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  1. .
    mom!friend
    geokinesis
    calo di zuccheri
    oh, baby, it's a wild world
    murphy blue skywalker
    paris, FR | 07.02.2118
    time traveler
    «Ma è vero che hai viaggiato nel tempo?»
    Non era la prima volta che qualcuno le poneva quella domanda, e Murphy aveva ormai la rassegnata certezza non sarebbe stata l'ultima. «Affermativo.» rispose con un sorriso ed il suo francese tremolante, sulla lingua l'accento di un mondo completamente diverso che non le apparteneva più, e del quale non riusciva a liberarsi. Spinse la tazza di ceramica colorata sul bancone, tra le mani della donna con cui il piccolo stalker era giunto nella gelateria; sul volto dai tratti spigolosi, si leggeva chiaramente imbarazzo ed una muta richiesta di perdono, che la geocineta accolse con un altrettanto silente cenno del capo. Non fa niente, diceva quel movimento impercettibile, è solo un bambino. Che anche la madre sembrasse curiosa da morire, sotto una superficie di distaccata non curanza, evitó di aggiungerlo. Dopotutto, non era l'unica a voler sapere: si trovava costretta a vivere in quella Parigi lontana anni luce dalla sua realtà ormai da mesi, e agli sguardi avidi di sapere ancora faticava ad abituarsi. Come se l'avesse fatto con tutto il resto, poi. «E non ti mancano le persone con cui vivevi prima?» Infida bestiolina di Satana. Sapevano sempre dove andare a parare, i bambini, puntando dritto al cuore del problema senza tanti giri di parole o false premure a nascondere interessi strettamente personali. Non possedevano filtri, e forse era per questo che Murphy negli ultimi tempi li preferiva agli adulti: era stanca di dover leggere tra righe fittissime di discorsi solo apparentemente chiari, stanca dei sorrisi ipocriti e di quanto vi si nascondeva sotto. Soprattutto, era stanca di dover leggere nella testa delle persone, senza nemmeno la telepatia dalla sua parte. «Timmy, adesso basta!» Non tutti la pensavano come lei, alla fin della fiera. «No, va bene.» Liquidó la madre ansiosa con un cenno della mano, prima di chinarsi in avanti sporgendo il busto oltre al bancone, il tono di voce ridotto ad un bisbiglio; meritava quel segreto da custodire gelosamente, il piccolo Timothy, un premio speciale per non essersi fermato in superficie come facevano tutti. «Mi mancano tantissimo, sempre. Penso a loro in ogni momento e so che in qualche modo... in qualche modo sono con me, anche adesso» premette la mano destra sul petto, la Skywalker, dove alla divisa aveva appuntato la targhetta con il suo nome scritto sopra. Mentire, a quel punto, non avrebbe avuto senso: Sin, Run, Stiles e i Chips, Barry e Amalie, Gemes e i compagni della resistenza. Non esisteva un solo momento, un singolo istante in ogni giornata nel quale Murphy non si rivolgesse a loro con il cuore e la mente, una fitta acuta a spaccare il torace e riaprire ferite mai del tutto rimarginate. Non viveva senza di loro, limitandosi a sopravvivere. Tim annuí, imitando il suo gesto con aria di profonda comprensione sul viso troppo giovane; sentivano tutto, quei piccoli mostri. «A me manca mio nonno.» l'accenno di un sorriso, prima di avvolgere le mani attorno alla propria tazza di cioccolata calda, sospinto con impazienza dalla madre verso uno dei tavolini.
    E, a proposito di bambini.
    «MA--» Sollevò di scatto la testa, incrociando le iridi scure di Kieran Sargent ad un passo dalla vetrina dei gelati, tanto peculiari da farla sentire più stupida del normale: avrebbe dovuto accorgersi subito di quanto gli occhi profondi e magnetici della ragazza fossero in tutto e per tutto identici a quelli altrettanto espressivi di Shot. Sembrava così palese la loro somiglianza, almeno con il senno di poi. Dillo. Ti prego dillo, dillo, dillo. Perché in cuor suo ci sperava davvero, la Skywalker, ne sentiva quasi il bisogno; ma qualcosa parve bloccarsi nella gola della mimetica quando i loro sguardi si incrociarono, un groppo denso di quella paura che le Ciatelle conoscono bene. E se Murphy fosse stata un po' più Rob, avrebbe detto a Kieran che andava bene così, poteva chiamarla mamma quanto e quando voleva, che ne sarebbe stata fiera e non si sarebbe certo sentita a disagio o infastidita. Ma Murphy era Murphy e lei e la mimetica potevano solo continuare a tenere segrete le loro bacheche .fam finché qualcuno badger non avesse imposto loro di smetterla di fare le cazzone e mettere subito le carte in tavola. «--rphy, ciao!» Si guardarono per un lungo istante, il tempo e lo spazio attorno a loro svaniti nel nulla, immobili: era sua figlia quella giovane dai capelli scuri e lo sguardo vivace, la stessa creatura che in un'altra vita aveva tenuto nel proprio grembo sentendola crescere al passo del ritmo del proprio cuore; non aveva fatto altro che pensare al momento in cui avrebbe potuto stringere quel fagottino tra le braccia, dal momento in cui Kieran li aveva fatti sedere al tavolo con le sue belle foto e una storia così assurda da risultare irrimediabilmente vera. Chiudeva gli occhi prima di addormentarsi ed immaginava il volto di Leia e Luke, la sensazione di stringere le piccole dita paffute dei due bambini guidandoli in quei primi passi che né lei né la Sargent ricordavano di aver percorso insieme. Ma soprattutto, rigirandosi nel proprio letto incapace di prendere sonno, Murphy pensava a Shot. A come fossero stati in grado di creare una famiglia tutta loro; non riusciva nemmeno ad identificare i sentimenti che aveva iniziato a provare per il ragazzo negli ultimi mesi, figurarsi proiettare il proprio cuore attraverso un possibile futuro da condividere con due figli. Eppure, incredibilmente, quando la stanchezza prendeva il sopravvento ed il respiro di Kieran dal letto accanto al suo diventava finalmente placido e regolare, quel futuro finiva per sembrarle l'unico possibile. Una convinzione profonda che la geocineta avrebbe anche voluto confessare a Shot, se quel beota non avesse iniziato ad eclissarsi con destrezza ogni qual volta Murphy tirava in ballo l'argomento, inventando scuse campate per aria e spesso nemmeno quelle. Si dileguava, punto, lasciandola con un pugno di mosche ed una crescente frustrazione pronta a trasformarsi in rabbia nemmeno tanto repressa: si potevano ancora contare sulle dita di una mano le occasioni in cui era arrivata ad un soffio dal tirargli un pugno in faccia, ma non avrebbero rimaste così poco a lungo. Ormai passava le sue giornate lacerata, divisa in due tra la voglia di baciarlo e quella di picchiarlo in testa con una bottiglia di vetro dalla mattina alla sera. Ed era proprio per questo, nella speranza di mantenere un briciolo di dignità e sanità mentale, che aveva semplicemente deciso di non rivolgergli più la parola. A mala pena lo guardava, e quando la somiglianza con Kieran si faceva tanto assurda da toglierle il respiro, tornava ad ignorarlo in favore di qualunque altra cosa, o persona. «KIER! Ti prego, dimmi che hai portato il nuovo capitolo.» scrivevano fanfictions nel tempo libero, avete capito bene: erano partite dalle fotografie, non potendo attingere alla memoria della mimetica, e da lì avevano fatto passi da psycho gigante grazie agli headcanon, riempiendo i vuoti lì dove lettere e ritratti patinati creavano buchi nella trama. «SONO RIUSCITA A SCRIVERNE DUE!» non era la prima volta che le due scambiavano quel genere di informazioni ad alta voce nella gelateria, e ormai nessuno ci faceva più caso. Il sorriso di Kieran finí per riflettersi anche sulle labbra di Murphy, stesse identiche fossette ai lati della bocca; Chariton Deadman era un cretino, ma Murphy doveva comunque ammettere che insieme avevano creato un piccolo capolavoro. «abbiamo giusto una mezz'ora per leggerli prima di prepararci per la cerimonia. voglio i commenti in diretta!» Già, la cerimonia. Aveva provsyo a sottrarsi a quella tortura cinese, la Skywalker, ma la ministra francese si era rivelata più tenace di quanto il volto pulito e i limpidi occhi verdi non avessero lasciato ad intendere durante il loro primo incontro ufficiale. «va bene, va bene. Però dimmelo, Lynch e Mabel si mettono insieme?»
    «SPOILER MA--!»


    «quest’anno abbiamo con noi degli ospiti speciali» Murphy sentì chiaramente la bocca dello stomaco sussultare con un doppio salto carpiato all'indietro, prima di chiudersi a riccio rispedendo al mittente un singulto acido. Avevano un rapporto molto stretto e confidenziale, la Skywalker e il suo stomaco, tanto da riconoscere anche la più piccola fitta, la sfumatura di un brontolio, la nota acuta di un crampo: nello specifico, quel mix di rotolamenti e tuffi nel vuoto lo identificava come inevitabile risposta ad una dose letale di ansia e disagio. Sarebbe stata ben lieta di trovarsi a bussare alle porte dell'inferno, se questo l'avesse esonerata dal trovarsi sotto quel gazebo, infreddolita e congelata dai troppi sguardi puntati sul suo viso. Probabile si trattasse solo di paranoia, una normale conseguenza dello schifo che li aveva sommersi tutti quanti, ma dopo quasi quindici minuti di attesa durante i quali la Ministra si era data da fare per zittire la piccola folla riunita, Murphy aveva cominciato a sentirsi una cavia. Le era persino passata per la mente l'assurda idea che forse, nello stile delle peggiori comedy americane, si fosse dimenticata i vestiti a casa. Abbassò lentamente lo sguardo sul proprio cappotto, la gonna semplice dell'abito scelto per lei da Kieran a spuntare poco oltre l'orlo scuro; un sospiro tra le labbra dischiuse, che sarebbe apparso quasi di sollievo se la sensazione di trovarsi sotto esame non le fosse rimasta comunque incollata addosso, come l'odore di fritto dopo un paio d'ore passate al tavolino di un mcdonald. «ospiti. cone se fossimo qui di nostra spontanea volontà.» dovette sussurrare per non farsi sentire, la testa leggermente reclinata in direzione della Sargent al suo fianco, la spalla destra premuta invece contro quella di William Barrow: nessuno di loro sarebbe mai voluto essere lì, con la consapevolezza di aver lasciato indietro le proprie famiglie a morire; e gli altri, quelli con cui si erano battuti, dispersi chissà dove o quando. Kier le strinse la mano di rimando, dita leggere avvolte in un guanto di lana, e quella presa per un istante fu sufficiente; si sarebbe fatta bastare sua figlia, la Skywalker, per tutte le vite a venire. Sulla scia di quel pensiero si sporse impercettibilmente in avanti, le iridi cioccolato all'istintiva ricerca di quelle ancora più scure di Shot: le trovò subito, le trovava sempre. Guardavano lei, ed immediatamente tornavano a fingere ci fosse qualcosa di più importante, com'era stato sin dal principio. Chissà se lo sapeva, il Deadman, che la stava facendo impazzire; per il suo bene, Murphy sperava di no. «sono molto onorata di presentarvi-» non se n'era ancora accorta, la Skywalker: avvertì come una sorta di scarica elettrica attraversare l'aria, il trambusto delle guardie e delle armi senza più la sicura; puntate su qualcuno alle sue spalle, i volti improvvisamente pallidi dei presenti rivolti oltre. Non era su di loro, per una volta, che stavano riponendo tutta l'attenzione. Le bastò ruotare il busto di tre quarti, senza lasciare la presa attorno alla mano destra di Kieran, semmai rafforzandola nel momento in cui finalmente li vide.
    Barry, zio Al. Maeve.
    Erano tornati.
    O arrivati, ma a quel punto non faceva differenza. Erano lì, di nuovo insieme.
    «OBIWAN!» forza dell'abitudine. Murphy si lanciò senza pensarci due volte, scansando una delle guardie senza preoccuparsi di mettere il proprio corpo in una possibile traiettoria di tiro, passando accanto a Jamie Hamilton senza sapere: che la loro, in fin dei conti, era stata una grande famiglia e lo sarebbe sempre stata, checché ne dicesse il sangue a scorrere nelle loro vene. Fu al collo di Al che si gettò, avvolgendo Barrow con il bravcio destro, incapace di pensare anche solo lontanamente a quanto fossero confusi, spaesati, spaventati. Come lo era lei, tre mesi prima. Come era anche in quel momento, solo con un briciolo di speranza in più nel cuore ora che poteva sentirlo battere rapido contro la cassa toracica allo stesso ritmo di quello del Crane.
    Poteva tornare anche Run.
    Doveva.
    E loro dovevano tornare a casa.

    All around me are familiar faces. Worn out places, worn out faces
  2. .
    luminokinesis
    dumb but cute
    pink lover
    We've been meteoric
    Calliope Callie Blue
    2102's, 15 y.o.
    07.02.2118 // H: 15.30
    Si potevano dire tante, tantissime cose negative su Calliope Blue Beech Jackson, per gli amici Blue e basta, per i suoi fanz su youtube BiBiJack, tipo che fosse sempre con la testa fra le nuvole e di conseguenza non si accorgeva di ciò che le capitava intorno. O che non fosse stata una cima a scuola, e così aveva abbandonato Beauxbatons dopo essersi ritrovata a frequentare il suo terzo anno per quella che sarebbe dovuta essere la sua seconda, e sicuramente non ultima, volta. Che non coglieva l’ironia nelle battute, ma che rideva puntualmente anche senza sapere il perché stesse ridendo: lo faceva e basta.
    Ma la ragazza aveva una qualità incontestabile: sapeva come avverare i propri sogni. Anche quando tutto il mondo lo riteneva impossibile.
    Da bambina l’aveva sempre detto a tutti, che sarebbe diventata una sirena: lo scriveva sul suo diario segreto o sui muri della sua camera, lo affermava con convinzione ai suoi genitori e tutto ciò che otteneva in cambio erano risate e occhiate di compassione, e quelle solite frasi fatte come ”Anche io alla tua età lo desideravo “ o ”Ma che bel sogno! Però la realtà è diversa, bambina mia”.
    Beh, Callie aveva dimostrato a tutti quanti quanto si sbagliassero: bastava crederci sul serio, ed i sogni si avveravano.
    E lei il suo l'aveva avverato.
    Solamente, non come qualcuno si sarebbe aspettato, ma quando mai lei aveva specificato di voler possedere una pinna, nuotare in mare e parlare con gli altri animali acquatici? Aveva sempre detto sirena, non creatura indefinita mezza ragazza mezza pesce, e la limitata fantasia delle persone non era di certo un suo problema.
    E così, Calliope Blue Beech Jackson, quando non era impegnata a girare un video per il suo canale youtube con ben cinquecento iscritti (c-i-n-q-u-e-c-e-n-t-o, capite??!) passava le sue giornate in commissariato o, ancora più spesso, seduta sul tettuccio della volante di Leonard Hamilton con le braccia alzate in aria lanciando raggi luminosi blu e rossi e urlando a squarciagola.
    «MII-MOOOOO» del fatto che fosse stata la ragazza a manomettere i cavi che permettessero alla sirena vera dell'auto di funzionare non esistevano prove concrete, ma era abbastanza certa che l'Hamilton sospettasse qualcosa ma avesse deciso di chiudere un occhio: altrimenti, Callie ne era certa, avrebbe fatto aggiustare l'auto già da mesi «MII-MOOO-MI-MOOOOOOOOO» Quanto si divertiva.
    Quello era decisamente il tirocinio più bello del mondo, e sperava che in futuro si sarebbe trasformato in un lavoro a tutti gli effetti: ne esisteva forse uno migliore? Quale altro impiego le dava la possibilità di sfruttare al meglio i suoi poteri? Oltre ad usarli per fare la sirena della volante, infatti, la ragazza amava puntare, durante gli interrogatori, la luce addosso ai criminali arrestati, proprio come nei film polizieschi americani, o spaventarli sbucando dal nulla ed iniziando a brillare di tutti i colori dell'arcobaleno.
    A casa, inizialmente, non avevano preso bene la sua idea di entrare in polizia, soprattutto così presto: una ragazza all'inseguimento dei malviventi a soli quindici anni non era certo il massimo, ancor di più dopo aver deciso di abbandonare la scuola per farlo. Contro ogni previsione, era stata nonna Rude l'unica ad appoggiare quella scelta, probabilmente fiera di vedere la nipote per la prima volta interessata a qualcosa di vagamente tosto, lontano dal mondo di arcobaleni, unicorni e caramelle gommose in cui sembrava vivere fin dalla nascita: a casa Beech, Callie si era sempre sentita un po' fuori posto, troppo diversa dai racconti della madre sulle avventure dei suoi nonni e bisnonni. Se non fosse stato per la somiglianza impressionante che aveva riscontrato ispezionando vecchi album di famiglia - i tratti del viso erano uguali a quelli della bisnonna Jade - avrebbe seriamente creduto di esser stata adottata. L'altra teoria che aveva, ancora plausibile, era che fosse stata abbandonata lì dagli alieni o dal popolo degli unicorni, per poi esser stata colpita da un incantesimo per uniformarla con la razza umana.
    «Callie?»
    «Dica..? MI-MOOOO»
    «Oggi alla cerimonia puoi anche non stare in servizio eh, se vuoi»
    «E POI CHI LI FLASHA I CRIMINALI?»
    «Va bene allora..fai tu»
    «MI-MOOO-MII-MOOOOO»
    Ovviamente non si sarebbe persa quell'evento per nulla al mondo, ed apprezzava la proposta di Leonard : non dovendo lavorare, si sarebbe goduta quel pomeriggio in tranquillità, eppure per lei non era un peso dover stare all'erta ogni attimo, pronta a colpire chiunque vedesse fare cose vagamente sospette (???) con un raggio luminoso: era come vivere in un videogioco in realtà aumentata ventiquattro ore su ventiquattro. E poi era contenta che, come staff dell'evento, si sarebbe guadagnata un posto in prima fila.
    Li voleva vedere da vicino, capite? Erano leggende.
    Si era presentata quasi ogni giorno a villa Barrow ed aveva provato a sfruttare la sua amicizia con William per parlare con loro di persona, ma puntualmente, assalita dal timore, si era tirata indietro anche dopo le mille rassicurazioni dell'amico. Li voleva conoscere perché alcuni di loro erano amici dei suoi bisnonni, perché a casa aveva foto che li ritraevano e poi perché dai, venivano dal passato!!
    Non era già questo un motivo valido per adorarli?
    Solo che la ragazza si faceva sempre mille problemi prima di presentarsi alla gente, consapevole - senza però mai capirne il motivo - di non piacere spesso alle persone. E normalmente non le importava un bel niente, ma dai Prescelti provava il desiderio di farsi benvolere.

    «grazie a tutti per essere venuti a celebrare il trentesimo anniversario dei Patti» Grazie a te per aver organizzato! Naturalmente non lo disse ad alta voce, ma avrebbe voluto: amava così tanto la ministra Berenice Laverne, e si stupiva sempre del fatto che a qualcuno non piacesse. Dai, ma come era possibile una cosa del genere?? Lei l'avrebbe sposata anche in quel momento.
    Anche se, qui bisogna puntualizzare, a Calliope la crush partiva facile facile: le bastava un sorriso accennato, un abito colorato o un "ciao" e boom, lei era follemente innamorata. In poche parole: le bastava una ragazza dotata della facoltà di respirare. Per il resto, le andava bene un po' tutto. Ma forse, proprio per una punizione cosmica di cui faticava a cogliere la colpa, Callie attirava sempre l'attenzione dei ragazzi.
    Dei r-a-g-a-z-z-i.
    Ew
    Forse scambiavano il suo stare sempre circondata da maschi come denotazione di facili costumi, mentre la realtà era che trovava molto difficile fare amicizia con le sue coetanee senza prendersi enormi cotte per loro.
    Ad esempio...come avrebbe mai potuto iniziare una conversazione con Kieran Sargent?? Così bella, lì sul palco al fianco degli altri viaggiatori, così adorabile. La bionda , seduta lì con Tappo, il suo adorato coniglietto bianco, al suo fianco (l'avrebbe volentieri preso in braccio ma STAVA LAVORANDO!1!1!!) immaginò minimo dieci scenari diversi del loro matrimonio, come faceva quando vedeva per la prima volta una nuova crush: era consapevole lei stessa di non aver speranze.
    «sono molto onorata di presentarvi -»
    «UAU NUOVI AMIKI!!» Si alzò di scatto quando vide i nuovi arrivati apparire dal nulla. Anche loro...? Magiko! Nuovi amici dal passato!!! Già detto che, in momenti di grande gioia, Callie era incapace di trattenere il suo potere ed iniziava a brillare da sola? Beh, fu proprio quello che accadde in quel momento: il suo corpo iniziò a brillare di tutti i colori dell'arcobaleno, e la ragazza si guadagnò qualche occhiata scocciata dai presenti ma naturalmente nessuno si spaventò a causa sua, visto che erano molto abituati a vederla in situazioni del genere.
    «Dai Jamie per favore non spaventarli!» era consapevole dell'effetto che l'Hamilton Junior provocasse, essendo stata lei stessa per molto tempo terrorizzata a morte anche solo a guardarlo in faccia: negli anni la situazione era un po' migliorata soltanto perché aveva fatto amicizia col padre, ma la paura non era mai andata via del tutto #wat.
    Poi tornò a concentrarsi sui nuovi arrivati e per poco non svenne per la contentezza «Ma dai..- aveva sperato in quel momento dall'arrivo dei primi viaggiatori -..SEI DAVVERO LA MIA PROZIA MAEVE???»
    And I will still be here, stargazing
    I'll still look up, look up, look up for love
  3. .
    Draw a monster. Why is it a monster? || 03.07.17 - 19:30
    «molto toccante,» commentò, il dödliritus stretto fra i denti a spegnersi in un ultimo, argenteo, filo di fumo. Dragomir Vasilov, il Drago, concluse il suo secco applauso con il più bieco dei sorrisi a denti stretti, gli occhi freddi incastrati sulla sottile e lontana figura di Idem Withpotatoes. Si beò, narcisista e peccatore, dell’espressione stupita e ferita della ragazza. Non fu l’unico ad alzarsi in piedi, il preside dell’istituto di Durmstrang: in molti, stupiti e poco deliziati dalla sua presenza, si alzarono fulminei dai posti a sedere, gli occhi a scivolare sulla sua scura figura.
    Dragomir conservò il cordiale sorriso apatico sulla bocca carnosa, vestito nei suoi impeccabili abiti neri. «ma non faccia promesse che non è certa di mantenere, signorina Withpotatoes» il tono di voce glaciale e cruento che non aveva bisogno di attrezzi esterni per giungere alla diretta interessata, o a chiunque altro fosse presente all’evento. «non credo che la sua presenza qui, oggi, sia una buona idea, preside.» Arcuò entrambe le sopracciglia alle parole della giovane, il bastone già puntato al suolo a sorreggerlo verso il centro del corridoio di caldi, frementi, corpi umani. «ho salvato suo fratello, mesi or sono. È poco cortese non invitarmi alla… festa d’addio.» reclinò il capo, l’espressione granitica a siglarsi in un mellifluo non detto. «inoltre, sono stato mandato per espiare la mia nazione dai peccati che taluni» schioccò la lingua sul palato, un passo verso il palco. «ci hanno ingiustamente attribuito.» fece scivolare lo sguardo vuoto sulla folla ivi riunita, un sorriso più marcato nell’intravedere il profilo di Lancaster. Quando William lo salutò, il Drago non rispose. «vede, credo che Lei, e molti dei presenti, si sia fatta un’idea errata, sul mio conto» avanzò, lento ed inevitabile quanto la colata d’un vulcano, marcando ogni passo con un tonfo sordo del bastone da passeggio. «sono molte le cose che non tollero, ed al contrario di voi inglesi, non sento il bisogno di nasconderlo dietro falsa umiltà:» un altro passo, e gli occhi, di uno spettrale languore, ad incatenarsi a quelli di chi sapeva, Vasilov, essere… babbani - prima di divenire abomini: il passo da bestiame a mostruosità, di quei tempi, era sempre più sottile. «il sangue ributtante,» un altro passo, la bocca già storta nell’inquadrare la sfilza di studenti ai suoi fianchi. Vasilov conosceva molto, molto bene, il corpo docenti e gli studenti di Hogwarts, un’altra istituzione che avrebbe volentieri raso al suolo. «il sangue debole,» si soffermò nei pressi di coloro che sapeva essere mezzosangue – la ex caposcuola Quinn, il giocatore di quidditch Milkobitch, le cugine Hollins. Con il bastone, pungolò il mento di Eleanor per costringerla ad alzare il capo, scuotendo il proprio con malcelato disgusto. Quale immensa vergogna, per Christopher Quinn, l’essersi macchiato della nomea di sangue Sprecato. «per non parlare degli Illeciti, coloro che sono capitati nel nostro mondo per un errore,» si riferiva ai nati babbani, chiaramente. Si spostò d’un altro passo, giungendo così di fronte alla tal Kavinsky, gli occhi a esortare taglienti il vicino Moonarie. «e tali rimangono.» avvicinò la mano ai biondi capelli dei due, fermandosi prima di poterli toccare.
    Non entrava in tale confidenza con gli Sporchi, se poteva evitarlo.
    Anche se, qualche eccezione, poteva farla. E l’avrebbe fatta, per una più che buona causa. Il sorriso si fece più marcato, più affilato, più cosciente, figlio d’una promessa d’altre labbra, mentre le iridi ghiaccio cozzavano contro l’alto profilo di un ragazzo. Si posizionò di fronte a lui, Vasilov, la testa alzata per incontrarne gli occhi chiari. Ed allora la mano la allungò, stringendola su parte del viso di un ben conosciuto Knowles.
    Un Dimenticato da dimenticare. «qual è il tuo nome?» alzò la mano libera per impedire a chiunque di avvicinarsi, o di osare interferire. Premette il pollice sulla carne, rendendo pallidi lividi violacei. Un sorriso – il suo, il loro. «cj.» Sbattè le palpebre, Dragomir Vasilov. «e chi sei, cj Un gioco – il suo, il loro. Il ragazzo scosse lentamente il capo, gli occhi a bruciare verso qualcuno alle spalle di Vasilov. «non sono un tipo paziente» incalzò, schiacciando maggiormente su cicatrici antiche. Quando CJ riportò l’attenzione su di lui, lo fece con una lentezza appiccicosa ed intenzionale che gli diede il voltastomaco. «nessuno» e quella smorfia, e quel sapore d’ironia a sfrigolare sulla pelle.
    Vasilov sorrise, lanciando una pacata occhiata ai loro spettatori. Qualcuno non guardava – gli ambasciatori, quelli che masticavano politica e tramezzini al cetriolo – qualcuno veniva trattenuto, qualcuno sembrava sul punto d’intervenire.
    Qualcuno sorrideva – c’era sempre qualcuno a riderne.
    Nessuno avrebbe mosso un dito per un Nessuno, e lo sapevano tutti – non potevano iniziare una guerra solamente perché gli approcci di Dragomir tendevano ad essere intimi; non potevano rischiare di farlo alterare, minacciando la già precaria posizione del ragazzino. In sostanza, quella era la sua partita.
    Di nuovo.
    «stato di sangue?» sapeva già la risposta.
    E Christopher già sapeva, che quella sarebbe stata la domanda. Dragomir rinserrò la presa.
    «sconosciuto.» e non tollerava quegli intermezzi, come i suoi colleghi poco prima. Che non erano né carne né pesce, non voluti da alcun mondo. Figurarsi da Vasilov, che con quelli come loro tappezzava il proprio ufficio. Allora fece scivolare la mano dalla fronte del Tassorosso al mento, pressando sulla carne con la sottile lama nascosta nel pollice. Un taglio lungo, lento, che gocciolò caldo sul guanto di Dragomir e corrosivo sulla camicia bianca dello studente.
    Lui sorrise. Il Drago calcò maggiormente.
    «vasilov.» Lancaster lo richiamò. Il Drago, ancora, calcò di più. Quando Christopher silenziosamente rise, fu lui stesso a premersi involontariamente contro la lama, accompagnando la ferita al suo concludersi – il sangue a colare denso sul collo, su zigomi troppo marcati. Sentì alcuni movimenti alle proprie spalle. «non agitatevi, è tutto sotto controllo. Non v’è alcun bisogno che interveniate, siamo a posto. Giusto, christopher? Dì loro come stai.» un respiro caldo, quello di Dragomir.
    Uno sguardo caldo, quello di CJ. Si portò la mano al viso, sporcando le dita di sangue. Sollevata davanti agli occhi, il giovane osservò il preside di Dursmtrang anziché il proprio sangue infetto, abietto, non riconosciuto. Spostò lo sguardo sui presenti, guardando tutti e nessuno con le bionde sopracciglia arcuate. Immorale e vizioso, chiuse la mano lievemente a pugno, portando alla bocca un ben teso dito medio. «una favola.» e guardando Dragomir, leccò con studiata lentezza il sangue dalla propria pelle, senza celare l’intento poco velato dietro quel gesto universale.
    Ed era lì tutto ciò di cui aveva bisogno. Poggiò il manico del bastone sul petto del Tassorosso.
    « vasilov, è abbastanza. Credo che tutti abbiano capito dove volevi arrivare, mh? Diteglielo, su, così è felice.» Quanto sarebbe morto male, quel vecchio bastardo d’un americano. Sospirò, gli occhi incollati sulla camicia chiazzata del ragazzino.
    Sarebbe stato per un’altra volta. D’altronde, anche lui avrebbe preferito iniziare una battaglia per motivi più nobili, che non un sangue sporco – troppo suscettibili, quegli inglesi. Retrocedette d’un passo, il bastone nuovamente al suolo. «è così?» domandò, tornando al centro del corridoio. Guardò Lancaster, ora in piedi a poca distanza da lui – e gli sorrise, perché ambedue sapevano che quel marcio a inaridirsi fra loro avrebbe piegato prima William di Dragomir. A Lancaster piaceva l’equilibrio, ma non abbastanza da sacrificare sé stesso.
    Un vero peccato.
    «avete realmente compreso?» avanzò ancora, allungando il braccio al proprio fianco per macchiar d’ignominia gli abiti dei presenti, sangue su tessuti leggeri a disegnare un preciso percorso, ed infine lanciò il guanto colpevole a qualcuno fra le prime file, attento solo che non fosse uno dei, sempre più rari, Sangue Puro, trovandosi infine nei pressi del palco. Guardò la bambina, il fanciullo. La donna dal vestito giallo e gli occhi blu. «come ho già detto, non amo nascondere le mie intenzioni.» e quando invece lo faceva, sceglieva con cautela chiunque potesse ricondurre i fatti a lui, un segreto dischiuso nel buio del proibito. Il che portava ad un’unica, mirabolante, conclusione. Si volse verso gli spettatori, le spalle alle bare: «questo, è quello che faccio;» indicò con la mano ora nuda il sangue al suolo, il ragazzo che aveva ferito. «un attentato? Non è nel mio stile.» osservò Damian Icesprite, il vice Ministro inglese. «ecco perché sono qui: per proclamare la mia innocenza. Non mi piacciono le accuse infondate, sono così...» si umettò le labbra, gli occhi socchiusi. «pericolose.» sorrise.
    Sapevano tutti cosa quelle parole volessero dire.
    «io ti ho visto.» Il tono acuto e capriccioso della bambina a farsi strada fra i presenti, orticario quanto una pianta velenosa. Il sorriso si gelò sulle labbra di Dragomir, mentre da sopra la spalla volgeva una prima annoiata occhiata all’infante. Ne seguì un silenzio denso, dove risuonavano solamente respiri e sfrigolar d’abiti. «non sai di cosa parli, bambina.» rispose, voltandosi infine verso la fonte di tal accusa. Salì sul primo gradino e si piegò sulle ginocchia, avvicinando il volto a quello della pargola stretta alla gamba del ragazzo. «questi sono affari degli adulti.» reclinò il capo, ed ancora sorrise. «renderle incombenze tue, non sarebbe affatto piacevole.» accennò ad avvicinarsi ancora, ed entrambi gli adulti sul palco si mossero come un sipario a chiudergli la visuale sulla creatura: alzò lo sguardo, Dragomir Vasilov, ritrovandosi ad una troppo vicina Idem Withpotatoes. Devo forse specificarlo che delle sue perdite, non poteva importargli di meno? Pur trovandosi uno scalino sottostante, riusciva ad essere più alto di lei, il capo ora abbassato per incrociarne gli occhi blu.
    Ma lei non stava guardando lui.

    «ricordo il sole a illuminare la piazza, rendendo il calore dei corpi ammassati intollerabile. Stringevo la mano di Tupp, la quale era estasiata dal trovarsi fra altri bambini della sua età – emozionata dalle bancarelle, dai vestiti colorati, da i droni che si sollevavano sopra le teste dal sanguigno colore di un sicarius. C’era il particolare odore delle fiere, non so se avete presente…» «…quello di sudore misto a zucchero, e del bruciato di invenzioni non particolarmente riuscite. E quello chimico, sostanze delle quali neanche i loro scopritori sanno pronunciare il nome.» la testa piegata da un lato, il sorriso distratto a piegarle le labbra. Delilah sussurrava al suo orecchio, lo sguardo azzurro a premere concretamente su Vasilov, il tono un basso ringhio – e Idem ripeteva ogni parola, le difese abbassate per permettere alla Jackson di parlare tramite la sua bocca. «non sono esattamente una persona da persone, ma …» «Cristo, per Tupp potevo fare un eccezione. Non era neanche troppo male – non il mio genere, ecco. Essere circondata da persone intelligenti era una novità» e gli occhi di Idem seguirono quelli di Delilah, posandosi leggeri su Eugene e Fox. «i bambini ridevano di battute che gli adulti non capivano più. poco distante una giostra aveva cominciato a girare…» «… e tupp ci ha costretti a fendere la folla per raggiungerla: cosa fanno, le luci ed un po’ di musica, ai bambini. E lei aveva sempre amato quegli…» «…stupidi cavalli. Si arrampicava sulla sella affermando di essere una principessa, e sapete una cosa?» Idem abbassò lo sguardo sulla bambina, la voce sottile. «lo era davvero. Andava tutto bene, finchè le cose non sono…» «...precipitate fottutamente rapidamente. Nessun preavviso, nessun grido – finchè il primo edificio non è collassato su sé stesso, portando con sé tutti coloro all’interno. E poi un secondo, ed un terzo, e» «poi erano ovunque, e c’era solo gente che scappava. Il resto è molto … confuso. Persone che cercavano di fuggire portando in braccio i feriti. I maghi cercavano di smaterializzarsi, ma senza successo. Grida, pianti – e mi hanno spinta, e tanti sono stati schiacciati da piedi che cercavano la salvezza. Ricordo di aver spinto Tupp in un fottuto tombino, promettendole che saremmo tornati a prenderla. E ricordo,» «Cristo santissimo, quel fottuto stemma dorato, e le vostre fottute casacche nere: eravate lì» Idem scese lo scalino, trovandosi vertiginosamente vicina a Vasilov. Sollevò la testa per poterlo guardare in volto, le sopracciglia corrugate mentre le lacrime delle quali neanche si era accorta s’asciugavano sulle guance. «non mi prendere per il culo, preside di sto cazzo:» «perché stavano ridendo, loro, mentre tutto bruciava. Perché?» strinse le labbra, la gola stretta in una morsa di bruciante ira disperata. «perché ci avete fatto questo?»
    Vasilov rimase immobile, limitandosi a sbattere le spesse palpebre prive di ciglia. C’era qualcosa di serio, e primordiale, e pericoloso nel suo sguardo – privo d’umanità come uno squalo ch’avesse percepito una goccia di sangue nell’oceano, un lupo selvatico trovatosi a distinguere una minaccia da eliminare da un semplice contrattempo. «i morti non dovrebbero parlare.» una languida occhiata a Lancaster, allusiva e conoscitrice silenziosa di una realtà che non avrebbe dovuto essere possibile. «siete degli stupidi.» ed allora sorrise, piegandosi in avanti per avvicinare le labbra all’orecchio della Withpotatoes, così che quel sussurro fosse solo per lei – per loro. «ma ecco cosa succede, quando ci si mischia ai babbani. Se la sono cercata.» Non seppe mai, la Withpotatoes, quanto di quel gesto fosse suo, e quanto di Delilah Jackson. Entrambe si trovarono d’accordo nel stringere la mano a pugno, e colpire con netta precisione il naso dell’uomo – le conoscenze della Jackson, l’impotenza di Idem.
    La carne a cozzare contro la carne.
    Il sangue a spillare dal volto dell’uomo, un grugnito basso e disumano a denti stretti – ed Idem con le dita strette al petto, lo sguardo meravigliato ma la postura fiera di chi non rimpiangeva nulla. Drizzò le spalle – lui, lei. Nella folla, qualcuno cominciò a muoversi - il silenzio ad anticipare il primo rombo di tuono, asfissiante e denso nei polmoni.
    «degli stupidi.» ruppe la quiete per primo, Dragomir Vasilov, premendo con maggior fervore il bastone nel terriccio umido. Eppure rideva, sporco di sangue e di cattive intenzioni, crudele e vizioso. «e ne pagherete il prezzo.»
    E fu in quel momento, che giunse il rombo.

    «dragomir.» un ringhio, più che un suono umano. Una bestemmia, più che un nome – quasi che il solo pronunciarlo ad alta voce, fosse un crimine. Vasilov non sorrideva più quando, stringendo i denti, si ritrovò ad alzare il capo incrociando la lontana figura di Jeanine Lafayette farsi strada fra gli arbusti – l’oro, il bianco ed il celeste a mescolarsi in quel piccolo corteo raccolto dalla preside di Beauxbatons. I suoi occhi bruciavano, le pupille sembravano aver ingoiato l’anello azzurro delle iridi. Prese un fazzoletto dal taschino, Dragomir, tamponando il sangue che avevano osato strappargli dalle vene – e solo Dio sapeva quanto avrebbero pagato per quel furto, quanto il tempo avrebbe mietuto le giuste vittime. «jeanine.» rispose, pacato ed affilato quanto un ghiacciaio in Antartide. A seguire la donna, alcuni dei suoi fedelissimi - almeno una ventina di francesi occuparono parte della radura, in quella sfortunata ventura. Non credeva sarebbe stata così sciocca da presentarsi lì, in quell’occasione – eppure ci aveva sperato, come dimostrò nella smorfia malevola che le rivolse.
    «cos’hai fatto.» Reclinò il capo, trovandosi ormai ad un paio di metri di distanza dall’elegante e slanciata donna dai capelli dorati e lo sguardo d’inferno.
    Apparenze.
    «è così che vuoi giocartela, Jeanine?» piegò morbido il capo, una tacita sfida negli occhi.
    «come hai osato vibrava di rabbia, la Lafayette. Vibrava come una corda tirata troppo a lungo giunta infine al punto di rottura, il tono aguzzo di una lancia forgiata con il fuoco.
    «io?» contese ancora, sorridendo di quella dolcezza che strangolava il cuore in petto. Inarcò le sopracciglia, avanzando di un passo nella direzione della donna. «pensaci bene, jeanine. Stai molto attenta a quel che dici.» Fu il turno di Jeanine di sorridere, fredda e crudele come un cristallo.
    «bambini, andiamo: vi sembra il momento opportuno?»
    Lancaster sarebbe stato il primo a morire. Non lo guardò mentre si spostava fluido fra la folla ivi riunita, giungendo preciso e concreto al centro del sipario – sparti acque opportunista, un passo indietro per evitare di ritrovarsi nella linea di fuoco. Non era un brav’uomo, William Lancaster.
    Odiava l’ipocrisia, Vasilov. Il preside di Salem reggeva un dolcetto da ambedue le mani, e sorrideva di un’allegria che percepiva solamente lui – inadatto, l’uomo, lo era stato sempre. Pareva un tale idiota, da rendere assai difficile prenderlo sul serio.
    Stratega bastardo. «politica, meh. c’è il cibo, ci sono tante belle persone-» si fermò per ammiccare a qualcuno nella folla, le sopracciglia cespugliose arcuate. «non litigate.» e malgrado il sorriso non vacillasse, il tono si fece serio e greve, la minaccia sottile che s’arrampicava sulle braccia per stringere i polmoni. «non è il caso di discuterne davanti a tutti.» ed invece, lo era. Lo guardò, Vasilov – e lo guardò Jeanine, la stessa eguale risposta nei loro occhi.
    «non vorrete cert-»
    «la francia ha deciso: dragomir vasilov è stato giudicato colpevole.»
    Tutti trattennero il fiato – perfino gli alberi, le nuvole. Il brio di Lancaster scivolò al suolo come acqua di una cascata, raccogliendosi placida ai suoi piedi.
    Tutto rimase immobile per istanti che parvero infiniti, mentre le parole di Jeanine rimbalzavano come dardi da una corteccia all’altra, segnando l’inizio della fine.
    Il trionfo di lei. Il sorriso di lui.
    William Lancaster si spostò, guadagnando posizione nelle retrovie.
    «sai cosa significa, Jeanine?» chiese mellifluo, abbassando lo sguardo sulle proprie mani giunte sul bastone. Non aveva aspettato altro, Dragomir – ma non aveva creduto che la Lafayette si sarebbe spinta a tanto. Lei annuì, secca. «sì.»
    Vasilov si inumidì le labbra, alzando la mano destra al cielo. Una risata ironica gli scosse debolmente le spalle, tentatrice e subdola quanto la carezza d’una puttana. «come la signora desidera.» schioccò le dita, e tuniche nere comparvero ai margini della radura – sempre stati lì, i suoi adepti, in attesa di un segno dal loro Signore. Asciugò una goccia di sangue dal labbro superiore passandovi la lingua, mentre le mani altrui scattavano alle armi.
    Lancaster, immobile, li guardò con il giudizio secco che Dio doveva aver provato scagliando Adamo ed Eva sulla Terra.
    Quello che aveva cambiato tutto.
    Dragomir Vasilov sorrise – di quell’idiozia, di quella tela d’inganni e falsità.
    «e allora guerra sia.»
    | ms.


    E questo, infine, è il momento delle spiegazioni.
    Il primo luglio c'è stato un attentato in Francia, sono morti in molti - in troppi. Il tre luglio è stata organizzata una cerimonia per ricordare i defunti, una placida radura al centro del parco Aetas.
    Ora.
    TUTTI, ovviamente, sono invitati a partecipare - studenti, adulti, maghi, special, ribelli, mangiamorte. Volendo, potete portare anche pg fittizi (cosa sono? pg in costruzione, che non hanno ancora una scheda - o che siete intenzionati, prima o poi, a fare).
    La situazione è difficile e spinosa, come potrete immaginare. L'inizio della fine.
    Ci troviamo in una situazione di stallo, e chiunque di voi potrebbe cambiare le carte in tavola. Perchè, ovviamente, ora siete voi a decidere come agire: ed avete completa carta bianca. Potete provare a fare un discorso, attaccare una delle due fazioni, cercare di calmare le acque o incrementare il caos - oppure potete andarvene, o potete parlare fra voi, cercare aiuto e decidere insieme. Comprendere cosa sia realmente successo, quel primo luglio.
    Potete essere auto conclusivi, in caso sarà il Fato a specificare come si evolve la situazione - ma non si tratta di una quest, o di una mini quest: nessun punto esperienza, nessuna fascia, nessun limite.
    è il momento di entrare nel gioco, di far vostro questo gioco: dimostrate di non essere solo pedine.
    Dimostrate che questa scacchiera, è anche vostra.
    Che un nuovo mondo abbia inizio.
  4. .
    idem | 1993's | medium | rebel
    withpotatoes
    What is a ghost? Something dead that seems to be alive. Something dead that doesn't know it's dead.
    these are hard times for dreamers || 03.07.17 - 18:00
    Idem Withpotatoes non aveva mai viaggiato. Gli unici luoghi che avesse mai visto, erano Londra e Brighton. Al contrario della sua famiglia, non aveva mai sentito il bisogno di esplorare il mondo, contenta di ciò che aveva a portata di mano. Le piaceva l’abitudine del conosciuto, il sapere che dopo la panchina rossa, avrebbe trovato quel che era stato un cestino dei rifiuti, e del quale era rimasto solamente un vecchio palo. Scopriva luoghi che conosceva alla perfezione ogni giorno, meravigliandosi di nuove decorazioni nei giardini dei vicini, o di alberi a cui non aveva mai fatto caso: non aveva mai avuto bisogno di biglietti, Idem Withpotatoes, per viaggiare.
    Era tutto nella testa.
    Ciò non le impediva di sognarlo, immaginare luoghi esotici nei quali sapeva non avrebbe mai messo piede: strade trafficate e dal sapor di spezie in India, uomini in giacca e cravatta in Giappone, spiagge assolate nel Sud America. Si era creata un mondo del tutto ideale, e le bastava crederlo così, per viverselo. Di certo, le bastava perché popolasse i suoi sogni, cliché ed irrealtà a divenire forme concrete. Dondolava pacata su un’amaca arancione, un cappello di paglia a coprirle la chioma corvina, ed un paio di occhiali da sole più grandi di lei a nasconderle il volto. Nella mano destra reggeva una bevanda tassativamente dentro la metà svuotata di un cocco, un ombrellino rosa a spuntare dal bordo come un fiore in primavera. Il calore era confortante, nulla a che vedere con il sole che, nella vita vera, era in grado di ustionarla non appena metteva piede fuori casa: era placido, quel sole. Era ciò a cui chiunque aspirava quando pensava al mare. Non c’era alcuna preoccupazione, nel sorriso allegro della Withpotatoes onirica – non c’era traccia della guerra, non c’era traccia dei Laboratori, non c’era traccia di Leon. Quant’era che, addormentandosi, non veniva consumata da un incubo?
    Più di quanto avrebbe mai ammesso.
    Aveva abbandonato i Laboratori dieci giorni prima, rimanendo in quello che era stato definito coma leggero per cinque giorni: in quei cinque giorni, i Dottori avevano detto che non v’era alcun danno cerebrale quantificabile nel cervello di Idem, ma non potevano invece assicurare nulla riguardo i possibili danni psicologici che avrebbe potuto presentare una volta sveglia – quel genere di traumi, la Withpotatoes lo sapeva perfettamente, non erano visibili da una TAC. Si sveglierà quando sarà pronta, era quasi certa di averli sentiti bisbigliare. E quando Idem aveva ripreso conoscenza, dopo essersi assicurati che non fosse una mina vagante, le avevano permesso di tornare a casa - ti aiuterà, un ambiente familiare. Avevano, ovviamente, ragione. Rientrare nel suo appartamento dopo quattro mesi di assenza, era stato quasi soverchiante per la Withpotatoes. Aveva dimenticato le tende gialle appese in cucina, gli utensili colorati che rendevano la stanza un'opera d'arte; aveva dimenticato la coperta di patchwork sul divano, o gli origami appesi al lampadario che rendevano il soffitto un cielo. Per non parlare del poter riabbracciare tutta la sua famiglia – ed i suoi amici, ed i suoi colleghi. Li aveva stretti a sé così a lungo, da essersi impressa sulla pelle i loro spigoli ed i loro angoli, quei difetti che erano sempre stati meraviglia - ed i profumi ad impregnarle gli abiti e le narici, balsamo su ferite che neanche si era accorta di avere, finché non avevano smesso di sanguinare. In quell’eccesso d’affetto e di bisogno, nel conforto di saperli caldi e vivi sotto i polpastrelli, Idem aveva ritrovato il proprio equilibrio, il posto nel mondo che per settimane le era mancato quanto ossigeno. Le bastò per dimenticare i mesi di assenza - ci mise meno di un battito di cuore, per riprendere dimestichezza nell'averli.
    Abituarsi al non possedere più la magia, invece, era stato un altro paio di maniche. Si era sentita sbagliata nel proprio corpo quando, impugnando la bacchetta, non aveva percepito nulla all’infuori del confortante legno di ebano stretto fra le dita: non era più una strega. Se la risolse con un sorriso mesto ma sincero, arresa mesi prima a quella possibilità: le dispiaceva, certo, ma non per sé. Avere o non avere la magia, considerando il suo lavoro, non le cambiava nulla - si, era strano non poter usare accio per recuperare un block notes, ma non era quello a rattristarla. Idem sapeva quanto per Damian Icesprite fosse… difficile, rapportarsi con chi non era una strega od un mago purosangue. Poteva accettare di perdere la magia, la Tassorosso, ma non avrebbe accettato altrettanto facilmente la possibilità di perdere suo cugino – era questione di priorità, per Idem. Ma il vero problema, il nucleo della linea serrata delle labbra quando nessuno la guardava, era un altro: il suo potere. Idem Withpotatoes era una medium. Nei Laboratori non avevano mai accennato a quale fosse la capacità acquisita dalla Withpotatoes. Forse, neanche l’avevano saputo - d’altronde non ricordava di aver mai mostrato le sue capacità, durante i test: lei stessa ne era stata ignara finchè non era stato tardi, troppo tardi. Idem era una ragazza naturalmente curiosa, ma sapeva sempre quando porsi un freno («la propria libertà finisce quando inizia quella altrui», le ripeteva sempre Nonna Seti.). Non si era mai osata a porre domande, ritenute inopportune e intime, agli Special che facevano parte della sua vita, trovandolo spesso un argomento delicato da affrontare, troppo personale: negli anni si era limitata ad apprendere cosa evitare per non arrecar loro alcun fastidio, specialmente nel caso di poteri controversi come quello di Oliver – telepatia: roba difficile, da gestire. Aveva cercato di capirli quando necessario, come nel caso di Brandon - affascinante, la metamorfosi: sperava ancora di scoprire lati del Lowell celati negli occhi castani di Bran, ma consapevoli in altri. Aveva chiesto a Jade se poteva crearle un taglia carte, a Murphy di far sbocciare un fiore, a Sin se potesse domandare al pesce rosso di Erin se preferisse le briciole di gamberi o quelle di alghe. Aveva osservato con estasiato stupore una copia di Jess portarle il caffè in camera, e Nathan usare la manipolazione dell’aria per sollevare pop corn da lanciarsi fra in bocca.
    Ma non aveva mai, Idem Withpotatoes, avuto modo di vedere in azione quel potere -il suo: sapeva che lo possedevano sia Aveline che Morrigan, ma non era certo un argomento di conversazione semplice da tirare fuori fra una spremuta d’arance e l’altra. Era stata superficiale, Idem - e molto umana, in quel suo evitare di indagare sulla morte, argomento spigoloso e terrificante. Sentiva voci che non avrebbero dovuto esserci; sentiva mani che neanche esistevano; vedeva volti, Idem Withpotatoes, del quale non avrebbe dovuto aver memoria. Nathaniel Henderson, il suo nuovo professore (nonché cugino spirituale), le aveva detto che doveva solamente abituarcisi, che le avrebbe insegnato come gestirlo: non doveva averne paura – e Idem, di Nate, si era sempre fidata.
    Ma non lo rendeva più facile. Non aveva avuto cuore, in quei giorni, di rivelare alle persone che le erano vicine la reale gravità della situazione - di quanto la cogliessero alla sprovvista le apparizioni, di quanto fossero disperati quei lamenti. Come non aveva mai parlato del suo soggiorno nei Laboratori: Non ricordo quasi nulla, e sorrideva, ripetendolo all’infinito.
    Così spesso, da cominciare a dimenticarlo. Così spesso, da non farlo mai.
    Cercavano di tornare alla loro vita, che diritto aveva Idem di rovinare loro i piani? Aveva rassicurato Nathan ed April per ore, prima che riuscisse a convincerli a partire: Nathan aveva una conferenza in programma da mesi al festival della scienza applicata alla magia in Francia, dove sull’argomento erano più elastici; April l’avrebbe accompagnato, ovviamente: nessuno si fidava più a lasciar viaggiare Nathan da solo. «e poi,» aveva aggiunto la Withpotatoes, scrollandosi nelle spalle con un sorriso. «devo fare shopping: se non ti comprassi io qualcosa di carino, Idem, andresti sempre in giro vestita come nonna Seti» A nulla erano servite le proteste della Withpotatoes maggiore sul buon gusto della nonna: nessuno le aveva dato corda.
    E per giusti motivi.
    Ma nel sogno? Nel sogno non esisteva nulla, di tutto quello. Non c'era spazio per i problemi, fra i dorati granelli di sabbia. Languiva di quel dolce calore del sapersi finalmente al sicuro, Idem Withpotatoes, della familiare certezza che tutto sarebbe andato bene, perché era finalmente a casa. La sua famiglia stava bene, i suoi amici stavano bene. Andava tutto bene, giusto?
    Doveva, andare tutto bene.
    «è bello essere a casa.» Credette di averlo pensato lei stessa, Idem - di fatti, nel sonno, sorrise. «so che non è casa nostra, nathan, ma è come se lo fosse» quello era strano, perfino per Idem. «ci abitano idem ed isaac: certo, che è casa nostra.» Si rigirò nel letto, la testa ad affondare nel cuscino. «quando era una bambina, si addormentava ovunque. Mamma mi lasciava portarla a letto in braccio – era così piccola!» Corrugò le sopracciglia, l’amaca a farsi più distante sotto i polpastrelli. Idem si aggrappò al sogno con la cieca disperazione di chi stringeva la nebbia fra le mani tentando di tenerla ancorata a sé, pur sapendo che non fosse possibile. L'istinto di Idem cercava di tenerla incastrata nel sonno: avrebbe fatto meglio ad ascoltarlo.
    Nel momento in cui si rese conto di star sognando, si svegliò. «spiaggia» biascicò, rotolando supina. Premette le mani sugli occhi, un mugolio assonnato a sgusciare dalle sottili labbra dischiuse.
    «si è svegliata. Dobbiamo dirglielo?» «magari si riaddormenta. Lasciamola riposare, ne ha bisogno» Che fosse addormentata o meno, Idem avrebbe riconosciuto ovunque quelle voci. Con ancora i palmi a premere sul viso, sorrise. April e Nathan volevano farle una sorpresa! Ma non era brava a fingere, Idem – quindi, con un risolino, si mise a sedere poggiando le spalle allo schienale del letto, le palpebre assottigliate per cercare di cogliere i profili dei fratelli nel buio: beccati. «siete tornati prima!» sussurrò entusiasta, tastando il comodino alla ricerca degli occhiali. Prima si trattava di un oggetto puramente scenico, ma si era resa conto di essersi talmente abituata alle lenti, che senza non riuscire a vedere nulla. «ehi.» Non un ciao, non un abbraccio a tradimento mentre ancora, insonnolita, cercava la montatura. Non distaccato, quello mai, ma... Esitante. Tremulo quanto denti in inverno. Li osservò, le corvine sopracciglia corrucciate. «il viaggio non è andato bene?» si scambiarono un’occhiata, Nathan ed April. «diglielo tu» supplichevole, la sorella, nell’appellarsi al maggiore: le sorelle Withpotatoes cercavano sempre gli occhi di Nathan, quando avevano paura. Era l'unico che riuscisse a suonare convincente, nel suo ottimismo, anche con una lama puntata alla gola: non era contagioso, te lo tatuava addosso. «è successo qualcosa?» domandò, un tuffo al cuore. Avevano annullato la convention? Non avevano premiato la geniale idea di Nathan, ed April aveva protestato finendo per farsi cacciare?
    Non capiva, Idem. Non lo faceva mai, finché non desiderava non averlo fatto.
    «mi dispiace tanto.» il tono basso ma deciso a rotolare di sincero rammarico. Il fratello avanzò di un passo nella sua direzione, le mani allungate verso di lei. «ce ne stavamo per andare, ma… avevano bisogno di noi» chi aveva bisogno di loro? Perché si stava giustificando? Non le doveva alcuna spiegazione, non così: era solo felice di riaverli a casa. Rimase immobile, temendo che perfino respirare potesse interromperlo. «ti vogliamo bene, idem. Ti prego, dillo anche agli altri.» perché doveva dirglielo lei? perché suonava come un addio, anziché come un bentornato? Reclinò lievemente il capo, il cuore ad appesantirsi sulla lingua. La situazione stava prendendo una piega assurda - o forse era lei, ancora addormentata, a cogliere parole che non avevano ragione d'esistere.
    «april…?» lanciò un’occhiata alla sorella, il sorriso più bello del mondo a piegar le labbra di April. Quel sorriso che per anni non aveva fatto altro che spezzare cuori, gli stessi cuori che, sempre April, aveva cercato di aggiustare tenendoli gentilmente fra le mani, promettendo loro che qualcuno li avrebbe amati di più, meritati di più.
    E gli occhi gonfi di lacrime, i capelli scuri ora a nasconderla mentre abbassava il capo. «mi dispiace tanto, idem. Ci abbiamo provato»
    Un tonfo al piano di sotto, lo stridio di sedie che cozzavano contro il pavimento. Piegò il capo dall’altra parte, Idem Withpotatoes, le mani a cercare gli occhiali.
    «idem?» la voce di Isaac – asmatica, confusa. Conosceva quel tono di voce: dì a Nathan che non può continuare a far esplodere il mio paiolo; dì ad April che non sono la sua bambola; Darden non sta davvero lanciando coltelli contro la porta, vero?. «nathan.» fu una preghiera, quella sussurrata dalla voce di Idem. Così flebile, che avrebbe potuto essere eresia o dogma. Condanna o redenzione.
    «IDEM?» i piedi a pestare le scale, la porta di Darden che sbatteva contro il muro, un mugugno di Oliver nel corridoio. «è stato tutto troppo improvviso.» Trovò finalmente gli occhiali, e li indossò.
    Così. Nel suo pigiama rosa di flanella, gli scompigliati capelli corvini a scivolarle sulle spalle, le gambe incrociate in parte sotto le lenzuola azzurre.
    Così, Idem, quando il suo mondo cadde a pezzi.
    «idem!» Non guardò Isaac, quando trafelato spalancò la porta della sua camera. Masticava le parole biascicandole, gesticolava. Teneva fra le mani il cellulare, e continuava a ridere nervosamente, preoccupazione isterica a rizzare i peli sulle braccia. «stavo cazzeggiando su internet, come sempre, e … quest’assurda notizia… un attentato? Pft, mi sono detto. Ma c’è stato davvero, un attentato. In Francia. Assurdo, vero? Assurdo.» Continuò a guardare un punto fisso nel vuoto più assoluto, la Tassorosso, il freddo a gelarle il petto – non respirava, non guardava, non sentiva; non sbatteva neanche più le palpebre, Idem. «non vuol dire… figurati. Voglio dire… stanno bene, no? certo che stanno bene.» una prima nota angosciata a costringere le labbra di Isaac ad un sorriso difettoso, appiccicato storto sulla tela sbagliata. Idem non vide Darden ed Oliver poco fuori dalla camera, le braccia incrociate al petto. Aveva chiesto ad entrambi se potessero, solo per pochi giorni, rimanere a dormire con loro: ne aveva bisogno, dei loro respiri. Dei loro battiti fra quelle mura.
    «diglielo, idem» Nathan lo guardava. No. No. Perché, finchè non l’avesse detto, non sarebbe stato vero. Poteva essersi trattato di un sogno, giusto? Non sarebbe stata la prima volta che incubi del genere tentavano di ingannarla, masticandola dall’interno lì dove era più tenera. «vero, idem?» incalzò Isaac, gli occhi da bambino nel viso squadrato di un giovane uomo.
    «fino alla fine, idem.»
    «ti vogliamo bene, sempre. Prometti che lo ricorderai. Prometti che lo dirai anche a loro.»
    Erano Withpotatoes, loro. nessuno veniva lasciato indietro od abbandonato.
    Era una promessa. Era una promessa?
    Doveva essere una promessa. Per lei, lo era.
    Non si accorse di aver cominciato a piangere, finché una prima lacrima non le scivolò sulla guancia, un attutito pof sulle lenzuola. Non era neanche certa di star respirando, Idem Withpotatoes. Sentiva lontano l’eco delle parole di Isaac, smorzate quasi si fosse trovato all’interno di una bolla d’acqua. Ma nessuno si mosse, nella quadrata stanza di Idem Withpotatoes.
    Nessuno voleva saperlo - e tutti già lo sapevano.
    Guardò Nathan Withpotatoes ed April Withpotatoes, le braccia a stringersi e sorreggersi. Sorridevano piano, di quei sorrisi che non erano più parte del loro mondo. Piangevano traslucidi, di quell’opalescenza che nessun essere vivente avrebbe dovuto possedere.
    Vivevano piano, Nathan ed April. Così piano, da non farlo affatto.
    «mi dispiace.» e non seppe mai se la voce fu la sua, o quella di Nathan, o quella di April. Nessuno parlò.
    Nessuno si mosse.
    Ed una seconda lacrima accompagnò la prima – ed una terza, ed una quarta.
    Non potevan- «sono morti.» Fu Darden la prima a parlare. Idem si ricordò come funzionare, portando le mani a nascondere il viso.
    Non poteva essere vero. Non poteva essere vero.
    «idem?» ancora ci sperava, Isaac. Anche Idem, ancora, ci sperava, mentre cercava di soffocare singhiozzi sul palato: il suo corpo l'aveva capito prima della sua mente, ed aveva cominciato a collassare dall'interno.
    «grazie di tutto, idem. Ringraziali, ti prego.» «ce la farete. Siete insieme. Qui non è poi così male, sai.» Non esisteva un qui, per Idem, se loro non potevano esserci. «non è giusto» soffiò soltanto, sulla propria pelle, strappandosi le parole dalla lingua con il capriccio di una bambina che fra le dita avesse zucchero e colla. «la vita non è giusta, lo sai: ma voi sì. Potete ancora farcela.» sorridevano, loro. «cambia questo mondo, idem withpotatoes» Idem non sorrideva.
    Una risata amara, di quelle che si trattenevano dall’essere semplicemente grida disarticolate. La voce a rompersi, spaccandosi come pietre sul cemento – crudele, distrutta, Darden Larson. «non l’hai ancora capito, isaac?» Idem guardò Darden, ma lei non ricambiò l’occhiata, i furenti occhi azzurri a guardare il Lovecraft.
    Non l'aveva capito? Si, l'aveva fatto.
    Tutti loro, l'avevano fatto.
    «sono morti, isaac. Sono tutti fottutamente morti.»
    Rimasero immobili e silenziosi così a lungo, che Idem dimenticò come si facesse, a muoversi. Lo definivano trauma, ma dubitava che un solo termine potesse bastare a quantificare quel nulla - le dita a tremare, il battito lento a pompare sangue denso nelle vene, gli occhi velati di lacrime che andavano asciugandosi sulle guance lasciandole aride e secche. Poteva essere passato un minuto, quando Idem prese il telefono, o un’esistenza intera: non avrebbe saputo dirlo, la Tassorosso. Spostando il braccio alla ricerca dell’apparecchio, le parve di dover trapassare strati infiniti d’acqua e sabbia, uno sforzo eccessivo per il corpo esile e già provato della Withpotatoes. C’erano troppe emozioni, in quella stanza - dolore, rabbia, impotenza. Il vuoto a risucchiare dall’interno. Asciugò il volto sulla spalla, e compose il numero.
    Una volta.
    Due volte.
    Alla terza, Gemes Hamilton rispose. «ehi» si schiarì la voce, il capo chinato ad osservare la mano abbandonata in grembo. Umettò le labbra, serrando le palpebre. Riusciva a percepire il proprio cuore assordarla, pesante in gola e fra le dita, incapace di rimanere quieto nel proprio posto d’appartenenza. Non voleva dirlo, Idem. Erano quelle cose per le quali piangeva l’anima, ma che accadevano sempre ad altri: tragedie simili, non potevano sfiorare i Withpotatoes. Erano troppo buoni. Idem ci aveva sempre creduto, nel lieto fine.
    Ma come poteva, perfino lei, continuare a sperare, se ogni volta glielo strappavano dal petto? Tacque per una manciata di secondi, deglutendo bile e lacrime. «puoi venire a casa?» Non ci provò neanche a mitigare il tono penoso di quella domanda, la supplica implicita fra le parole: si limitò a stringere il telefono, le nocche a sbiancare. È successa una cosa brutta. «è urgente» soffocò un singhiozzo obbligandosi a respirare dalle narici, le palpebre ancora serrate. «per favore.» concluse in un sussurro, sentendo la voce morirle in gola.
    Erano tutti morti. Chiuse il pugno sul pigiama, sollevando appena lo sguardo di fronte a sé. Gli occhi blu di Idem si posarono sulle figure evanescenti nella stanza, le corde vocali a vibrare di quella disperazione priva di lettere che consumava dall’interno. Si sciolsero in due pozze di languido e tormentato dolore, le iridi di Idem Withpotatoes – il blu che i pittori potevano solamente immaginare guardando il mare.
    «e sveglia anche Al.»

    Era ancora notte fonda, quando Idem e Isaac giunsero a New Hovel. La Tassorosso era caduta in una trance meccanica e cordiale, il sorriso a intiepidirle le labbra e la morte a seguirla come un’ombra: aveva indossato una camicetta bianca ed una gonna a fantasia floreale; i capelli corvini, trattenuti da un cerchietto rosa pastello, avevano una piega impeccabile. Sarebbe parsa un giglio, Idem, se non fosse stato per i suoi occhi – gonfi, arrossati, straziati. Quelli non mentivano mai. Una bambola di porcellana spaccata dall’interno. Avrebbe potuto aspettare, lasciare quel compito a qualcun altro, ma non l’avrebbe mai fatto: sentiva, nelle vene e sulla lingua, che era suo dovere. Che quel mondo non era giusto, ma lei sì: meritavano di sapere, loro. Meritavano di venirne a conoscenza prima che la notizia venisse schiaffeggiata loro in faccia dal notiziario, o dalle bocche troppo larghe di qualche vicino ben informato: voleva essere lei.
    Doveva, essere lei.
    Non aveva mai avuto una reale scelta.
    Il labbro inferiore cominciò a tremare così intensamente da obbligarla a stringerlo fra i denti, impedendogli di continuare quella danza a cui nessuno l’aveva invitato. Si volse verso Isaac, il blu degli occhi di Idem a trovare il proprio conforto nella calda, e triste, terra delle iridi di lui. E così, per il semplice bisogno di sentirlo vivo, Idem lo strinse a sé, circondandogli il collo con le braccia. Sentì le lacrime scivolarle nuovamente sulle guance inumidendo la maglietta di lui, ma non gli diede importanza; sentì le spalle minacciare di rompersi in singhiozzi, ma li ingoiò tutti: non poteva permettersi di crollare, perché non era certa ne sarebbe uscita indenne. Aveva bisogno di sé stessa, Idem: lo doveva a tutti loro. Lo doveva a Leon.
    Lo doveva a Idem.
    Si allontanò da Isaac, le dita ad indugiare sulle sue spalle. «grazie.» bisbigliò, un angolo delle labbra a piegarsi in un sorriso. Grazie del passaggio. Grazie per essere qui. Grazie di essere mio fratello. Grazie per volermi bene. Grazie per essere rimasto. E quel mi dispiace a cui aveva dato voce troppo spesso, nell’ora precedente – e che sentiva sempre sincero, sempre lacero. Annuì, indicandogli con il capo una piccola costruzione poco distante. Lei, aveva un’altra destinazione – una casa più grande, ma non lontana dalla meta di Isaac. Insieme? domandavano gli occhi del Lovecraft, troppo giovane per la spietatezza che aveva dovuto affrontare. Insieme, rispondevano quelli di Idem, riflessi di una vita che avrebbe voluto meritare. Non avevano bisogno della vicinanza fisica, per rimanere l’uno con l’altra. Erano una famiglia.
    Così, si divisero.
    Salì i pochi gradini che la separavano dalla porta d’ingresso, la gola secca e lo sguardo già umido. Intrecciò le dita fra loro, un sussurro incrinato a sfuggire dalle labbra rosee: «mi dispiace», le ripetè di nuovo, sentendo le ginocchia farsi deboli. «anche a me». Strinse gli occhi mentre un sospiro a metà fra un ansito ed un singhiozzo le infiammava i polmoni, le dita a premere delicatamente il campanello.
    Ed attese, Idem. Mentre il trambusto cresceva al di là della porta in legno, grugniti e tonfi a far vibrare il pavimento sotto i suoi piedi, la Withpotatoes cercava di stamparsi sulla bocca un sorriso degno di fiducia – quelli che offriva ai suoi pazienti, quelli così genuini che era impossibile spacciarli per falsi. Li sentiva davvero, quei sorrisi: la tristezza le curvava gli occhi, non le labbra. Le aprì un ragazzino dai capelli ramati e le palpebre pesanti, il profilo pallido e lentigginoso fiocamente illuminato mentre socchiudeva l’uscio. «ehi.» dovette tossire, la voce tremula a vibrarle sul palato. «todd, chi è?» ed altre facce, altrettanto assopite, spuntarono dall’appartamento di New Hovel: riconobbe Jeremy, l’assistente di Stiles; riconobbe Heidrun, e dietro di lei lo sguardo torvo di Jade. «idem?» Scioccamente, annuì, e grosse lacrime rotolarono lungo le gote chiare della Tassorosso. «mi dispiace.» implorò ancora, non sapendo più per cosa chiedesse scusa: per essere piombata lì nel cuore della notte ed averli svegliati; per quel pianto incontrollabile del quale a malapena si rendeva razionalmente conto; di quel sorriso sporco di tragedia. Heidrun avanzò, la schiena dritta e gli occhi improvvisamente vigili. Seguì lo sguardo verde bosco di lei, Idem, il cuore a saltarle un battito. Lo sentiva nei piedi, il muscolo cardiaco.
    Abbassò il capo, la gola a stringersi. «mi dispiace così tanto.» Run si portò una mano alla bocca, le labbra dischiuse. «cos’hai fatto?» Domandò debolmente, un’onda a lambire la costa.
    Non lo stava chiedendo a Idem. Non stava guardando Idem.
    E non fu Idem, a rispondere, mentre dall’interno della casa sbucava un intorpidito Eugene Jackson con un braccio a coprirgli gli occhi, e l’altro a stringere a sè un bambino.
    «tu che dici, Crane?» la donna, le braccia incrociate sul petto, si spezzò in un sorriso amaro e letargico. Se il suo tono avesse potuto essere imbottigliato, Idem realizzò, sarebbe stato un’ottima bomba nucleare: letale e corrosivo. Le bastò quel tremolio, quella risata di vetri scheggiati a spargersi sullo zerbino, per scioglierle il cuore e gli occhi. «sono morta.»
    E Delilah Jackson, pianse.

    Il sole filtrava dorato fra le fronde dell’Aetas, il parco di Hogsmeade. Il nuovo Ministro della magia britannico, aveva riflettuto apaticamente Idem, era stato gentile a permettere loro di celebrare i funerali fra quei tronchi, dove ancora rimbalzavano le note stridule di una giornata ignara di tutto – ignara di tutti. Chiudendo gli occhi, poteva percepire la densità dell’aria schiacciarle la pelle, levigandola come l’oceano avrebbe fatto con una pietra.
    Ma non sentiva alcun calore, Idem Withpotatoes. Ci provava, solo il cielo sapeva quanto ci stesse provando, ma non sentiva niente. Non l’aveva mai creduto possibile, lei; era sempre stata convinta che la fiamma ad arderle nello sguardo e nel petto non si sarebbe mai affievolita, scaldandola e scaldando chiunque la circondasse: quale tragedia, rendersi conto che talvolta non bastava. Continuava a ripetersi, in quegli occhi cobalto persi fra una nube e l’altra, che sarebbe tornato, che aveva solamente bisogno di tempo. Aveva bisogno di convincersene, incapace di accettare che, talvolta, le persone potessero cambiare: lei, lei fra tutti, non poteva. Aveva passato ventiquattro anni a render conto del fulgido ottimismo che le riluceva nello sguardo, non sarebbe stata coerente se avesse permesso a quello di spezzarla.
    Non dopo tutto quello che aveva fatto. Non per loro: non era quello che April o Nathan avrebbero voluto per lei. Torcendosi le dita fra loro, la Withpotatoes si domandava cosa continuare - a vivere, a sorridere: non sembrava esserci differenza, nella vita di Idem; conosceva gli stadi del lutto, d’altronde era una psicomaga, ma era ben diverso sapere qualcosa, rispetto al saperlo applicare – non esisteva un libretto d’istruzioni, quando la tua famiglia moriva in un attentato. Un attimo prima c’erano, e quello dopo non erano che presenze perlacee in un angolo della stanza, a ridere di una vita che non gli apparteneva più.
    Nathan ed April. Fra tutti, fra tutti, erano gli unici che non l’avevano mai giudicata. Per loro non era mai stata quella strana, quella della quale vergognarsi, quella diversa, quella cui sorridere perché suscitava tenerezza: erano stati i suoi migliori amici, i due fratelli, prima ancora di essere la sua famiglia. Non sapeva più chi essere, Idem, senza di loro.
    «non so cosa fare» confessò, in un sussurro labile destinato alla memoria di foglie e radici, il tono sottile e tormentato di un albero caduto solo. Indossava un corto vestitino giallo, spiga di grano fra fili d’erba - il preferito di Nathan, un regalo di April. Se lo stringeva addosso con il bisogno che un bambino soffocava nella trapunta ricamata dalla madre, la speranza sopita che nascondervi il viso avrebbe fatto desistere i mostri dall’attaccare. Poco importava che i mostri di Idem avessero già attaccato: sperava ancora, dopo due giorni, che non fosse vero. Deglutì, le unghie a premere nei palmi per richiamarsi ad una realtà che aveva ancora necessità della sua presenza. La cerimonia sarebbe cominciata di lì a breve, e la Withpotatoes non avrebbe mai lasciato gli altri ad affrontarla da soli - la sua famiglia, Donnie, Eugene. Non era difficile ricordarsi che anche loro avevano perso qualcuno, che non era sola in quel lutto – era semplicemente surreale, credere che anche loro riuscissero a convivere con quell’aspirante vuoto dentro. Li ammirava, Idem Withpotatoes. Era orgogliosa di avere persone del genere nella propria vita. Ma aveva bisogno di spazi, di respiri a cui confidare il proprio dolore senza sentirsi in colpa, senza il tremulo mi dispiace che le stringeva la gola ogni volta che sforzava le labbra ad un sorriso. Così lo ripetè, sapendo che qualcuno, ad ascoltarla, c’era sempre. Ci sarebbe stato sempre, ormai.
    «non so cosa fare.» più vicino ad una lacrima concreta, che non ad una sentenza razionale. Tenne gli occhi fissi sulla corteccia di fronte a sé, lo sguardo liquido a sfumare il tronco in una distratta pennellata marrone. «non devi fare niente» il sussurro freddo di una vita strappata. «devi solo essere…idem. Hanno bisogno di te» Ed allora si morse il labbro superiore, ruotando gli occhi su Nathan Withpotatoes. Suo fratello maggiore, la sua certezza e la sua risposta – colui che l’aveva sempre accettata, e che per primo le aveva rimboccato le coperte. Colui che aveva sempre una soluzione a qualunque problema, in grado di far sorridere non appena le labbra si curvavano in un broncio. «ma io ho bisogno di voi. non conta niente?» ed avrebbe un po’ voluto gridarla quella domanda, Idem, anziché sentirla scivolare sulla lingua come un granello di sabbia all’interno di una clessidra. Appena udibile, appena uno screzio sulla superficie opaca di una realtà astemia dal tanfo di distilleria – incoerente, ingiusta, bugiarda. April, poco distante, sospirò piano. Fu un gesto molto umano, per qualcuno che umano non era più. «non è giusto.» Deglutì l’ex Tassorosso, sentendo la gola stringersi ad ogni ansito. «siete…eravate, così buoni. mi mancate già.» ammise, serrando le palpebre e lasciando che le lacrime rotolassero lungo le guance, dove rapidamente le asciugò con il dorso delle mani. «ci sono tante cose che non sai. non siamo le persone che credevi» April inarcò le sopracciglia, avanzando di un passo verso di lei. Nathan le lanciò un’occhiata, un sorriso sghembo a piegare appena le labbra sottili. La sorella allungò le mani verso Idem, che istintivamente cercò di raggiungerle – vita e morte, astratto e concreto. Un brivido la percorse quando i polpastrelli attraversarono le dita di April, il pugno ora chiuso a stringere aria e rimpianto. Niente. Il cuore di Idem Withpotatoes, saltò un battito – o forse dieci, o forse cento. «ci sono cose di cui non vado fiera. Ho…» deglutì, distolse lo sguardo. «ho lavorato per i Dottori» Non le domandò in che senso, Idem. Non poteva importarle di meno cosa April avesse o meno potuto fare nel suo tempo libero: era certa, la Withpotatoes, che fosse buona.
    Certamente, non aveva meritato di morire in un attentato.
    C’erano tante voci, riguardo l’accaduto: alcuni riversavano le colpe sui babbani e sulle loro guerre di religione, puntando l’indice contro l’estremismo islamico che, nell’ultimo periodo, mieteva vittime quante foglie ad ingiallirsi sui rami in autunno; taluni accusavano i servizi segreti, sempre babbani, intenzionati a scatenare una guerra.
    Chi c’era, rimembrava il dorato stemma di Durmstrang, prima che tutto fosse fuoco e cenere.
    «non ha importanza» supplicò lieve, cercando le iridi scure di sua sorella. Non aveva più importanza, ormai. Le dispiaceva non gliene avesse mai parlato prima, ma di certo non avrebbe cambiato opinione su April: non avrebbe cambiato opinione su nessuno, Idem. Del buono che vedeva negli altri, faceva il proprio specchio. «io…» Nathan, le mani portate a coppa sulla bocca, la osservò con la disperazione di chi portava sulle proprie spalle il peso del mondo – uno di quei pruriti al palato impossibili da grattare, che soffocavano i respiri in singhiozzi. «non pensavo che… non avrei dovuto…» avrebbe voluto stringerlo, pregarlo di parlarle. Anche solo abbracciarlo un’ultima volta. «nath?» «idem?» Sobbalzò, lanciando un’occhiata alle proprie spalle – una voce viva, una presenza calda, un paio d’occhi indagatori. «sta iniziando la cerimonia» E la Withpotatoes annuì, i pollici a raccogliere lacrime che non s’era accorta di aver versato. Sorrise triste, di quella melanconica nostalgia priva di parole e tutta di tormento. «arrivo.» ma quando si volse verso Nathan ed April, loro non c’erano più.
    Per giungere alla radura, laddove si sarebbe tenuto il funerale, bastava seguire i fuochi fatui che, pallidi, indicavano la via – sempre dritto fino alla quercia bitorzoluta, quindi girare a destra. Il luogo adibito alla funzione era più curato e meno spoglio di quanto ci si potesse immaginare, se non si considerava la presenza massiccia di Idem ai preparativi: sedie bianche costellavano ordinatamente il corto prato ben tenuto, un piccolo corridoio libero al centro permetteva a chiunque di raggiungere facilmente il palchetto sopra elevato, laddove erano incorniciate le foto di coloro che erano state vittime dell’attentato.
    Sorrideva, Nathan Withpotatoes. Sorrideva, April Withpotatoes. Sorridevano, Delilah Jackson e Neil Armstrong, in quei fotogrammi che ripetevano, infinito ed all’infinito, la stessa ilare sequenza.
    Non sorrideva, Idem. Non sorrideva, Donnie.
    I morti sorridevano sempre di qualcosa che ai vivi ancora sfuggiva.
    E quelle simboliche bare vuote, a risuonar l’eco delle parole non dette.
    Idem rassettò un abito già impeccabile, gli occhi a scivolare sulle numerose teste che già avevano preso posto, e su quelle che avevano preferito rimanere in piedi ai margini della radura. Era stata sua premura promuovere l’evento a chiunque, non solamente a chi era interessato direttamente alla perdita di qualcuno di caro: tutti, quel primo luglio, avevano perso qualcosa. Non era necessario essere soldati al fronte per perdere una guerra. Non si trattava di una cerimonia religiosa, non era mai stata tradizione dei maghi, o almeno sicuramente non dei Withpotatoes, quella di riporre la propria fede in una creatura superiore – la fede, loro, la lasciavano agli esseri terreni. Si trattava di una funzione a cui avevano aderito alcuni fra i maggiori esponenti del mondo magico, simbolicamente presenti a portare il supporto della propria nazione: v’erano ambasciatori da ogni luogo, partendo dalla Cina fino a giungere allo Zimbabwe, ministeri esteri e qualche Primo Ministro Magico. Riuscì perfino ad intravedere, seduto sull’ultima sedia dell’ultima fila, il preside di Salem, William Lancaster. Jeanine Lafayette, preside di Beauxbatons, avrebbe cercato di raggiungerli in serata, o almeno così le era stato riferito dai suoi Portavoce: in Francia v’era ben più di un coccio da raccogliere, più d’una famiglia da stringere.
    Più di una battaglia persa sul quale piangere.
    Drizzò la schiena, un sorriso timido a spuntare dalle labbra pallide come una crepa in mezzo alla neve. Si fece strada nel corridoio, un rispettoso cenno con il capo a tutti coloro che ne incrociarono la sguardo – li guardò tutti, Idem, pur senza vederne nessuno. Una mano si allungò per porgerle un mazzolino di margherite, e la Withpotatoes si fermò giusto per rivolgere un’umida, ma grata, smorfia ad Erin, gli occhi gonfi ed il labbro tremulo. Si rese conto che molti seduti fra quelle file dovevano essere ancora studenti: era grata, la ex Tassorosso, che fossero lì. Che per una volta, una volta, vedessero che il mondo non girava solamente attorno ai caduti, ma anche – e soprattutto – a chi rimaneva in piedi, le braccia a sorreggersi e i cerotti ad unire i sanguinanti lembi di pelle. Non era solo un funerale, quello: era il simbolo di ricordi indelebili, e di una civiltà che si sforzava di andare avanti anche per loro.
    Non sarebbero rimaste vittime senza nome di una guerra priva d’età.
    Raggiunse la prima fila, dov’erano stati predisposte le sedie per i membri più stretti dei defunti. Si sistemò nella penultima seggiola verso l’esterno, la spalla destra a sfiorare la sinistra di Donnie, e l’altra a bearsi del vivo calore di Oliver. Inspirò e chiuse gli occhi, aprendo la mano verso il biondo fratello telepata: non sarebbe stata la prima a violare i suoi spazi personali, conscia di quanto fossero importanti per Oliver, ma se avesse voluto una mano da stringere, lei sarebbe stata lì. Lei sarebbe sempre, stata lì.
    Che loro lo sapessero o meno, che lo volessero o meno. «ehi» bisbigliò, cercando di schiarirsi la voce, lanciando un’occhiata a Donnie. Donald Armstrong non aveva seguito suo fratello in Francia, preferendo l’abitudinaria e tranquilla vita di Londra: eppure, dallo sguardo vuoto che perpetuò di fronte a sé, pareva che anche lui fosse partito con Neil. Un’altra taciuta vittima. L’unico cenno che le diede di averla sentita, fu quello di stringere le braccia attorno alla vita sottile della bambina tenuta testardamente in braccio, i lunghi capelli di un castano dorato a scivolare ordinati sulle spalle: Tupp. Era stata là, la bambina, con i suoi genitori.
    L’unica superstite dell’attentato. Nessuno sapeva come fosse stato possibile, e già qualcuno gridava al miracolo.
    Tupperware non aveva detto una parola da quando, quella notte stessa, era stata riportata a casa: Donnie l’aveva presa con sé senza neanche ascoltare le condoglianze dei francesi, la porta già chiusa loro in faccia. Qualcuno le aveva infilato un fiorellino azzurro dietro l’orecchio , ed i petali cobalto evidenziavano le sfumature più chiare delle iridi verde scuro. Non piangeva. Guardava un punto fisso davanti a sé, il labbro inferiore sporto all’infuori, ma non piangeva.
    Idem asciugò rapida una lacrima sulla spalla, mentre il primo ambasciatore prendeva posto sopra al palco, tossicchiando greve al microfono alcune parole di conforto.
    E la cerimonia iniziò.
    Tutte le nazioni dissero la loro, innalzando con un'unica voce lo stesso, sofferto, pensiero: ci dispiace per la vostra perdita, vi siamo vicini. Per qualunque cosa abbiate bisogno, noi siamo disponibili ad aiutarvi. È stata una tragedia inaspettata, ed attendiamo che le forze francesi riescano a comprendere l’origine dell’esplosione. Nessuno si azzardava ad alimentare una miccia già accesa, lasciando la scintilla a sfrigolare nel vuoto.
    Nessuno s’osava ad accusare, addossandosi una guerra.
    Fu il turno dei veterani, coloro che erano sopravvissuti a battaglie antiche ed a traumi sempre recenti: è difficile, ma bisogna andare avanti. Non sono morti invano – non sono morti soli. Accompagnati da ricordi dei loro vecchi compagni, nomi che dopo decadi ancora erano in grado di stringergli la gola. Idem Withpotatoes ascoltò tutto con l’interesse che avrebbe riservato ad un documentario, sentito ma non proprio: era emotivamente accanto a tutti loro, ovviamente, e soprattutto apprezzava che fossero stati disposti a parlare in una, e per una, situazione del genere, ma.
    Ma, non si fece altro che parlar di morti, di ciò che avevano perso. Come se loro, tutti loro, non sentissero quella mancanza in ogni battito, in ogni millilitro di sangue al cuore. La morte non era un argomento sconosciuto, di quei tempi - di quella vita. Ci convivevano, era qualcosa che veniva dato fin troppo per scontato, il motivo che spingeva molti a vivere alla giornata. A scegliere una fazione. Non era così che aveva immaginato l’addio ad April e Nathan. Non era quello l’arrivederci che tutti loro meritavano.
    Non voleva fossero ricordati così.
    Non voleva ricordarli così.
    Attese che anche l’ultimo degli ultimi scendesse dal palco, quindi lanciò uno sguardo al proprio fianco. «vieni con me?» domandò sottovoce, cercando gli occhi della bambina. Tupp la osservò a lungo, prima di spostare le iridi color muschio su Donald, che pareva essere in grado di mettere a fuoco solamente lei. Quando la bimba gli strinse la mano, lui lasciò uscire un respiro tremulo a fior di labbra, e deglutendo vistosamente ruotò il capo verso Idem. «posso venire anche io?» Non avrebbe neanche dovuto chiederlo, e certamente non con il tono aspro e tagliente di chi non apriva bocca da giorni. Fu più una supplica, quella di Donald Armstrong, gli occhi rossi e spalancati a pregarla di non lasciarlo solo. Anche Idem si ritrovò a deglutire, ed annuendo alcune lacrime scivolarono involontariamente lungo le guance, bagnandole il sorriso. «mi farebbe molto piacere» rispose, le dita a serrarsi attorno al braccio del babbano. Non rispose alla stretta, Donnie, ma non si ritrasse neanche. Ti prego, lasciami entrare. Non devi farlo da solo, te lo prometto. Si alzò, il capo chino ad evitare gli sguardi dei presenti, e con cautela giunse sopra il palchetto, accompagnata a poca distanza dall’elettrocineta e la bambina. Si schiarì la voce, un colpo al petto, e strinse nervosamente il fiocco giallo fra i capelli corvini. Solo quando ebbe finito i preparativi lasciò che gli occhi scivolassero sulla folla d’innanzi a sé, le labbra a sfiorare il microfono curvate in un sorriso timido. «grazie di essere venuti.» esordì, le dita a stringersi attorno al leggio - unica dimostrazione di quanto le costasse essere lì sopra, la completa attenzione del pubblico su di sé. Il nervosismo di Idem non era dato dall’impaccio del parlare davanti a tutti, ma dall’intima incapacità di rendere a parole quanto ogni respiro le spezzasse i polmoni, e quanto ogni battito stesse combattendo per renderla la Idem Withpotatoes che tutti conoscevano. Quella di cui avevano bisogno. Quella di cui Idem, in primis, aveva bisogno.
    Quella che ancora ci credeva.
    «mi chiamo idem, idem Withpotatoes. Sono…» era? Corrugò le sopracciglia, il labbro inferiore stretto fra i denti: la morte non le avrebbe tolto anche quello. «sono» confermò. «la sorella di Nathan ed april» un cenno con il capo alle pellicole al proprio fianco, gli occhi a scivolare sui profili dei fratelli. Si morse l’interno della guancia, e tacque il paio di secondi che le permisero di assicurarsi di avere un tono di voce più sicuro, meno simile all’effimero sventolare d’una foglia ambrata. «avete presente il gioco con l’aeroplanino tipico dei genitori per far mangiare i bambini?» strinse la bocca, un sorriso nostalgico a riempirle le iridi di un impossibile color fiordaliso. «nathan lo faceva sempre, con me. non mi piacevano…» una smorfia, il cuore a mancare un colpo. «…gli spinaci. Così si inventava ogni volta un mezzo di trasporto diverso, e ne elencava tutte le capacità. Si trattava sempre di prototipi inventati da lui, sapete. Nathan è …era un genio, sin da ragazzino. Bastava dargli uno stuzzicadenti, e lui era in grado di progettare una leva per aiutare nonna Seti a spostare i suoi vasi» ed il tono di voce si fece caldo e distante, denso di quell’ammirazione che aveva nutrito per suo fratello da tutta una vita. Non ricordava, Idem, un momento in cui avesse dubitato di Nathan. In cui avesse immaginato una vita senza di lui. «con april ho imparato a fare le trecce» inspirò, espirò tremula. Erano informazioni che non avevano alcuna rilevanza per altri, ma che avevano tutto per Idem: erano pezzi della sua vita, quelli. Erano ciò che l’avevano resa Idem. «e passavamo le giornate a farle al nostro vecchio cane, Bau» una risata tagliente e delicata, dall’amaro sapore di miele e sangue. «fu april a chiamarlo così, nonna insisteva per mikhail smirnov» arricciò il naso, il capo abbassato sulle proprie mani. «april riusciva sempre a scamparla, con nonna seti: l’unica, posso assicurarvelo» Lasciò uscire l’aria in uno sbuffo umido e inquieto, la mano ad asciugare rapida la guancia destra, ridendo piano di ricordi che aveva sempre reputato banali, e che banali non lo erano più. «è più difficile di quanto pensassi, scusate.» deglutì, un’occhiata di sottecchi di fronte a sé e l’ombra di un sorriso colpevole sulle labbra. «è così» reclinò il capo all’indietro, lo sguardo al cielo. «ingiusto. È così ingiusto che non ci siano più. perché?» ed alla fine si lasciò sgusciare fuor dalla bocca quella domanda patetica e triste, la supplica di una bambina che non riusciva a comprendere. «non sono stati condannati per ciò che facevano, ma per ciò che erano: esseri umani. Ho sentito tante persone parlare oggi, e ve ne sono immensamente grata, ma… dov’è la rabbia? Perché non siete arrabbiati?» perfino lei, perfino lei, era furiosa – di quella rabbia triste che si depositava nei polmoni, cenere in colpi di tosse al vento. Di quella così sottile che si confondeva nelle lacrime, ma che tale rimaneva: rabbia per un gesto privo di senso. Non erano morti perché ribelli, tutti loro.
    Erano morti privi di crimine, a causa di chi, il crimine, lo chiamava giustizia. «com’è potuto succedere? Doveva essere una festa. perché nessuno…» vuole un colpevole. «perché a nessuno importa? non è giusto. Non è giusta, quest’abitudine alla morte. La vita è preziosa, ed è una meraviglia, e non è...» Giusto. Non si trattava di una guerra di fazione, quella – non era una lotta politica, non era stato un raid ministeriale per stanare ribelli: erano morte persone innocenti ed ignare, oltre a membri della Resistenza.
    Erano morti dei bambini.
    Scosse il capo, le labbra ad inumidirsi. «questo è il motivo per il quale vi ho invitati qui, oggi. non esistono distinzioni, capite? Purosangue, esperimenti» Ribelli, Mangiamorte. «europei o americani. È in momenti come questo che dobbiamo rimanere uniti. Non abbiamo…» corrugò le sopracciglia, inspirando umida dal naso. «non dobbiamo permettere che simili attentati capitino ancora, e non dobbiamo lasciare che siano questi a separarci.» una pausa, il capo ancora chino.
    Silenzio. «nessuna vendetta li riporterebbe indietro. Non siamo qui per sottolineare le mancanze, ma per enfatizzare quello che ci hanno dato. e per imparare arcuò nervosamente un piede, poggiando il peso sulle dita. «rimpiango di non averli abbracciati un’ultima volta. E di non aver detto loro …» alzò gli occhi, trovando le traslucide figure di Nathan ed April di fronte a sé, a rendere opaca e lattiginosa la platea alle loro spalle. La voce le si ruppe a metà frase, seguendo l’altalenante percorso del proprio cuore. «grazie» un mezzo sorriso. «per le notti insonne passate a passare attrezzi a nathan, per i pomeriggi passati nei camerini dove april mi passava ogni genere di abito. E per i pranzi dove nonna ci serviva le patate al cartoccio più agghiaccianti – scusa, nonna, ma è vero – di Brighton, e noi di nascosto facevamo morra cinese per decidere chi le avrebbe finite. E per tutte quelle volte che mi avete detto che sarebbe andato tutto bene. E per tutte quelle volte in cui mi avete creduto» Gli occhi le si riempirono di lacrime, rendendo ancora più instabili i già sottili volti della sua famiglia. «e per avermi voluto bene sempre. E per avermi stretto la mano quando avevo paura. Sono onorata di essere vostra sorella» il tono ridotto ad un sussurro. «ieri e oggi, e domani e dopo ancora. e mi dispiace così tanto» un singhiozzo soffocato fra i denti, attutito da una risata triste. «di non avervelo detto quando eravate ancora vivi.» e di non avervi stretto abbastanza, e di avervi lasciato andare. «non ce n’era bisogno, idem» Serrò le palpebre, inumidendosi le labbra. «viviamo in un mondo fragile,» sorrise, la ex Tassorosso. Sorrise onesta, e gentile, e con negli occhi i sorrisi di Nathan ed April. «non aspettate che sia troppo tardi.» Allora guardò la sua famiglia, uno per uno, ed i suoi amici. Non avrebbe commesso ancora lo stesso errore. «so che mi odierete per averlo detto,» un sorriso sbilenco, lo sguardo ad ammiccare a Darden. «ma sono grata di essere vostra figlia, nipote, sorella,» e guardò Darden, Isaac, Oliver, Gemes. «cugina,» e cercò Damian, Anjelika, Shane – e Nathaniel, una nota ilare a curvarle la bocca. «collega,» guardò Stiles, e tutti coloro che lavoravano al San Mungo. «amica,» e cercò gli occhi di Euge, e Phobos, e Keanu, e tutti i ribelli e coloro che l’avevano accettata, malgrado le sue stranezze, durante il percorso di studi ad Hogwarts. «ma anche semplice conoscente. E volevo ringraziarvi dei sorrisi casuali,» fece spallucce, lo sguardo abbassato. «migliorano sempre la giornata. Mi dispiace di…» non essere normale. Di avere qualcosa che non va. Di avervi messo in imbarazzo, o di avervi regalato un fiore perché avevate un paio d’occhi belli. «so di non essere un granchè, ma sono tutto ciò che ho. Grazie per la pazienza?» fu più una domanda che un ringraziamento, le palpebre assottigliate ed un sorriso stentato sulle labbra. «migliorerò nei miei biscotti. La prossima volta nessuna intossicazione alimentare, lo prometto» Allungò una mano al proprio fianco, stringendo nel palmo la piccola mano di Tupp. Sollevò appena gli occhi sui fantasmi di Neil e Delilah, annuendo piano. «e vi prometto anche proteggerò sempre ciò che mi è rimasto. Ciò che mi avete lasciato» cambia questo mondo, Idem Withpotatoes.
    E tutto tacque, mentre Idem volgeva un sorriso impacciato dalle lacrime a Donnie e Tupp, le dita avvolte a quelle sottili della bambina.
    E tutto tacque finchè qualcuno, dalle ultime file, non si levò in piedi e cominciò ad applaudire.
    | ms.



    SURPRISE BITCHEEES.
    Volete sapere chi è il qualcuno misterioso? Avete già qualche idea, qualche teoria del complotto sulla vita? Per sapere se avete ragione o meno, dovrete attendere.
    Ho postato per prepararvi psicologicamente, darvi modo di iniziare il post, ma voi non potete ancora rispondere a questa discussione - manca qualcosa, manca un motivo.

    NEXT: 21:00.
    Tutti connessi per la verità.
    O per un'altra menzogna.


    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 11:59
  5. .
    Mi scuso in anticipo per la delusione che riceverete nel scoprire che non è il mistico fateggio tanto desiderato u_u ma comunque non è che sia del tutto discostante dall'argomento eh! Un reaglino per tutti e chiedo venia per i pg che non sono riuscito ad inserire D:
    (Un grazie specialoh ad Auri e al piccolo consiglio di vitale importanza ewe)
  6. .
    "Sei inutile", dice una voce nella mia testa. Se potesse avere delle fattezze umane starebbe sicuramente sospirando, un'espressione a metà tra lo stanco e il disperato dipinta sul viso. Avete presente, no? Il tipico piglio che si riserva solo a un amico di vecchia data che continua a commettere sempre gli stessi errori. Sally, così l'ho soprannominata, è senza ombra di dubbio la peggiore di tutte: ironica, schietta, dal carattere difficile, è quella che prende il comando ogni volta che faccio qualcosa di stupido, nell'ammirabile ma inutile tentativo di ammonirmi e farmi diventare una persona migliore; è, di conseguenza, quella con cui ho più spesso a che fare: io e la stupidità, del resto, siamo ottime compagne di avventure da un bel po' di tempo. Quando Sally non c'è sopraggiungono le altre, Emmy, Kenny, Danny e Richard. So che quest'ultimo stona con gli altri perché non fa rima, ma quel triste giorno in cui decisi di nominare le mie voci perché volevo avere perlomeno degli amici immaginari non me ne venne in mente uno migliore, e sono tutt'ora troppo affezionatagli per cambiarlo.
    "Che ne pensi di cambiare il discorso, allora? Stai tergiversando!", si intromette Emmy, ricordandomi il motivo per cui questa pagina è aperta nel mio browser. Avrei dovuto scrivere e inviare questa discussione più o meno un'ora fa, ma il mio peggior vizio, nonché quello che ha portato Sally a descrivermi come inutile qualche riga più sopra, è la procrastinazione. Procrastino tanto, in ogni aspetto della vita, dallo studio alle relazioni sociali ― ma se nello studio in un modo o nell'altro riesco sempre a farcela, nelle relazioni sociali faccio schifo. Procrastino anche quando si tratta di scrittura, la mia più grande passione: amo scrivere da quando sono piccola, l'immaginazione è una delle poche doti che posseggo, eppure quando mi si presenta l'occasione spesso non riesco a trovare la forza di iniziare. Quando riesco a farlo, di solito al termine di molto tempo passato sui social network, mi ci vogliono pochi secondi per concentrarmi, e allora posso scrivere senza sosta anche per ore. La parte divertente? In una buona metà dei casi sono costretta a smettere di farlo subito dopo aver iniziato perché ci ho messo così tanto tempo da aver terminato quello a mia disposizione, e sono costretta a studiare, uscire, o altre attività noiose e inutili come queste. Sally sta ridendo, e giuro che sbatterei la mia testa sul muro solo per farla smettere, se fossi sicura che servirebbe. "Insomma, sta' zitta per una buona volta! Sto cercando di scrivere". Che bella voce interiore che mi hanno assegnato, eh? C'è un posto dove farmela sostituire? "Sto zitta solo per godermi questo mistico momento: stai finalmente scrivendo, o m g. È questo un miracolo?". Una voce mi sta prendendo in giro, ho fame, e ho scritto venti righe senza dare assolutamente alcuna informazione su di me: good job, Manè.

    Ripartiamo da qui, okay? Ciao, grazie di aver aperto la discussione ed essere arrivati fino a qui senza imprecare e chiuderla (sì, ti vedo, tu che hai saltato tutta la prima parte, te se ama comunque ♥), mi chiamo Manè e vengo dalla Sicilia, anche se tecnicamente la mia famiglia è armena. Mi definisco un ibrido tra una ragazza italiana e una armena, dato che sono l'unica della famiglia ad essere nata e cresciuta qui, più precisamente a Siracusa, sebbene di armeno abbia solo il naso arcuato, purtroppo ;___; Ho anche un nome italiano, Federica, però lo uso così poco che se qualcuno mi chiama così mi ci vuole un po' di tempo per realizzare che si stia riferendo a me :'D Quindi potete chiamarmi Manè che è un nome tanto carino (è collegato al concetto di pace, anche se non posso definirmi la persona più pacifica del mondo), oppure Scarlet, o 707 (e qui se capite la citazione vi devo un biscotto), o se volete non chiamatemi proprio, non mi offenderò (forse) :c "Potresti andare avanti, per favore?" Sì, giusto, grazie, Kenny.
    Vivo a Siracusa con i miei genitori, il pc, il cellulare e i miei animali e amici immaginari. Sono una persona strana, ma questo l'avrete già capito. Tendo a pensare troppo e ad agire poco, sogno tanto ma non sono per nulla pratica, amo gli esseri umani in quanto creature affascinanti ma allo stesso tempo li odio, mi affeziono subito alle persone e sono terribilmente ingenua, sono insicura da far schifo e passo gran parte della mia vita ad autocommiserarmi... , questo genere di cose (è curioso come sia facile aprirsi completamente davanti a dei perfetti sconosciuti, vero? È quello che amo dell'internet ♥). Oh, e poi sono #TeamInstinct a vita e Spark è uno dei miei (tanti) cinammon roll. Gli altri sono Adrien Agreste di Miraculous Ladybug, Yoosung Kim di Mystic Messenger, Tanner Patrick di... ah no, lui esiste sul serio, anche se sembra troppo perfetto per farlo, e ce ne sarebbero molti altri, ma non mi vengono in mente al momento. Amo leggere: tra quelli che ho più amato rientrano ovviamente i sette libri di Harry Potter [sette. Mi rifiuto di considerare canon The Cursed Child (anche se #scorbus a vita)]. Per il resto, leggo un po' di tutto, anche se ho una predilezione per il fantasy e il distopico (Solo per Sempre Tua. COSA NON È QUEL LIBRO. Veramente, se non conoscetelo date un'occhiata, è tutto il contrario di quello che può suggerirvi il titolo). Sto attualmente leggendo Percy Jackson e gli Dei dell'Olimpo, grazie a un compagno di classe che mi ha trasmesso l'amore per questa saga. Vorrei anche leggere dei classici nel 2017, tanto per farmi una cultura: per ora tra quelli che ho letto hanno preso dei posti insostituibili nel mio cuore Il Piccolo Principe e Zanna Bianca (che credo sia stato il libro che più mi abbia influenzato stilisticamente nella scrittura), e anche Piccole Donne, dai, seppur il finale del libro successivo mi abbia lasciata alquanto delusa x___x Sono una nabba in quanto ad anime, ne ho visti veramente pochi e perlopiù trash (Battle Lovers, anyone? Wolf Girl & Black Prince?). Ho provato a vedere SAO, ma verso il nono episodio mi ha delusa tantissimo e non ce l'ho fatta (eppure le premesse erano così belle ;__;), però ho scoperto la parodia che si può trovare su youtube, "SAO Abridged Parody", e l'ho divorata in due giorni. È oro ♥ Ah, ho visto un episodio di Fullmetal Alchemist (solo due parole: Nina Tucker.) quando ero piccolina e ne sono rimasta traumatizzata a vita, nel senso che ancora me lo sogno la notte. :DD Sono ancora più nabba con le serie tv: data la mia indole procrastinatrice e incostante, il giorno in cui riuscirò a finirne una sarà lo stesso in cui gli asini voleranno <__< Ho visto qualche puntata di OUAT e Jessica Jones (♥), la prima di Sense8, e niente, non sono mai riuscita a terminare nessuna delle due. La musica mi accompagna in ogni cosa che faccio, dallo studio alla scrittura (quando non posso ascoltarla la canto, rompendo i timpani a tutte le persone che mi circondano, sì, ma chi se ne importa u.u). In questo periodo ascolto moltissimo i Panic!At The Disco, i Twenty One Pilots, Ed Sheeran, Imagine Dragons, Halsey e Linkin Park, ma in generale sono aperta a più o meno tutti i generi v__v Adoro i mashup e i nightcore.
    Sono ossessionata dai Big Four (Merida, Jack, Hiccup, Rapunzel). In un altro gdr ho una pg che è una Rapunzel mancata, praticamente, mentre ruolo Jack Frost in contesto AU con Cicì, che ruola Merida. Volevamo anche aprire un gdr tema Disney/Pixar/Dreamworks ambientato in una scuola e con tante cose fighe tipo i poteri magici e i cattivi e i lupi mannari eccetera ma siamo l'una peggio dell'altra e se andremo avanti di questo passo non succederà mai. "Nessuno sa chi sia Cicì, razza di idiota." SALLY! Non mi eri affatto mancata, sai?
    Anyway, Cicì è la mia partner e migliore amica, mia spalla e compagna di sofferenze al liceo classico che frequentiamo, nonché la ragazza che sopporta i miei scleri e con la quale creo tantissimi pg relazionati che alla fine non abbiamo mai tempo di ruolare AHAHA È stato proprio il desiderio di muovere due pg (su cui non facciamo spoiler, perché ci piace il mistero) nell'ambientazione di Harry Potter che ci ha portate qui! Valeria mi aveva già parlato di questo gdr un annetto e mezzo fa e ammetto di avervi stalkerati più volte, pur senza iscrivermi a causa di mancanza di tempo. Hai molto tempo libero ora, vi chiederete? NO! Però voglio provarci lo stesso, perché sono impazientissima di muovere il pg in questione che è già un pezzo della mia anima anche se non è nemmeno ufficialmente nato ;__;

    ... credo di aver finito. Cicì mi stressa perché dobbiamo vedere The Amazing Spiderman (Andrew Garfield ♥), quindi credo proprio di dover andare. Se volete chiedere qualcosa fate pure, sono impazientissima di conoscervi e ruolare con tutti con il mio piccolo disagiato *____* Vi ringrazio di essere arrivati fin proprio alla fine ed ecco il vostro biscotto, come da accordo v__v *passa il pan di stelle*
  7. .
    Aisksjakkdska happy, shalalalaa!
    I'm singing in the rain, just IT'S RAINING MAN, HALLELUJAH, Hallelujah, Hallelujah, Hallelujah, Halleluuuuuuuuuuuuuuuujaaaaah imagine aaaalllll the peopleeee peeeeeeooopleeee help the peeeeeeeopleeeeee-okay, basta mashup e passiamo alle cose serie.
    Cieeeeo, sono Elena e vengo dalla Sicilia! *Clap clap* grazie, grazie.
    Ho passato i diciotto anni della mia vita a trovare uno scopo, un senso all'esistenza del mondo drogarmi di libri e serie TV, tra cui cito HP (e grazie), Hunger Games, Maze Runner, Trono di Spade, Gotham, Breaking Bad, Once Upon a Time.
    Parlando del gdr, so che ci sarebbe la lista dei personaggi prenotabili, ma io sono in crisi e non so quale fare, avete consigli/preferenze/qualcosa?
    Cieeeooh
  8. .
    spoiler su the 100 se non siete arrivati alla 3x07 o alla 3x09 (?)

    vabbe, oggi sono solo un po' emotiva giuro

    CIAO TRENO





  9. .
    Lo sapevo che lavresti fatto
    Sro
    Malissimo
  10. .
    CITAZIONE (.whole @ 12/4/2016, 18:18) 
    CITAZIONE
    ci vuole più bellamy nel mondo

    Non diciamo fesserie Mazzarello, non diciamole.

    Spoiler di The 100 sulle ultime puntate
    Ci voleva più Lincoln altroché!
    BLz7TYq
    Senza più lui e Lexa tutti i miei sogni sono svaniti #wat

    #iostoconagne #scusasara
  11. .
    ft Lil Wayne. E sappiamo tutti cosa vuol dire.

    yjHbyWZ



    (sì, ci voleva il doppio spoiler. No, non mi pento di aver perso tempo così invece che studiando)
    @.whole


    Edited by hear me WAYNE! - 8/4/2016, 21:08
  12. .
    amo davvero troppo quando i miei cosi fatti a mano vengono apprezzati così genuinamente e non per farmi felice.
    amo tantissimo le persone buone, e felici, e scialle. Amo i compleanni fatti così, in casa, con cibo e giochi scemi tipo ninja o da tavolo, con gente che non si conosce fra loro ma a fine serata sono amiconi.
    E' stata una giornata bellissima, finita troppo in fretta; la vorrei tutti i giorni.
    E' terribile essere una persona così poco socievole, perchè credo che amerei avere quel gruppo di amici, passare così le mie serate, e sono davvero depressa per il fatto che io non ne sia in grado perchè non sappia cosa voglia dire relazionarsi. Ma credo in me, un giorno avrò anch'io un gruppo di amici con cui uscire tutti i giorni così (?)
  13. .
    Selfie Kiss....Shane mi dispiace ma adesso non puoi negarlo che mi hai baciato...shæling
    HPCBrYG
  14. .

    19 anni dopo
    Non c'è davvero bisogno che ve lo spieghi, guardate e basta (?)

    ysmxjYE tTzNb3g Cfi6fJ7

    BvIYr5E zeEtDV5 ZJ5VYAx

    1FqohKh JnYxSdx G38dyro

    ZuD4ktQ ShEhNny bwfDzAk

    0rye3S9 xNRuhFE pXalU2t



    Cosa?
    Oggi pensavate scherzassi?

    Lo posto in WAT perchè non ha senso nè in galleria nè in reagali grafici, tanto più che metà dei pg genitori sono disattivati :') TANT'è
    (AAH e Magnus era "leroy-winston" e non "Italie" nella prima versione come ho detto oggi, quando ancora li avevo fatti arancioni. Evidentemente l'idea di dare due figli (l'altra una ragazza, Agnes, con il volto di Daphne che però qui non ci sta) grifondoro a Maeve aveva vinto infine ♥ ♥ e non avevo neanche fatto la figlia hades da shippare con persephone perchè come potete vedere ne ho fatti tre per colore AHAHAHAH)


    19 anni dopo. La fanfiction che non è mai nata sull'aitante (?????) Cliff Wayne-Maddox, migliore amico di Chuck Larrington e Mike Stilinski (che... ho scritto con la y...). Cliff è risaputamente cotto di Cecile da sempre, ma Cecile non lo fila, e questo è l'ultimo anno in cui potrà dimostrarglielo quindi o ora o mai più ZANZANZAN. Come contorno vediamo gente a cazzo lo struggersi segreto di Chuck per Mike, di Mike per Persephone, di Persephone per la qui inesistente Tess Hades, di Tess per boh gente, di Magnus per Selena, di Crystal per Magnus e INSOMMA bordelli vari. Ovviamente, finiranno tutti accoppiati e felici alla fine perchè io sono per shipping compulsivo ma felice.
    Tutto ciò circondato da una cornice di trama tipo un professore malvagio e corrotto scoperto dal trio dell'ave maria e cose inutili mai davvero studiate perchè #acab

    CIAO CIAO CIAO RISPONDO ALLA QUEST

    (EDIT no vabbè non ci stanno tutti sulla stessa riga *idem che lancia cose* non ho sbatti di ridimensionarli YOLO. Erano molto più fighi schierati in tre per fila y____Y)
  15. .
    Questo periodo non so, sembra quello delle scelte forti. Così forti da mettere in dubbio tutto: far crollare castelli di sabbia, carte, rabbia. Ho cominciato con la psicologa qualche settimana fa, a breve comincerò ad andare dalla psichiatra. L'hanno detto, finalmente: PTSD. Disturbo da stress post-traumatico.
    Ho passato nottate in bianco, e pensavo di essermici ormai abituata; giornate a cercare un contatto col mondo reale senza trovarlo. Ero arrivata a non capire neanche più cosa lo fosse, reale.
    PTSD. Disturbo da stress post-traumatico.
    Ho detto tutto a mia madre. Del perché voglio dire, ed il perché è stato buttato fuori di casa. Ora è rivoluzione.
    Non so come andrà e non ci sono troppo mentalmente, in questo periodo intendo, ma ci provo. Non vi lascio. Non lascio. Non lascio perché sarebbe la scelta più facile. Non ci piacciono le scelte facili, giusto?
53 replies since 11/12/2011
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