Posts written by r.h.

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    rea
    hamilton
    «Cosa vorresti in cambio del tuo aiuto?»
    Un’altra persona, forse, avrebbe potuto ritenersi offesa da quella domanda. Come, non era forse stata Rea stessa, poco prima, ad offrire il proprio denaro in cambio di nulla nel nome del legame fraterno? Sì, vero; no, non era offesa. I soldi erano una merce di scambio illusoria, perché ne aveva e non sapeva che farsene, continuando ad accumulare per il puro piacere di farlo. Il suo tempo, invece, era prezioso, così come la rete di contatti che si era creata negli anni, e che Jade le domandasse cosa volesse in cambio, era solo un segno di quanto la conoscesse bene. Sorrise, la Hamilton. Il tipo di sorriso che sembrava appartenere ad una Rea diversa, quella che in pochi conoscevano ed ancor meno potevano prendere sul serio, senza sentire sulla lingua il sapore rancido del sangue. L’unica vera merce che per l’illusionista valesse la pena mettere sul campo, era «un favore» mormorato in tono basso e dolce, languide ciglia brune a sfiorare le guance. Era indefinito, e non aveva scadenza. Avrebbe potuto usarlo in qualunque momento, per qualsiasi causa, e Jade sapeva che gli scambi con la Hamilton non fossero mai equi, e che ogni favore a lei dovuto fosse un passo verso l’inferno. Ci sarebbero andate insieme in ogni caso, tanto valeva saltare uno scalino o due in favore dell’amore. Un termine che trovava venisse usato con troppa leggerezza, dalle persone. Quasi non si rendessero conto fosse solo un altro tipo di manipolazione, e della peggior specie, perché spingeva a voler essere usati, pur di dipingere un sorriso o avere una risata. Tipico del tirare fuori la parte peggiore delle persone, piuttosto che la migliore – quello dipendeva solo a chi si affidava il proprio cuore. Al mondo, c’erano più Rea che Elijah, per offrire un esempio casuale e nient’affatto personale. Accettare quel baratto, richiedeva disperazione o fiducia. Era un eccellente metro di paragone per valutare la mentalità del proprio interlocutore, fare due calcoli e trarne le somme – in linea generale, perlomeno. La bionda avrebbe solamente dovuto fidarsi che non le avrebbe chiesto qualcosa di troppo estremo come sacrificare il proprio primogenito, e Rea non l’avrebbe fatto. Eugene Jackson, invece, trovava ancora potesse essere terreno di compromesso: Gemes Hamilton, legato a doppio filo alla vita di Euge, le piaceva; non le piaceva così tanto, però.
    Le fece strada verso la stanza dei giochi, aprendole la porta ed invitandola a proseguire prima di lei. «Mentre mi fai il culo ma fingo stoicamente di poter resistere tutto il giorno, potresti dirmi i casi più belli e i casi più assurdi che ti sono capitati. Mi aiuterebbe a decidermi» Piegò il capo sulla spalla, osservandola mentre procedeva. Quando fu all’interno della sala, chiuse la porta con un tonfo secco e risoluto. Si prese un paio di secondi per inspirare profondamente, lasciando che i brandelli di magia di quelle pareti le si appiccicassero alla pelle come rami d’alberi estinti. Avevano tutti un sapore familiare, ed uno storico preciso: sapevano di rabbia, e violenza, e tutto ciò che di negativo alimentava l’animo umano.
    Rea si sentiva a casa. Regina di tutto ciò che tormentava l’uomo dall’inizio dei tempi.
    Passò la lingua sulle labbra, assaggiando quel che la casa aveva visto e vissuto. Fantasmi, perché di quel che erano stati lì dentro, non era rimasto nulla. L’individuo aveva la terribile, noiosa abitudine di essere in continua evoluzione, cambiare e dimenticare quel ch’era stato. Quel che meno comprendeva della psiche, era come potessero lasciar andare la rabbia, espirarla come se mai fosse stata propria, anziché arrotolarsela al petto e renderla spinata. «li trovo tutti assurdi. Tendono a giustificarsi, sai. Quando ti chiedono di recuperare un artefatto. Spaventare qualcuno. cacciare» Fece scivolare il dito sul muro, osservandone distratta gli angoli. «come se le loro storie potessero interessarmi. Non lo fanno» chiarì, con l’ombra di un sorriso, caso mai Jade pensasse avesse deciso di dedicarsi alle favolette dei buon pensanti. «lo fanno i loro segreti, però. E più cercano di tenerli al sicuro, più emergono in tante, tante cose.» Un tono riflessivo e logico, quello della Hamilton, levigato da qualsiasi emozione. Professionale. Era già lavoro. «mi pagano per mantenerli» c’era poco del prezzo dell’oggetto concreto, nella parcella dell’Hamilton anche perché non erano i soldi ad interessare i suoi clienti, altrimenti non ne avrebbero spesi per lei. Volevano… vendetta, qualche volta; sentirsi migliori, o al sicuro. Volevano emozioni legate a quel libro, o quel cimelio di famiglia. Volevano vincere, e sapendo di non poterlo fare, compravano qualcuno che lo facesse per loro. «come pensi che molti ministeriali abbiano mantenuto il loro posto negli anni?» Liquidò la faccenda con uno sguardo allusivo alla bionda, sopracciglia arcuate. Percorso il perimetro della stanza, si ritrovò ancora al fianco della Beech, ma dalla parte opposta. La osservò un paio di secondi, misurandola. «cercano di fare lo stesso con te. Usare i tuoi segreti. Le tue paure» spinse tentativamente il proprio potere verso la ragazza, cercando fessure in cui infiltrarlo per farle percepire la sensazione di dolore. Sordo, secco – innaturale, così che si rendesse conto fosse esterno e non temesse un infarto – al petto. A stringere, e stringere.
    «i clienti di lusso, lo fanno per la propria reputazione; il basso rango, perché vuole pagare la metà di quanto vali» Ne cercò lo sguardo, attento a non toccarla. Quando le pose la domanda successiva, lo fece impregnandola di potere, lasciando che scivolasse morbido dalla gola come acqua e miele. «di cos’hai più paura?» Addestramento, certo – ma qual era il punto di avere una sorella maggiore, se non ti terrorizzava almeno un po’.
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    Erano proprio modellate in modo diverso, Rea e Jade. Non avrebbe dovuto stupire che fossero diverse, era palese nel modo stesso in cui interagivano con il mondo circostante, ma era comunque sempre strano rendersi conto che pur condividendo un passato insieme, i risultati fossero così distaccati fra loro. Davvero credeva che fare il mercenario non implicasse una carriera? Il sopracciglio della Hamilton scattò verso l’alto, pregno di giudizio ed arroganza nei confronti della minore. Sorseggiò lenta altro vino senza mai distogliere lo sguardo dagli occhi chiari della bionda, permettendole di elaborare da sé quanto appena detto, e riconoscere l’errore. Non era solita concedere margine di dubbio ai suoi interlocutori, o riconoscere che avessero le competenze adatte per correggersi, ma per Jaden Beech avrebbe sempre fatto un eccezione. Stava ancora attendendo la consapevolezza che avesse scelto di unire la sua vita a quella della minor forma conosciuta di uomo appena evoluto – non si smetteva mai di sperare. - ma continuava comunque a concederle possibilità di redenzione su altri campi.
    «ma davvero...» strinse le labbra fra loro, battendo languida le ciglia nel posare il calice sul tavolo. Le sfuggì l’ombra di un mezzo sorriso accondiscendente, la lingua a seguire l’arcata dei denti. «e come pensi che sopravvivano i mercenari,» Lasciò affiorare la smorfia apparentemente divertita, indurita appena dal disappunto. Non aveva realmente messo mano nel crescere Jade, era stata una comparsa e certo non un modello di riferimento, ma sperava davvero avesse visioni più ampie. «rispondendo ad annunci su craiglist?» Voce melliflua, che Jade avrebbe facilmente potuto riconoscere come monito. «lasciando il proprio bigliettino da visita in discoteca?» Le scoccò un’occhiata severa, le dita a seguire il cerchio di condensa che il calice aveva lasciato sul legno ed un liquido sospiro a rotolare dalle labbra dischiuse. «jaden.» punto. Non riteneva il giudizio della Beech offensivo nei propri confronti – Rea sapeva di essere eccezionale in qualunque campo, e che il suo successo non dipendesse dal campo in cui sceglieva di applicarsi – ma comunque troppo superficiale per essere adatto al mondo in cui vivevano. «servono reti di informazioni, contatti. Stabilire fiducia. Una fama che va mantenuta discreta» Tamburellò le unghie sulla superficie di fronte a sé, concludendo con un tic cristallino del mignolo. «al contrario: è uno dei pochi mestieri dove hai bisogno di fare carriera. E dove puoi contare unicamente sulle tue capacità» Curvò la bocca in una smorfia, studiandola da sotto ciglia scure. Tendeva a dimenticare che Jade arrivasse da una famiglia purosangue, ed una ben inserita all’interno del mondo magico. Il fatto che lei volesse una vita diversa, non cambiava il fatto che avesse più possibilità rispetto a molti altri – perfino avendo perso i poteri; addirittura, con un figlio special a carico. «sai chi arrotonda con lavoretti da mercenario?» Si sporse in avanti, poggiando il mento sul pugno serrato. Attese una manciata di secondi, conscia che la Beech fosse perfettamente in grado di rispondere a quella domanda senza la sua specifica, ma in un mormorio la fece comunque. «i disperati» Ovverosia, coloro che alla propria vita tenevano così poco da accettare di fare lavori che altri non avrebbero fatto, e con possibilità inferiori di guadagno.
    Ma ad ognuno il suo.
    «non scherzavo. Posso trovarti un ingaggio» Alzò gli occhi al soffitto, spostandoli poi verso la porta che conduceva al suo inferno personale (la cantina di Elijah, da cui proveniva la risata cristallina di Uran come in qualsiasi film dell’orrore che si rispettasse). «anche subito, se non hai da fare» sorrise, più calda e sinceramente divertita di prima. C’era forse un miglior modo di fare bonding time con la propria sorellina, che andando a caccia di mostri? «ma non prima di essermi assicurata il tuo livello di addestramento» e detto ciò, si alzò in piedi, sciogliendo i muscoli del collo con un liquido sospiro. Le indicò con un cenno la porta che affacciava sulla stanza della casa adibita proprio a quello – allenamento, magico o meno che fosse – e che avrebbe impedito danni collaterali alla sua umile dimora. «ti va?»
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    Era difficile per Rea Hamilton evitare i suoi usuali giochetti mentali. Le venivano naturali come respirare, forse perfino un po’ di più: creare pattern, misurarne la texture fra le dita, e tirare appena, guidando la conversazione o cercando di capire dove l’interlocutore volesse andare a parare. La spontaneità non era certo una delle doti (punto) migliori dell’illusionista, i cui occhi scuri mostravano genuinità solo nello studiare l’espressione di Jaden Beech cercando il sottinteso di una conversazione che non ne possedeva. Perchè quella, era Rea – sospettosa di natura, incline a girare attorno a tutto quel che incontrasse sancendo dall’inizio la divisione preda e predatore anche quando non ce n’era alcun bisogno. Era sempre stata quel tipo di persona; difficile perdere l’abitudine del selvatico perfino con chi l’aveva, suo malgrado, addomesticata da un pezzo. «avevo già considerato Elijah, ma in realtà Uran a settembre potrà iniziare ad andare a scuola» Brividi. Letteralmente brividi a correrle lungo la schiena, e labbra imbronciate nascoste sul calice di vino. Era appena nato: lo ricordava deforme, tutto rosa e piangente, con quelle rughe insulse che avevano sempre le creature appena venute al mondo. ”Puoi prenderlo in braccio, se vuoi”, le aveva detto una divertita Beech; ”passo”, era stata l’emblematica risposta della ancora cacciatrice, che non teneva affatto a stringere quel verme imberbe contro il petto – con il rischio di farlo cadere; di stringerlo troppo, o non farlo abbastanza; di sporcarlo con mani che pulite non lo erano da che aveva appreso di possedere la magia. Ma quello andava non detto, mai necessario specificarlo. Fra lei e Dio, come avrebbe detto un saggio. «con i cambiamenti che ci sono stati, non sarà troppo difficile trovare un posto per lui, anche nel mondo magico» Le sembrava molto ottimista in merito. La Hamilton credeva in quel cambiamento, certo, perché sapeva che il terrore suscitasse più rispetto ed ordine di quanto qualunque altra emozione avrebbe potuto creare – e la follia generava sempre paura – ma non credeva non sarebbe stato troppo difficile. I maghi avevano seguito la guerra di Abbadon per abitudine, per primeggiare, perché la conquista veniva sopra tutto al resto, ma non si erano resi conto di quello che avrebbe significato. E l’avrebbero dimostrato, sottostando alle regole nel peggior modo possibile senza però esporsi troppo.
    L’avevano sempre fatto.
    Annuì piano, senza celare il proprio scetticismo. «posso farlo, e voglio farlo. Mi sentirei più libera a mollare se mi rendessi conto che è la strada sbagliata, o se non porterà a niente» Un discorso che poteva comprendere, anche se ormai Rea era a quel punto della sua vita in cui possedeva abbastanza denaro da vivere di rendita, e lo accumulava per abitudine. Non ne avrebbe sentito la mancanza. La moneta di scambio del mondo, perlomeno il suo, non era mai stato qualche galeone, ma scelte. Si strinse nelle spalle senza aggiungere altro, neanche che non le sembrasse lo stato mentale corretto con cui iniziare quell’avventura: se il pensiero di poterla abbandonare la aiutava ancora prima di iniziare, chi era lei per rovinarle l’entusiasmo? Di nuovo, scelte. Jade e Rea non avevano mai avuto nulla in comune, e dubitava avrebbero cominciato in quel momento. E oh, come la adorava comunque. In quella maniera feroce e possessiva con cui sbranava moralmente Amos ogni giorno – quella difficile da sostenere, e la più reale che avesse. Era, tristemente, affezionata anche ad altri individui, personaggi purtroppo non fittizi che considerava parte della sua famiglia, ma non con Nate, Elijah, Eugene, o Gemes – figurarsi Al. - provava quel senso di appartenenza. Era diverso. Amos e Jade erano gente a cui Rea era capitata, e se l’erano tenuta lo stesso. Gli altri se l’erano cercata, quindi affari loro. «ma ho ancora qualche mese per decidere, e il mio compleanno cade prima del pagamento della prima tassa, se non sai cosa regalarmi» Liquidò il discorso con un vago cenno della mano, corrugando le sopracciglia. Non era in vena di essere nuovamente ricordata del lento ed inesorabile scorrere del tempo, e che la sua mini sorellina – madre. - fosse in procinto di compiere ventisette anni. Era un inetta palla ciuffata di biondo quando l’aveva conosciuta.
    Ebbe il terribile e cruento reminder che una delle creature che si millantava suo migliore amico, avesse frequenti rapporti sessuali con la inetta palla ciuffata di biondo, e decise fosse il momento di riempirsi nuovamente il bicchiere fino all’orlo. Ormai il vino non le faceva alcun effetto, tanto valeva abbondare. Si sporse per afferrare la bottiglia, inclinandone il collo sul calice ed offrendolo alla ragazza con un cenno. «Euge ci scherza su da anni, Uran è diventato grande e- non lo so. È una sensazione strana. Mi sono resa conto che anche a me piacerebbe avere un altro bambino per casa, questa volta facendo le cose... per bene» Non attese risposta, scegliendo fosse il momento adatto per svuotarla. Era stata lei a sollevare l’argomento, e non voleva già più saperne niente. Jaden Beech voleva un altro figlio. Non era stato abbastanza traumatico averne uno? Perchè mai due. Cosa se ne faceva. Voleva un… bambino per casa, e volontariamente? Qualcosa che non comprendeva, e che affogò in un altro sorso, incitandola a non farsi problemi e continuare con i discorsi su come non vedesse l’ora di avere un altro verme color salmone a cui cambiare il pannolino (caio Dave, ciao Niamh, non penso nascerete mai. Con affetto, mamma). «Ma la gravidanza non mi manca, quindi stiamo considerando l'adozione» Ecco.
    Ecco.
    L’idea di plagiarsi un essere umano a sua immagine e somiglianza, non le dispiaceva per niente. Per quello il suo commento – asettico, e ruvido – fu un assente «ci sono tanti orfani di guerra» privo di qualsivoglia genere di emozione. Le importava? Non quanto avrebbe dovuto: se i genitori non erano stati abbastanza forti da sopravvivere alla guerra, non sarebbero stati in grado di crescere figli che lo potessero fare. Pragmatica, sleale e crudele, ma perlomeno sincera. «avere a che fare con adulti è peggio di addestrare adolescenti» Battè le palpebre, osservandola da sopra il calice trasparente. Rea raramente aveva problemi con le persone, perché tendeva a risolverli prima che diventassero tali.
    Nel peggior modo possibile. Quello permanente, fosse terrorizzandoli o uccidendoli poco importava. Piegare gli altri, non era mai stato difficile; quasi noioso. «ma di certo non ti annoieresti come istruttrice, e faresti qualcosa di utile. Ho sempre trovato i pavor uno spreco di risorse. prendono un sacco di fondi pubblici quando al mondo ci sono problemi più grossi» Roteò lenta il liquido scarlatto, l’espressione vacua di ogni pensiero. Il Ministero avrebbe voluto che l’opinione pubblica non la pensasse così, e si impegnavano da anni perché la Resistenza fosse il nemico comune contro cui allearsi sotto una stessa bandiera. Difficile trovare un civile che fosse d’accordo con la Beech, considerando che su di loro pesavano condanne anche per reati che non avevano commesso – era una mercenaria, ed aveva ancora legami al Ministero: c’era poco che la Hamilton non sapesse – anche comprensibile. Decise di non indagare oltre; si meritava, di non indagare oltre. «un’intera classe di persone che fanno quello che dico io? allettante» soprattutto, non diverso da come aveva agito gli anni passati, ma quello forse la sorella non lo sapeva. Avrebbe creato dei legami utili anche fuori dalle classi, sempre utile. Puntellò la lingua contro il palato, spostando gli occhi scuri al soffitto. «Ho sentito che alcune... creature usate durante la guerra sono ancora a piede libero, che il ministero ne ha perso il controllo e sta mandando squadre di cacciatori ad abbatterle con scarso successo. ma potrebbe essere solo una voce» Oh, Jade. Tornò a guardarla, l’angolo sinistro delle labbra a curvarsi in un sorriso. Perso il controllo? La voce della Hamilton si fece dolce, melodica. «non hanno mai avuto il controllo. Abbadon, lo aveva. E ora, semplicemente, non sanno come comportarsi in merito – in via ufficiale» concesse, reclinando il capo. «si chiedono se possono uccidere gli animaletti del loro nuovo dio. I cacciatori tendono a … contenere i danni, senza avere spazio di manovra» A meno che Akelei non fosse impazzita ed avesse deciso di testa propria; non si sapeva mai, stava per sposare William Barrow, tutto poteva essere. La sua salute mentale era già uno scandalo. «ma contattano i mercenari per occuparsene» almeno, a lei l’avevano chiamata, ma non era fatta per uccidere quel tipo di mostri: a lei piacevano quelli senzienti che sapevano d’esserlo, non quelli che lo erano per natura. «sei interessata? Posso trovare qualche aggancio» Ad ognuno i propri passatempi.
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    Fece roteare il contenuto del bicchiere, un sopracciglio a scattare verso l’alto e lo sguardo a posarsi sul volto di Jade. Rea Hamilton era per la cultura, ma non era mai stata un’ammiratrice dello studio di per sé. Mai aveva contemplato l’idea di tornare, volontariamente, dietro i banchi di scuola, neanche per approfondire un argomento che le interessasse – trovava che le accademie perdessero troppo tempo dietro contorni ed antipasti, riempiendo lo studente prima che potesse servirsi con la pietanza per cui aveva sborsato tutti quei soldi. Era più da università della strada, anche se non bazzicava gli stessi sotto borghi del Jackson et simili (derogatory). Abbozzò un sorriso che diceva ”contenta tu”, e inumidì le labbra con il vino. «mi piace essere un'assistente, ma combattere non è mai stato il mio lavoro dei sogni» «un passatempo» concesse, un guizzo divertito negli occhi bruni, perché combattere (leggasi: picchiare le persone) era sempre stato più un hobby che non un mestiere, per la Beech. Poteva anche essere brava nel farlo, ma non voleva dire nulla: Jade era brava a fare un sacco di cose, fra cui certo non si annoverava il suo buon gusto per gli uomini, ma non significava che dovesse farle. «col fatto che ho continuato a lavorare pur prendendo gli assegni dal ministero, potrei riuscire a pagarmela da sola senza dover chiedere a mamma un aiuto - se non con uran. Devo solo mettere a posto le idee e... decidermi. Tu che mi dici di te?» Una domanda complessa per la quale decise di prendere altro tempo, ingollando un sorso più importante della bevanda alcolica. Disegnò con la punta dell’indice il contorno del bicchiere, prima di posarlo sul tavolo di fronte a sé. «posso aiutarti io, lo sai vero?» Suonava come un rimprovero perché lo era, ed il tono vibrava di parzialmente offeso perché era anche quello: aveva davvero valutato di chiedere a sua madre prima che a lei? Non le avrebbe neanche offerto denaro gratuitamente, conscia che Jade non lo avrebbe accettato – neanche se le avesse ricordato che il suo pagamento più grande fosse il fatto che si sorbisse quotidianamente Eugene Jackson, e lo malmenasse quando necessario: qualcuno doveva farlo, ed era onorata fosse la sua sorellina. - ma chiedendo in cambio favori. La sua moneta di scambio preferita. Trattare con Rea Hamilton era sempre un po’ come vendere la propria anima al diavolo, ma il detto diceva meglio il diavolo che si conosce, no? Poteva essere perlomeno certa che in cambio non le avrebbe chiesto né la sua anima, né – che Dio ce ne scampasse – il suo primogenito, perché aveva già abbastanza bambini per casa senza appiopparsi quelli di Jade. Insomma, le sembrava un affare. «non per uran. Ma posso trovare qualcuno che lo faccia. Finché non diventa pg vero, elijah non ha un lavoro – dopo possiamo pensare a qualcuno di più permanente» una pausa, sguardo sollevato al soffitto. «non io. Amos magari conosce qualcuno» sperava non i due toyboy con cui condivideva l’appartamento, perché c’erano limiti ai daddy issues che la Hamilton era in grado di tollerare, e già Amos li superava tutti – ma beh, almeno lui era suo fratello.
    Una pausa. Palpebre serrate, ed un respiro profondo. Una domanda che sapeva di dover fare, ma di cui non voleva davvero sapere la risposta. Si convinse con un altro sorso di vino, abbondante. «è vero che avete altri figli in programma?» perché Elijah gli aveva detto che Eugene Jackson progettasse di rimanere incinta, e Rea aveva deciso di non voler sapere che conversazioni avessero i suoi amici. Uomini, derogatory, bla bla bla.
    Lei che diceva? Mh. La guerra aveva… certamente ampliato i suoi orizzonti. Reso più lucroso essere mercenari, perché il contrabbando – che aveva resistito durante tutta la guerra – andava ancora per la maggiore, ma l’idea che potesse finalmente riprendersi il posto che le spettava, non le dispiaceva. Avrebbe arrotondato lo stipendio, ampliato la sua rete di conoscenze, ed arricchito i suoi contributi pensionistici. «pensavo di tornare al Ministero» un tono distratto accompagnato da un’occhiata attenta, un po’ troppo attenta, verso la bionda. La studiò di sottecchi, ponderando come – e se – proseguire, bagnando la gola con altro vino.
    Biasimava quella nuova tendenza all’alcolismo a Elijah Dallaire; era per ripicca che Rea beveva, sapendo lui non potesse farlo.
    «tornare fra i pavor, magari» un altro barlume divertito a solleticare gli angoli delle labbra. «istruttori, perché no. Non mi piace l’idea di avere un superiore» soprattutto se quel superiore era Nathaniel Henderson. «ma sono… tentata» dall’idea di poter bullizzare tutti i maghi presenti, e prendersi la sua vendetta? Esatto.
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    «hai compagnia» Rea Hamilton tamburellò le unghie laccate di nero sul legno della porta. Spalla poggiata all'uscio, le dita ad indugiare sul mogano seguendone ogni linea. Occhi bruni posati distrattamente sui bracciali d'argento al polso, prima di sollevarsi e scendere le scale, posandosi sul volto di Eliah Dallaire. Gli sorrise, Rea; labbra morbide e curvate verso l'alto. Neanche un rimpianto sul volto della donna, nello spingere delicatamente la testa bionda di Uran verso zio Eli!.
    Lo stesso zio Eli che in un momento non meglio precisato della linea temporale, Rea aveva deciso fosse una minaccia alla sua incolumità, troppo auto distruttivo per essere lasciato a vagare nel mondo senza un occhio vigile a tenerlo costantemente sotto controllo. Non aveva più tempo per essere lei quello sguardo, e non si fidava abbastanza di Nathaniel Henderson perchè potesse essere il loro. Non quando in gioco c'era la sua vita: l'aveva rischiata e messa sulla linea, per Eli; non avrebbe commesso due volte lo stesso errore.
    Sfarfallò i polpastrelli salutando il bambino ed il Dallaire. Richiuse la porta alle sue spalle, poggiandovi la schiena e reclinando il capo sulla spalla, ammiccando da sotto ciglia scure alla sua sorellina - sfidandola a dire qualcosa, se avesse voluto; ma perché avrebbe dovuto, quando sapevano entrambe quella fosse la scelta più razionale e sensata. Le indicò con un vago cenno della testa di seguirla, i tacchi a tenere il tempo dei passi sul parquet del corridoio.
    Una casa deserta. Da un pezzo, oramai. Enorme, e con pezzi di storia incastrata ovunque, ma vuota. Non c’erano neanche più i fantasmi dei loro abitanti passati ad infestarla ricordando costantemente quanto nel tempo avesse perso. Solo Rea, e la sua presenza ad impregnare ogni pezzo di parete e mobilio: preziosa; intoccabile. Si lasciò seguire fino alla cucina, dove no, non aveva messo su l’acqua per il tè, perché dubitava esistesse una conversazione al mondo oramai che non meritasse dell’alcool. Svitò il tappo del vino, un plop a cui la Hamilton risposte schioccando la lingua sul palato.
    Riempì due calici ben oltre il limite moralmente stabilito dalla società.
    Era in famiglia. Poteva permetterselo. E se lo meritavano entrambe, una serata fra donne e senza bambini in circolazione; magari prima o poi avrebbe anche capito come fosse successo che si fosse innamorata di Eugene Jackson. La invitò ad accomodarsi dalla parte opposta alla sua, i gomiti sul tavolo e le gambe incrociate. Un vago cenno delle dita nella sua direzione.
    «dicevamo?»

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    Non odiava Amos. Non aveva neanche mai provato a farlo, nonostante la mera esistenza di suo fratello la turbasse. Per abitudine e noia, negli anni si era … tristemente affezionata ad individui oltre a se stessa, ma con nessuno di loro – neanche chi si era dimostrato troppo stupido ed inetto per sopravvivere a se stesso – aveva mai provato quel senso di morbida vulnerabilità. Quella tenerezza che la spinse ad assottigliare le palpebre ed indurire lo sguardo, perché il bisogno di proteggere le parti molli era talmente integrato nel suo istinto da non darle scelta. Nathaniel, Eugene e Elijah erano la sua famiglia. Jade, era la sua famiglia. Gemes e Jay.
    Ma con nessuno di loro si sentiva responsabile quanto con Amos Ryder Hamilton. Non era una questione di sangue, non aveva mai creduto bastasse a fare di loro un qualcosa, era più un… averlo coscienziosamente abbandonato quando aveva avuto bisogno di lei. Un averlo visto piccolo, invisibile; avergli stretto l’indice paffuto nel palmo, e non aver mantenuto nessuna delle promesse sussurrate alla culla. «ehi» picchiettò con l’unghia del medio la guancia del fratello, pungolandolo fino a farlo girare verso di lei. Lo studiò, da debita distanza di sicurezza, ingoiando il veleno che sentiva già prodotto dalle zanne in favore di un tono non letale, seppur non meno tossico. «cos’è quella faccia» Amos sapeva che se non le fosse interessato il muso lungo, non gliel’avrebbe chiesto: era esattamente il tipo di persona da convenevoli e sorrisi velati, ma non con lui.
    Mai, con lui.
    «diciamo che non ha funzionato, tra di noi. volevamo cose diverse e....pensavo di essere pronto ma non lo ero» Non si finse dispiaciuta per qualcosa per la quale non lo era. Fece spallucce, liquidando la questione con un cenno della mano, ed aprì bocca per enunciare quanto Brandon Lowell fosse un fallito e certamente sarebbe stato più felice senza di lui, quando «forse era la persona sbagliata, o forse lo sono io». Sbuffò l’aria fra i denti, alzando gli occhi al cielo. Non lo interruppe, perché chiaramente aveva qualcosa da dire – qualcosa che, di parola in parola, le piaceva sempre meno. «ma lo sai che non sono bravo a dire di no alle persone, e l'ho tirata per le lunghe.....ho fatto più danni che altro, alla fine» Oh no, aveva spezzato il cuore di Brand? Accipicchia……… moving on. Letteralmente a nessuno, men che meno alla Hamilton, interessava nulla del metamorfo. A Nathaniel probabilmente, forse – era un grande forse – a Jericho, ma per quanto le andassero a genio entrambi, non erano una motivazione valida per il senso di colpa a pesare sulle spalle di Amos. D’altronde, non era colpa loro se il sangue del loro sangue era un inetto; l’aveva detto spesso anche a Jane e Arabells. «volevo tornare a casa ma-» Ma? Inarcò un sopracciglio. «non lo so, mi sentivo un fallimento così, tornare qui sarebbe stato come ammetterlo a tutti»
    Rea Hamilton battè le palpebre.
    Una, due, forse cinque volte, nell’osservare impassibile il fratello. Non era tornato a casa perché… la sua stupida relazione, con individuo altrettanto stupido e, per di più, ricercato, non era andata a finire bene…? Cos’aveva, dodici anni? Distolse lo sguardo dal volto di Amos, perché sapeva che l’altro vi avrebbe letto tutto, e l’avrebbe interpretato male. Cioè, bene, perché lo pensava davvero, ma non… come l’avrebbe capito lui. Inspirò. La diplomazia era il suo forte, ma tendeva a riservarla solo agli sconosciuti, ed a quelli che effettivamente le servivano. Le serviva Amos? No. Ma lo voleva nella sua vita, ed era una sensazione abbastanza nuova da costringerla a deglutire parte dell’armatura in favore di un sospiro triste ed arrendevole.
    Non voleva spaventarlo.
    Non voleva se ne andasse di nuovo.
    «sei un hamilton» gli disse solamente, senza guardarlo. Tono basso, parole calibrate, voce liscia come seta a scivolare sulla pelle. Suonava come una minaccia, perché la era. Semplicemente, non per Amos. «non puoi essere un fallimento» e per lei, la questione poteva chiudersi lì. In quelle poche parole, c’era quanto bastava a dire tutto il resto (sei mio fratello; chi cazzo se ne fotte di Brandon; una relazione non conta nulla nel grande piano della vita) ma visto che Amos, malgrado il suo ottimismo, di lei e nei suoi riguardi tendeva sempre a leggere il peggio, si schiarì la voce. «sei stato coraggioso a provarci» in tutti i sensi. Chi cazzo se lo prendeva quel fu ippopotamo che aveva lasciato in Burundi. «se non ha funzionato, è colpa» e merito. Bless. «di entrambi.» quello era quanto la sua comfort zone gli permettesse. «magari è vero che sei un problema» accennò un sorriso ironico, curvando appena gli angoli delle labbra.
    Ed allungò una mano, esitando su quelle di Amos prima di decidersi a stringere l’indice come faceva lui da neonato. «puoi rimanere il mio, se vuoi» per quanto tempo avesse voluto. Poteva rimanere e basta, quella volta. Magari non per sempre, ma almeno per un po’. Tacque una manciata di secondi.
    Decise di biasimare il battito Dallaire ed Henderson nel costato, nel sospiro più morbido di tutti con cui soffiò l’impercettibile «mi sei mancato anche tu»
    "a bad bitch like me is going through some emotions rn but that's ok 'cause i'm still bad"
    - rea hamilton, 31
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    True friends stab you in the front
  7. .
    "massi sapete cosa si vive una volta sola"
    sara, segnando il 27esimo wip senza neanche aver finito il censimento di due (2) mesi con venticinque (25) pg. non mi interessa neanche più essere giudicata, avete tutto il diritto di farlo. un bacio a tutti

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    Right in the feels. Rimase ferma un paio di secondi senza ricambiare l’abbraccio, perché quella era la persona che era, ma non resistette a lungo prima di lasciarsi sfuggire un sospiro stanco, le braccia a stringersi attorno alle spalle di suo fratello. Non sarebbe sincero dire che le venisse naturale, Rea Hamilton aveva sempre dimostrato il proprio affetto in altri modi, ma per quanto forzato non significava che non le facesse piacere; che non lo volesse, sentirlo vibrante di vita contro il proprio petto, un uccellino scombussolato da un’esistenza che non l’aveva mai capito. Era la sua famiglia. Aveva … discutibili amicizie che avevano finito per diventare parte delle sue giornate, certo, e aveva Jade, ma non avrebbero mai potuto sostituire Amos – e viceversa. Aveva creduto per anni di averlo perso per sempre.
    «scusami»
    Lo strinse un po’ più forte, la testa poggiata sulla sua spalla. Non hai niente di cui scusarti, e per quanto vero sarebbe stato ammetterlo, Rea non lo pensava davvero. Credeva che ci fosse una marea di motivi per cui l’Hamilton minore dovesse chiedere scusa, ma si trattava di giustificazioni così egoiste, e meschine, che decise di mordersi la lingua e non dire nulla, accettando quelle scuse nel modo che le veniva più congeniale – senza rispondere. «mi sei mancata» Anche tu, avrebbe voluto mormorare a bassa voce, un segreto confessato solo a lui. Se lo sarebbe meritato, se lo sarebbero meritato entrambi, ma sentiva quelle parole incastrate dietro il masso sotto il quale la Hamilton nascondeva tutto l’inappropriato - pesanti, dense. «ovviamente» bisbigliò invece, tirando gli angoli delle labbra nell’ombra di un sorriso. Si districarono dall’abbraccio, e nell’invitarlo ad entrare in casa, si soffermò ad osservare la bambina stretta al petto del minore. Voleva sapere? No. Avrebbe chiesto comunque? Probabilmente, perché la conoscenza – per quanto poco gradita – era importante, e certe cose bisognava saperle. Un altro sospiro a fior di bocca, palpebre pesanti sugli occhi cioccolato. «uh, si ecco, ho deciso di tornare. per restare» Gli diede le spalle, senza mostrare quanto quelle parole avessero colpito vicino a casa, laddove ancora sentiva di avere un cuore pulsante. Per restare. Una tacita promessa frugale e vulnerabile, perché non poteva prometterlo. Forse non ricordava più come fosse la vita dalle loro parti – caotica, pericolosa – né il motivo per il quale se ne fosse allontanato in primis; non sarebbe stata Rea a ricordarglielo, ma prese quelle parole con le pinze, concedendo solo un misero cenno con il capo. «lei è bollywood e- no, no, non mi guardare così non è mia figlia lo giuro» Ecco, visto? Non c’era neanche stato bisogno di chiedere. Lo sguardo scettico dell’illusionista si spostò su Bollywood, e lì rimase. «cos’è, allora?» Non chi, non dava quel genere di confidenza agli infanti. Non ne avevano già abbastanza in casa? Al ne aveva due, ed erano fissi da quelle parti. Saltuariamente, apparivano anche i due di Jay e Uran, e già le sembravano cinque bambini di troppo. Il sesto, assolutamente non sollecitato, le sembrava estremo. «ero a mumbai e una donna mi ha mollato la bambina in braccio sostenendo che fosse mia figlia. che è impossibile, perché sono gay» Spostò gli occhi dalla bambina al fratello, arcuando lentamente le sopracciglia. Amos era davvero… qualcosa. «e tu l’hai...tenuta» era una constatazione, ma anche una domanda, ed intrisa da uno scetticismo ruvido a cui Amos avrebbe dovuto riabituarsi in fretta, perché erano pochi altri i toni conosciuti ed usati da Rea, soprattutto fra quelle mura.
    Non la meritavano. Era evidente, non la meritassero.
    Gli fece cenno di sedersi, preferendo rimanere in piedi con le braccia incrociate al petto. «come stai? e gli altri?» Strinse le labbra fra loro, tentata di rispondere con un’alzata di spalle, o ricordandogli che avrebbe facilmente potuto saperlo se avesse chiamato più spesso, o se le conversazioni fossero durate più a lungo. Non lo fece solo perché era contenta, che Amos fosse tornato. Indipendentemente dalla durata del suo restare. «se vuoi qualcosa da bere, prenditelo» che era il suo modo, acido e velenoso, per ricordargli che quella fosse ancora casa sua. Che lo sarebbe sempre stata. «negli ultimi anni, al non è morto né è stato rapito, che come ben saprai è un record. Elijah vive qui» lo osservò truce, sfidandolo a fare domande in merito a cui Rea, prontamente, non avrebbe risposto. Chiuse la questione Dallaire passando ai cambiamenti più rilevanti. «jay si è trasferito con lydia con cash e tupp. Che sono… i loro figli, caso mai ti fossi perso l’aggiornamento» non era certa, come Sara, di quando se ne fosse andato Amos. «gemes vive con heidrun, e no, non si sono ancora sposati» Conosceva qualcun altro? Probabilmente sì, ma le informazioni della Hamilton erano piuttosto ridotte. «shia è shia» & that was that. «tu piuttosto? Te ne sai andato con il lowell per mettere su una fattoria, e sei tornato da solo e con una bambina rubata in india.» di nuovo: voleva sapere? (sì) No, ma non sarebbe stata Rea se non avesse chiesto ad Amos quali impegni l’avessero trattenuto dal tornare a casa – cosa fosse stato più importante di lei e loro.

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    OMG! Ho trovato la figurina di amos hamilton!
    link role: w rea
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    VA BENE UNA WE'RE ALL IN THIS TOGETHER anche con una ship war in corso
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    Le sue giornate preferite, erano quelle in cui aveva la casa tutta per sé.
    Come accadeva spesso, ormai, se proprio si volesse essere puntigliosi: con solo Elijah, occasionalmente Nate, ed Al con i bambini, ad infestare quelle mura, erano più i giorni in cui Rea aveva villa Hamilton senza condivisione, che il contrario. Talvolta lo trovava triste ed asciutto; altre, come quel pomeriggio, il paradiso in terra che negli anni si era meritata, considerando che per ottenerlo aveva perso il privilegio di entrare in quello dopo.
    Musica classica, e rilassante, ad echeggiare da una stanza all’altra. Candele profumate (di cui non poteva far uso quando in giro c’erano River e Flow, perché i gemelli avevano la tendenza a non tenere affatto alla loro vita: tutti il papà.) accese su gran parte delle superfici disponibili. Un tempo aveva preso anche il vizio di girare nuda per casa, giusto perché poteva, ma aveva smesso quando Al era rientrato in anticipo portando con sé il resto della sua famiglia, e Rea Hamilton era stata avvistata come sua madre l’aveva fatta, unico accessorio il Daiquiri fra le mani, da tutti i Crane – Quinn riuniti per un barbecue. Si era limitata a sorridere, fare un cenno con il capo, ed attendere che lasciassero la stanza.
    Ma non l’aveva più fatto.
    Ora, ad accompagnarla nei suoi pigri giorni di relax, c’erano una vestaglia leggera e morbide ciabatte in tessuto che, mentre come un fantasma si spostava dalla cucina alla camera degli ospiti, non facevano alcun rumore. Una delle cose che più la seccavano della presenza del Dallaire, oltre Elijah Dallaire in generale, era che avesse dovuto sacrificare le sue amate bottiglie. Anzi, ancora peggio, che volontariamente avesse rinunciato alla sua cantina, od alle vetrine con whisky di ogni provenienza in bella vista, perché intenzionata a supportarlo nel suo cammino verso la sobrietà.
    Quasi non si riconosceva più allo specchio.
    Ovviamente, non significava che avesse eliminato del tutto la presenza di alcool dalla casa, solo che avesse dovuto adattarsi, e mostrarsi più creativa: aprì lo scomparto segreto nel pavimento dell’armadio della sala degli ospiti, frugando fino a sentire il vetro della bottiglia. Soddisfatta, tornò in cucina per prepararsi lo screwdriver perfetto. Era brava, nella preparazione degli alcolici; richiedeva precisione, misure, e neanche un grammo dell’improvvisazione che sembrava invece essere necessaria nella cottura di qualsivoglia pasto. Quanto significava quanto basta riferito al sale, ad esempio? Ecco. Stappò la bottiglia con il pollice, e stava valutando, con testa pigramente reclinata sulla spalla, il livello che avrebbe dovuto raggiungere con il liquido trasparente, quando suonarono il campanello.
    Mh. Quello era un grande contro di avere tutta la casa per sé. Dover...aprire la porta. A… eventuali ospiti, con cui avrebbe dovuto mostrarsi garbata e affabile? Un incubo. Erano in momenti come quello, che le mancava Amos Hamilton.
    (o anche sempre, ma preferiva non pensarci: non aveva la più pallida idea di dove fosse in quel momento, se in Burundi o in Argentina, ma qualunque posto era meglio di Londra. Più stava lontano, meglio era – per entrambi)
    Attese qualche istante. Posò la bottiglia sul ripiano, sospirando nell’andare a vedere chi avesse osato disturbare la sua quiete così da poter decidere, in seguito, come vendicarsi di un simile affronto. Con la vestaglia ancora svolazzante, aprì la porta.
    Un giovane uomo.
    Una carrozzina.
    «buongiorno, sono-»
    Amos Ryder Hamilton.
    Con la stessa rapidità con cui l’aveva aperta, richiuse la porta in faccia a suo fratello.
    Battè le palpebre un paio di volte, osservando il proprio riflesso nel vetro opaco dell’ingresso. Non era credibile che l’illusionista cadesse in tranelli simili, quindi era del tutto certa di chi fosse il ragazzo ad aspettare sullo zerbino.
    Inaspettato.
    Non le piacevano le sorprese.
    Corrugò le sopracciglia, riaprendo seccata la porta d’entrata, tenendola spalancata con un braccio mentre analizzava le condizioni di Amos. Sembrava… diverso (haha) (necessaria.). Forse più abbronzato, più adulto, meno curve morbide e con qualche spigolo. «straniero» salutò impassibile, lottando contro il lieve sorriso che sentiva pungolare gli angoli delle labbra. Non era mai stata lei ad accogliere Amos le rare, rarissime, volte, in cui passava a trovarli; erano altri a fare gli onori di casa, a farlo accomodare mentre Rea veniva informata dell’inghippo, e poteva prepararsi psicologicamente a quale tipo di persona volesse essere. «quella rimane fuori.» indicò la carrozzina. «le ruote rovinano il parquet» ammise, arricciando le labbra; sì, la creatura poteva entrare, purtroppo. Si spostò per farli passare, studiandolo di sottecchi mentre la superava. «non è ancora natale. Perché sei qui?» una frecciatina perché il fratello si presentava alla sua porta solo quando costretto dalle circostanze? (Ovvio.) Figurarsi. Si avviò verso la cucina, intenzionata a proseguire nella preparazione del suo cocktail, e non si voltò per assicurarsi che Amos la stesse seguendo.
    Suo malgrado, lo faceva sempre.

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    nickname: r.h.
    gruppo: wizard
    link in firma? aswedrftgyu
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    CODICE
    [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/?t=56634035]Rea Hamilton[/URL]


    mercenario
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    personaggio:
    HTML
    [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/?t=56634035]Rea Hamilton[/URL]

    ruolo: paziente
    laboratorio: 1
    distretto: 1
    periodo: (dic. ‘13→ lug. ‘14)
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    personaggio:
    HTML
    [URL=https://oblivion-hp-gdr.forumcommunity.net/?t=56634035]rea hamilton[/URL]

    scuola: hog
    casata: serpeverde
    ripetente? nope
    anno di nascita: 1990
    nato dopo settembre? SI
510 replies since 11/2/2013
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