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grifola(sa)gna ♥

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    Un momento dura un lasso di tempo eterno ed effimero, un battito di ciglia o il battito cardiaco di una vita. In un momento può succedere tutto o niente. In un momento, Maeve Winston aveva visto azionare il bottone che aveva ridotto l’archivio dei ribelli in cenere. Un semplice pulsante, come nei film, che se ne infischiava di quante persone si fossero sacrificate per arrivare a quel punto. Per un momento, Maeve Winston aveva accettato l’idea che avrebbe perso tutto: i suoi amici, il suo futuro, la sua vita. E, parlando con il senno di poi, non ci sarebbe voluto nulla perché fosse accaduto. Sarebbe bastato un secondo di ritardo e l’onda d’urto avrebbe colpito anche i ribelli, lasciandoli alla mercé di chi non avrebbe avuto compassione di un paio di ragazzini, che avrebbe calpestato gli ideali di un futuro migliore per la propria sete di potere. Era bastato un momento, perché Maeve Winston si rendesse conto che qualcosa era cambiato, e non in bene. Uno sguardo un poco meno superficiale agli occhi di Barrow, Leroy ed Elizabeth, era bastato perché il vuoto nel petto si facesse più profondo, quasi fosse stato realmente fisico. Spenti, vacui. Nessuna speranza animava le loro iride chiari, accendendole da dentro come una candela lasciata accesa in una stanza vuota. Tre sconosciuti, incompatibili con l’incastro precedente. In un momento, il puzzle già incompleto aveva perso i bordi, tasselli smarriti che impedivano all’immagine di avere concretezza. Per un momento in cui osava sperare, altri cento le davano motivi per non farlo. Ma la corva era testarda, e troppo orgogliosa per credere di aver scelto la strada sbagliata; forse plasmata dalle centinaia di romanzi che aveva avuto modo di leggere, dove il lieto fine vinceva, l’eroe trionfava, il male veniva distrutto. Si rendeva conto che il loro male era diverso, più contorto e difficile da definire, più esteso perché bastasse un taglio netto a liberarsene, ma in cuor suo Maeve era una sognatrice. La sua mente logica a volte non riusciva a razionalizzare tutto quello che le si parava davanti, e faceva entrare in gioco istinti più primitivi della mera ragione: sopravvivenza, speranza. Era bastato un attimo, perché il mondo di vetro della Winston cominciasse a mostrare le sue crepe, minacciando di cadere in pezzi al minimo soffio di vento. Una lettera, nello specifico, di suo fratello. I suoi genitori non erano tornati a casa, nonostante la missione fosse finita. Ne avevano perso ogni traccia, come se semplicemente fossero svaniti nel nulla. Un attimo prima esistevano, punti concreti in quella rivoluzione, e quello dopo non più. Come potevano due persone cessare di esistere da un momento all’altro? Dovevano essere da qualche parte, non poteva accettare l’alternativa. La sua vita, tutto sommato, era stata molto più fortunata di quella di tanti altri che aveva avuto il piacere, ed il dispiacere, di conoscere ad Hogwarts. La sua famiglia le voleva bene, nonostante fosse poco presente e non fosse esattamente la pietra miliare dell’esternazione. Lo sapeva, non aveva bisogno che glielo ripetessero. Ed erano in gamba, i Winston, troppo perché le loro tracce fossero disperse nel caos. Non era così? Si torturò per l’ennesima volta le dita, graffiando e strappando anche le pellicine più piccole, mentre la tazza calda fra le mani non riusciva a scaldare il gelo che sentiva dentro. Aveva resistito per tutto il giorno, facendo l’unica cosa in cui era davvero brava: fingere. Aveva sorriso a tutti i clienti, incitandoli a credere che tutto sarebbe andato per il meglio; aveva ammiccato a quelle poche coppiette che ancora si avventuravano da Madama senza timore di essere giudicate la sdolcinatezza fatta duo; aveva tenuto compagnia a quei cani solitari che cercavano conforto nell’unico luogo in cui nessuno si sarebbe aspettato di trovarli. Aveva sfogliato, nel tempo morto, qualche pagina degli appunti di Incantesimi: nonostante fossero stati visti e rivisiti, non gli sembravano mai impeccabili quanto avrebbero dovuto, e la sua cocciutaggine la spingeva a cercare la perfezione nella continua correzione delle pergamene. Non aveva mai fatto in modo che ci fosse un lasso di tempo in cui pensare, perché era così stanca di farlo. Non aveva cercato il conforto da nessuno, perché nonostante fosse una ragazza capricciosa, aveva un limite invalicabile. Poteva passare giornate a lamentarsi sul tempo, sul graffio al ginocchio, sulla mancanza di caffeina, ma mai si sarebbe abbassata a dire che aveva bisogno di qualcuno per non cadere. Nessuno avrebbe potuto aiutarla, quindi perché avrebbe dovuto scaricare quel fardello sulle persone a lei care, che già avevano il loro peso da portare in spalla? Ognuno aveva la sua croce, e quella era la sua. Egoista, ma non al punto di far soffrire qualcun altro per lei. Perfino Maeve Winston sapeva quando trattenersi.
    Incrociò le caviglie sotto il tavolo dove si era seduta, tazza alla mano e capo chino. I capelli biondi ricadevano ai lati del viso, separandola dal resto del mondo. Aveva girato l’insegna di Madama Piediburro su chiuso, e nessun rumore riusciva a penetrare il silenzio di cui si era circondata. Respirava piano, concentrandosi su quell’atto all’apparenza naturale per riempire il silenzio. Solo bisogno di respirare, aveva solo bisogno di respirare. Fece scivolare le dita intrecciate dietro la nuca, senza far caso a quanto tremassero, e rabbrividì per il contatto fra le mani fredde ed il calore della tenera pelle del collo. Il campanello all’entrata l’avvisò che qualcuno, nonostante il cartello, era entrato all’interno del locale. Sospirò chiudendo gli occhi e sciogliendo la presa, facendo ricadere le mani aperte in grembo. Se l’etimologia de l termine non mi inganna, chiuso significa che i clienti non possono più entrare. Ed ero una Corvonero, quindi no: non mi inganna Sorrise saccente socchiudendo le palpebre, inarcando poi le sopracciglia per sottolineare il proprio scetticismo verso l’intruso.
    maeve winston - BUT YOU CAN LAY WITH ME SO IT DOESN'T HURT

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    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 11:55
     
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    è rosso tinto (notare bene: rosso, non ginger. Rosso);
    gira sempre provvisto di dolci o tavolette di cioccolato;
    ama gli scacchi, magici o babbani che siano, così come fare metafore su di essi;
    è entrato nei ribelli alla fine del quinto anno;
    ha una cicatrice sul collo;
    Maeve è la cosa più simile ad una famiglia che abbia al momento (sì, anche contando Gerald), e non sopporterebbe di perderla;
    è mancino;
    ha una cotta non così segreta per il suo capo;
    è terrorizzato dalla tortura.
    #gryffpawa “Do not fall in love with people like me.
    I will take you to museums, and parks, and monuments, and kiss you in every beautiful place, so that you can never go back to them without tasting me like blood in your mouth.
    I will destroy you in the most beautiful way possible. And when I leave you will finally understand, why storms are named after people.”
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    Dakota Wayne is still fighting
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    «Dakota? Verresti un secondo ad aiutarmi?»
    Il rosso si voltò verso l’ufficio di Tristan, da cui era arrivata la voce dell’uomo. Era sera, l’infermeria era bizzarramente deserta, e gli unici rimasti erano loro due. Una giornata come altre, come tante, e la richiesta di aiuto non era niente di insolito. «Arrivo!»
    Entrò nell’ufficio trovando l’uomo intendo a tenere fra le mani un’enorme pila di fogli. «Potresti prendere quel libro lassù?»
    Dakota guardò dove aveva indicato, dandogli la schiena. «Certo». Allungò il braccio, ma si sentì improvvisamente schiacciato contro la libreria, una mano stretta intorno al polso. Si irrigidì continuando a guardare avanti, percependo un respiro caldo sul collo e un corpo estraneo che premeva sul suo.
    «Rosier? Cosa st-?»
    «Rosso». Il cuore di Dakota prese a battere più velocemente. Aveva detto solo una parola, ma gli era bastato per capire che non era Tristan. Le labbra che gli sfioravano l’orecchio erano di qualcun altro, così come la mano sul fianco. E lui sapeva di chi. «Rosso... ho voglia di scoparti fino a che non svieni, così da non farti alzare domani dal letto...»
    Dakota si inumidì le labbra, e voltò il viso già accaldato quel tanto per vederlo in volto. Due occhi chiari e famelici lo fissavano, e il grifo resse il loro sguardo, eccitato. «Allora fallo... Jason».
    Si sporse, cercando di raggiungere le sue labbra per bac-



    Dakota si svegliò di soprassalto, ritrovandosi bagnato. No. Non in quel senso, ma letteralmente, di acqua... o almeno credeva fosse acqua. Gli era finita negli occhi, gelida e dannatamente fastidiosa, quindi ora i suoi occhietti belli bruciavano e vedeva tutto sfuocato.
    Ma non gli serviva vedere per sapere.
    «E’. La vigilia. Di Natale», ringhiò tra i denti passandosi la mano sulla faccia. La sua vista si stava adattando, e finalmente riconosceva i contormi e poi i tratti del ragazzino davanti a sé. Sembrava leggermente spaventato (anche se aveva l’accenno di un sorriso) ma non ne aveva motivo, e in cuor suo doveva saperlo; Dakota non era arrabbiato con lui.
    «M-mi dispiace Wayne... lei-»
    «Lascia stare», lo interruppe. «Sarà già una punizione per lei aver dovuto relegare lo scherzo a te e così non potermi vedere in questo stato»
    «Veramente...» il bambino mostrò timidamente una fotocamera.
    «...fammi indovinare: magicamente la foto è già al sicuro, e qualsiasi cosa io faccia, non potrò cancellarla»
    «Più o meno»
    Dakota sospirò. «Poi la gente si lamenta se ammazzi qualcuno».
    Scacciò il grifino e si alzò dal letto, trovando fra le lenzuola bagnate cubetti di ghiaccio e un biglietto plastificato con scritto sul davanti “Ice bucket challenge, sgualdrina! E’ per beneficenza” e nell’angolo, in piccolo: “buona vigilia. Ricordati i regali e i buoni propositi”.
    «Buona vigilia anche a te, Ninì», sussurrò Dak riponendo il foglietto sul comodino e asciugando il letto con un incantesimo veloce, per poi andare in bagno a mettesi qualcosa e per passarsi l’asciugamano fra i capelli troppo lunghi.
    Probabilmente avrebbe dovuto offendersi per lo scherzo di Niamh, ma le mancava troppo, e sapeva che in questi giorni di vacanza le sarebbe mancata ancora di più. Ed era colpa di Italie, che l’aveva rapita per passare insieme il Natale. Tzè. Passarlo ad Hogwarts come i comuni mortali? No, lui doveva fare lo stronzo foffoso. Stupido Italie... non si rubano così i migliori amici. Che cosa avrebbero fatto insieme? Dakota non riusciva a immaginarseli a parlare, lei così divertente e assurda e lui... boh, semplicemente lui. Probabilmente avrebbe semplicemente fatto tanto tanto sesso.
    Sesso.
    Sogno.
    Arrossì. Giusto. Com’è che il classico e pudico sogno di Tristan che gli chiedeva aiuto, era diventato un porno con Jason che lo sbatteva (... letteralmente, se Dak non fosse stato svegliato) al muro? Insomma... mica stava così tanto col Serpeverde da sognarselo di notte, giusto? Cioè, si incontravano giusto qualche volta a settimana. Non era neanche minimamente paragonabile al tempo che ci avrebbe passato insieme, se non avesse avuto paura di risultare troppo pressante... no? Dakota si passò una mano fra i capelli. Forse la storia “Jason Maddox” gli stava un po’ sfuggendo di mano. Forse non era fatto per avere una sottospecie di relazione simile, un “pomiciamico” (?) come Jaz. Era destinato a incontri più brevi, rapporti saltuari che non duravano a lungo nel tempo. Stava già iniziando a comportarsi come se Jason fosse stato una dipendenza. La sua qualità preferita di dhrooooooga. Semicit Edward Cullen.
    Tornò in dormitorio con ancora ciuffi rossi umidi che gli ricadevano in faccia e prese nuovamente il bigliettino di Niamh in mano. “Ricordati dei regali”.
    «Ovvio che me ne ricordo. Sto giusto uscendo a comprare gli ultimi».
    Non è che adesso, solo perché l’anno prima non aveva trovato il regalo perfetto per lei in tempo per Natale, doveva farglielo pesare e svegliarlo in modo così traumatico (chiedendo aiuto ad uno dei suoi sottoposti). Insomma, per una volta un regalo glielo aveva comprato... però in effetti aveva ragione a pensare che per qualcuno mancasse ancora.
    Sospirò, infilò il cappotto, e uscì.

    Dakota non sapeva se il Natale gli piacesse.
    Era bello girare per la strada di Hogsmeade e vedere le luci ai balconi e alle finestre, le vetrine dei negozi addobbate per le feste. Ricevere o fare regali gli metteva allegria e sentire le canzoncine classiche gli faceva venir voglia di unirsi ai cori, di mettersi un cappello da elfo e fare davvero il Piccolo aiutante di Babbo Natale. Ma alla fine dei conti, il Natale in sé, quel particolare giorno dell’anno, non lo faceva impazzire.
    Non sapeva bene a cosa fosse dovuto, probabilmente però al fatto che non potesse (o meglio, volesse) più festeggiarlo con i genitori. E che senso ha festeggiare il Natale senza la propria famiglia?
    Se avesse fatto un’affermazione del genere ad alta voce, già si immaginava la reazione esagerata del cugino: «E noi, noi non siamo la tua famiglia?». No. Loro erano la sua famiglia, in senso stretto, ma non il piccolo nucleo familiare di cui aveva bisogno.
    Non fraintendetemi: Dakota amava i Natali Spankman, anzi amava tutto di quella famiglia. Quando aveva chiesto a Gerald cos’avrebbe fatto per il 25 dicembre, questo aveva distrattamente detto che l’avrebbe ovviamente passato in famiglia. Dakota aveva fatto un piccolo “oh”, e Gerald, finalmente, l’aveva guardato in faccia. «Dak... questo significa che ci sarai anche te. Tu fai parte della famiglia», e il rosso si era commosso, come ogni volta che il cugino diceva una frase simile.
    Insomma, voleva un mondo di bene agli zii, alle cugine di cui aveva imparato tutto i nomi dopo chissà quante figuracce, e indubbiamente a Gerald che era insieme amico e fratello... ma gli Spankman si bastavano. Erano loro, mentre Dakota, per quanto potesse apprezzare l’invito a casa per Natale, era pur sempre un... estraneo. Qualcuno che tratti come famiglia, a cui dici di comportarsi come se fosse a casa propria; qualcuno che quando è lì è felice e si sente amato, apprezzato... ma sa che non potrà durare per sempre, perché è come una vacanza.
    Tornando a “piccolo nucleo familiare”, se gli avessero chiesto di indicare un membro della sua famiglia lui sapeva perfettamente chi avrebbe detto: Maeve Winston.
    Era egoista da parte di Dakota pensare che loro due avessero quel tipo di rapporto, ma allo stesso tempo non poteva negare l’importanza che quella ragazza aveva nella sua vita da un po’ di tempo. Non era neanche più considerabile amica.
    E da mesi lui le raccontava bugie.
    Si sentiva davvero uno schifo, a ripensarci, ma c’erano segreti che dovevano rimanere tali, perché Mae si sarebbe sentita ferita, forse addirittura responsabile, per le cose che Dakota aveva fatto. Ad esempio, non riusciva a pensare di dirle che si vedeva con Jason Maddox, ma non in modo ufficiale, bensì come pagamento perché gli faceva droga (e che l’aveva sognato... ma almeno quello era solo colpa del suo subconscio)... no. La bionda sarebbe uscita fuori di testa. Però doveva vederla. Voleva parlarle, disperatamente. Voleva un momento per loro due... era sempre più difficile con tutti gli impegni che si era preso Dakota ultimanete.
    Si era fermato davanti alla porta chiusa di Madama Piedidiburro ormai qualche minuto prima, e non sapeva decidersi se entrare o meno. Aveva voglia di vedere la sua corva (ex, corva... come passava il tempo) preferita, ma aveva paura di disturbarla, e paura di finire per dire qualcosa che normalmente non avrebbe detto. Prese un grosso respiro ed entrò, ignorando il cartello “chiuso”. Era stata Mae a dirgli che poteva entrare quando voleva... ed era la vigilia di Natale, dannazione! Le avrebbe fatto piacere.
    Il campanellino sulla porta suonò, e Dakota vide subito la ragazza, che gli dava la schinea, seduta ad un tavolo.
    «Se l’etimologia del termine non mi inganna, chiusosignifica che i clienti non possono più entrare. Ed ero una Corvonero, quindi no: non mi inganna»
    «Non ho saputo resistere: ho sentito che qui fanno la più buona cioccolata al cocco dell’Inghilterra». Sorrise avvicinandosi «E che ci lavora la ragazza più bella, tenera, simpatica che si sia mai vista... notare: ragazza. Non persona. Altrimenti, giocherei per il ruolo»
    Ormai arrivato da lei, le scoccò un bacio sulla guancia. «Buona vigilia».


    « Una volta le dissi che non ero capace a fare niente. Mi rispose che sopravvivere è un talento. »

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    Difficile che Dakota Wayne passasse inosservato, e non era per via di quella sua buffa capigliatura così adatta alla festività in corso. Se Dak attirava l’attenzione, era per il sorriso allegro che sempre inarcava le sue labbra, anche quando non era felice affatto. Perché bastava guardarlo negli occhi per vedere una persona buona. Non perfetto, chi lo era?, non sempre faceva le scelte giuste, ma era innegabile la sua bontà. Spesso anche troppo, e con chi non ne meritava nemmeno un briciolo. Il Grifondoro riusciva ad andare d’accordo con chiunque, perfino con quella lagna della Lynch. Merlino, aiutava in Infermeria! Quanto sarebbe stato patetico, da parte sua, dire che da grande avrebbe voluto essere come lui? E sì, se cercava sempre di proteggerlo, diventando anche inopportuna, c’era un motivo: non voleva che venisse contaminato, sporcato da un mondo che non lo meritava. E non lo stava affatto idealizzando, lui era realmente così. Incredibile, vero? Anche quando sbagliava, lo faceva per una buona causa. Si riteneva fortunata ad averlo accanto a sé. In breve tempo, non sapeva nemmeno con certezza come fosse avvenuto, il Grifo era diventato parte della sua famiglia, il fratellino minore che non aveva mai avuto. Si era convinta, anche se non era un ragionamento razionale, che Dakota Wayne avesse bisogno di lei.
    Ammettere che la triste realtà vedeva le parti invertite era troppo per Maeve, che in tutta la sua vita non aveva desiderato altro che d’essere una roccia: forte abbastanza da essere la persona su cui contare, un punto fermo, ma al contempo per bastarsi anche in solitudine. “Non ho saputo resistere: ho sentito che qui fanno la più buona cioccolata al cocco dell’Inghilterra” Sbuffò incrociando le braccia sotto il seno, incapace però di trattenere un lieve sorriso cinico. La camicia rosa pastello, infilata dentro una gonna nera a sbuffo, era coperta da una grembiule in pizzo color crema, e l’insieme riusciva a rendere la figura di Maeve Winston l’apogeo del vintage. Madama Piediburro era un miscuglio di moderno e antico, di calore familiare e torbida passionalità; Maeve, avendo abbracciato la duplice natura di quel locale sempre un po’ denigrato, si muoveva fra i tavolini rotondi con naturalezza, con il sorriso cordiale di chi è interessata a tutto ma non vede nulla. Non sapeva quanto fosse un illusione, e quanto realtà. Come diceva il vecchio detto, era meglio non porsi domande di cui non si voleva conoscere la risposta. “Dell’Inghiliterra? Pensi in grande signorino Wayne, pensi in grande... Minimo del continente” Con un gesto secco della mano, lanciò la chioma bionda dietro le spalle. “E che ci lavora la ragazza più bella, tenera, simpatica che si sia mai vista... notare: ragazza. Non persona. Altrimenti, giocherei per il ruolo” Inclinò il capo all’indietro e rise, lasciando che il ragazzino le schioccasse un bacio sulla guancia. Prima che si potesse accomodare, Maeve si alzò e lo trattenne per un braccio, rendendosi conto solamente mentre lo faceva che stava per abbracciarlo. La Winston odiava gli abbracci, quasi quanto odiava gli addii. Eppure ne aveva bisogno.
    Di entrambi. Lo strinse forte affondando il viso nel suo collo. “Per favore, Dakota” Si allontanò e gli rivolse uno sguardo incredibilmente serio, le mani ancora poggiate sulle sue spalle. “Quando saresti diventato bello? Tenero e simpatico te lo passo, ma non esageriamo” Inarcò le sopracciglia, rendendo quell’abbraccio una mera consolazione per quella frecciatina. Un abbraccio di scena, si diceva così? Maeve non era sicura fosse solo per quello, ma non vedeva il motivo per cui fosse necessario dirlo anche a Dak. Gli fece cenno di sedersi al tavolo che prima aveva occupato lei, mentre ella si dirigeva dietro il bancone per fare … okay, non fare, per chiedere agli elfi domestici di farle una cioccolata al cocco, mentre lei si serviva di un normalissimo, se grande come una casa significava normale, biscotto ripieno di crema di nocciole. Ebbene sì, Maeve Winston non sapeva cucinare nemmeno per sbaglio. Tutti pensavano che, avendo un locale, fosse almeno in grado di fare una cioccolata… si sbagliavano. Lei aveva messo, per così dire, la faccia: gli elfi il resto. Ma li trattava bene, anzi, era più affezionata a loro che a tre quarti e mezzo del genere umano.
    “Come mai da queste parti? Non dirmi che devi ancora comprare i regali, Wayne” Maeve era una ragazza all’antica, e come tale amava il Natale: lasciare i regali sotto l’albero, mangiare biscotti allo zenzero, sorseggiare bevande allo zabaione davanti a camini scoppiettanti. Sin da bambina, la sua tradizione personale era quella di addormentarsi sulle poltrone, sia quando si trovava a casa sia quando trascorreva la nottata al castello. Da piccola voleva incontrare Santa Claus, e per questo si obbligava a rimanere sveglia, nel salotto, il più possibile. Da grande trovava solo confortante quel mozzicone di coperta che Edan le rimboccava quando la credeva addormentata. La Winston non era solo minuziosa, talvolta soffriva di un disturbo quasi ossessivo compulsivo: tutto doveva essere perfetto, e in ordine, nel minor tempo possibile. La possibilità che Dakota potesse dover ancora finire di comprare i regali la Viglia di Natale, faceva sentire il suo amor familiare particolarmente offeso. Che figura ci avrebbero fatto? Poi ricordava che Dakota, in realtà, non era una sua responsabilità … oh, al diavolo. “E sii sincero, tanto voi Grifondoro non sapete proprio mentire” Fece spallucce mordendo –finalmente, oserei dire- il biscotto, lasciandosi sfuggire un gutturale verso di piacere. Perché non era nata biscotto anche lei, per la barba di Morgana?
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    SCUSA LO SCHIFO POST ma dovevo rispondere DDAI DUE MESI. SCUSA MI AMOR ti amo tanto ciao


    Edited by #epicWin - 11/5/2015, 10:05
     
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    Dakota non era mai stato indifferente ai contatti fisici, e amava gli abbracci almeno quanto odiava la tortura. Era sempre stato strano il rapporto di Dakota con il proprio corpo, della serie “non mi interessa se mi tocchi, è solo un ammasso di carne che serve a portare in giro la testa” (motivo per cui non trovava nessun disagio in infermeria a dover svestire pazienti o a vedere gente mezza nuda #mlmlmlml) , ma quando si trattava di abbracci, diventava improvvisamente un bambino bisognoso di affetto, e allora che gli importava. Se era triste, o si vedeva davanti delle braccia spalancate, il suo cervello passava in modalità: “coccole!” e Dakota non sapeva fare altro che stringere chi si trovava di fronte, come adesso Mae.
    Di solito la Winston non era pratica di abbracci o contatti fisici, e Dakota sapeva di dover essere molto cauto nell’avvicinarsi a lei per toccarla; le piaceva farsi vedere forte, e a volte il rosso doveva rinunciare ad abbracciarla o confortarla se erano insieme ad altre persone, perché lei si sarebbe sentita ferita, forse inutile... e non fosse mai che Maeve Winston, la miglior ragazza che avesse mai frequentato Hogwarts, si sentisse inutile o inadeguata. Era una roccia, esattamente come voleva apparire... però era anche umana, e francamente Dakota amava quando la biondino lo prendeva tra le braccia, affondando il viso contro di lui permettendogli di fare lo stesso.
    Si lasciò stringere, ricambiando mentre approfittava del fatto che erano soli, le labbra contro i capelli profumati di lei, chiedendosi cosa le passasse per la testa. Era capitato nel momento sbagliato (ovvero giusto)? Voleva solo essere stretta, oppure era triste, aveva bisogno di lui? Dak sapeva che non avrebbe dovuto trascurarla... era la sua bionda; l’unica ragazza che era sicuro avrebbe sempre amato, che non avrebbe mai abbandonato se non per fare il suo bene (quindi, chi lo sa, se mai fosse diventato un drogato, in un universo alternativo, se avesse capito che si stava distruggendo da solo... beh, di sicuro avrebbe porvato ad allontanarla, prima di farsi vedere a pezzi, prima di mostrarle come quella scelta lo stesse uccidendo nonostante i tentativi della bionda di salvarlo... ma sono esempi puramente casuali, signore e signori, puramente casuali).
    «Per favore, Dakota» la bionda si staccò, guardandolo divertita mentre le dita Dakota indugiavano ancora sul suo fianco. «Quando saresti diventato bello? Tenero e simpatico te lo passo, ma non esageriamo»
    Il rosso si staccò del tutto, portandosi la mano al petto con espressione esterrefatta. «Io non sarei bello? Per favore... ho preso tutto da te, ma sono rosso. Senza contare che ho un neo qui» indicò il viso. «Non eri attenta a divinazione? E’ un chiaro segno che mi hanno voluto dare le stelle per poter dire con tutta sicurezza che sono uno gnocco senza senso». Che poi, Dakota, se dici “gnocco” uno pensa al cibo; ti rovini tutta la messinscena così... ma giustamente non poteva neanche dire “Non è quello che mi ha detto tua mamma ieri sera” perché a) Maeve era sua mamma, e sarebbe stato quindi come insultare sua nonna (#oblivionception), nota anche come b) la signora Winston, che onestamente gli faceva paura. Cioè, non che la conoscesse bene, ma se assomigliava a Win, versione adulta... paura!
    Si accomodò dove Win aveva indicato buttandosi sulla sedia e mettendosi più comodo possibile, come se fosse a casa propria, la borsa dentro cui aveva messo le cose comprate lasciata a terra. Madama Piedidiburro sembrava il tipico posto per coppie, e Dakota raramente ci era stato con tale proposito... Stava giusto iniziando a chiedersi, più per gioco che per altro, cosa sarebbe successo se fosse andato lì con Jason (immaginarsi Jaz, con i vestiti stropicciati e i tatuaggi a vista in quell’ambiente era semplicemente esilarante), quando Mae tornò con la sua cioccolata.
    «Spero sia cocco», commentò il rosso battendo le mani sul tavolo sorridendo, e mentre Mae parlava immerse il cucchiaino nella panna, facendolo scendere fino a riempirlo di cioccolata per poi ritiralo fuori dal bicchiere con sopra entrambi i sapori (in modo che la cioccolata non lo scottasse, raffreddata dalla fredda e dolcissima panna). Mise in bocca succhiando come un lecca lecca, sorridendo alla bionda.
    «Come mai da queste parti? Non dirmi che devi ancora comprare i regali, Wayne. E sii sincero, tanto voi Grifondoro non sapete proprio mentire»
    Maeve Maeve... lo conosceva decisamente troppo bene.
    «Certo che no, Viso d’angelo... sono in missione per conto di Santa Claus. Ha detto che sei stata una brava bambina e meriti un regalo... quindi eccomi qui» prese un altro cucchiaino di cioccolata al cocco, la sua preferita, e si indicò poi con lo stesso ripulito. «Si è dimenticato il fiocco in testa, ma il senso è quello: sono tuo. Avvenga di me ciò che vuoi»
    Il sorriso del rosso non traballò, neanche quando si scottò la lingua con la cioccolata che riprese a mangiare. Come Maeve, anche lui voleva essere un punto di riferimento... ma aveva i suoi metodi, per farlo. «Domani vieni da Ger?». Sapeva che la Win fosse stata invitata (la zia di Dak sembrava amare avere ospiti per casa; era la tipica donna che ti fa chiedere perchè non sono nato qui?), ma come Dakota amava ricordarsi per soffrire, la bionda aveva già una famiglia, quindi perchè avrebbe dovuto passare il Natale con gli Spankman e con Dakota? «Altrimenti, ho un altro regalo for you. Impacchettato, questa volta». Voleva chiederle come andava. Voleva chiederle se era tutto a posto... ma la conosceva, e sapeva di non poter affrontare argomenti come "debolezza". Alla fine, se chiedi "come stai?" ottieni sempre come risposta "bene", che sia vero o meno.


    « Una volta le dissi che non ero capace a fare niente. Mi rispose che sopravvivere è un talento. »

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    Era quasi assurdo come una persona che voleva immaginarsi quanto il più autonoma possibile, dipendesse dalle persone. Ma nemmeno più di tanto, se si abbracciava universalmente il punto di vista di Maeve: amava essere ricordata, riconosciuta, apprezzata. La Winston viveva per le apparenze, e le apparenze senza nessuno a dargli sostanza, non esistevano. Voleva lasciare il segno, e per farlo aveva bisogno delle persone, più di quanto non fosse disposta ad ammettere. Ed aveva bisogno di loro quando si sentiva così vuota, così buia, quando aveva la sensazione che la luce non sarebbe mai tornata. Quando qualunque cosa potesse tenerla ancorata alla realtà, era ben accetta. Dakota Wayne era indubbiamente l’àncora di cui aveva bisogno, e non solo in quel frangente: quel Grifondoro da due soldi era diventato fondamentale per Maeve, probabilmente più per quanto l’aveva idealizzato che per la realtà effettiva. Si era convinta che lui avesse bisogno di lei, e lei voleva essere presente per lui. Sul fatto che la situazione fosse ribaltata, nessuno aveva dubbi. E quando lui ricambiò l’abbraccio, si lasciò stringere come raramente aveva permesso in vita sua, permettendosi di sentire tutti gli spigoli di quel corpicino –che tanto ino non era- ossuto, di sentire quel profumo dolce che le ricordava casa. In un mondo in cui i suoi genitori erano dispersi, e suo fratello era parte del gruppo ricerca, era ciò che più di vicino aveva ad una famiglia. “Io non sarei bello? Per favore... ho preso tutto da te, ma sono rosso. Senza contare che ho un neo qui. Non eri attenta a divinazione? E’ un chiaro segno che mi hanno voluto dare le stelle per poter dire con tutta sicurezza che sono uno gnocco senza senso” Ribattè lui, facendola suo malgrado ridere. Gli diede un buffetto sulla guancia, mentre si allontanava per preparare la cioccolata. Concordo sul senza senso, ma perché dovresti essere uno gnocco? Al massimo taglierino” Fece spallucce, poco avvezza ai modi di dire babbani. La curiosità quasi morbosa l’aveva spinta a scoprire il più possibile riguardo quel mondo tutto particolare, ma lo slang o i proverbi non erano compresi nel prezzo. Sospirò. "Ah, dovrei smetterla di essere così dannatamente fantastica. Poi per osmosi finisce che perfino il primo che capita acquisisce i miei fantastici geni Indicò con un ampio gesto del braccio la sua figura, lanciando un’occhiata allusiva al rosso. Dici che dovrei farmi pagare per questo dono?” Inclinò il capo, masticando lentamente il biscotto che, senza remore, si era infilata fra le labbra. Quando Dakota le domandò se la cioccolata fosse al cocco, si limitò ad avvicinarli la tazza con un’occhiataccia. Ovviamente era al cocco, non avrebbe nemmeno dovuto chiedere. Conosceva il suo pollo. “Certo che no, Viso d’angelo... sono in missione per conto di Santa Claus. Ha detto che sei stata una brava bambina e meriti un regalo... quindi eccomi qui. Si è dimenticato il fiocco in testa, ma il senso è quello: sono tuo. Avvenga di me ciò che vuoi” Alzò gli occhi al cielo sorridendo impercettibilmente, lanciandogli una briciola del biscotto alle nocciole che stava assaporando. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma Dakota Wayne era stato davvero un regalo nella sua vita: si era sempre sentita inutile, un punto come altri sulla pagina di un libro, ma senza una frase sua da concludere. Senza uno scopo, come una svista editoriale. Ma le era bastato conoscere il ragazzo per capire che c’era qualcuno per cui poteva fare la differenza: magari non quel giorno, né domani, ma in futuro… in futuro avrebbe potuto essere utile a quei ragazzi. Fare qualcosa. Era una ribelle, dopotutto. Sapeva che ci sarebbe stata una guerra, e aveva intenzione di proteggere quei ragazzini per più tempo possibile, ed al contempo prepararli a quello che sarebbe accaduto. Voleva essere il loro punto di riferimento, se qualcosa non fosse andato nel verso giusto. Avevano già perso troppe persone. Senza fiocco non vale. Si possono cambiare i regali? Domandò inarcando le sopracciglia con un mezzo sorriso. “Domani vieni da Ger?” Il sorriso si gelò sulle labbra rosee della ragazza, meno spontaneo di quanto fosse qualche secondo prima. Aveva sperato che Dakota non avesse altri progetti, che potesse passare con lei quella giornata. Come già ricordato, Maeve amava il Natale: che senso aveva però se non c’era nessuno con cui festeggiarlo? E, considerando che la sua famiglia era sparita, non aveva molti altri punti di riferimento. Le sarebbe piaciuto invitare almeno Dak, ma se poteva passare una giornata con gli Spankman, non l’avrebbe privato di quel piacere: Merlino, erano la famiglia che chiunque avrebbe voluto. Scosse il capo facendo spallucce. No, ho già altri impegni Non era propriamente vero, ma li avrebbe avuti: probabilmente si sarebbe presentata fuori casa dei Campbell, con un pacco di biscotti ed un sorriso allegro. Adorava i Campbell, ma soprattutto adorava il signor Campbell. Anche se, ahimè, raramente passava il natale con Deimos. Quando Dak parlò di regalo, si illuminò e battè le mani fra loro. Per me?Ripetè infilando un punto interrogativo alla fine della frase, anche se aveva capito perfettamente che era per lei. Il suo regalo per Wayne era a casa, in Irlanda, e come una brava Babba Natale (più Babba che Natale, ma voi non diteglielo) gliel’avrebbe fatto trovare a mezzanotte sotto l’albero. Lei non barava, tsk.
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    Edited by #epicWin - 11/5/2015, 10:03
     
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    è rosso tinto (notare bene: rosso, non ginger. Rosso);
    gira sempre provvisto di dolci o tavolette di cioccolato;
    ama gli scacchi, magici o babbani che siano, così come fare metafore su di essi;
    è entrato nei ribelli alla fine del quinto anno;
    ha una cicatrice sul collo;
    Maeve è la cosa più simile ad una famiglia che abbia al momento (sì, anche contando Gerald), e non sopporterebbe di perderla;
    è mancino;
    ha una cotta non così segreta per il suo capo;
    è terrorizzato dalla tortura.
    #gryffpawa “Do not fall in love with people like me.
    I will take you to museums, and parks, and monuments, and kiss you in every beautiful place, so that you can never go back to them without tasting me like blood in your mouth.
    I will destroy you in the most beautiful way possible. And when I leave you will finally understand, why storms are named after people.”
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    Il rosso continuò a girare la cioccolata calda, prendendone un cucchiaino e mettendoselo in bocca per gustare il dolce nettare degli dei. Se la cioccolata avesse avuto le proprietà magiche del caffè, probabilmente Dakota avrebbe mollato tutto, si sarebbe chiuso in casa e avrebbe iniziato a fare una vita all’insegna di quella bevanda, finchè non fosse diventato una palla rotolante (sarebbe stato un ciccione diabetico, ma ne sarebbe valsa la pena, ve lo assicuro). Sorrise fra sé e sé al pensiero di riuscire a diventare per una volta nella vita sovrappeso (dopo tutte le battute sull’anoressia che si beccava), felice di essere lì con la sua bionda e intenerito che non avesse avuto davvero bisogno di dirle cosa voleva. Quando era con Mae, in Dakota si combatteva la voglia di tornare bambino e farsi coccolare (nonchè piangere contro di lei senza rimorsi), e quella di fare l’adulto, dimostrarsi forte abbastanza per quel mondo e per lei, per renderla fiera. Purtroppo per lui, non era in grado di fare una delle due cose, quindi continuava a stare su una traballante via di mezzo. Un po’ bambino, un po’ adulto... ma il loro rapporto funzionava così, no? Erano lì uno per l’altro, e si trasformavano in chi ha bisogno di aiuto e in chi aiuto lo dà a seconda della situazione. Quella vigilia in particolare, sembrava che entrambi si stessero finengendo forti ma in realtà stessero cadendo a pezzi. Dakota non le avrebbe permesso di farlo, però.
    «Perché dovresti essere uno gnocco? Al massimo taglierino»
    Dakota non se ne intendeva molto di pasta babbana, quindi si era limitato ad annuire sorridendo alla battuta sul “taglierino”. Perché aveva detto di essere uno gnocco, se a mala pena sapeva cosa fosse? “Stupido, stupid Dakota”. Magari di era fatto una figuraccia... o forse Mae intendeva dire che lui si potesse tagliare con grissino come il tonno in quella pubblicità? Che poi, non aveva senso lo stesso... Bah, avrebbe dovuto chiedere a Jason se si trattasse di un insulto o meno (sì, Jaz era il suo personale dizionario di babbanese (?): che gli desse fastidio o meno, il serpeverde era sempre disponibile a spiegare a Dakota cose che avevano fatto parte della sua vita prima di Hogwarts, sebbene non ne sembrasse entusiasta... ma Dak non poteva farci niente, era affascinato dal vivere in due mondi di Jason, e lo invidiava un sacco).
    «Certo che dovresti farti pagare, ma dobbiamo fare cinquanta e cinquanta: in fondo sono il primo su cui hai testato questo fantastico potere, mi merito una percentuale». #seemlegit
    A parlare di poteri gli venne in mente Aveline, e si chiese cosa avrebbe fatto lei per Natale. Sarebbe stata con i suoi amici con i poteri? Si era dimenticato di chiederglielo, e gli venne una fitta al petto. Poteva invitare anche lei dagli Spankman, oppure non essendo casa sua non doveva prendersi una libertà simile...? No, probabilmente non sarebbe stato molto educato, già con Mae stava trasgredendo alle regole della buona educazione. Eppure, eppure la rossina era diventata sua amica, e non voleva lasciarla sola al castello, magari in balia dei torturatori; se Dakota aveva sempre attirato i bulli, Vevè era la sua controparte femminile (solo che vedeva i morti e aveva sopportato per settimane torture immani, quindi era più badass di lui)... si ripromise che glielo avrebbe chiesto appena tornato a Hogwarts per prendere le valige, e insieme al regalo che le aveva preparato per Natale, le avrebbe anche fatto trovato un kit del pronto soccorso, per cavarsela. Era il massimo che poteva fare per lei, purtroppo.
    «Senza fiocco non vale. Si possono cambiare i regali?»
    Dakota alzò la testa dalla tazza alla bionda, risponendo con un secco: «No». Alzò un sopracciglio. «Hai già il regalo migliore del mondo, perché cambiarlo?». Sorrise e tirò fuori un pacchettino incartato malissimo in una carta a fantasia floreale, che però ancora non le diede, ma posò sul tavolo accanto alla cioccolata. Forse non era stata una buona idea, ma aveva deciso che a Mae il regalo poteva anche impacchettarlo da solo, per metterci tutto il suo amore.. ora gli sembrava più brutto che mai. Decisamente, non era stata una buona idea. “No Wayne, l’arte del decupage non scorre nelle tue vene”. Attaccati, tre rolelline arancioni e un biglietto d’auguri stile Mae.
    «Perché non vuoi venire?», domandò mettendo il broncio. «Devi venire... per favore» Ok, non lo avrebbe ammesso davanti a Gerald, ma Dakota aveva bisogno che ci fosse Mae. Era la cosa più simile ad una famiglia che avesse, era la sua... la sua... qualcosa. Non sorella, perché sarebbe stato riduttivo, forse era più simile ad una mamma (pensiero vagamente imbarazzante), che gli avrebbe rimboccato le coperte e dato baci sulla fronte (o almeno Dak credeva di ricordare che fosse quello che facevano le mamme) e voleva che fosse con lui quel giorno. Lei amava il Natale, glielo avrebbe fatto apprezzare anche a lui, che finalmente sarebbe riuscito a dimenticare il senso di colpa per non essere rimasto a casa. «Puoi venire dopo il pranzo se prima sei con... l’altra famiglia» cioè, quella vera, ma non diciamolo al Wayne.
    Finalmente prese la tazza, e se la portò alla bocca sorseggiando il liquido denso. Quando la riabbassò, aveva il contorno delle labbra sporche di cioccolato e panna.
    Pensava che Mae avesse qualcosa che non voleva dirgli (non sapeva spiegarsi bene perchè, lo sapeva e basta; this is love, bitch), e si decise che dopo averla obbligata convinta a passare il Natale con lui, le avrebbe chiesto cosa ci fosse.
    Per quanto riguarda lui... voleva parlare dei propri problemi, ma non voleva farlo. Credeva che si sarebbe più leggero a dire a Mae quelle cose che lo tormentavano, che non lo lasciavano dormire, ma allo stesso tempo sapeva che se l’avesse fatto, se avesse condiviso con lei le sue paure, il peso di cui si sarebbe liberato sarebbe finito sulle spalle della ragazza. “Mae, esco con Jason, il tipo da cui ogni mamma direbbe di stare alla larga”, “Mae... ho ucciso una persona. Senza motivo, in realtà, credo di aver avuto una crisi isterica o qualcosa del genere, non lo so. Questo fa di me un mostro? Cosa posso fare per farmi perdonare?”. Lei non l’avrebbe giudicato... giusto?
    Il ripetersi che aveva tolto la vita a quel babbano non faceva che peggiorare il tutto, e parlarne con lei avrebbe riportato tutto a galla, ma non riusciva e basta a... sopprimere quei pensieri. Ci aveva provato, davvero. Aveva messo tutta quella storia (la lezione di Arti Oscure, il viso del ragazzo, l’immagine di se stesso che pronunciava l’avada kedavra...) dentro ad una scatola chiusa che poi aveva sotterrato da qualche parte, e per un po’ dimenticarsi tutto aveva funzionato... ma quei ricordi col tempo avevano messo radici, e non avevano smesso mai davvero di tormentarlo. Ora sembrava che l’unica cosa a non farlo impazzire e fargli dimenticare per un po’ cosa avesse fatto fosse stare in infermeria, o con Jason.
    Non voleva mentirle, ma non voleva darle qualcos’altro su cui pensare. Voleva esserle di aiuto, a costo di implodere.



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    Scusa se ci ho messo un mese per una risposta del genere è_è
     
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    Maeve e Dakota erano così diversi, che ad un qualunque osservatore esterno sarebbe parso strano vederli insieme, specialmente se li avesse conosciuti separatamente. Non c’era un solo spigolo in Wayne che potesse andare d’accordo con quelli della Winston, né alcuna curva: dove lui sorrideva gentile, lei alzava le sopracciglia scettica; dove lui porgeva una mano, lei aspettava che l’altro si alzasse da sé. In sostanza, Maeve era un po’ troppo stronza per un ragazzino come Dakota Wayne. Eppure entrambi si trovavano attorno a quel tavolo sapendo che, anche se si trattava di tempo sprecato a far nulla, era prezioso. Che anche se non avevano niente, o quasi, in comune, potevano essere amici. Potevano essere una famiglia, con quell’ottica un po’ distorta di chi la famiglia se la sceglie. Mentre il Grifondoro aveva un sacco di amici a cui pensare, tutti adoravano il rosso (cit. (?) ), la Corvonero si rendeva conto che in quei sette anni passati dietro i banchi, non aveva stretto amicizia con nessuno. Anzi, se possibile, era riuscita ad allontanare quasi tutti, con quel suo fare da reginetta del ballo d’inverno. La maggior parte delle sue conoscenze più intime, iniziava e finiva fra le fila dei blu bronzo, quasi che la bionda avesse avuto uno schema prestabilito di amicizie. Forse aveva standard troppo elevati. Forse avevano ragione, era sempre stata un po’ troppo snob. Ma quand’era con Dak, era… diverso. Sapeva che lui la vedeva in modo diverso, e si sforzava, nel suo piccolo, per essere quella ragazza che lui credeva fosse. Voleva essere una persona migliore, Maeve Winston, almeno per quella manciata di persone che avevano deciso di rimanerle accanto nonostante gli innumerevoli difetti (aveva anche tanti pregi, ne era a conoscenza, ma dirselo non faceva che rinforzare quell’immagine di altezzosità che stava cercando di modificare). “Certo che dovresti farti pagare, ma dobbiamo fare cinquanta e cinquanta: in fondo sono il primo su cui hai testato questo fantastico potere, mi merito una percentuale” Gli lanciò un’occhiata di sottecchi, mordendo il biscotto. Quello sguardo valeva più di una risposta, ed era un chiaro non ci provare, Wayne. Il ricavato è mio, giù le mani rosso oro. Il discorso si spostò sul dove avrebbero passato il Natale, mentre la bionda continuava a mordersi l’interno della guancia per non fare l’egoista, cosa che le veniva fin troppo normale. Egoisticamente, infatti, avrebbe voluto convincere Dakota a rimanere con lei. Non sapeva a fare cosa, con esattezza, ma le bastava che ci fosse. Deimos poteva anche essere il suo miglior amico, ma il rapporto che li legava era… diverso. Senza contare le problematiche a cui stavano andando incontro i Campbell, con fratelli e zii che sembrava piovessero dal cielo. Però sapeva che dagli Spankman si sarebbe divertito di più, e lui si meritava quella famiglia. “Perché non vuoi venire? Devi venire... per favore” Accennò un sorriso divertito quando Dakota sporse il labbro all’infuori, in quell’espressione tenerissima che tanto gli veniva bene. Era impossibile dire di no a quegli occhioni. Impossibile, se non si fosse trattato di Maeve Winston, la ragazza dal cuore di ghiaccio. Non sapeva nemmeno quando si fosse fatta quella reputazione, chiusa dentro la sua dorata campana di vetro. Da una parte le importava, dall’altra no: sapeva che in fondo, perfino chi la odiava, non la odiava mai veramente. In fondo c’era sempre un briciolo di rispetto, e di invidia. Le bastava. “Non mi sembra il caso, Dak… non c’entro nulla con loro. Però sì, se riesco passo dopo pranzo” Concluse con un mezzo sorriso, ma sapevano entrambi che non l’avrebbe fatto, che si trattava solo di una vana concessione. Quando Dakota aveva accennato all’altra famiglia, la voce di Maeve aveva tentennato leggermente, ma non abbastanza da destare sospetti. Una famiglia che, al momento attuale, non aveva. Ma sarebbe stato sciocco da parte sua riversare quei problemi sul ragazzo, che si sarebbe preoccupato per nulla. Tanto non poteva cambiare le cose, così come non avrebbe potuto cambiarle lei. Doveva solo aspettare, anche se non era mai stata brava in fatto di pazienza. Lo sguardo del giovane si rabbuiò, anche se solo per una frazione di secondo. C’era qualcosa che lo tormentava, e quel qualcosa decisamente non andava bene. Maeve aveva imparato, specialmente in quegli ultimi mesi, che i demoni avevano bisogno di vedere la luce del sole per sparire. Si rintanavano nel buio, consumando la luce, finchè non rimaneva altro che oscurità. Non aveva alcuna intenzione di vedere quel genere di oscurità ottenebrare il sorriso di Dakota Wayne. Entrambi avevano fatto una scelta difficile, quanto sentita: erano entrati a far parte della resistenza, e solo quello portava con sé un fardello non da poco. Tolti i segreti, le bugie, la maschera, che erano il minimo, rimaneva sempre quel vuoto all’altezza dello stomaco, quel dubbio cui nessuno riusciva a rispondere con una certezza: cambieremo le cose? Normalmente la risposta della Corva, logica e razionale fino alla fine, sarebbe stata no, ma almeno ci stiamo provando. Ma quando guardava Dakota, e Deimos, e tutte quelle persone che con un briciolo di forze ancora riuscivano ad aggrapparsi alla speranza della vittoria, voleva crederci. Quando lo sguardo di Ethienne Leroy, ormai cupo e coperto da una foschia innaturale, si posava su di lei, voleva crederci. Quando spostava una ciocca dei capelli di Charlotte dietro l’orecchio della babbana, ricordandole chi era, e quando osservava Hugo incespicare teneramente fra i tavoli di Madama Piediburro, voleva crederci. Voleva che la risposta fosse , lo voleva così intensamente che faceva male. Eppure, c’era qualcosa di diverso in Dakota. Era una tristezza diversa. Gli passò il fazzoletto sopra il labbro superiore, raccogliendo i rimasugli di cioccolata come una brava mamma, per poi prendergli il mento fra pollice e indice. Lo scrutò a fondo, impedendogli di guardare da un’altra parte se non il suo viso. “Cosa succede, Dak?” Domandò preoccupata con tono serio, irremovibile nel voler sentire una risposta sincera.
    Sincera, perché le bugie cominciavano ad accumularsi, e non andava mai a finire bene.
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    Io non devo leggere post makota ( o di mae in generale) con quando sono così fragile. Mi commuovo ;-;
     
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    gira sempre provvisto di dolci o tavolette di cioccolato;
    ama gli scacchi, magici o babbani che siano, così come fare metafore su di essi;
    è entrato nei ribelli alla fine del quinto anno;
    ha una cicatrice sul collo;
    Maeve è la cosa più simile ad una famiglia che abbia al momento (sì, anche contando Gerald), e non sopporterebbe di perderla;
    è mancino;
    ha una cotta non così segreta per il suo capo;
    dovrebbe portare gli occhiali, perchè non mette bene a fuoco i soggetti lontani, ma non si è mai fatto visitare e non gli piace indossarli;
    è terrorizzato dalla tortura.
    #gryffpawa “Do not fall in love with people like me.
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    Il primo Natale dopo che i suoi erano stati torturati, Dakota aveva rifiuto l'invito degli Spankman ed era rimasto a casa, raccontando poi a tutti della gigantesca torta glassata fatta dalla mamma che in realtà non c'era mai stata. Dall'anno successivo, finalmente caduto in tentazione, aveva iniziato ad andare dai cugini, lasciando i suoi a casa perchè "preferiscono passare un Natale tranquillo". A volte pensava che gli zii, o Gerald, avrebbero capito che era una balla assurda, ma nessuno gli aveva mai fatto domande o insistito, e per altri quattro anni i Natale di Dakota si erano risolti alla diroccata "villa" Spankman, e gli andava bene così, essere in mezzo a tutte le sorelle di Ger nonostante con loro non avesse nulla in comune, cercare di non sembrare troppo disagiato per paura che lo buttassero fuori.
    Ma allora non conosceva Maeve.
    «Non mi sembra il caso, Dak… non c’entro nulla con loro. Però sì, se riesco passo dopo pranzo»
    Dakota abbassò lo sguardo sorridendo («Ah-ah»), capendo il sottointeso "non aspettarti davvero che verrò". Non è che volesse obbligarla... ma voleva dirglielo, essere per una volta un bambino e essere egoista: “Devi venire. Ho bisogno di te”. Da quando nella sua vita c'era Mae le cose erano diverse... lui era diverso. Non c'entrava solo la ribellione, era tutta la sua vita a essere cambiata nel giro di un anno, e ora la voleva accanto a sè anche in quella festa, perchè per quanto volesse bene alla sua famiglia, non erano Maeve.
    In realtà, citando la Winston, lui non c’entrava con gli Spankman, e se anche fosse c'entrato l’avrebbe voluta al suo fianco a baciargli la guancia dopo essersi fatti gli auguri, a sorridere emozionata mentre aprivano i regali, ad abbracciarlo forte come avrebbe fatto se fossero stati davvero parenti. A volte Dak si chiedeva se non fosse innamorato di Maeve, ma si rispondeva sempre allo stesso modo: ovvio che la amava. Non romanticamente, non come si ama una moglie, ma era comunque un effetto più grande di quanto mai avesse provato per altri.
    Come sarebbe stato crescere insieme a lei? Poterla chiamare “sorella” senza vergognarsi come un bambino che chiama la maestra “mamma”?
    «Sappi che mi farebbe molto molto piacere», rispose con ancora gli occhi sulla tazza e le labbra incurvate come se non fosse un gran problema. «Ma fai come riesci». Non avrebbe dovuto chiederle anche quello, insistere perché passasse il Natale con un’altra famiglia solo perché Dakota aveva i complessi... ma allo stesso tempo voleva che anche Mae lo amasse, perchè probabilmente era l'unica persona da cui poteva aspettarsi una cosa simile.
    Bevve finalmente dalla tazza, sporcandosi le labbra di cioccolato bollette e panna fredda, e per un po’ tenne per sé i propri commenti, non chiese altri favori a Mae come il farsi dire perché tutta quella segretezza o cosa mai gli stesse nascondendo (perché qualcosa, chiaramente, c’era). Voleva che gli parlasse, se necessario gli urlasse contro, ma che almeno lei stesse bene.
    La prima a riprendere la parola fu Mae, dopo avergli dimostrato di nuovo quella premura da mamma che a Dak faceva stringere il cuore, disilluso da tempo che a qualcuno potesse importare di lui o se avesse del cioccolato in faccia. Le sorrise, perchè così era abituato a fare qualsiasi fosse il suo stato d'animo, mentre lei gli prendeva il viso con la mano, ricordandogli il gesto che qualche tempo prima aveva fatto Jason prima di baciarlo.
    «Cosa succede, Dak?»
    Il primo istinto fu rispondere “niente”. Andava tutto bene, no? Non c’era motivo di infastidire Maeve Winston con i suoi inutili problemi, finchè non rischiava la vita... ma mentire alla bionda, che lo fissava così intensamente, sarebbe stato come mancarle di rispetto? Dirle che stava bene, fare un sorriso confuso e alzare le spalle fingendosi sorpreso da tale domanda... era in grado di farlo? Lo faceva sempre, lo faceva con amici, con Jason... ma Mae? Mae era la sorella che non aveva, la mamma di cui aveva bisogno, e l’amica che lo stava ad ascoltare quando non sarebbe stato neanche lui con se stesso. Più lei era attenta ai suoi problemi, gli lanciava quegli sguardi teneroni, più a lui veniva voglia di vuotare il sacco.
    «Facciamo una cosa a testa», disse dopo un po’. «Cosa succede a te, Viso d'angelo?»
    Sperava non avrebbe risposto ignorando la domanda: si meritava la verità, qualsiasi essa fosse.


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    Certo che la natura umana era davvero buffa. Ogni essere umano mentiva almeno una volta al giorno -per essere ottimisti- ,con una naturalezza che, oggettivamente, avrebbe dovuto essere preoccupante. Ma non erano tanto le bugie ad incuriosire Maeve Winston, quanto le persone a cui queste erano riserbate. Le menzogne erano sempre riservate ad una persona cara, mai ad uno sconosciuto. Perché? In realtà, il perché era molto semplice: dietro ogni verità nascosta non c’era solo un mare, ma una tempesta; che senso aveva farla abbattere contro qualcuno a cui si teneva? Invece, uno sconosciuto, avrebbe potuto reggere il colpo. Maeve aveva sempre pensato che parlare con uno sconosciuto fosse più facile: a lei non importava dei loro sentimenti, e a loro non importava dei suoi. Si poteva essere schietti, cattivi, disperati. Si poteva essere qualunque cosa, perché loro non avevano alcuna prospettiva. Loro ti vedevano in quel momento, e per quel momento loro ti conoscevano. Una persona però con la quale si condivide un affetto sincero, rende tutto più complicato. Specialmente se nello sguardo gli leggi quella sincera devozione che sai rivelano a te e solo te, una fiducia ancora intaccata. Ed ogni parola di troppo, ogni peso, Maeve temeva potesse scalfire quella superficie, far cambiare quello sguardo. Quindi, alla fin fine, se mentiva era solo alle persone che le volevano bene. Perverso era un eufemismo. Sapeva che la razionalità non era dalla sua parte, e per quanto la cosa le dispiacesse – amava credere di essere la Ragione fatta persona- non poteva impedirsi quell’ipocrisia. Non poteva, non riusciva a dire a Dakota la verità, per quanto egoisticamente avrebbe voluto. Avrebbe voluto fare la vittima, piangere, e sapere che qualcuno per lei ci sarebbe sempre stato. Quello era il primario istinto umano: mostrarsi non deboli né vulnerabili, ma umani. Ciò che però distinguava l’uomo dall’animale, era il sapersi fermare. Sapersi dare un limite, entro il quale capire quanto l’atteggiamento da prima donna fosse opportuno. Se ve lo state chiedendo, perlomeno per Maeve Winston, non era mai opportuno. Le piaceva essere al centro dell’attenzione, ma mai in quel modo. Perfino se l’attenzione era solo quella di Dakota, anzi, soprattutto! Non poteva permettere che la vedesse realmente. La vera Maeve Winston non piaceva nemmeno a sé stessa.
    “Dopo. Dopo pranzo ti passo a prendere, andiamo a farci un giro solo io e te. Ti riporto a casa per cen.. anzi no, ti rapisco anche per cena. Così va meglio?” Si strinse nelle spalle, un leggero sorriso sulle labbra. Alla fine, non aveva resistito. Alla fine, nonostante tutte le promesse che si era fatta sul non essere egoista, aveva ceduto. Non lo stava mica portando al patibolo, giusto? Anche a Dakota piaceva passare il tempo con lei. O almeno, così sperava. E lei voleva davvero tanto passare la giornata con lui, non solo perché altrimenti sarebbe stata sola. Voleva stare con lui perché era Dakota, Dakota Wayne. Perché loro erano Dakota e Maeve, e qualunque cosa fosse successa al Mondo Magico (guerre, ribellioni, laboratori, giochi sadici), loro sarebbero sempre rimasti Dakota e Maeve. E anche quando il Grifondoro si fosse stancato di lei, capendo che non valeva la pena, che era solo fumo e poco arrosto, Maeve sarebbe rimasta. Era la sua specialità rimanere quando gli altri se ne andavano.
    Quando pulì il mento di Dak, rimanendo con la mano contro il suo viso alla ricerca di una risposta per quell’angoscia, vide tutto. Lo vide, chiaramente, dipinto in quegli occhi troppo grandi e sinceri. Lo vide in quegli occhi che non avrebbero dovuto essere così vecchi, che avrebbero dovuto brillare per il natale, ed i regali, e gli amici e la cioccolata, per la burrobirra ed il brivido del whisky. Lo vide in quegli occhi che non avrebbero dovuto pensare ad una guerra, che non avrebbero dovuto essere così… spezzati. E speciali, perché nonostante tutto, erano gli occhi di Dakota. Quello però era ciò che la Winston conosceva: cosa le stava tenendo nascosto? Cosa lo stava tormentando? Cosa, che non avrebbe potuto condividere con lei? Il discorso sulle menzogne, non poteva valere per dakotamaeve, non da parte di Wayne perlomeno. Lei doveva esattamente essere la persona a cui poteva rivolgersi, in caso di bisogno. Erano amici, ma anche qualcosa di più. Erano tanto di più: era una famiglia senza l’obbligo di volersi bene per convenzione.
    “Facciamo una cosa a testa. Cosa succede a te, Viso d'angelo?
    Non poteva, non doveva, perché glielo stava chiedendo?
    Non poteva cambiare argomento, non quando lei era stata la prima ad addentrarsi in quel territorio. Al contempo, non doveva dire realmente cosa stesse accadendo, e forse non solo perché non voleva turbarlo. Dirlo ad alta voce l’avrebbe reso reale, soffocante. Sarebbe stato come cemento in mezzo al mare, e lei voleva solo rimanere a galla. Inspirò ed espirò lentamente, tenendo il mento di Dakota stretto fra pollice ed indice. Fu con lentezza che si allontanò, distogliendo lo sguardo. Tacque per una manciata di minuti, che per quanto la riguardava potevano essere tanto secondi quanto ore, e quando si decise a rispondere lo fece in un sussurro appena udibile. Come se sussurrarlo facesse meno male. Ma sussurrarlo, di certo, le rendeva più facile non far tremare la voce. “Se ne stanno andando” Deglutì, mantenendo lo sguardo fisso sul tavolo. “Tutti se ne vanno, Dakota, ma nessuno torna” Il tono fu piatto ed asettico, ma Maeve sorrideva. Aveva incurvato appena le labbra, quasi senza accorgersene, e quel sorriso era come una ferita. Di certo, come una ferita, bruciava. “Tocca a te” Concluse, frettolosa di cambiare argomento, riportando l’attenzione su di lui con un cinico sopracciglio inarcato. Lei la sua parte l’aveva fatta, non le si poteva imputare il contrario.
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    «Dopo. Dopo pranzo ti passo a prendere, andiamo a farci un giro solo io e te. Ti riporto a casa per cen.. anzi no, ti rapisco anche per cena. Così va meglio?»
    Dakota rise con ancora il biscotto in bocca, sputacchiando briciole ovunque. Annuì allegramente perché sì, andava decisamente meglio; non era esattamente il programma che aveva sperato, non era lui e Mae tutto il giorno di Natale insieme, ma alla fine aveva comunque vinto più di quanto Mae gli avesse concesso poco prima; era proprio vero che a fare gli occhioni da cucciolo ci si guadagna sempre.
    «’Egliho!». E mentre mandava giù il boccone pensava, continuando a sorridere alla sua bionda.
    Dakota si era reso conto tanto prima di amare Maeve Winston, lui che per comodità una volta diceva che l’amore non esisteva. Fra loro le cose erano così... adatte, perfette. Nn c’erano inutili problemi di gelosie, né drammi insormontabili; fra loro doveva essereci quelo che Dak immaginava fosse amore familiare, ma non era raro che si domandesse se, semplicemente, fra loro ci fosse qualcosa di unico e inspiegabile che nessuno sarebbe stato in grado di descrivere, un tipo di rapporto e affetto reciproco che poteva esistere solo per la Makota; non erano cresciuti insieme e quindi non si erano voluti bene per una questione di tempo, né di convenienza. Maeve era e sarebbe sempre stata (o così sperava) famiglia. Qualcuno da cui tornare la sera dopo una giornata difficile con il solo scopo di raccontarsi e poi guardare un film insieme sotto le coperte. Se solo Dakota non fosse stato minorenne, sarebbe andato volentieri a vivere da lei, auto invitandosi.
    Era difficile per lui ricordarsi che Mae una ” famiglia”, una vera, ce l’avesse già, e che sarebbe stata sempre nei suoi pensieri prima di lui, ma in fondo lo accettava: accettava di mettere Maeve al proprio primo posto, e di non essere altrettanto in alto nella lista di priorità della bionda; la amava, era amato. Questo bastava a entrambi.
    Proprio perché le voleva così bene, e perché era la sua persona, Dakota si sarebbe impegnato a raccontarle la verità, ma non abbastanza da diventare per lei semplicemente un altro problema. Doveva mantenere un’espressione serena, non scaricarle addosso il proprio schifo e permetterle di liberarsi dei propri problemi.
    «Se ne stanno andando», mormorò la ragazza con sguardo basso, accettando l’invito di iniziare le confidenze. Dak lasciò che spostasse le dita dal suo viso, e mise la mano sulla sua, accarezzandogliela e poi stringendola leggermente. «Tutti se ne vanno, Dakota, ma nessuno torna»
    Il rosso si morse il labbo, inclinando la testa di lato. Stava pensando a Liam, a Edan in giro per il mondo? Chi aveva mai osato altrimenti abbandonare una ragazza simile, la luce degli occhi di chiunque avesse abbastanza sale in zucca per starle vicino? Avrebbe voluto chiederle di più, ma gli occhi azzurri di Mae furono di nuovo nei suoi. «Tocca a te» Ah. Era già il suo turno?
    «Io sono ancora qui», le ricordò ignorando l’invito a raccontare lui. «Ricordatelo, ok? Io non me ne andrò, a meno che non mi scaccerai tu. E anche gli altri... nessuno se ne potrebbe andare volontariamente da te. Nessuno lo farebbe mai, Viso d'Angelo. Sei la persona migliore che conosca».
    Sarebbe tornato sull’argomento, ovvio, ma vedeva che Mae era a disagio, quindi decise di seguire la sua originale proposta di dire una cosa a testa.
    Prese un respiro profondo, cercando la cosa più importante da dire. Quello stronzo di Aegon? No, Mae l’avrebbe fatto licenziare, dopo averlo menomato, e Dakota non lo voleva sulla coscienza. Il dolore che provava ogni volta che vedeva Tristan e la Devis insieme? Macchè, altra cosa inutile e fottutamente difficile da raccontare, perché pur essendo la sua Maeve davanti a lui, non riusciva davvero ad ammettere ad alta voce di essere gay così sfrontatamente. Appunto, il problema "omosessualità"? Ma va', cosa poteva dirle a parte che aveva paura che i suoi amici lo scoprissero e lo giudicassero invece che continuare a volergli bene? La cazzata del fare droga in cambio di qualche limonata? Sarebbe andata su tutte le furie contro Jason, e Dakota non era sicuro che gli sarebbe piaciuto ancora senza un braccio o direttamente senza la testa noi ora sappiamo di sì, ma alla fine uscivano insieme da neanche un mese allora, diamogli tempo.
    Dakota sapeva di star soltanto tergiversando, di star cercando argomenti di cui parlare, quando sapeva benissimo qual era la cosa a disturbarlo di più al momento... ma gli ci vollero diversi secondi per trovarla, per scavare dentro di sè e trovare quello. Quel buco nero che gli scavava il cervello e gli rodeva dentro ogni volta che provava a ripensarci, e che dopo le notti insommi e gli incubi aveva quindi cercato di seppellire sempre più a fondo fino a non pensarci più. Ma Maeve doveva sapero; non poteva guardarla negli occhi e tenerglielo nascosto. Lei lo avrebbe amato comunque.... giusto?
    «Qualche tempo fa... a lezione di Arti Oscure... ho fatto una cosa» Questa volta fu lui ad abbassare lo sguardo, il viso sempre più rosso. «Non avrei dovuto farla, Mae, lo so. Io so che era sbagliato ma... lì per lì... ho fatto una cazzata. Una cazzata enorme, a cui non posso rimediare. Ho... io ho... fatto del male a qualcuno... ho... io... Maeve». Pronunciò il suo nome come un'ancora di salvataggio. La guardò, ma tornò subito con lo sguardo sulla tazza; non riusciva a incrociare il suo sguardo mentre lo diceva, aveva paura di quello che ci avrebbe letto dentro, pur sapendo che se lo sarebbe meritato, e pur sapendo che Mae non gli avrebbe mai fatto del male. "Non volontariamente; ma se non riuscisse più a stare vicino a me, dopo? Se si sentisse disgustata da cos'ho fatto?", pensò, deglutendo nuovamente. Era rischioso, ma doveva dirglielo; non poteva continuare a scappare. «Sono... sono un assassino, Maeve... ho ucciso una persona innocente... un babbano... E so che secondo loro non è un gesto grave ma... io lo so che non avrei dovuto, te lo giuro» si prese la testa fra le mani, rendendosi conto che era la prima volta che lo ammetteva ad alta voce, che ammetteva di aver ucciso senza motivo quel ragazzo, e si sentì salire un conato di vomito. Panico o no, crisi isterica o meno, come aveva potuto farlo? Non lo sapeva neanche lui; l’unica opzione che si era dato, era stata l’isteria, ma forse era semplicemente malvagio; forse l'avrebbe rifatto, magari insieme ai ribelli, proprio come Keanu aveva lanciato delle bombe contro dei mangiamorte ignoranti di cosa fosse davvero quella guerra e quindi innocenti. «Mi dispiace... mi dispiace per non essere... chi dovrei... per non essere buono. Non so cosa fare per rimediare, nè se potrò mai farlo... mi odio così tanto, Mae... Vedo la sua faccia, e ho paura... ma non di lui. Ho paura per quello che ho fatto, e per quello che potrei ancora fare».
    Non la guardò neanche quando disse, il tono di voce neutro se non addirittura felice (teatralmente, sia chiaro): «Tocca a te»
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    «Io sono ancora qui» Quattro parole. E Dakota Wayne, in quelle quattro parole, pareva crederci davvero: io sono ancora qui. Tutti erano sempre qui, fintanto che il qui non si spostava sempre più in là, lontano, fuori dalla portata di Maeve. Tutti erano convinti di rimanere, prima di volgersi e chiudersi la porta alle spalle, lasciandola da sola. Questo però a Dakota non l’avrebbe detto, grata che in quel momento ci fosse. Gli sorrise, abbassando però gli occhi sulle proprie mani; sapeva che se l’avesse guardato, lui avrebbe saputo quello a cui stava pensando. E, in qualità di Grifolasagna, si sarebbe impuntato finchè anch’ella non avesse creduto a quelle quattro parole quanto pareva crederci lui. Il fatto era che Maeve avrebbe voluto cedere a quella tentazione: speranza. Avrebbe voluto farsi sedurre da quella prospettiva, qualcuno che, malgrado tutto, sarebbe sempre rimasto al suo fianco. Nell’ultimo anno aveva appreso che non aveva importanza quanto lei, o chiunque altro, volesse crederci. La vita prendeva pieghe inaspettate, indipendentemente dal volere suo o di chicchessia. Gliele strappava via, le persone. «Ricordatelo, ok? Io non me ne andrò, a meno che non mi scaccerai tu. E anche gli altri... nessuno se ne potrebbe andare volontariamente da te. Nessuno lo farebbe mai, Viso d'Angelo. Sei la persona migliore che conosca» Maeve Winston rise, rompendo l’atmosfera di serietà che la questione esigeva. Rise proprio con l’intento di spezzarla, fingendo che quanto appena detto a Dakota non fosse un problema così preoccupante, per lei. Sì, qualcosa che non andava c’era, ma nulla di grave. Dak non avrebbe potuto cambiare le cose, impotente come lei; e lei, dal canto suo, non avrebbe creduto neanche nella visione più ottimistica della vita a ciò che il Grifo le andava narrando. «Devi conoscerne davvero poche di persone, Dakota Wayne» Rispose inarcando le sopracciglia, l’ombra di un sorriso divertito ad animare un volto altrimenti impenetrabile. Solamente lui poteva pensare che Mae fosse una persona che meritava d’esser conosciuta, ammirata, stimata; solamente lui poteva pensare che nessuno se ne fosse mai andato di sua volontà, perché sarebbe stato impossibile desiderare una cosa del genere. Maeve Winston non era il genere di ragazza dalla quale era difficile separarsi. Bastava un respiro profondo, bastava chiudere gli occhi. Bastava poco, ed era solo un ricordo già sbiadito.
    Attese pazientemente che anche Dakota, come aveva fatto lei, si liberasse d’un peso. Era così che si faceva in famiglia, ed era così che Maeve avrebbe sempre voluto fosse fra loro: nessun segreto, nessuna maschera. Non da parte del Grifo almeno, lei poteva ancora permetterselo. Era lei che doveva prendersi cura di lui, mentre lui con il solo sorriderle riusciva a salvarla in più modi di quanti Maeve ammettesse a sé stessa. Dakota Wayne le impediva d’affogare anche quando non le rimaneva che acqua, e lei aveva bisogno di tenere stretta a sé ogni finzione per permettersi di lasciarsi salvare. «Qualche tempo fa... a lezione di Arti Oscure... ho fatto una cosa» Maeve aggrottò le sopracciglia, mentre Dak abbassava lo sguardo arrossendo visibilmente. Buon Merlino, cosa poteva aver fatto a lezione con Damian Icesprite? Il collega di Arti Oscure terrorizzava anche lei, come tutti probabilmente, ed era forse il motivo principale per il quale non si era informata sul suo programma. Lei aveva intenzione, alla sua prima lezione, di farli combattere l’uno contro l’altro in un’arena, cosa poteva aver fatto di peggio Icesprite? Ma soprattutto, cosa aveva fatto Dakota? «Non avrei dovuto farla, Mae, lo so. Io so che era sbagliato ma... lì per lì... ho fatto una cazzata. Una cazzata enorme, a cui non posso rimediare. Ho... io ho... fatto del male a qualcuno... ho... io... Maeve» Sentì il proprio cuore battere all’impazzata, improvvisamente più preoccupata di quanto non lo fosse stata una manciata di minuti prima. Una cazzata era comprensibile alla sua età, mettendoci insieme il fatto che fosse un Grifo, era già tanto che non vivesse di cazzate; cosa poteva causare un tale turbamento nel piccolo chirurgo del castello? Il tono, fu quello a metterla in allarme. Quella richiesta nelle cinque lettere del suo nome, maeve; una necessità che raramente percepiva nel proprio nome, non rivolto verso di lei. solamente Dak si fidava abbastanza da abbandonarsi, con quel Maeve, alla sua bionda persona. Diceva tutto, quel Maeve; e Maeve non sapeva cosa fare. Alzò brevemente lo sguardo su di lei, e le fece ancor più male la rapidità con il quale subito lo distolse. Allungò una mano verso quelle di Dakota, stringendole fra le proprie. Non sapeva ancora da cosa derivasse quell’angoscia, ma qualunque fosse il motivo non poteva sopportare la sofferenza nei suoi occhi. Era mangiato, Dakota, mangiato dall’interno; masticato, vomitato, in un circolo che pareva non lasciarlo. Li chiamavano sensi di colpa, ma era troppo riduttivo. Sensi di colpa non bastava ad esplicare la sensazione di trovarsi sotto metri e metri di terra; sensi di colpa non giustificava il bruciore ai polmoni, o gli incubi che di notte facevano contorcere dentro le lenzuola, inumidendole di sudore e lacrime. Sensi di colpa non bastava. «Sono... sono un assassino, Maeve... ho ucciso una persona innocente... un babbano... E so che secondo loro non è un gesto grave ma... io lo so che non avrei dovuto, te lo giuro»
    Oh, Dakota. Inspirò profondamente, chiedendosi se ci fosse qualcosa di giusto da dire, mentre il ragazzo stringeva il proprio capo fra le mani. Come un bambino che ha smesso di avere paura del buio solo perché ha trovato qualcos’altro da temere, e quell’altro gli stava andando incontro galoppando velocemente. Si alzò, stringendolo al proprio petto mentre gli carezzava la testa. I suoi capelli, di quel buffo colore rosso a cui ormai chiunque si era affezionato, erano familiari sotto i polpastrelli di Maeve. «Mi dispiace... mi dispiace per non essere... chi dovrei... per non essere buono. Non so cosa fare per rimediare, nè se potrò mai farlo... mi odio così tanto, Mae... Vedo la sua faccia, e ho paura... ma non di lui. Ho paura per quello che ho fatto, e per quello che potrei ancora fare». Si chinò al suo fianco, poggiando la propria guancia sul tavolo così da poter guardare Dakota. Le spezzava il cuore, il tono delle sue parole; ma soprattutto, la faceva incazzare Damian Icesprite. «Dak…tu sei la persona più buona che io conosca. Tutti noi siamo assassini, non dimenticarlo. Non sei da solo. E fa male, e ti impedisce di dormire la notte, e rivedi sempre il suo viso» Una risata amara echeggiò nella sua gola, mentre alzava gli occhi al soffitto per impedire alle lacrime di scivolare sulle guance di porcellana. Si era già permessa troppo con Dak, vederla piangere esentava dal programma. «So cosa si prova. Ma non devi odiarti, si tratta di scelte; sono certa che avessi un buon motivo, altrimenti mai l’avresti fatto. E lo sai anche tu. non è che dall’oggi al domani andrai a fare l’ACAB fra i babbani. Non hai ucciso quel ragazzo per divertimento…Sei stato obbligato da una situazione più grande. Da questo» Posò una mano sul suo cuore, sorridendo. «Siamo realisti, un babbano fra le mani di Damian Icesprite? Era già spacciato. Sei un Grifondoro, hai agito prima di pensare, ed è ciò che più t’invidio: hai avuto il coraggio di prendere una decisione difficile, hai deciso di essere coraggioso per quel ragazzo. Non rimpiangere di non essere stato codardo –anche se so che è la parte più complicata. Non possiamo salvare tutti» Concluse in un soffio, continuando a cercare i suoi occhi. Ed era difficile da credere, spesso non ci riusciva neanche lei, ma era vero: non potevano salvare tutti, a malapena potevano salvare sé stessi. A volte, non riuscivano neanche in quello.
    «Tocca a te» Un ghigno ironico, mentre tornava dietro il bancone a prepararsi una cioccolata calda anche per sè. «Non sono sicura che questo gioco mi piaccia» Disse ad alta voce per farsi udire al di sopra del rumore delle tazze, un tono così scettico che poteva quasi sentirlo concreto nell’aria. Per qualche secondo, il silenzio venne interrotto solamente dalle sue mani, che rapide cercavano il necessario. «I miei genitori sono spariti» Ecco, l’aveva detto. L’aveva detto mentre ammassava i piattini, sistemava i cucchiai, prendeva la panna da porre sopra la superficie densa della cioccolata… ma l’aveva detto. Così, in un solo battito.
    I miei genitori sono spariti. «È il tuo turno» Passò il dito nella panna e si infilò il dolce in bocca, stringendosi nelle spalle con aria di scuse non scuse. Così, l’aveva detto. Era stato semplice, no?
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    Forse Maeve lo avrebbe odiato. Forse Maeve non l’avrebbe più ritenuto il ragazzino degno di essere abbracciato e protetto dal Mondo, quando in realtà era il Mondo a dover essere tenuto al sicuro da lui, assassino incallito che uccideva senza un vero motivo, a sangue freddo, un babbano disarmato. Aveva pensato che uccidere quel ragazzo fosse un’idea furba per circa trenta secondi, e poi aveva cercato di dimenticare il tutto e basta per mesi. "Se non lo dico non è vero", si era detto, ignorando i sogni, i tormenti, il dolore, pensando insieme che si meritasse quella sofferenza, come punizione per quanto fatto, che non dovesse parlarne con nessuno perchè lo avrebbe fatto sentire meglio, e d'altro lato volendo annullare quel ricordo traumatico. Quella lezione era stata la prima volta che aveva visto la morte coscientemente, e meno di dieci minuti dopo l'aveva provocata lui stesso. "L'ho fatto per lui l'ho fatto per lui l'ho fatto per lui", ri ripeteva, ma l'altra parte di sè lo dinegrava per un'idea del genere. Anche la tua vita fa un po' schifo, ma mica ti uccidi. Bravo Dakota, ti piace essere un ipocrita?
    Aveva ancora il viso coperto, ma ad un certo punto Mae si chinò, guardandolo dal basso... e Dakota non potè sfuggire ai suoi occhi chiari che lo fissavano; egoisticamente, si sentì già meglio: non erano arrabbiati, e non ci leggeva dentro odio o disgusto. Era ancora il suo bambino, per lei, e tanto bastava; non era importante se il resto del mondo lo avrebbe ritenuto un mostro, se Maeve Winston lo avesse continuato ad amare. E pensarla in quel modo, lo faceva sentire in colpa. "Non dovrei stare meglio. Non me lo merito".
    «Dak…tu sei la persona più buona che io conosca. Tutti noi siamo assassini, non dimenticarlo. Non sei da solo. E fa male, e ti impedisce di dormire la notte, e rivedi sempre il suo viso»
    Sulla prima parte, poteva dissentire per mille ragione, e anche sul fatto che loro tutti fossero assassini. «E’ diverso», mormorò, e si chiese se Mae stesse pensando alla morte di Liam Callaway. «So cosa si prova. Ma non devi odiarti, si tratta di scelte; sono certa che avessi un buon motivo, altrimenti mai l’avresti fatto» . “Era disarmato. Era inerme. Avrei dovuto liberarlo, avrei potuto... fare qualcosa, invece che lavarmene le mani, invece che reagire nel modo più facile e 'eliminare il problema'”. Si morse il labbro, e si rese conto di star piangendo, gli occhi lucidi e i lacrimoni che si facevano forza per uscire, lenti, inesorabili, facendogli pizzicare la pelle. Non aveva mai pianto dopo la lezione per quello che aveva fatto, al massimo aveva sentito una gran nausea, aveva dato il massimo in tutto il resto che faceva per non pensarci, e aveva gridato, nella foresta proibita o durante gli allenamenti in armeria e aula di corpo a corpo, come se bastasse a togliergli quel peso, ma piangere... era così palese quello che gli stava passando per la testa, il suo senso di colpa. Soprattutto non era sua intenzione farlo davanti a lei, con il rischio di farla sentire male per lui... ma stava succedendo, senza che lui riuscisse o volesse fermarsi. Non era un pianto disperato, ma era già troppo da mostrare a sua madre/sorella/migliore amica che fosse. Voleva ringraziarla, per le parole che gli stava dicendo, perché sapeva che prima o poi gli sarebbero entrate dentro e le avrebbe fatte sue, ma in quel momento, dopo aver ritirato fuori quella storia, riusciva solo a pensare a quanto fosse diventato un mostro. Se avesse avuto il tempo di non odiarsi, forse un giorno si sarebbe addirittura perdonato, e sarebbe guarito. Ma non in quel momento. «E lo sai anche tu. non è che dall’oggi al domani andrai a fare l’ACAB fra i babbani. Non hai ucciso quel ragazzo per divertimento…Sei stato obbligato da una situazione più grande. Da questo». Dak sbuffò una risata, mentre lei gli posava lieve la mano sul cuore. Chissà se riusciva a sentirlo battere veloce oltre la felpa, se lo sentiva distrutto e affaticato. «Siamo realisti, un babbano fra le mani di Damian Icesprite? Era già spacciato. Sei un Grifondoro, hai agito prima di pensare, ed è ciò che più t’invidio: hai avuto il coraggio di prendere una decisione difficile, hai deciso di essere coraggioso per quel ragazzo. Non rimpiangere di non essere stato codardo –anche se so che è la parte più complicata. Non possiamo salvare tutti»
    Cercò di sorridere. «Ma è quello che dovremmo fare, giusto? Salvare tutti... anche gli insalvabili, anche chi non se lo merita. Non voglio salvare qualcuno, i più simpatici o i più utili. E’ quello che ci differenzia da loro... o almeno ho sempre pensato così. Non voglio ritenere qualcuno di sacrificabile; nessuno lo è...», fece una risata scuotendo leggermente la testa e posando le mani sulle gambe, rendendosi conto delle idiozie appena dette. «Non sono fatto per questa guerra. Non riesco a stare alle sue regole... non sono abbastanza forte, ho paura non lo sarò mai»
    Alzò lo sguardo quando Mae si allontanò, tornando dietro al bancone del negozio per fare un’altra cioccolata. Dakota non aggiunse altro, passandosi solo rapido il palmo della mano sugli occhi per asciugarsi le lacrime mentre la bionda trafficava. «Non sono sicura che questo gioco mi piaccia»
    «Si chiama feels pong», scherzò Dak, e riabbassò gli occhi sulla proprio tazza, giocando con il cucchiaino e alzandolo per guardare il proprio riflesso; pur non vedendosi proprio bene, poteva immaginare di non sembrare esattamente al meglio di sé in quel momento. Bravo Dakota, non volevi risollevare l’umore a Mae? Come sei finito a parlare così tanto solo di te come al solito?
    Dopo qualche secondo, quando lei accettò la sfida e parlò, lo sguardo del rosso saettò di nuovo velocemente su di lei, che continuava ad armeggiare in giro come se niente fosse, come se Dak fosse un cliente usuale. «I miei genitori sono spariti»
    Se Dakota fosse stata una persona più gelosa, ne avrebbe gioito, in quanto finalmente unica famiglia di Mae, ma pur avendo ucciso una persona non era così malsano e egocentrico da pensarsi abbastanza per lei, e soffrì per il modo non curante con cui Mae aveva intavolato l’argomento, continuando subito con un: «È il tuo turno», come se lei non fosse così importante, come se non stesse soffrendo, e come se Dak fosse più importante. Di sicuro non poteva esserci niente di più sbagliato.
    «Mi dispiace», mormorò, alzandosi e lasciando sul tavolo il cucchiaino con un tintinnio, per poi andarle incontro. Mae doveva starci morendo per la sparizione della sua famiglia, cosa che sconvolgeva assai anche Dakota. Gli Winston erano ribelli... la loro scomparsa poteva voler dire molte brutte cose, tanto più che il rapimento e l’uccisione di persone scomode - come erano loro - era così tanto all’ordine del giorno. «Magari si stanno solo nascondendo, dopo l’attacco al quartier generale... Edan che ne pensa?». Edan, il fratello maggiore che Dakota non sarebbe mai davvero stato per Mae, che a volte avrebbe voluto essere per l'occasione di crescere con Mae e potersi dire davvero sua famiglia, e che il rosso a volte aveva la presunzione di poter sostituire... lui dov’era, cosa stava facendo, perché non era con la sua sorellina a confortarla? Non sapeva che Maeve aveva bisogno di lui, che stava male, che stava cadendo in pezzi?
    La abbracciò senza darle la possibilità di sfuggire a quella stretta, poco curante del fatto che lei potesse avere in mano qualcosa: non era mica obbligata a ricambiare, se non voleva.
    Il suo tono indolente lo aveva ferito, perché non era quella la Mae che voleva, e ripensò anche a quanto aveva detto prima, quando Dak aveva affermato che fosse la persona migliore che conoscesse. La risata di Maeve lo aveva scocciato più di quanto avrebbe pensato; era stata tutto sommato bella come al solito, ma così poco felice da spezzargli il cuore. Il sorriso della ragazza era sempre bellissimo, riusciva a mettergli allegria... ma non quando era così sarcastico, e così autodenigrante. «Devi conoscerne davvero poche di persone, Dakota Wayne»
    Lo aveva fatto di nuovo, si era sminuiva, senza che ci fosse davvero la necessità di farlo perché era a lui che stava parlando, al suo rosso che non le avrebbe mai permesso di pensare una cosa simile di sè; Dakota la conosceva (o così si vantava), sapeva che la ragazza aveva dei fantasmi, aveva dei lati negativi come tutti... ma lei era il suo eroe, ugualmente. Non come Tristan, idealizzato come un cavaliere sul cavallo bianco, visto come un principe salvatore quando non era altro che un mangiamorte qualunque che neanche lottava per una vita migliore dei deboli; Maeve era davvero la protagonista della storia, con i suoi lati luminosi e quelli oscuri, e avrebbe voluto conoscere le parole per dirglielo, spiegarsi, senza che risultasse pietosamente compassionevole, e non ammirato dalla sua bionda.
    Si staccò dall’abbraccio dopo un po’, quando le sembrò che Mae potesse averne abbastanza (perché fosse stato per lui, sarebbe rimasto così per sempre, al sicuro fra le braccia di quella che era, a tutti gli effetti, la sua famiglia), e posò le dita sul viso di lei, sia in una carezza, che nell’obbligo di guardarlo in faccia. Probabilmente Dakota aveva ancora gli occhi arrossati, o forse no, ma non gli importava. «Loro torneranno, o noi li troveremo, e tu non devi buttarti giù... perché ripeto, sei la persona migliore che io conosca, e ne sono davvero convinto. Hai una capacità, Maeve Winston, anche se non te ne accorgi. Tu rendi le persone migliori, d’accordo? E migliori non vuol dire più felici, non vuol dire che a volte non si pentano di averti incontrato... anzi, mettono in discussione quello che sono, cercando di avvicinarsi a quello che sei, a volte senza rendersene conto. Non ci fai caso... ma tu fai sempre così tanto, per tutti, semplicemente essendo quello di cui abbiamo bisogno, che sia la mamma Win o l’amica o la nemica bitch, che sia preoccupandoti o essendo te stessa.» Rise divertito «Lo stai facendo anche adesso, con me. Sei la mia persona preferita nell’universo... e non lo dico solo perchè ti amo».
    E lui, lui cosa aveva da raccontarle a questo giro? Basta guerra, voleva qualcosa di più soft, ma che lei aveva il diritto di sentire... come il fatto che si vedesse con Jason da quasi un mese, di sicuro la relazione più lunga che Dakota avesse mai avuto e aspetta che passi un anno. Si morse –di nuovo- il labbro, come aveva sempre fatto fin da bambino quando non sapeva che parole usare. Era bravo a dire le bugie, ma con Mae quelle erano da evitare: lei sapeva ugualmente leggergli dentro, quindi il contrario di verità era non dirle cose. Ma c’era un altro peso di cui doveva liberarsi: «Non sono così buono come credi. Sì, ho... ucciso... solo una persona, forse ho avuto dei motivi, ma c’è dell’altro. Credo di star aiutando una persona a farsi del male, drogarsi con roba pesante, invece che fermarlo... e solo perché mi piace stare con lui. Ho paura che se non facessi quello che sto facendo, non passerebbe più il tempo con me. No. No, anzi», si corresse. «Ne sono sicuro: non mi filerebbe neanche di strioscio ma... mi piace davvero un sacco, anche se lo conosco da poco. Non voglio rinunciarci». Aveva abbassato lo sguardo, per paura che Maeve capisse anche troppo. Ok, lei sapeva che era gay, quindi poteva usare il pronome maschile e il termine “piacere” nella stessa frase, e magari lo avrebbe aiutato a trovare una soluzione... ma da qui, a dirle palesemente “me la faccio con Jason in cambio di droga” era un altro discorso.
    «Palla nel tuo campo»

    I will destroy you in the most beautiful way possible

    © psìche, non copiare.
     
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    « sheet- 18 - ex-ravenclaw - rebel - charms master - Pensieve »
    Maeve Winston era il genere di ragazza in grado di rimanere in silenzio per ore, assorta in pensieri a cui non avrebbe mai avuto il coraggio di dar voce. Poteva tacere, le labbra strette fra loro e lo sguardo vacuo ad osservare tutto senza guardare niente. A volte riusciva perfino a convincersi che quei momenti potessero bastarle, che lei potesse bastarsi. Una quiete interiore, un respiro profondo durevole quanto un battito di ciglia, in cui credeva che sicuro, poteva farcela. Poteva gestire tutto, poteva gestire tutti. Poteva gestire sé stessa, gli sbalzi d’umore e gli incubi notturni. Poteva gestire il peso che leggeva nelle iridi cerulee ogni volta che si guardava allo specchio, poteva gestire le grida soffocate che rimbalzavano sulle mura del castello. Si ripeteva quanto fosse in gamba, studentessa modello ed insegnante lodevole; si elogiava per la propria bravura, dimenticandosi quanto a poco quella le servisse. Saper praticare alla perfezione un Wingardium Leviosa non cambiava nulla – non cambiava lei. Rimaneva, e sempre sarebbe rimasta, la bionda slavata dal sorriso arrogante ed il tono saccente. Rimaneva, e sempre sarebbe rimasta, la ribelle meno ribelle di tutta la resistenza: non si pentiva della propria scelta, ma andiamo, era chiaro a chiunque che Maeve avrebbe preferito essere ovunque tranne che lì. Non riusciva ad accettare di essere stata messa alle strette, obbligata all’unica alternativa umanamente possibile; odiava quel mondo, forse un poco di più da quando le era stato fatto notare che poteva fare qualcosa per cambiarlo. Ma lei, oh lei, come avrebbe potuto? Era brava, ma non così tanto. Coraggiosa, poi, non lo era mai stata. Ed aveva scelto i ribelli, perché erano stati l’unica scelta possibile: ma non ce la faceva. Non riusciva a tenere il ritmo, a mentire, a stringere una spada fra mani tremanti pronta a scendere sul campo di battaglia. Combattere i suoi amici, colleghi. Non riusciva, Maeve Winston, a non avere paura. Era ormai diventata una sua compagna fidata, presente in ogni respiro ed in ogni battito. Non era un modo sano di vivere, quello. Non era un mondo sano dove vivere. Trovava ingiusto che fossero costretti ad affrontarlo; trovava ingiusto che ad un ragazzino come Dakota, il suo Dakota Wayne, fosse stato chiesto di compiere una scelta che, in una realtà diversa, sarebbe spettata solamente ad un adulto. Trovava inconcepibile che così giovane avesse già dovuto scendere sul campo di battaglia, inaccettabile che le sue mani grondassero già sangue. In momenti come quello, gli esercizi di respirazione – e la così millantata pace interiore- andavano a farsi friggere: non ce l’avrebbe fatta, Maeve. Avrebbe voluto, più per le persone a lei care che per sé stessa, ma non ce l’avrebbe fatta. Non era abbastanza forte, o abbastanza coraggiosa, o abbastanza qualunque cosa. Era solo Maeve.
    E non riusciva ad accettare, la bionda, di veder piangere il suo Grifolasagna. Lui, che sicuramente più di lei, avrebbe meritato solo cose belle. Avrebbe dovuto ridere, e prenderla in giro perché non era in grado di fare un paio di biscotti senza lasciarci dentro almeno mezza bustina di zucchero (e si intende la confezione); avrebbe dovuto preoccuparsi della sua media, chiederle aiuto per i ripassi dell’ultimo minuto, essere nervoso riguardo il suo futuro o il ragazzo a cui ammiccare segretamente durante l’annuale festa di fine anno. Non così, mai così. Lo strinse a sé un po’ più forte, odiandosi per non riuscire ad essere la persona che per lui avrebbe voluto diventare, mordendosi con forza il labbro inferiore. «Ma è quello che dovremmo fare, giusto? Salvare tutti... anche gli insalvabili, anche chi non se lo merita. Non voglio salvare qualcuno, i più simpatici o i più utili. E’ quello che ci differenzia da loro... o almeno ho sempre pensato così. Non voglio ritenere qualcuno di sacrificabile; nessuno lo è...» Ma è quello che dovremmo fare, giusto? Salvare tutti. Maeve rimase in silenzio, gli occhi alzati verso il soffitto. Alla fine gli diede l’unica risposta possibile, quella di cui entrambi avevano bisogno per convincersi di essere sulla strada giusta. L’unica alla quale Maeve si sforzava di credere ogni volta che arrivava troppo tardi. «è quello che abbiamo provato a fare, che proviamo a fare ogni giorno» passò la lingua sul palato, comprendendo perfettamente il pensiero espresso da Dak. Sì, salvare tutti era quello che avrebbero dovuto fare. Ma non ce la facevano mai. Qualcuno rimaneva sempre indietro, incastrato nel fuoco incrociato fra le due fazioni. «e che continueremo a provare» la voce era ormai ridotta ad un sussurro, forse più per sé stessa che per il ragazzo al suo fianco. «è questo che ci differenzia da loro: noi ci proviamo, dak. ma siamo umani» una risata nervosa e amara le scivolò dalle labbra, pesando come fiele nell’aria fra loro. Il problema del loro mondo era proprio quello: che fossero ribelli o mangiamorte, speciali o maghi, sarebbero sempre stati umani.
    E non sarebbero mai riusciti a salvare tutti, per quanto ne avessero bisogno. «non avresti potuto salvarlo, avresti solo rischiato di mettere a repentaglio te stesso» gli posò un dito sulle labbra, ammonendolo a tacere. «… e non sarebbe stato utile a nessuno: senza Dakota Wayne, poi, chi salverebbe il mondo?» e chi salverebbe me? gli sorrise confortante, cercando di alleggerire l’atmosfera. Non era brava a consolare, neanche quando si trattava di Dakota. Era più il genere di ragazza che parlava di fatti e statistiche, aggrappandosi ai brandelli ottimistici di realtà per alleviare le sofferenze altrui. “è morto, ma ehi, una persona in meno sulla Terra significa meno inquinamento giusto? Evviva gli orsi polari!” Per questo, saggiamente, la maggior parte delle volte preferiva tacere. Sì, tendeva a non migliorare affatto la situazione: per quanto fosse ben istruita, nessuno le aveva mai insegnato a fare quello. Per questo aveva un fratello Tassorosso, la brodaglia emotiva era un problema suo. «Non sono fatto per questa guerra. Non riesco a stare alle sue regole... non sono abbastanza forte, ho paura non lo sarò mai» Lo obbligò nuovamente a guardarla, spingendogli un dito sotto al mento. Avrebbe potuto dire qualcosa per tirargli su il morale, dipingergli un utopico mondo ottimista dove tutto sarebbe andato per il meglio. Ma Dakota meritava di più, motivo per il quale gli permise di vedere lo stesso sincero timore nei propri occhi chiari, addolcendo la melanconia con il più timido accenno di un sorriso. «nessuno è fatto per questa guerra, wayne. ma hai scelto di provarci: non sei abbastanza, sei il più forte» e ci credeva davvero, almeno per quanto riguardava il rosso. Per sé stessa, d’altro canto, diciamo che provava a crederci. Diciamo che era l’unico motivo per il quale, fuori dal quartier generale, non faceva dietro front.
    Tutto ciò che aveva erano i tranci di speranza di qualcun altro, fette di buio che si sforzavano d’illuminare un’oscurità ancor più nera. Perché lo sapeva, Maeve, che loro non erano la luce: erano solo altre ombre, che più delle altre si sforzavano di cercare il sole. Erano tutti frammenti di notte: il loro compito era quello d’aggrapparsi all’alba, non di divenire sole.
    Erano solo umani.
    «Mi dispiace»
    Già, dispiaceva anche a lei. Strinse le labbra fra loro, chinando il capo in modo che i capelli scivolassero a coprirle parte del volto. Le braccia di Dakota avevano cominciato a significare casa prima ancora ch’ella potesse dare una definizione a casa: non era più un luogo, ma non era neanche Dakota. Casa era la sensazione di calore nell’essere apprezzata per ciò che era, nulla più che una ragazza dal sorriso spezzato e la speranza incrinata, strappata alla propria realtà per essere catapultata in un mondo che aveva bisogno anche di lei. Casa era essere quella Maeve Winston, il Viso d’angelo accompagnato dal sorriso sincero di qualcuno a cui non importava quanto fosse intrinsecamente debole, pavida, e fragile: era abbastanza, per Dakota era abbastanza. Nell’abbraccio del Grifondoro avrebbe tanto voluto piangere, sciogliere il grumo amaro che le annodava la gola da mesi. Con gli occhi lucidi di lacrime abbassò le palpebre, lasciando che il profumo di Dakota riuscisse a lenire quelle ferite invisibili all’esterno, ma che, Dio!, se facevano male. «aiden li sta cercando» rispose dopo qualche istante, quando fu certa che la voce non sarebbe uscita spezzata dai singhiozzi. Si trattenne dal resistere infantilmente alla gentile presa di Dak, quando egli le posò una mano sulla guancia obbligandola a guardarlo: si vergognava a mostrarsi così debole, quando per lui avrebbe solamente voluto essere una roccia. Non voleva che anche lui, come tutti gli altri, si rendesse conto che non era altro che la più leggera fra le piume. Aveva bisogno che almeno lui credesse in lei: a uno dei due toccava il lavoro sporco, e Maeve da sola non bastava - non si bastava. Storse la bocca da un lato, sforzandosi di guardare un punto imprecisato alle spalle di Dakota. Quando fu sicura, dopo un convulso ingollare di saliva, che non avrebbe pianto, posò gli occhi asciutti su di lui. «Hai una capacità, Maeve Winston, anche se non te ne accorgi. Tu rendi le persone migliori, d’accordo? E migliori non vuol dire più felici, non vuol dire che a volte non si pentano di averti incontrato... anzi, mettono in discussione quello che sono, cercando di avvicinarsi a quello che sei, a volte senza rendersene conto. Non ci fai caso... ma tu fai sempre così tanto, per tutti, semplicemente essendo quello di cui abbiamo bisogno, che sia la mamma Win o l’amica o la nemica bitch, che sia preoccupandoti o essendo te stessa.» Se una lacrima non fosse scivolata dalle palpebre socchiuse, facendole il solletico lungo il naso, probabilmente neanche si sarebbe accorta di aver cominciato a scuotere nervosamente il capo. Rapida si passò il dorso della mano sul viso, così da cancellare le tracce del misfatto, nella vaga speranza che lui non se ne fosse accorto. Vorrei che fosse così Dak, oh, lo vorrei così tanto. Vorrei solo non essere la tua ennesima delusione, in un mondo che continua a sbatterti porte in faccia. Non faccio niente, Dak, non ci provo nemmeno. Io le persone neanche le capisco, per Morgana! Quello sei te, sei sempre stato te. Se mi vedi così, è perché per te ci provo. E continuerò a provarci, Dak: perché sei te la mia parte migliore, non io. «Lo stai facendo anche adesso, con me. Sei la mia persona preferita nell’universo... e non lo dico solo perchè ti amo». Sorrise a labbra serrate, sentendo un dolce balsamo districare il nodo che, troppo a lungo, le aveva impedito di respirare. «anche io quando sono con te sono la mia persona preferita nell’universo. Non posso biasimarti» e invece poteva, e invece lo faceva. Ma non gliel’avrebbe detto, perché Maeve aveva bisogno di Dakota più di quanto Dakota avrebbe mai potuto aver bisogno di lei.
    «Non sono così buono come credi. Sì, ho... ucciso... solo una persona, forse ho avuto dei motivi, ma c’è dell’altro. Credo di star aiutando una persona a farsi del male, drogarsi con roba pesante, invece che fermarlo... e solo perché mi piace stare con lui. Ho paura che se non facessi quello che sto facendo, non passerebbe più il tempo con me. No. No, anzi. Ne sono sicuro: non mi filerebbe neanche di striscio ma... mi piace davvero un sacco, anche se lo conosco da poco. Non voglio rinunciarci».
    Excuuuuuuuse me. Quale persona al mondo avrebbe rinunciato ad avere un Dakota Wayne nella propria vita? Ma esisteva qualcuno, qualche plebeo, che poteva non voler passare del tempo con il suo bambino? Si portò una mano al petto, abbassando lo sguardo per poi riportarlo su Dakota *sì, adesivo di Sara #winception* «impossibile» decretò con sapiente arroganza, lavando le stoviglie che avevano sporcato. Si fermò affinchè Dakota tornasse ad alzare lo sguardo, così da incontrarne gli occhi chiari, prima di ricominciare a pulire. «davvero, Grifontonto. Innanzitutto, ritengo alquanto improbabile che tu stia aiutando qualcuno a farsi del male…a meno che tu non prenda la sua testa per sbatterla violentemente contro un muro per poi rifilargli morfina, ma dubito che tu intendessi questo» silenzio. «giusto?» era ironica, sapeva che Dakota non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Se solo avesse saputo a cosa realmente alludeva, però, vi assicuro che l’avrebbe preferito. «quindi non si tratta di aiuto, ma di fornire la materia prima… o luoghi dove potersi fare, il che comunque non ti rende davvero complice del farsi male quanto del mero atto illegal- DAKOTA» aveva momentaneamente spento il campanello mamma per concentrarsi oggettivamente su quanto detto dal Grifo, Corvonero fino al midollo, ma quello era tornato alla carica costringendola a spalancare gli occhi. «traffichi droga al castello? Sei… sei prefetto! È pericoloso! Dakota Peccatotunonabbiasecondinomimaancheterzi Wayne. Se questa persona non ti apprezza per ciò che sei, senza tanti giri di parole, smettila. Ma andiamo, a costo di ripetermi, un’alternativa del genere è davvero impossibile. Se ti sopporto io, che non sopporto nessuno, significa che devi essere davvero molto speciale» continuava a sorridere con velato sarcasmo, grata di aver spostato il faretto sul rosso, ma un pizzico di sincero calore le scaldò lo sguardo ceruleo. Certo che Dakota era speciale, era il suo Grifolasagna. «per inciso» corrugò le sopracciglia, ammonendolo con l’indice. «non approvo. Non so chi sia, ma non approvo. E, sempre per specifica» sistemò le tazze, sbattendo con violenza l’asciugamano sopra il bancone. «la mia non approvazione riguarda più il fatto che non ti apprezzi, cosa alquanto improbabile secondo il mio non troppo modesto parere, piuttosto che per il giro di droga- IL QUALE, COMUNQUE, deve smettere. Qualunque sia il tuo ruolo in questa storia. Non scherzo Wayne» Si portò le dita davanti agli occhi ed indicò il giovanotto, seria e decisamente determinata.
    Quando Dakota le passò la metaforica palla feels, alzò una mano e scosse il capo. «nope, è ora di tornare a casa» giusto per suonare melodrammatica, fece tintinnare le chiavi nel palmo, indicandogli di prendere baracche e baracchine. Adesso, chissà dove stava Dakota nelle vacanze: a Hogwarts? O già da Maeve? O dagli Spankman? Non ho voglia di rileggere sopra, quindi andiamo a fiducia. #wat «mettiti la sciarpa – e il cappello, signorino. Raccontami questa storia della droga mentre ti accompagno a casa» lo spinse verso l’uscita, sapendo che il proprio passo era più leggero rispetto a quando era entrata. Con Dakota era sempre così. Era in grado di toglierle parte del peso che la schiacciava al suolo, e di sorridere nel mentre: visto, Viso d’angelo? Non fa più così male, adesso. Era così che Maeve aveva capito di aver bisogno di lui: insieme, Maeve e Dakota, avrebbero potuto cambiare il mondo.
    Era sempre un po’ più facile respirare, quando aveva il Grifontonto al suo fianco. «E chi è lui? lo conosco?» Fu con il primo accenno di risata, sincera ed allegra, che Maeve chiuse la porta di Madama Piediburro (Maeve vive sulle vite amorose altrui since 1996). Mossa intelligente quella del Grifo: passare dall’omicidio a quello, rendeva molto più semplice accettare la questione droga.
    Questo, ovviamente, perché ancora non sapeva si parlasse di JASON MADDOX.
    Ah, quanta beata innocenza.


    maeve winston - BUT YOU CAN LAY WITH ME SO IT DOESN'T HURT

    © psìche, non copiare.


    Beh. BUON NATALE #wat
     
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