti a lacrimare. Si guardava intorno, vedeva la gente disperarsi, e si chiedeva se stessero recitando tutti una farsa, o davvero stessero così male.
    A volte temeva di essere rotto.
    Avrebbe voluto essere interessato a quei morti, essere la ragazza sul palco, con tutte quelle belle parole... ma non pensava ne sarebbe stato mai capace. Non che si ritenesse del tutto insensibile, eh, però... un po' apatico, indifferente al dolore altrui, quello sì.
    Le emozioni lo avevano sempre confuso troppo, per essere in grado di gestirle o, evidentemente, provarle.
    E poi shit happens.
    Vasilov e i suoi passi in giro fra le sedie, lo sguardo tagliante sui freaks, su di lui. «per non parlare degli Illeciti, coloro che sono capitati nel nostro mondo per un errore, e tali rimangono.» Non rispose. Era stato chiamato errore così tante volte nella vita, da uomini più grandi e forti di lui, che era sciocco reagire, pensare di poter combattere. Gli era stata gettata troppa merda addosso, in 15 anni, per permettersi di poter fare il permaloso. Scrollò le spalle, disinteressato.
    Come se gli fosse mai importato lo stato di sangue. Sapeva di essere un fallito, a dispetto dei suoi geni; neanche scoprire di essere un purosangue di famiglia (difficile, ma possibile), avrebbe mai cambiato quel semplice fatto.
    Quando toccò a CJ, invece, salì un po' di più l'odio verso l'uomo. Non tanto per le parole, quanto i gesti. Il modo in cui Vasilov toccava , con familiarità deviata, disgustava Joey. Non era tanto il taglio, o il sangue il problema; era quell'intimità.
    Gli ricordava Lèon.
    Porse la bottiglietta d'acqua presa dallo zaino e un fazzoletto al ragazzo rasato, la testa leggermente inclinata. «Tieni»
    «bevitela.»
    «Tu non hai sete?»
    Meh. Di nuovo, spallucce. Chi era lui per obbligare ad accettare un gesto di gentilezza, quando ancora guardava sospettoso il commesso del supermercato che diceva "buona giornata"?
    «Aspetta» sorpreso, alzò lo sguardo verso Byron Winston.
    Winston.
    Chiamarlo con quel cognome bruciava nei pensieri quanto bruciava sulla lingua pronunciarlo.
    La sua voglia di essere una crocerossina non era tanto strana, anzi, usare un incantesimo simile era anche abbastanza intelligente (più di un fazzolettino con dell'acqua, sia chiaro), ma non per questo Joey lo odiò meno.
    «Vaffanculo, Winston» così, detto dal kuore, come se Winston fosse stata una bestemmia. E un po', per Joey lo era. «Non ha bisogno dei tuoi servigi»
    Vaffanculo Winston, perchè aveva pensato a fare qualcosa per CJ probabilmente solo per sentirsi a posto con la coscienza.
    Vaffanculo Winston, perchè quando hai a che fare con la cricca, devi essere pronto a essere trattato di merda almeno quanto loro durante tutta la loro vita.
    Vaffanculo Winston, perchè pur essendo nato nessuno come loro, non era diventato un Kavinsky, un Cooper, un Moonarie. Aveva avuto la fortuna di diventare un fottuto angelo del focolare domestico, il figlio ideale nella famiglia ideale, un Winston. E neanche si rendeva conto della sua fortuna.
    Neanche fece domande, quando CJ si alzò. Neanche pensò di non seguirlo, come un cieco seguirebbe il suo cane guida, mentre si avvicinava al palco. Zaino in spalla, bacchetta in mano, e i suoi (nuovi e non) amici. Era davvero tutto ciò che aveva nella vita, e per cui avrebbe lottato.
    La diatriba fra i presidi sembrava peggiorare, e Joey non era sicuro di intendersi abbastanza di politicare per capire davvero quello che stava accadendo... ma quello che sapeva, era che Lafayette non era esattamente uno stinco di santo. La sua corrente politica non rasentava forse il comunismo? Schierarsi così apertamente contro di lei, una filo-terrorista, non gli sembrava l'idea del secolo.
    Si avvicinò ad Amalie, a un'altra bionda e alla marmocchia, un sorriso leggerissimo alla prima e una linguaccia segreta alla socando, notando accanto a loro oltre a quello che era stato presentato come Donnie, l'assistente di corpo a corpo, evidentemente lì sul palco da pochi minuti e davanti alla bambina stile scudo umano. Se non sbagliava, una delle donne morte nell'attentato era la sorella del suo compagno.
    «Dov'è suo figlio?» una domanda di curiosità, l'interesse per una vita innocente.
    «Mia madre l'ha portato a casa»
    Joseph annuì, stupido dall'idea che esistessero a quel mondo ancora bambini con i nonni, e si voltò ad ascoltare il discorso di CJ, pronto a dargli qualunque sostegno di cui avrebbe avuto bisogno.

    Nathaniel, invece, non merita davvero un post, perchè si è fatta una certa davvero, e tanto ho già scritto cosa fa prima.
    Tuttavia, come potrete aver notato voi cari assidui lettore, le cose stavano andando a puttane.
    Ben in pochi parevano aver ascoltato il buon saggio Nathaniel, che da vicino a Damian, potè comunque notare i cazzoni che pensarono bene di mandare all'aria la sua bella tiritera sulla diplomazia (non avevano sentito? Davvero? O facevano finta? "Cazzo fox sei mio studente e ti amo e mi spiace per la tua perdita ma giuro che ti azzero il conteggio stelline e Patrick di te neanche ne parliamo"). Volevano una guerra?
    BENE!
    Allora una guerra avrebbero dovuto conquistarsela, perchè sticazzi che Nathaniel gli permetteva di iniziare un combattimento suicida che avrebbe minato i rapporti non solo fra Hogwarts, Beauxbatons, Salem e Durmstrang, ma fra gli stati direttamente. Non quando, in ogni caso, aveva finalmente trovato una casa, aveva finalmente trovato una famiglia, aveva finalmente trovato l'amore.
    Non avrebbe potuto fare nulla per il Khai, ma poteva lasciare a Vasilov ancora il beneficio del dubbio finchè non... faceva cose? Ad esempio tentando, dopo aver tirato fuori rapido la bacchetta, un Protego Maxima verso Vasilov e anche per Lancaster già che è lì vicino perchè non si sa mai
    Civil war.
    Ma bububu sei un traditore Nathaniel!
    Beh, no? Adesso ditemi, cari cittadini comuni, come fate a essere tanto sicuri che il preside di Durmstrang stesse mentendo.
    Nathaniel lo aveva visto portare in salvo quei corpi fuori dal capanno. Forse non tutti, ma quanti?
    Poteva aver sbagliato, d'accordo, ma davvero volevano affrontarla così? no. Nathaniel non poteva permettere una cosa del genere.
    Gli piaceva il mondo, gli piaceva che avesse le porte aperte per lui ovunque. Gli piaceva la pace.
    La violenza risolveva spesso le cose, ma in quella situazione? No. In quella situazione, Nate continuava a pensare che ci volesse calma e sangue freddo.
    «Signori! Non fatemi pentire di tutte le stelline»
    E Nel mentre CJ parlava (forse?) e Nate avrebbe adorato ogni parola, e avrebbe riso alla richiesta del nome alla bambina, al drop mic, e avrebbe anche applaudito, d'accordo con lui, perchè le parole, spesso, potevano sistemare le cose, quando la posta in gioco era così alta.
    Ma voi lo sapete quando le cose accadono, o la linea temporale? Io no, e va bene così.
    «Siamo ancora in tempo per stringerci la mano e parlarne

    | ms.



    Joey segue CJ sul palco, si mette con Amalie e co
    non ho scritto il post, ma nella mia testa anche Jade è lì, a fare tipo... catena umana per salvare Tup?? Idk è lì comunque visto che Donnie non è voluto andare via (credo?)
    Nate ZANZANZAN fa un protego maxima verso vasilox. chissà se me ne pentirò NON PICCHIATELO TROPPO

    EDIT nate non vede neanche cora SCUSA FIGLIA


    Edited by mephobia/ - 19/7/2017, 23:37
     
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  14. pe(a)r(l)fect
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    Pearl
    O'sullivan
    Nathan
    Wellington
    Helianta
    Moonarie
    Pearl-witch-deatheater|| Nathan-mimesis-rebel|| Helianta-chronokynesis-neutral

    Sul letto giacevano inermi gli abiti neri scelti per quell'occasione: scuri e pallidi allo stesso tempo. Strano a dirsi ma odiava i funerali proprio per quello: il nero. Il buio, l'oscurità, le tenebre erano sue: i suoi segni di riconoscimenti, i suoi tratti distintivi. Odiava i funerali perchè il suo essere diversa si omologava alla folla, facendola passare per una persona in lutto. Lei non lo era mai, ma lo era da sempre. Il nero del suo guardaroba rifletteva il suo lutto, il suo dolore, la sua perdita.
    Per cosa? di cosa? Ormai non lo sapeva nemmeno lei, ma sapeva che qualcosa le opprimeva il petto. Era quello il sapore della morte, un boccone impossibile da mandare giù che faceva seccare la gola, l'asprezza del fiato mozzato. Non ti uccideva, eppure la guardiacaccia non si sentiva più viva da molto, troppo tempo.
    Lasciò cadere l'asciugamano col quale si era cinta dopo la doccia, ma ancora indugiò prima di indossare gli abiti. Non avrebbe preso vestiti di colori sgargianti solo per essere diversa: anche se discordava con la tradizione non significava che si sarebbe dimostrata irrispettosa nei confronti dei parenti delle vittime. Il tessuto scuro le coprì la vista mentre indossava la maglia nera, vedeva ben poco attraverso le maglie della stoffa, come attraverso il fumo nero di Parigi. I ricordi erano nitidi nella sua mente, sebbene il terrore l'avesse attanagliata, ma era lì per compiere una missione, un'altra ancora, sempre (cit.). Non permise alla paura di soffocarla ma al usò come carburante, quando era stanca le bastava pensare al caos che aveva lasciato quelle tracce e nuova forza scorreva nelle sue vene, facendola andare avanti. Perchè era quello che faceva sempre lei, andare avanti. Fermarsi significava sprofondare, non riuscire più a muoversi, e Pearl non poteva permettersi di rimanere ferma.
    Non era nulla di speciale, era il suo solito modo di vestire, ma si sarebbe comunque potuto intuire che stava andando ad un funerale. Forse per i capelli biondi, leggermente più curati del solito, forse per il velo di tristezza che copriva le iridi glaciali, oppure per come i suoi gesti fossero privi di rabbia, sebbene quello fosse il momento più giusto per covare rancore verso coloro che avevano messo a ferro e fuoco Parigi.
    E dire che non le era nemmeno mai piaciuta la Francia.

    01/07/2017
    Il fondo della bottiglia produsse contro il tavolo di legno un rumore cupo, cupo come la notizia che stava passando sulla bocca di tutti. Era appena l'alba ma non aveva importanza, non più di tanto. Dalle finestre entrava la luce dorata di un sole nascente che osava illuminare le ultime tenebre, le stelle sparivano irradiate dai timidi raggi mattutini, le nubi cambiavano aspetto rivelando nuove forme. Non era bello. Era triste. Che senso aveva l'alba dopo il tramonto di così tante vite? Che senso aveva l'alba se Tupp non poteva svegliarsi con i suoi genitori? Nonostante ciò, Pearl osservò i disegni che comparvero sul muro alle sue spalle: la luce colpì il vetro delle bottiglie e i bicchieri vuoti sulla sua tavola, creando un'aurora boreale improbabile. Non aveva pianto, ma in quel momento avrebbe voluto farlo. Diede la colpa alla sbronza, eppure le sembrava così probabile che Delilah le avesse mandato un ultimo regalo, quei giochi di luce lì per lei, per sollevarla il morale. Non era così, ovviamente non lo era. Delilah era morta, non era che un mucchio di ceneri disperse nel vento ed una bara vuota, ma che male ci sarebbe stato nel sorridere a quella vista? Nessuno era lì per ricordare e avrebbe dimenticato presto anche lei, sebbene lo stesso non si poteva dire dello spettacolo che Parigi le aveva offerto.
    Era lì, ma era troppo tardi. Forse il destino si divertiva a giocarle sempre lo stesso brutto scherzo, forse era solo lei che non era capace di salvare mai nessuno, e ci aveva sperato quella volta. Aveva sperato davvero che seguire il Vice Ministro e la sua squadra avrebbe potuto salvare qualche vita, ma così non fu. Nè quel giorno nè quelli precedenti. Il nero si mescolava al rosso, la luce del fuoco era fredda, glaciale, come i corpi di quelle persone. La polvere si confondeva col fumo, il cielo avrebbe urlato a quello spettacolo, avrebbe urlato il nome dei colpevoli. Eppure nel silenzio del cielo, la bionda trovò la firma del colpevole.
    Delle dita scheletriche e nere serrate attorno ad un brandello, più sangue che tessuto, eppure i ricami sulla stoffa furono riconosciuti immediatamente dall'occhio straziato della guardiacaccia.


    In un gesto semplice e senza emozioni la bacchetta teletrasportò Pearl nel bel mezzo del corteo. Nessuno parve spaventato dalla comparsa improvvisa, mentre il rumore di risucchi d'aria rompeva il silenzio funereo facendo comparire altre persone. Ad ogni passo il fiume nero aumentava, perchè non erano morti solo degli amici o dei parenti, erano state spezzate le vite di innocenti. E attorno a loro la morte si espandeva come petrolio in mare, colpendo al cuore chiunque quel giorno era lì, chiunque aveva bagnato il cuscino. Perchè erano andati, persi. Non credeva nell'aldilà, Pearl, era più facile per lei credere che qualcosa come una vita potesse terminare, perchè in fondo non terminava e basta. Non c'era bisogno di un paradiso per mantenere vive quelle persone, era futile pensare ad una vita oltre la morte quando bastava vedere la loro presenza nella vita reale. Una presenza dolorosa, ma è il dolore a lasciare i ricordi più indelebili sulla pelle. «Chi conoscevate?» aveva avanzato nella folla fino a raggiungere i suoi ragazzi, poggiando una mano sulla spalla di Bells e guardando lei e gli altri catafratti con sguardo triste. Avevano affrontato di peggio, ne era stata testimone, ma poteva immaginare come era sentirsi impotenti. Durante la missione avevano potuto avere una parvenza di controllo sulle sorti degli ostaggi, quelle quattro vite invece erano saltate in aria senza preavviso, senza un conto alla rovescia. Niente lacrime nei suoi occhi, nessun sorriso nel tentativo di rallegrarli: dovevano essere arrabbiati, erano grandi abbastanza per capire che nessun sorriso sarebbe andato bene quella volta. «Delilah era mia amica» sospirò osservando davanti a sè le persone che camminavano lentamente, senza fretta. Chi avrebbe fretta di celebrare una morte? «ho conosciuto anche Neil, mi avevano invitata da loro una sera» ma non si trattava di una cena, non era per così poco che si trovava affianco a loro. Li avrebbe voluti conoscere, avrebbe voluto che la chiamassero per stare con Tupp, sarebbe voluta essere una delle invitate alle feste. Quelle cose che gli adulti facevano, quelle che cose le persone facevano. Stava cercando di ricostruirsi una vita, ma pareva che l'unica compagnia che avrebbe avuto sarebbe stata quella del cupo mietitore.
    Preferì rimanere in piedi la O'Sullivan, come se stesse salutando dei soldati, perchè erano morti da soldati nonostante si fossero trovati lì da civili.
    «com’è potuto succedere? Doveva essere una festa. perché nessuno… perché a nessuno importa? non è giusto. Non è giusta, quest’abitudine alla morte. La vita è preziosa, ed è una meraviglia, e non è...»
    Giusto? Quando mai la vita è stata giusta? La bionda ne era la prova vivente, segnata dalle ingiustizie che l'avevano portata ad essere quel che era. Nessuno era arrabbiato? La rabbia era scemata, annacquata dal dolore, dal sangue che Pearl aveva scovato sotto le unghie dopo il sopralluogo. Si era chiusa in bagno, sfregando freneticamente ogni centimetro del suo corpo, levandosi di dosso il fumo, la cenere, i morti. Se solo avesse potuto sfregare abbastanza da rimuovere i ricordi forse non le sarebbe sfuggita quella lacrima. Non si affrettò ad asciugarla, ma attese che il sapore salato le bruciasse le labbra spellate, non avrebbe nascosto quel singolo sintomo di avere un cuore, non quella volta.
    Non c'era nulla da applaudire, nessuno forse aveva pensato di farlo, ma non appena il suono lento e ritmico si levò per aria, Pearl si voltò per lanciare uno sguardo fulminante al responsabile. Lo aveva già visto, sapeva chi fosse, sapeva come fosse, ma non potè nascondere la sorpresa nel vedere quelle iridi di ghiaccio, quel completo impeccabile, quel bastone inquietante lì. Con che coraggio osava presentarsi a quel funerale? «state allerta» sussurrò ad Arci e Jeremy, incitandoli a fare il passaparola con gli altri catafratti. La bacchetta scivolò da sotto la manica della giacca di pelle, comparendo nel palmo della mangiamorte che la strinse saldamente. I suoi sensi di cincia non presagivano nulla id buono, ma chiunque sarebbe stato in grado di dire lo stesso.
    «non agitatevi, è tutto sotto controllo. Non v’è alcun bisogno che interveniate, siamo a posto. Giusto, christopher? Dì loro come stai.» anche se contro la sua volontà, la Guardiacaccia era finita per imparare a riconoscere gran parte dei suoi studenti (perchè sì, erano suoi anche se non era una professoressa) e CJ era uno di quelli che saltava subito all'occhio. Ancora non ci credeva che fosse finito tra i Tassi, ma il Cappello doveva aver avuto le sue ragioni. Fatto sta che dovette trattenersi dal balzare addosso a Dragomir quando vide il rivolo di sangue disegnare il contorno del volto del ragazzo. Non aveva idea di come ci fosse riuscito, non aveva visto nessun coltello tra le mani, ma seppe solo che aveva fatto del male ad un suo studente. Sapeva bene che in estate la scuola non aveva alcuna responsabilità o autorità nei confronti degli studenti, ma era anche vero che quel ragazzo non si sarebbe potuto difendere da solo. Non era abbastanza grande da poter usare la magia, ma non ci fu bisogno dell'intervento della bionda. CJ seppe rispondere a dovere al preside, che si allontanò noncurante di quel gesto.


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    BJ Reynolds

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    Molte cose si potevano dire di Bj, e molte se ne dicevano, e una di queste era che il Reynolds era l'osservatore perfetto. Sapeva stare al suo posto, sapeva quando e come intervenire e da bravo spettatore, sapeva anche quando rubare la scena. Ma quello che nessuno penserebbe un osservatore sa fare è soprattutto ascoltare. La maggior parte della magia non è racchiusa nei gesti, bensì nelle parole, così come gli indizi da ricercare per un'indagine. E Bj non rimpianse mai così tanto di avere quella curiosa propensione.

    Per quella volta nessun sarto sarebbe venuto a vestirlo, si sarebbe preoccupato da solo del completo che avrebbe indossato. Strinse il nodo alla cravatta, forse un po' troppo stretta, ma in orfanotrofio aveva sentito dita stringersi molto di più attorno alla sua trachea. Non si guardò allo specchio: non doveva essere bello, doveva essere in regola. Non doveva spiccare tra gli altri, sebbene la chioma rossa non aiutasse, perchè non era l'occasione adatta per rubare la scena ai leciti protagonisti. Non conosceva abbastanza nessuna delle vittime per essere lecitamente dispiaciuto, ma conosceva il terrore che aveva stretto le viscere dei parenti nell'attesa di sapere se si erano salvati.
    I Reynolds erano lì... non proprio, per fortuna, però. I due coniugi erano andati a Parigi per questioni di vitale importanza, aveva detto Denzel la sera prima di partire. Non appena la notizia dell'attentato era giunta all'orecchio del rosso, subito si era precipitato a chiamarli.
    Non c'era linea.
    Tutti gli scenari peggiori cominciarono ad essere proiettati nella sua mente, come menù dove ogni possibilità era un piatto prelibato e dannatamente caro. «sono morti» sussurrava tra le lacrime, tra la rabbia e la disperazione «... sono morti...». Seduto contro il muro immacolato del salotto, le mani che cercavo di aggrapparsi alla liscia superficie del marmo senza successo: stava scivolando via, loro stavano scivolando via da lui. Non poteva perderli, non voleva, erano la sua unica famiglia, l'unica che avesse mai conosciuto. Si erano presi cura di lui, lo avevano accolto in casa sua e ora se ne stavano andando. Se ne erano già andati secondo Bj, lo sentiva dentro. Per fortuna, in piena notte, lo squillo del telefono si animò risvegliando il ragazzo, appisolatosi in quella stessa posizione con ancora le lacrime incrostate sul volto.
    «Pronto!» non una domanda, un esclamazione brusca e frettolosa, mentre una girandola di emozioni si muoveva nel suo petto. Dall'altro capo del telefono provenivano rumori indistinti, rumori che spaventarono il ragazzo, facendolo ripiombare tra le sue paure.
    «Mamma?! Papà?! Rispondete vi prego» piagnucolò scivolando ancora più giù, sempre più giù. Furono secondi, minuti, giorni, il tempo poteva scorrere come poteva fermarsi, BJ sarebbe rimasto congelato in quella posizione finchè non fosse stata la voce dei suoi genitori a provenire dalla cassa del telefono. Dovevano essere loro, non poteva avere ragione, Bj non aveva mai ragione in fondo.
    «... Bj?»

    «non agitatevi, è tutto sotto controllo. Non v’è alcun bisogno che interveniate, siamo a posto. Giusto, christopher? Dì loro come stai.» aggrottò le sopracciglia (spettacolo poco piacevole credetemi) e riascoltò mentalmente le parole che quell'uomo aveva detto. C'era qualcosa di sbagliato, più sbagliato della presenza di Vasilov a quel ricevimento, più sbagliato di quelle bare vuote. Affianco a lui c'erano i suoi amici, tutti seguirono con lo sguardo il Preside che si allontanava. Solo Cj pareva... diverso, mentre il sangue gocciolava ancora per poco prima che un ragazzino gli curasse la ferita con un incantesimo. La risposta del tasso fu più che ovvia e Bj avrebbe pure mimato un "grazie" in direzione del buon samaritano, se finalmente non avesse capito cosa non andava. Al suo orecchio era un associamento familiare, scontato, così come lo era anche per il resto dei catafreaks. Se quell'errore era rimasto inosservato ai loro occhi, era certo che qualche spettatore esterno avrebbe colto quella stranezza. «CJ!» bisbigliò attirando l'attenzione del fratello. Vedendolo di fronte non c'era traccia del taglio, ma gocce di sangue spiccavano ancora sul mento. Il rosso si alzò in piedi, mettendosi tra Sun e l'amico. Le labbra tremarono e dovette prendersi qualche secondo per concentrarsi, chiudendo gli occhi, e fu certo che in quei secondi Cj lo stesse insultando mentalmente ("che fa questo idiota?"). «come fa a saperlo?» sperò che l'altro non lo costringesse a dire altro, sperò che sarebbe bastato quello, magari avrebbe fatto meno male, magari aveva solo paura. Il silenzio non sembrava quello di chi non sapeva, affatto, ma Christopher era bravo a fingere, il migliore, avrebbe osato dire il serpeverde. «come faceva Vasilov» le iridi castane erano incollate a quelle cerulee «a sapere il tuo nome?» la voce non si incrinò, rimase ferma ed impassibile. Così gli parve il volto di Christopher: un lenzuolo bianco che nemmeno la più forte delle brezze riusciva ad increspare. Ed ebbe paura, BJ, perchè aveva cercato del buono in lui e giurava, giurava, di averlo trovato. Quel silenzio fu come una secchiata d'acqua su una lavagna sporca: non rimaneva che il nero dell'ardesia. Sopraggiunse la rabbia, che fece affiorare le lacrime, ma Bernadette doveva essere forte, non poteva rompersi, non lì. Afferrò con violenza il braccio di CJ, più sottile del proprio, e le dita si allacciarono con forza: non voleva fargli del male, ma anche se fosse stato così, lui gli stava facendo di peggio. «Ti ho chiesto come!» gli parve di urlare nella sua testa, mentre quei quesiti lo facevano impazzire, e forse girdò davvero visto come gli altri osservavano quella scena. «Come...» sussurrò, non per vergogna, ma per stanchezza.


    Nathan Abelard Withpotatoes era stato uno dei primi clienti di Helianta e le era piaciuto fin da subito. Era il tipo di lettore che sfogliava i libri con frenesia, alla ricerca di qualcosa: un'idea, un indizio, l'informazione giusta. Era entrato con fretta nel negozio e, da come si aggirava rapido tra gli scaffali, la cronocineta ipotizzò che dovesse essere così per tutto il tempo. Aveva poggiato sul bancone cinque libri di scienza, allungando le monete per pagarli. «E' un professore?» aveva chiesto curiosa mentre metteva i soldi nella cassa e stampava lo scontrino, osservando i titoli accademici dei tomi. «Inventore» la corresse lui con un sorriso. La Moonarie lo guardò meravigliata: non aveva mai incontrato un inventore prima, era quel genere id lavoro che solo da bambini si aspirava a fare tra i babbani, ma non doveva essere così nel mondo magico. Sebbene fosse il primo esemplare che avesse mai visto in carne ed ossa, Nathan era proprio ciò che qualcuno poteva aspettarsi di trovare in uno scienziato di quel tipo. «e cosa sta inventando adesso?» si appoggiò con i gomiti al bancone di legno, mostrando sincero interesse nella vita di quell'uomo. Chissà come doveva essere avere una mente così produttiva, vedere del meraviglioso in qualsiasi cosa e sapere di avere centinaia di idee per la testa ma essere solo uno per realizzarle tutte. Ora capiva la sua fretta, il modo in cui aveva puntato lo scaffale che gli serviva. Non sembrava sapere cosa stesse cercando, ma sapeva dove cercare. L'uomo si schiarì la voce ed iniziò a parlarle dello stravagante progetto, dei tentativi falliti e di come i suoi due pangolini continuassero a rincorrersi per il suo laboratorio. Scoprì anche il nome del suo cliente, nome che le rimase impresso e che iniziò ad usare per salutarlo ogni qual volta varcava la soglia. «Come procede il tuo tavolo bipede Nathan?» o «ti serve qualche libro dallo scaffale di magi-zoo-tecnologia?» erano domande ricorrenti alla presenza del Withpotatoes. E poi aveva letto il suo nome sul Mors Mordre, il giornale dove qualche giorno dopo sarebbe stata messa anche la sua foto. Quando si rincontrarono nel capanno fu piacevole vedere un viso conosciuto, sebbene nella fioca luce che penetrava dalle assi tutti i volti erano conosciuto e sconosciuti. Erano affamati, feriti, sporchi. Helianta era abituata al trattamento che i maghi riservavano agli esperimenti, ma i babbani avevano toccato il fondo con quel genere di discriminazione. Cercava di rallegrarla, il WP, le raccontava di come Idem stesse sicuramente preparando un cenone di Natale per il loro ritorno a casa, la faceva addormentare parlando per ore e ore di teorie scientifiche che conciliavano il sonno più di una tisana ed era sopravvissuto lui, ma non era bastato. «è più difficile di quanto pensassi, scusate» cosa aveva fatto di male quella povera ragazza. Una persona così buona, così genuina e solare non meritava quel dolore, un dolore ingiustificato come la perdita di quelle vite. Era morta Helianta, ne era quasi certa, e si chiedeva se anche per lei qualcuno avrebbe provato quel dolore, si chiese se avrebbe causato anche lei delle lacrime come quelle sul volto della Withpotatoes. Strinse la mano di Killian a sè, la strinse perchè era in quei momenti che si realizzava quanto si tenesse a qualcuno. Lo guardò con le lacrime che affioravano dalle lunghe ciglia, il labbro tinto dal rossetto morso intensamente e non potè trattenersi dal poggiarsi sulla sua spalla. Sapeva essere forte la cronocineta, non aveva pianto nel capanno se non nel sonno, ma aveva bisogno di quelle lacrime in quel momento. Aveva bisogno di sentire il calore di quelle gocce per sentirsi viva, per ricordarsi che un Americano era arrivato là a darle una seconda chance, a darla a tutti loro, vivi o morti che fossero. Le dita di Killian tra le sue, la spalla dove erano cadute alcune lacrime salate, il vento estivo che soffiava sulla sua pelle. Tutti regali di Lancaster, che in cambio li aveva incatenati a lui, ma li aveva liberati dal dolore nel momento in cui questo si era rivelato più lancinante. Un po' lo odiava, per il modo subdolo in cui aveva riscattato la sua ricompensa, ma non potè che essere grata di vederlo lì. Chissà cosa era successo a William da farlo diventare così legato alla morte. Perchè c'era sempre lui quando moriva qualcuno? cosa lo rendeva così sensibile al passaggio nell'aldilà? Dubitava che l'uomo fosse lì in semplice veste rappresentativa, doveva essere coinvolto in qualche modo. Che si trattasse dell'attentato nello specifico o di come il cupo mietitore portasse vie anime innocenti non era importante, non ancora. Ma la cronocineta seppe che le cose sarebbero peggiorate quando sentì un applaudire lontano, volutamente irrispettoso.
    Gli occhi nocciola dei Helianta divennero come coltelli, pronti a sfregiare in ogni modo possibile l'uomo che camminava placidamente in mezzo alle due file di sedili. Anche un cieco lo avrebbe riconosciuto, così simile a molti eppure nemmeno lontanamente confondibile con qualcun altro, persino i suoi abiti neri sembravano diversi dal nero indossato dagli altri. Lo odiava e non sapeva nemmeno il perchè, ma sapeva che c'entrava qualcosa con quella dannatissima notte al capanno. I ricordi prima di... prima di morire erano ancora confusi, annebbiati dal fumo e deteriorati dal fuoco, ma ricordava quello sguardo: le iridi illuminate dal fuoco ma non spaventate da esso erano impresse nella sua mente, eppure era convinta di non averlo mai visto prima di risvegliarsi grazie a Lancaster. Lo sguardo si spostò velocemente sul preside di Salem che salutava allegro il collega: quanto era inopportuno quell'uomo? e quante ne avrebbe prese? non abbastanza da farlo cambiare, probabilmente, ma si poteva sempre tentare.
    Dragomir interruppe la sua sfilata dinanzi ai gradini del palco, salendoli lentamente come ad assaporare il suono del legno che scricchiolava. Le accuse nei suoi confronti erano gravi, eppure era il carnefice perfetto, il carnefice per eccellenza. Nonostante gli incredibili sforzi per mantenerei segreti di Durmstrang tali, le voci giravano, le informazioni trapelavano... e le persone giudicavano, perchè è quello che le persone sanno fare meglio: puntare il dito. Helianta non poteva dirsi da meno, ma al piombare di Lafayette nel bel mezzo del funerale, la cronocineta rimase incredula. «Per l'amor di Dio» esclamò scioccata e... offesa. Si alzò di scatto facendo affondare la sedia nell'erba, ma non poteva importargliene di meno, non quando il rispetto per una sua amica e i suoi parenti e per le altre due vittime veniva brutalmente fatto a brandelli. «Dove vai?» chiese preoccupato Killian, le cui mani poco prima strette attorno a quelle della ragazza ora erano rimaste vuote. «vado a salvare culi» scavalcò le gambe delle persone che la speravano dalla fine della fila «e se necessario ne prenderò a calci anche». Improvvisamente il vestito che aveva indosso non era più così importante come lo era sembrato quella mattina, nemmeno le scarpe costose valevano quanto la vita, le morti, celebrate quel giorno. Se c'era un limite, bè era appena stato varcato.
    Un nero denso e viscoso alla vista era il colore delle giubbe che quegli uomini indossavano, il celeste di un cielo troppo tranquillo per essere reale era la divisa dei Francesi. Ma l'Inghilterra? Il campo di battaglia stava anche lui prendendo in mano la situazione, la scacchiera dove far spazio ad un nuovo set di pedine, ma Helianta non sarebbe stata nessuna di queste.
    Avanzò con passo fermo, incredula della situazione che stava per affrontare, incredula di come qualcuno si fosse permesso di rendere quella situazione possibile.
    Vide un incantesimo materializzarsi all'estremità di una bacchetta ma, sebbene fosse diretto a Vasilov, non avrebbe permesso che un'altra goccia id sangue venisse versata in quel luogo. Quello dello studente era già fin troppo per i suoi canoni. Portese la mano in avanti, lo sguardo freddo e duro come la pietra in direzione delle prime scintille che iniziavano a formarsi. E non sarebbe andata avanti quella fattura, immobilizzata in quella situazione di stallo. Una reietta aveva appena salvato il culo di quel razzista del cazzo, chissà cosa vorticava ora nella testa di quell'uomo.
    «Non vi vergognate?» esordì a pieni polmoni sputando quelle parole. Disprezzo, schifo e ribrezzo si riversarono nell'aria, mentre lo sguardo della giovane donna rimbalzava da un giocatore all'altro di quell'immensa e infinita partita. «Non è bastato quello che successo a Parigi? Questo mondo ha bisogno di un'ennesima strage?» guardò infuriata la bionda seguita da suo corteo bianco. Diamine se se ne sbatteva del fatto che l'avesse tirata fuori da quella trappola mortale mesi or sono, era comunque nel torto più marcio. «In questo giorno stiamo celebrando i nostri morti, i nostri caduti! Innocenti!» alzò la voce mentre il sangue le ribolliva nelle vene «Cj Knowels» ricordare il nome del ragazzino non era poi così difficile dopo averlo visto urinare in pubblico «ha ragione. Non ci importa in questo momento, non importa chi lo ha fatto adesso. Perchè a distruggerci non sono coltelli o incantesimi, è il dolore dell'avere quelle quattro bare davanti a noi. Rispetto: ecco quello che esigo. Quello che tutti esigiamo! Una briciola di compassione verso di noi, che ci siamo trovati nel fuoco incrociato, bloccati in un conflitto che non è nostro ma che sta avvenendo a casa nostra» quella che l'aveva delusa più di tutte sicuramente era la preside di Beauxbatons, aveva creduto di vedere in lei una donna autoritaria, consapevole... non una bambina capricciosa ed irrispettosa. «Non basta che sia stata la vostra nazione ad avere una profonda ferita sanguinolenta? C'era davvero la necessità di portare qui lo scontro? c'era bisogno di insultare così il nostro lutto, esibendo il proprio esercito in nome delle vittime il quale momento di pianto state brutalmente calpestando?» le sopracciglia aggrottate si volsero verso il Drago, sebbene quella pronta a sputare altre domande ardenti come fuoco fosse la Moonarie. Mosse il braccio indietro, facendo retrocedere l'incantesimo pietrificato, come una pellicola mandato indietro. Per la prima volta da quando aveva iniziato a parlare ai due eserciti, si spostò da dove aveva piantato i piedi nel terreno. Passi pesanti, arrabbiati si muovevano verso l'uomo che spostava i pezzi neri della partita. Sempre più vicina, sempre più desiderosa di mettersi in pericolo davanti alla minaccia maggiore per quelli come lei, per vedere se avrebbe avuto il coraggio lui di inimicarsi due nazioni in una: «e come pretende lei di essere reputato innocente quando porta con sè un esercito? quanta credibilità crede di avere con delle armi mentre si lava le mani dal sangue di quelle persone? E pensavo che fosse più astuto così: è davvero una mossa così saggia combattere contro i Francesi in un momento così importante per noi Britannici» sputò quelle parole come veleno, imitando a sfregio l'accento dell'Europa del Nord «pensa di avere abbastanza forze da poter affrontare Francia e Inghilterra insieme? Pensa che le altre scuole, le altre nazioni la seguiranno così facilmente vedendola qui adesso? Non si tratta nemmeno di strategia. E' semplice e mero business» non era nessuno, Helianta Moonarie, ma se aveva ragione non le sarebbe stato torto un capello.
    Purtroppo per lei la Cronocinesi non le dava la possibilità di vedere il futuro e un margine di errore sostanziale c'era e la commessa della Lanterna Dorata si stava dondolando proprio sul precipizio di questo margine.

    Quella mattina si era svegliata e si era seduta sul bordo del letto di Killian. Alle cinque del mattino il sonno l'aveva abbandonata, ma non era pronta per indossare l'abito appeso all'anta del suo armadio. Killian sembrava addormentato, forse non lo era, ma comunque Helianta si infilò sotto quelle coperte. «Heli?» nemmeno quella voce assonnata la fece sorridere, come avrebbe potuto fare in altre occasioni. «sì» sussurrò con lo sguardo perso nel vuoto, mentre una patina di lacrime le ricopriva le iridi. «Stai bene?» la mano calda di lui sul suo braccio fu piacevole, rassicurante... «no» ma non abbastanza. Sentì il calore del corpo di lui sulla propria pelle, ma non poteva assicurarsi del proprio di calore. Quella notizia aveva risvegliato in lei una paura: quella di non aver mai davvero mosso un passo, il terrore che quel mondo fosse fatto su misura per lei, fatto da lei. Solo perchè non si trovava in una bara, non voleva dire che non era morta, perchè le persone morivano ogni giorni in modo diverso, e la morte fisica era solo l'ultimo stadio della fine. Una fine che ha inizio col primo respiro. Ogni porta può essere l'ultima varcata, ogni orizzonte può essere l'unico ammirato, ogni battito di ciglia può essere quello che non farà riaprire le palpebre, mai più. Essere una cronocineta non aiutava, non aiutava sapere come qualcosa considerato così imbattibile poteva essere cambiato, piegato, ma non fermato. La morte era inarrestabile, ma così sapeva essere anche la Moonarie.


    Diede un bacio sulla testa di Erin, stringendola ancora più forte in quell'abbraccio che durava da tanto, ma mai troppo, tempo. Mai era troppo per Nathan, nulla era troppo, anche quando il dolore gli bruciava la pelle e lo faceva impazzire, si diceva di contare fino a cinque e dopo ancora fino a cinque, e di nuovo fino a cinque. E così il tempo passava, il dolore diventava routine e nessuno notava nulla, o così sperava lui. «si sta facendo tardi»
    «non voglio vederli» piagnucolò, sebbene le lacrime fossero finite già da un pezzo. Avrebbe voluto dirle che non c'era nulla da vedere, che quelle bare non contenevano davvero i loro amici, che di loro non era rimasto nulla se non l'impronta che avevano lasciato sul mondo, ma non sarebbe stato confortevole, anzi l'avrebbe distrutta. Le disse quello che avrebbe voluto sentirsi dire «non sei costretta a vederli se non vuoi, staremo lontani» e un nuovo abbracciò la circondò. Erano entrambi troppo giovani per quei sentimenti, non era giusto che il mondo li avesse privati dalla gioia anche se solo per un giorno, non era giusto che fossero stati privati dei loro amici. Non lo avrebbe nascosto, Nathan, anche lui aveva pianto la notte prima, ripensando alla gentilezza con cui il suo omonimo si era preso cura di lui i primi tempi alla resistenza. Era stato un Dottore, lo sapeva, ma era certo di non averlo mai visto quando lui era nei laboratori, o non se ne ricordava e preferiva che le cose rimanessero così. Nathan Abelard Withpotatoes era stato un vero amico, qualcuno per cui era valsa la pena spingersi fin nel buio più sanguinoso nascosto tra gli alberi di Brecon, un amico per il quale le lacrime che impregnavano il cuscino non erano mai troppe, mai abbastanza.
    Di April non aveva osato parlare. Che cosa avrebbero dovuto dire poi? Che era troppo giovane? Che non meritava di essersi trovata lì? Nessuno di loro sarebbe dovuto essere lì, nessuno di loro si sarebbe mai dovuto trovare in mezzo alle fiamme e al fumo durante un momento di gioia. Ma dirlo faceva solo più male, ripetere quelle cose gli stringeva il cuore e aveva pensato che mantenere quei pensieri per sè stesso lo avrebbe fatto stare meno male, ma era ovvio che un'opinione così largamente condivisa tra tutti non avrebbe non potuto raggiungere le sue orecchie. E così ogni volta che attraversava la cucina e qualcuno beveva un caffè parlando della tragedia, quando le persone gli passavano affianco guardandolo come se fosse lui quello morto (torto non avevano dopo tutto), in quei momenti il cuore di Nate si stringeva come una spugna secca, sbriciolandosi tra le mani di chi ne stava prosciugando le ultime gocce. E aveva bracciato Jess, abbracciò Erin e chiunque avesse bisogno di un luogo sicuro in cui rifugiarsi, anche se si trattava solo delle braccia del Wellington. Era lì per aiutare lui, era stato il suo proposito iniziale fin da quando Will gli aveva spiegato cosa stavano combattendo, cosa aveva combattuto lui in quei laboratori, ignaro delle ombre mosse come burattini per illudere il popolo, e ora continuava a farlo, con piccoli gesti, partecipando alle missioni o semplicemente evitando di essere d'intralcio. Patrick bussò con leggerezza sullo stipite della porta «dobbiamo andare» non c'era fretta nel suo tono, nè rabbia, ma il tono caldo e paterno che tutti i ragazzi rifugiati lì sognavano di sentire ogni notte, ogni mattino, ogni giorno. Nathan prese la mano di Erin, la strinse perchè non l'avrebbe fatta scivolare, perchè sapeva quanto fatale poteva essere perdersi nel buio del lutto. Mise un braccio attorno al collo di Jess e le diede un bacio sulla testa, avvicinandola a sè per farle sapere che era lì, che non le avrebbe lasciate andare. E avrebbe rassicurato anche April, l'avrebbe abbracciata, le avrebbe permesso di piangere e inzuppargli la sua felpa preferita, perchè era a quello che servivano gli amici. Ma lei era andata via, forse Nate non le aveva voluto bene abbastanza forte, forse non era bastato l'amore della sua famiglia e dei suoi amici per tenerla ancorata lì, nel mondo dei vivi. Non erano bastate le catene di diamante forgiate in nome dell'amicizia e dell'amore, per nessuno di loro, e mai avrebbero fermato un proiettile o il fuoco dal rubare altri innocenti, altri figli dalle braccia delle madri, altri fratelli e sorelle, amici.

    Il genere di silenzio che apparve tra i ragazzi non era quella quiete imbarazzante di chi non sapeva cosa dire, ma quel genere di pausa di cui tutti loro avevano bisogno dopo aver sentito così tanto, tanto che sarebbe bastato davvero poco per farli crollare. E in quello scenario Nathan si immaginava in piedi, pronto a risollevarli, a portarli con sè fuori da quel dolore, dove le lacrime graffiavano la pelle lontano dagli occhi, dove avrebbero potuto ignorare facilmente le spine che si stavano attorcigliando attorno ai bei ricordi di quelle persone. Nemmeno Eleanor fece domande. L'amica del Wellington che lo credeva morto, come molti altri, ma non era il momento per le risposte, non era il momento per quella verità. C'erano altri cadaveri mancanti dalle loro bare, oltre al proprio.

    Pianse Nathan, perchè era forte ma non senza cuore. Piansero Erin, Jess, Eleanor, Thea e tutti gli altri. Perchè Idem diceva ciò che tutti volevano sentirsi dire, raccontava episodi felici, ma anche lei aveva un cuore e nessuno gliene fece una colpa quando le lacrime bagnarono distrattamente il leggio. Era giusto così, era giusto che quelle persone potessero sentire liberamente la mancanza di quel qualcuno che le fiamme e le lame avevano portato fuori dalla loro routine. Era la prima volta che il mimetico vedeva la Withpotatoes dopo la tragedia. Non aveva avuto il coraggio di inviarle un messaggio, chiamarla per esprimere il suo dispiacere, perchè la lingua che lui parlava era fatta di abbracci e carezze, baci e gesti affettuosi. Ma vederla in quello stato lo stava distruggendo, lo stava facendo dubitare della sua capacità di darle affetto. Sapeva di chi affogava nell'alchol quelle disperazioni e Nathan sapeva che accadeva quando la solidarietà, il conforto e l'amore non bastavano. Erano morti, dopo tutto, nessun gesto li avrebbe riportati indietro, quindi perchè non rovinarsi? perchè non anestetizzare il cuore per sempre? Perchè non era quello che loro avrebbero voluto e Nate poteva affermarlo con certezza.
    «riesco a vederli» disse sorridendo tra le lacrime «sono qui»
    «Chi?» chiese Scott
    «Aprli... Delilah... ci sono tutti e quattro»
    poteva vedere le loro sagome sbiadite, troppo pallide per essere vive. Non era la prima volta che il potere di un medium gli capitava tra le mani, ormai aveva una certa dimestichezza anche grazie al tempo passato con Aveline. Erano lì, chi ad osservare Idem, chi a guardare con nostalgia le persone sedute sulle sedie.
    «Cosa fanno?»
    «Come sono?» alcuni alzavano la testa nel tentativo di vedere qualcosa che comunque sarebbe rimasto invisibile ai loro sguardi.
    «sorridono» si fece scappare anche lui una risata leggera e cristallina «sembrano fieri di loro, di Donnie e Idem» non c'era bisogno di dire altro, perchè tutti loro erano fieri di come stessero attraversando quel periodo.
    Ma la situazione precipitò tragicamente.

    Fu ironica la calma e placidità con cui Vasilov sfilò affianco a tutti, se contrapposta alla furia e impetuosità che annunciarono l'arrivo dei Francesi. «state pronti a difendervi» mise i guardia i suoi amici. Dall'incontro dei due presidi non poteva nascere nulla id buono, era noto a tutti, ma Nate non avrebbe permesso che in quell'occasione anche altri se ne andassero. Nè in quel momento nè mai. Sentì un fervore solleticargli il palmo delle mani, ad annunciargli la presenza di un vasto assortimento di esperimenti: avrebbe fatto di tutto per proteggerli.


    Il caos stava dilagando, mentre quelle persone venivano lentamente accerchiate in un conflitto del quale potevano essere soli spettatori, ma ai quali nessuno aveva garantito alcuna incolumità. Pearl guardò sbalordita la scena che si stava dipingendo davanti a lei, ogni pennellata sempre più rossa, sempre più crudele. «Non immischiatevi, andatevene, non fate nulla che non farei io» parole veloci, preoccupate, rivolte alle orecchie di cinque ragazzi che era molto più probabile le disobbedissero. Ma voleva sperarci, voleva credere che andare a quel funerale non le avrebbe davvero portato altri corpi da ricordare solo come tali. Si allontanò, ignorò i soldati che si stavano rivelando attorno all'area della cerimonia, ovviamente comandati da quella vipera di un Russo (Pearl era fortemente convinta fosse Russo, fatele causa), e aumentò il passo fino a salire con un balzo sul palco messo lì per l'occasione. Non voleva essere al centro dell'attenzione, aveva anche pensato a ciò che stava facendo. Quanto avrebbe fatto bene agli O'Sullivan vederla schierata da quella parte del conflitto? Ma sapete come era fatta la bionda: impulsività con una giacca di pelle. Aveva mandato a quel paese il buon nome della famiglia, salendo su quelle assi per fare quello che ognuno di loro avrebbe dovuto fare: giustizia. La sua tasca pulsava calda, come il sangue rappreso che tingeva il brandello di stoffa, come i cuori pietrificati tra un battito e l'altro delle vittime, come il sangue pulsava violento nelle vene di tutti. Infilò le dita nei pantaloni per recuperare quella prova, quel frammento che avrebbe permesso riposo e pace alle famiglie e agli amici. Recuperò il microfono da terra, stando ben lontana dal disgustoso falò che campeggiava su quello che era rimasto del guanto dell'uomo. Pearl stava per fare la differenza, stava per decretare lo svolgimento di quella situazione e, come tutti, sarebbe stata responsabile del risultato che quella macchia di prato dell'Aetas avrebbe raccontato per anni, secoli.
    «Sono stata a Parigi!» iniziò cercando di sovrastare i rumori della folla «ho visto i cadaveri, il fuoco, le ceneri... ho visto una città ferita nel profondo. Ma ho anche visto l'opportunità di fare giustizia, tra le dita fredde di uno dei morti» sporse in avanti il braccio mettendo in bella mostra quel brandello di stoffa come un araldo. Non un paio di quegli occhi avrebbe potuto mai confondere il simbolo ricamato sul tessuto.
    Stava a loro decidere cosa farne.
    truth and justice ain't the same. The first one is hard to take, the second one is hard to get
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia

    «Pearl»
    «BJ»
    «Heli»
    «Nate»
    gesù santissimo i sentimenti per questo post sono di odio-amore e vi capisco se no lo vorrete leggere eh.
    Ma se siete arrivati fino alla fine ora sapete cosa vi aspetta (per i pigroni vi copio-incollo quello che dovete sapere):

    «Sono stata a Parigi!» iniziò cercando di sovrastare i rumori della folla «ho visto i cadaveri, il fuoco, le ceneri... ho visto una città ferita nel profondo. Ma ho anche visto l'opportunità di fare giustizia, tra le dita fredde di uno dei morti» sporse in avanti il braccio mettendo in bella mostra quel brandello di stoffa come un araldo. Non un paio di quegli occhi avrebbe potuto mai confondere il simbolo ricamato sul tessuto.
    Stava a loro decidere cosa farne.


    Ancora una volta non siamo pedine nel gioco, tocca a voi dare un significato al pezzo di stoffa. Cosa è? A chi appartiene? E' significativo? Come è finito lì? Pearl è una pazza che ha per sbaglio preso un tovagliolo di un ristorante?
    Your choice.

    un giorno aggiungerò le azioni che fanno nello spoiler. Ma non è questo il giorno (sebbene tra poco inizi ad albeggiare)
     
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    Probabilmente lui non sarebbe dovuto essere lì – e, infatti, non era sorpreso che fosse l’unico della sua famiglia a essersi presentato: ai Gallagher non piaceva particolarmente infilarsi in affari che non li riguardavano direttamente, specie quando si trattava di politica, e chi lo faceva non era esattamente dalla parte del popolo, bensì da quella di coloro che lo terrorizzavano. E lui, dopotutto, non era così diverso: si era sempre mantenuto distante da certe cose, troppo interessato a salvarsi la faccia ed evitare il confronto su qualcosa che si era sempre rifiutato di capire a fondo, limitandosi ad annuire e ripetere tutto quello che gli insegnavano gli altri. Non era nato per essere un eroe, Aidan Gallagher: a lui piaceva rimanere dietro alle quinte, a osservare la scena ammutolito, infine salire sul palco e chiudere il teatrino con un bel sorriso innocente per fare felici tutti. Questo era il suo gioco, e finora gli era bastato. E quindi, perché trascinarsi al funerale di persone che neanche conosceva? Perché infilarsi una camicia e una cravatta e fare finta di essere parte di qualcosa? Se lo chiedeva ancora, mentre da dietro al fumo di una sigaretta consumata dal vento osservava scarpe da pochi galeoni calpestare il verde del prato e disperdersi nella folla. Cercava di osservarli tutti, i presenti: non sapeva bene cosa dire, e quindi non proferiva parola, ma lo sguardo era sempre alto. E attenzione, sarebbe un errore confondere il suo atteggiamento per menefreghismo; lo sarebbe anche pensare che la scelta di presentarsi fosse stata dettata da altruismo, da bontà, da compassione. Assolutamente. Non era ancora entrato perché aveva paura. E non aveva ignorato l’invito a partecipare alla cerimonia perché aveva paura. Paura di cosa lo aspettava; paura di non riuscire a difendere se stesso da ciò che sembrava essere solamente iniziato, e di non riuscire a difendere i suoi affetti come era successo alle persone che, in quella giornata di sole, celavano la disperazione dietro a un sorriso tremante. Paura di vedere quelle bare e sentire sulla sua stessa pelle lo sfrigolio delle fiamme, il calore; perdere completamente la speranza e lasciarsi inghiottire dal dolore. Tra le tante cose, Aidan era un gran bugiardo, ma almeno con se stesso sapeva essere onesto, di tanto in tanto: riconosceva la propria codardia e lasciava che si cibasse di lui. Quando il resto del mondo gridava, lui si nascondeva dentro alla sua camera e aspettava la fine dell'Universo, sotto al letto come un gatto spaventato dai fuochi d’artificio a Capodanno. Era più semplice, così: affrontare i propri demoni finiva solamente per attirarne altri, più forti e assetati del suo sangue – sangue in via d’estinzione, tra l'altro: infondo era nell’interesse di tutti proteggerlo. Eppure ormai era lì: se avesse veramente voluto tornare indietro, l’avrebbe fatto nella mezz’ora ch’era già passata dal suo arrivo. C’era un motivo se, nonostante il terrore gli avesse fatto tremare le labbra una volta giuntagli la notizia dell’attentato, non se ne fosse comunque andato. Lasciò cadere la sigaretta a terra, bruciata solo a metà; si risistemò la giacca sulle spalle e finalmente cominciò a dirigersi verso il cuore dell'evento. Camminava con le mani nascoste dentro alle tasche, in un silenzio che, associato alla sua persona, stonava incredibilmente, ma la sua mente era altrove: in una casa dalle mura ingiallite dal tempo, ad ascoltare il passo leggero di bambini che corrono sulle scale e il profumo di stufato di maiale proveniente dalla piccola cucina, grande abbastanza da contenere un lavabo e un fornello. Una voce lo chiamava: non poteva sentirla, perché gli anni gli avevano portato via il ricordo, ma era sicuro che lei fosse lì, come sempre, ad attenderlo a braccia aperte. «Hey, Winston Sì, beh. Lasciamo stare. Si era fatto strada tra la folla per raggiungere quell'unica faccia familiare in un mare di perfetti sconosciuti: non erano amici, loro due, ma non era proprio lì con l'intenzione di darsi alle chiacchiere, quindi poco importava. Anche volendo, non ne avrebbero avuto la possibilità: la cerimonia era ormai sul punto d'iniziare. E lui di nuovo era distante, non ascoltava: l’aveva vista, per un attimo, la bambina. Quell’unico istante era riuscito a provocargli un nodo allo stomaco che stringeva, e stringeva, fino a togliergli il respiro. Perché se Aidan era lì, se aveva rotto l’abitudine di mettersi le mani davanti agli occhi e far finta di non vedere, era per quella ragazzina, di cui neanche conosceva il nome ma che gli sembrava di conoscere da una vita. La nausea, ovviamente, non tardò ad arrivare. «Cazzo.» E non c'entrava niente: era successo in un modo diverso, aveva fatto meno paura, ma il dolore, il dolore è sempre quello. Quando sua nonna lo aveva preso da parte per dirgli, la voce a malapena un sussurro, che non avrebbe più visto i suoi genitori, lui era rimasto zitto. Quel bambino che nessuno sembrava in grado di tranquillizzare, con gli occhi vispi e le mani sporche di terra, un tornado, improvvisamente si era spento. E il tempo si era fermato, da quel momento in poi.
    Ma i suoi pensieri furono interrotti da un battito di mani, che non sembrò suscitare entusiasmo, anzi. Non poté fare a meno di cercare, con lo sguardo, il proprietario della voce che ne seguì: aveva il tono di chi si era presentato con un coltello stretto tra i denti. L'atmosfera si era trasformata completamente: chi non danzava da un piede all'altro in preda al nervosismo era occupata a fulminare Vasilov, come nella speranza di vederlo scoppiare. Le aveva sentite, le voci, e non aveva dato troppo peso a nessuna delle teorie che circondavano Durmstrang e il suo preside – ora che ce l'aveva davanti, però, il dubbio che forse su qualcosa non si fossero sbagliati si fece strada in lui. Di certo non dava l'idea di essere un pacifista. Sentì l'affermazione di Byron, ma decise nuovamente di rimanere in silenzio: sentiva il peso dei suoi stessi ideali razzisti, in quel momento. Parole che lui stesso avrebbe appoggiato solo qualche anno prima, e che ora, beh, faceva ancora fatica a mettere da parte. L'imbarazzo gli dipinse le guance di un rosa pallido, che sparì non appena la paura riprese il sopravvento. Qualcosa stava andando terribilmente storto. L'istinto gli fece portare la mano alla tasca interna della giacca, dove teneva la bacchetta. Emergenze, aveva pensato. E per una volta non si era sbagliato. Voleva avvicinarsi alla bambina e alla ragazza, ma era stato preceduto: piuttosto, quindi, decise di rimanere dov'era, sibilando uno «state fermi» in direzione dei più piccoli.


    ma perché io scrivo di notte che poi ci metto dieci minuti a buttare giù una parola.
    Domani edito in caso di orrori, giuro.


    Edited by w/olfsbane - 21/7/2017, 20:46
     
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132 replies since 16/7/2017, 15:00   5986 views
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