Votes taken by cielita.

  1. .
    Più che altare del cielo, ormai cominciava davvero a pensare che avrebbe dovuto chiamarsi mala suerte. Non era la prima volta che lo pensava, questo era vero, ma per mesi, anzi, per quasi un anno si era detta e ripetuta di non dover neanche scherzare sull’argomento. L’aveva allontanata da sé stessa, quella consapevolezza, tacciandosi da sola di vittimismo. C’erano così tante cose belle al mondo, e la vita era sempre e comunque meravigliosa. Ogni giorno meritava di essere assaporato e sarebbe sempre riuscita a trovare almeno un aspetto positivo perché il sorriso le illuminasse il volto. E c’era riuscita, in un qualche modo c’era sempre riuscita, nonostante tutto. C’era riuscita quando sua madre, l’unica famiglia che avesse mai conosciuto, era scomparsa. C’era riuscita quando quel padre ancora quasi del tutto estraneo era partito per la guerra, e persino quando per mesi non era tornato. C’era riuscita imparando a conoscerlo attraverso le parole di quella zia che, al contempo, era diventata per lei una figura genitoriale e un’amica, una sorella. Si era persino rimproverata più aspramente, quando alla fine suo padre era tornato, non del tutto interno, diverso persino da quel falso ricordo che si era creata, ma era pur sempre tornato, ripetendosi che sì, le cose si sarebbero aggiustate, che, come sempre, ci sarebbe stato qualcosa per cui sorridere, per cui continuare a vivere.
    Ma ora erano spariti tutti.
    Julieta, che non era mai tornata.
    Mira, la sua nuova madre-amica-sorella.
    Suo padre, che in fondo aveva sempre amato, persino quando non ne conosceva nemmeno il nome.
    E Kaz. Persino Kaz.
    Avrebbe potuto, avrebbe voluto scomparire anche lei. Almeno, così, avrebbe smesso di far sparire chi le stava intorno. Le persone a cui voleva bene e che, forse, le volevano bene a loro volta. Dopotutto, insieme alla sua famiglia, l’Oh non era forse sparito per questo? Perché era suo amico?
    Si era preparata a partire, era già tutto pronto, ma era stato proprio lui, suo padre, a farla desistere. Gliel’aveva vietato. Perché era piccola, perché erano già in tanti, perché sarebbe stata più utile lì. Non aveva parlato di pericolosità, ma Aracoeli lo sapeva. Gliel’aveva letto negli occhi, nonostante, adesso, quella patina fosse ancora più opaca, rendendo Javier ancora più inaccessibile.
    E così Aracoeli era rimasta.
    Mentre loro erano spariti.
    Un’ora dopo l’altra, un giorno dopo l’altro, si era trascinata per il castello, sforzandosi di sorridere, sforzandosi di essere allegra, calorosa, normale. Ma il suo sguardo, come quello di suo padre quasi un mese prima, era offuscato. Non si sentiva più sé stessa. Non era Aracoeli, era Malasuerte.

    Meccanicamente era arrivata al punto d’incontro ed era salita sulla nave, salvo poi riscuotersi, con un colpo al cuore, a quella vista. Tutto quell’azzurro, quel verde, quel sole… le ricordavano casa. Sua madre. Porto Rico. Certo, le tonalità di mare e natura erano completamente diverse, sbagliate, persino, ma il groppo alla gola non accennava ad andarsene. Per certi versi, era felice di sentirsi così. Era di nuovo vigile, almeno in parte.
    Avrebbe però voluto esserlo di meno, quando poi si era infilata in una di quelle ostras giganti. Amava il mare, e amava mangiare pesci e crostacei di ogni tipo, ma quell’animale… Era un contrappasso, forse? Essere mangiata da qualcosa che di solito mangiava?
    Miracolosamente quel viaggio era durato troppo poco perché l’ostrica mastodontica cominciasse a digerirla, e ora le sembrava di essere in un… «Palazzo delle sirene!», mormorò sorpresa e compiaciuta, guardandosi intorno a bocca spalancata. Peccato che poi le venne in mente che, probabilmente, da lì a poco il soffitto di vetro si sarebbe rotto e sarebbero tutti morti annegati.
    Tranne lei.
    «Mala suerte», sospirò, osservando la creatura dall’altra parte della parete trasparente. «È bellissima, anche così… vero?» Con gli occhi un po’ lucidi cercò quelli di Amio, per poi avvicinarsi alla corvonero, che teneva in mano la cartellina con le informazioni raccolte fino a quel momento. Prese a scorrerle insieme alla bionda, alzando spesso lo sguardo verso la creatura. «Sembra che… anzi, le stanno decisamente risucchiando tutta la luce. Un po’ come un dissennatore? Ma con la luce, appunto, non con i sentimenti…» Quella diagnosi le era orribilmente famigliare: si sentiva così anche lei. Privata della sua luce, dei suoi sentimenti. Il soprannome con cui la chiamava sua madre, Cielita, alludeva proprio alla sua solarità, al suo somigliare al cielo terso e brillante di una assolata giornata d’estate.
    Osservò ancora la creatura, assorta, riflettendo su quello strano scherzo del destino. «¡Pues claro!», esclamò di punto in bianco, con un piccolo saltello. Sorrise, finalmente senza sforzarsi. «Credo di sapere cosa le è successo! E anche cómo ayudarla!»

    CITAZIONE
    4. Ara, amio
    Medaka: la luce sprigionata dal corno multicolore che ha sulla fronte va ad intermittenza e le macchie luminose sul suo manto sono spente/opache


    Edere Vires


    Formula: edente vi. Incantesimo che permette al mago o alla strega che lo lancia di risucchiare l’energia vitale dell’avversario, che in certe creature si manifesta anche all’occhio umano, ad esempio sottoforma di impulsi di luce. Pur essendo molto pericoloso, deve rimanere attivo per ore perché chi ne è stato colpito arrivi a esserne completamente consumato e rischi la morte. In un normale duello provoca solo un indebolimento e una momentanea confusione, sebbene la vittima possa portarne strascichi per giorni.


    non verbale. Disegnare con la bacchetta una linea interrotta da due triangoli verso il basso, come le zanne di una creatura. Il colore del fascio è inizialmente grigio, ma più energia viene risucchiata, più assume nuove sfumature, fino a diventare un arcobaleno desaturato, quando la vittima è sul punto di morte.




    Incantesimo Energizzante


    Formula: Fiat lux. Incantesimo che non solo permette di spezzare la maledizione Edere Vires, attraverso la quale un mago o una strega può risucchiare l’energia vitale altrui, ma che fa anche recuperare a chi ne è stato colpito la luce, l’energia, appunto, che aveva perso. Dona dunque un senso di benessere generale e riporta la vittima a condizioni di salute stabili.


    non verbale. Puntare la bacchetta verso la persona o l’essere maledetto e disegnare una croce greca. Attenzione: i due assi devono essere della stessa lunghezza, altrimenti la guarigione non sarà completa. Il fascio è colore dell’arcobaleno e aumenta di intensità man mano il soggetto recupera energia vitale.



    CODICE
    <div class="card objs mago oscuro">
    <h2>Edere Vires</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>edente vi</i>. Incantesimo che permette al mago o alla strega che lo lancia di risucchiare l’energia vitale dell’avversario, che in certe creature si manifesta anche all’occhio umano, ad esempio sottoforma di impulsi di luce. Pur essendo molto pericoloso, deve rimanere attivo per ore perché chi ne è stato colpito arrivi a esserne completamente consumato e rischi la morte. In un normale duello provoca solo un indebolimento e una momentanea confusione, sebbene la vittima possa portarne strascichi per giorni.
    </p>
    <h6><span>non verbale. Disegnare con la bacchetta una linea interrotta da due triangoli verso il basso, come le zanne di una creatura. Il colore del fascio è inizialmente grigio, ma più energia viene risucchiata, più assume nuove sfumature, fino a diventare un arcobaleno desaturato, quando la vittima è sul punto di morte.</span></h6>
    </div>

    <div class="card objs mago guarigione">
    <h2>Incantesimo Energizzante</h2>
    <p><b>Formula:</b> <i>Fiat lux</i>. Incantesimo che non solo permette di spezzare la maledizione <i>Edere Vires</i>, attraverso la quale un mago o una strega può risucchiare l’energia vitale altrui, ma che fa anche recuperare a chi ne è stato colpito la luce, l’energia, appunto, che aveva perso. Dona dunque un senso di benessere generale e riporta la vittima a condizioni di salute stabili.
    </p>
    <h6><span>non verbale. Puntare la bacchetta verso la persona o l’essere maledetto e disegnare una croce greca. Attenzione: i due assi devono essere della stessa lunghezza, altrimenti la guarigione non sarà completa. Il fascio è colore dell’arcobaleno e aumenta di intensità man mano il soggetto recupera energia vitale.</span></h6>
    </div>
  2. .
    Aracoeli Miranda-Iglesias
    wanna be beater
    ‘Cause everyone hurts,
    Everyone cries.
    Everyone tells each other all kinds of lies.
    Everyone falls,
    Everybody dreams and doubts…
    Got to keep dancing when the lights go out.
    Aracoeli non era un’ingenua, non del tutto, almeno. Era solo un’inguaribile ottimista. Non erano poche le volte in cui si era sentita accusare di falsità, per questo, perché era impossibile che qualcuno credesse così tanto nel mondo e, ancora di più, negli altri. Eppure, da che ne avesse memoria, era sempre stato così. E sua madre l’aveva sempre incoraggiata e aiutata a sviluppare questa parte del suo essere, perlopiù in modo inconscio e, solo in tempi recenti, quando era diventata grande, parlandone apertamente. Le ripeteva spesso che il suo era un dono, ma anche una maledizione. Che non avrebbe dovuto perderlo mai, ma che doveva anche stare attenta a non farlo sfruttare alle persone sbagliate. Tuttavia, quest’ultimo era un controsenso, almeno per lei: come potevano esistere persone sbagliate?
    «ma alcune persone… scelgono di far del male agli altri.»
    Strinse le labbra, pensosa, ma alla fine annuì appena, ancora persona nelle proprie riflessioni. Quello che Kaz diceva era vero, perché tutti sono liberi di scegliere. Però… scegliere di fare del male? Le risultava così inconcepibile da metterle i brividi. Ma non era stato così, solo pochi mesi prima? Certo, da una parte e dall’altra le persone erano scese in guerra perché credevano in qualcosa, ma erano state consapevoli, dovevano esserlo state, che questo avrebbe significato anche fare del male agli altri.
    «non sempre per colpa loro»
    «Sì. E no. Si è sempre responsabili delle proprie opciones. Anche quando si è costretti», mormorò, istintivamente, stringendo le coperte sotto le dita. Forse era cresciuta in una cultura della colpa, ma non poteva farci nulla. Il senso di colpa le era stato instillato con la vita, e forse la sua vita stessa era nata dal senso di colpa. Quello di suo padre, che aveva lasciato sua madre. Quello di sua madre, che non aveva detto nulla di lei fino a quando non era stato inevitabile. Quello delle loro famiglie, che non avevano voluto sapere nulla né dell’uno né dell’altro, mai.
    «ma lo fanno. E non è giustificabile»
    « Lo hacen, sì», concordò, in un soffio. «Ma sono, siamo humanos. Sbagliamo. E perdoniamo.» Cercò lo sguardo dell’Oh e, quando lo trovò, lo fissò con intensità, sorridendogli sicura di quello che stava dicendo. «Tutti possono imparare a essere migliori.» Poteva essere una frase fatta, ma Aracoeli ci credeva davvero. Così come credeva, però, alla sofferenza dello special, una sofferenza, e una rabbia, così profonde da non poter essere pronunciate ad alta voce. O forse… che lo stesse facendo per lei? Per non spaventarla? Per non danneggiare il suo, di dolore?
    Sgranò gli occhi, sorpresa, e annaspò nel cercare qualcosa da dire. Farfugliò un piccolo: «Grazie», sentendosi immensamente piccola e stupida. «non lo sei per me» «Muchas gracias», tornò a ripetere, ancora più sorpresa e, stavolta, palesemente imbarazzata. Le ci volle qualche istante, però, per realizzare davvero quello che era appena successo. Kaz Oh, il bravissimo e coraggioso e bello battitore e capitano dei tassorosso, le aveva detto che, per lui, lei non era un mostro. Lui. A lei.
    Sembrava una scena da telenovelas.
    Una di quelle strappalacrime che guardava con sua madre. Quelle che duravano anni, decenni, persino, dove si raccontava la storia di una famiglia tra amore e morte. Quelle che le avevano riempito la testa, e il cuore, di sogni irrealizzabili di felicità.
    E che, in tempi recenti, erano in parte state soppiantate dai k-drama.
    Kaz Oh era un perfetto protagonista maschile di k-drama (e anche di telenovelas, a parer suo).
    Ma lei?
    Lei?
    Le si riempirono gli occhi di lacrime, un po’ al pensiero di sua madre, un po’ al realizzare ancora una volta cosa lui le aveva appena detto, un po’ perché, appunto, si sentiva inadatta, per non dire indegna, di quell’affermazione.
    E poi perché, adesso, non poteva più tornare indietro. Fino a quel momento era stata quasi una cosa a tavolino, frutto del sentito dire e delle immense capacità della sua immaginazione. Ma adesso la realtà stava superando la fantasia, e in meglio.
    Cominciava ad avere davvero una cotta per Kaz Oh.
    Così, naturalmente, vederlo appollaiarsi ai piedi del suo letto non poté che scatenarle nel petto una tempesta di emozioni. Che si andarono a sommare a quella mezza confessione sul soprannome con cui la chiamava sua madre. Sua madre… avrebbe voluto raccontarle di lui. Dirle che l’aveva accolta, e accettata, che l’aveva sostenuta e aiutata. Che si era preoccupato per lei. E che, adesso, chiedeva il suo parere su quale soprannome preferisse. «Come Rihanna!», esclamò in coro con Kaz, tutta contenta ed emozionata. «Bello! Ma anche Cece…» Perché scegliere era così difficile?? «Mi piacciono tutti! Grazie per avermelo chiesto… Però è un soprannome, no? Deve essere scelto da te. Cioè, dagli altri!! Deve essere scelto dagli altri.» Rise imbarazzata, abbassando per un istante lo sguardo. «En el sentido…» Tornò ad alzare gli occhi, cercando quelli di lui, ora persi fuori dalla finestra. «Guardandomi, secondo te da cosa ho la faccia? Riri? Cece?» Che poi lei non si sentisse all’altezza di nessuno dei due era un’altra storia.
    Ci si sarebbe arrovellata sopra ancora, perché la questione soprannome era molto importante, ma quella del quidditch lo era ancora di più. Amava quello sport. Insieme a Mireia, Dante e Virgil, il quidditch era l’unica cosa che l’aveva tenuta a galla, nei mesi appena passati. Certo, lei e sua zia si erano divorate decine di serie tv e film romantici, ma quando alla fine Mira crollava, addormentandosi raggomitolata sul divano, Aracoeli cercava vecchie partite e vi si immergeva. Sceglieva sempre le più lunghe, quelle che erano durate giorni interi, per non dire settimane, e le guardava tutta la notte, così concentrata sulle azioni da dimenticare volutamente tutto il resto.
    «tifo dagli spalti?» Annuì con forza, un sorriso un po’ triste, ma sincero, sulle labbra. «Non sono abbastanza brava e coordinata per fare la cheerleader, ma appunto, so un sacco di cori e… riesco a urlare molto forte!» Rise, stringendosi nelle spalle con colpevolezza. «Ecco, se esistesse una squadra di aulladores forse riuscirei a…»
    «oh no. Tu giochi»
    «… entrarCOOOSA??»
    Nonostante la bocca nascosta dietro le mani, Aracoeli diede prova di quello che aveva appena cercato di dire. Urlare era davvero una delle sue migliori qualità. Aveva una voce potente e ferma, troppo grande e forte per essere contenuta in un corpo tanto piccolo.
    Quindi congiunse le mani, ancora davanti alle labbra, e alzati gli occhi al cielo cominciò a ringraziare: «Te doy gracias, Jesús mío, de todo corazón, porque has venido a mi alma. Virgen Santísima, Angel de mi guarda, Angeles y Santos del Cielo, dad por mi gracias a Dios». Salvo poi accorgersi che erano in infermeria. E lei aveva urlato come una pazza.
    «Oh caz.»
    hufflepuff
    V year
    ENFJ-A
    Everyday Life Coldplay
  3. .
    Aracoeli Miranda-IglesiasV, 15 y.o.beater
    «TRANQUILLA BABYNA, ANDRÀ MEGLIO AL PROSSIMO TIRO!!!», gridò a Jack, le mani a coppa intorno alla bocca e la mazza pericolosamente vicina alla sua stessa testa. Non aggiunse, invece, il dubbio che la attraversò. Sarebbero riusciti ad arrivare di nuovo così vicini alla porta? Aveva sentito dire (e non visto con i propri occhi dagli spalti, intenta a tifare, nono………………….) di partite, gli anni precedenti, in cui le Furie non erano mai riuscite ad andare oltre il secondo passaggio, con il fato a congiurare contro di loro.
    Thor, sugli spalti, in preda ai warflashback: GRRRRRRRRRRRRRRRRRRR.
    Ma non voleva buttare giù i suoi compagni di squadra!! E, anzi, era convintissima che sarebbero riusciti non solo ad arrivare di nuovo al tiro, ma che avrebbero pure segnato, ancora e ancora.
    Un momento.
    Quella era la voce di… «TÍA!!! TÍA, HOLA!! TE AMO!!!» Aveva percepito la presenza di Mira con il kwore, e le soffiò una serie di baci con le mani guantate. Salvo poi accorgersi della tremenda altezza a cui si trovavano.
    «Ops.»
    Fino a quel momento, presa dall’euforia di stare davvero giocando, LEI!!!!, non ci aveva pensato sul serio. Non aveva realizzato TM di stare, letteralmente, volando.
    Deglutì rumorosamente e soffiò una nuvoletta di fiato caldo verso l’alto. «Todo irá bien, todo irá bien», si ripeté cercando di dimenticare di essere sospesa a decine di metri da terra, in mezzo a una nevicata, con una palla assassina pronta a disarcionarla.
    Con una palla assassina pronta a disarcionarla?
    «ARA FAI ATTENZIONE, DIETRO DI TE»
    Oh dolce, adorabile Ficus. «Gracias arbolito!!!», gli gridò mentre, senza pensarci, si girava un po’ nella sua direzione per sorridergli allegra.
    Ah già, il bolide.
    Il bolide su di lei.
    Si fece il segno della croce, baciò la mazza e rispedì il bolide (o meglio, ci provò) contro i corvi.
    Beautiful Day
    U2
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)



    (17) DIFESA ARACOELI (ara + ficus): si dice che andrà tutto bene e ringrazia ficus.
    BOLIDE SU GERI (ara)
  4. .
    Aracoeli Miranda-IglesiasV, 15 y.o.beater
    Aracoeli, una settimana prima: «Sono in squadra?».
    Tre giorni prima: «SONO IN SQUADRA?».
    Un giorno prima: «SONO. IN. SQUADRA.».
    Gli allenamenti, nelle settimane precedenti, non erano davvero serviti a farle entrare quel concetto in testa. E dire che non era caduta più del necessario!! A differenza di Balt, per cui si era preoccupata enormemente ogni volta, sebbene il resto della squadra, Ficus in primis, l’avessero rassicurata della normalità della cosa. E, anzi, le avevano fatto notare che se il Monrique fosse uscito dalla seconda partita di campionato tutto intero sarebbe stato davvero, davvero strano.
    Ma la vera cosa strana era che lei era in squadra.
    LEI!!!!!!!!
    SU UNA SCOPA!!!!!!!!!!!!
    IN SQUADRA!!!!!!!!!!!!!!!!
    CON UN SACCO DI PERSONE CARINE E SIMPATICHE!!!!!!!!!!!!
    L’aveva urlato (davvero, Dylan, sii fiera) alle sue zie al telefono, e a tutti quelli che avessero avuto la voglia (e soprattutto la sfortuna) di ascoltarla.
    Quella mattina, il sorriso da un orecchio all’altro, Aracolei era entrata nello spogliatoio già vestita di tutto punto, essendo ormai sveglia da ore per l’emozione. Altrettanto emozionata, con tanto di lacrime agli occhi, aveva ascoltato il discorso del LORO capitano (!!!!!). Pur avendo ascoltato ogni parola con la massima attenzione, aveva rischiato più e più volte di farsi distrarre dal sorriso dell’Oh, dai suoi capelli, dalla pelle PERFETTA, da… hhhh. «Sono un cliché vivente», sospirò drammatica, rivolta un po’ a tutti e un po’ a nessuno.
    E vabbè, di certo non si sarebbe colpevolizzata per questo (gasp, un pg di Sara che non si colpevolizza??? Ma dove andremo a finire????).
    In compenso, quando tutti afferrarono le scope e si misero in marcia per uscire dallo spogliatoio, il suo intestino si attorcigliò. Era pur sempre un pg di Sara.
    E se fosse caduta?
    E se avesse preso un bolide in faccia?
    E se avesse deluso la squadra?
    E SE AVESSERO PERSO?????
    Aveva sentito le parole di Kaz, sì, ma rendere tristi i suoi nuovi bff??? Non sopportava l’idea.
    Se non altro, riuscì a prendere quota senza cadere. E si mantenne in sella. «MIRA KAZ, NON SONO ANCORA MORTA!!!» Canon che si sarebbe portata sfiga, ma, mal di pancia da caghetto per l’emozione a parte, si sentiva davvero benissimo!!!!
    Anche se si stava congelando le chiappe.
    Non era pronta a quel freddo.
    Ah, e un piccolo particolare.
    «SABES QUE È LA PRIMA VOLTA CHE VEDO LA NIEVE???», urlò su di giri a Kurt (o era Jack??? Non voleva confonderle, si sentiva super in colpa a farlo!!! Ma erano così uguali hhhhh), scivolandole davanti per frapporsi tra lei e il bolide. Possibilmente non con la faccia, ma una ragazza può solo sperare.
    «Ay Dios mio, protegeme.» Preghierina al fly (letteralmente), e tentò di intercettare il bolide e spedirlo su Amio.
    Beautiful Day
    U2
    living in the middle between the two extremes
    (eliandi's version)



    (23) DIFESA KURT (ara + sun): le urla che è la prima volta che vede la neve
    BATTE SU AMIO (ara):

    CODICE
    (23) DIFESA KURT (ara + sun):
    BATTE SU AMIO (ara):
  5. .
    Aracoeli Miranda-Iglesias
    wanna be beater
    ‘Cause everyone hurts,
    Everyone cries.
    Everyone tells each other all kinds of lies.
    Everyone falls,
    Everybody dreams and doubts…
    Got to keep dancing when the lights go out.
    «ho detto qualcosa di sbagliato?»
    Oh baby. Dolce, tenero, baby Kaz.
    Che poi di piccolo l’Oh non avesse nulla era un’altra storia, visti i suoi innumerevoli centimetri. Ma era qualcosa nel suo sguardo, nelle sue parole, a farle saltare in mente, ogni volta che lo guardava, quegli aggettivi. Poteva anche essere alto il doppio di lei, e essere all’ultimo anno, e il capitano della squadra di quidditch di tassorosso, e il primo special della scuola (e forse persino della storia!!) ad aver mai volato a cavallo di una scopa, giocandoci, ma Kaz Oh andava protetto da tutto e da tutti. Dal mondo.
    E non era solo l’inner Thor di Sara, e Sara stessa, in effetti, a parlare.
    Aracoeli lo conosceva solo per sentito dire, ma, istante dopo istante, le sue supposizioni prima e la sua prima impressione dopo non fecero che rafforzarsi.
    «No. No, tranquillo», lo rassicurò con un sorriso, scuotendo appena la testa. «Forse, si alguna vez, sono io ad aver detto qualcosa di sbagliato.» Altrimenti come spiegare la sua espressione confusa e preoccupata?
    Ed evidentemente doveva essere proprio così, dato che Kaz continuò a osservarla con fare stralunato, prima di far scorrere lo sguardo nella stanza e infine sul soffitto. O forse aveva anche qualcosa di strano in faccia? Cercando di dissimulare l’imbarazzo si tastò il viso, convinta di trovarci orribili cicatrici, sangue o chissà cosa. In effetti finì per strapparsi una smorfia quando premette un po’ troppo sulla fronte, dove trovò quello che doveva essere un bernoccolo grande come una pallina da tennis. Be’, poco male. Forse.
    Per fortuna, nel mentre, il capitano era tornato a sorridere… e a guardarla. Sorrise a sua volta, un po’ di rimando, un po’ tanto compiaciuta quanto imbarazzata di avere l’attenzione di lui su di sé. Tuttavia, anche se con gentilezza, Kaz non sembrava molto d’accordo con lei. Aggrottò le sopracciglia, senza fare nulla per nascondere il suo esserci rimasta un po’ male. Aveva sbagliato a giudicarlo una brava persona? No, difficilmente sbagliava in queste cose. Però era strano che non pensasse che tutti fossero liberi di esprimersi e avessero il diritto di sentirsi bene o male che fosse, no?
    «non se ha ripercussioni sugli altri»
    «Oh.» Che non era il suo cognome. Non solo, almeno. Sgranò appena gli occhi, sorpresa e colpita. «Es cierto… Ma è difficile fare qualcosa che, anche solo involontariamente, non si ripercuota sugli altri, no?», gli fece notare gentilmente, giocherellando con il lenzuolo su cui teneva poggiate le mani.
    Era sorpresa, ma non spaventata, dal tono che stava prendendo quella conversazione. Credeva che il capitano dei tassorosso fosse venuto in infermeria per accertarsi che nessuno si fosse fatto male in modo irrimediabile, decisione già di per sé estremamente nobile e ammirabile. Pensava di essere solo una delle tante, cosa che in effetti era ed era sempre stata, quindi non si aspettava che si intrattenesse lì con lei per più di qualche minuto. Ma mettersi a parlare di cosa era giusto o sbagliato? Domandarsi se le persone avessero il diritto di dire e ancora di più fare tutto ciò che volevano?
    Davanti al proprio stupore, vide passare sul volto di lui una ricca gamma di emozioni, dalla confusione, alla tensione, alla rabbia, persino!, alla risolutezza. Un po’ si preoccupò, Aracoeli, pensando di nuovo di esserne la causa. Non voleva farsi odiare da nessuno, tantomeno dall’Oh, che sembrava sul serio una brava persona, una persona di cui avrebbe davvero voluto essere amica. Ovviamente, però, cominciò già a figurarsi i peggiori scenari, quando lui le incrociò le braccia davanti.
    «non sono liberi di essere arrabbiati con te perché sei una strega.»
    Questo non l’aveva previso.
    Anzi, non l’aveva proprio neanche pensato.
    Dapprima aggrottò la fronte, cercando di collegare tutti i puntini. «Non credo di aver capito…» Tuttavia, proprio mentre parlava, una lampadina le si accese nella mente. Ma era troppo assurdo per essere così… Le sopracciglia le si sollevarono, mentre negli occhi passava un bagliore di consapevolezza. «Non voglio fare la vittima… Anzi, non lo sono proprio!» Sbuffò, con una smorfia. «Sin embargo… Non è che a Castelobruxo fossi molto popolare, eh. Sono pur sempre una sangre sucia, o almeno, circa… Así, in ogni caso, sono sempre stata l’anello più debole della catena alimentare», cercò di spiegarsi, con una mezza risatina amara. «Ma questi primi giorni qui… Todo es diferente. Ed è ancora peggio. È quasi come se fossi un… mostro.» Abbassò lo sguardo, mordendosi inavvertitamente l’interno di una guancia già dolorante. «Ma non sono una vittima.»
    Non voleva sentirsi così.
    Non doveva sentirsi così.
    Perché lei era viva, a differenza di tanti altri. Lo doveva a sua madre, e persino a suo padre.
    Così si buttò in quello che sapeva fare meglio: parlare ancora e ancora. Ma evidentemente continuava a confondere Kaz. O forse era solo un problema linguistico? In effetti spesso non si rendeva conto di mescolare inglese e spagnolo, tanto era abituata a farlo e a usarli in modo interscambiabile – oltre al fatto che, a casa, con sua madre prima e con Mira poi, finivano per parlare con la sua lingua madre, il più delle volte –, ma sospettava che il vero problema non fosse quello.
    «perchè hai fatto i provini per la squadra?»
    Rise e si strinse nelle spalle. Era una domanda più che legittima. Anche perché gli aveva appena detto di aver paura di volare. Almeno non aveva aggiunto che quella era la sua prima volta sulla scopa, se si escludevano le fallimentari lezioni il primo anno a Castelobruxo. «Perché adoro il quidditch. Lo quiero», spiegò con sincerità, gli occhi luminosi, e lucidi, per quello che stava dicendo. «Ho sempre sognato di giocarci e… ho trovato il coraggio solo adesso. Mi sono detta che dovevo provarci. Dopo… dopo tutto quello che è successo… Il mio temor di volare non aveva senso!! Dovevo provarci e…» Rendendosi conto solo in quel momento di essersi dimenticata di riprendere fiato, si fermò e fece un gran respiro. «Scusa, quando parlo di qualcosa che mi piace me emociono un po’ troppo…» Rise scuotendo la testa per la propria stupidità, poi riprese: «Y nada. Ci ho provato. Per questo sono caduta. Lo sapevo già in partenza di non avere possibilità di entrare in squadra, ma dovevo farlo».
    Almeno in questo sperava di rassicurare l’Oh. Non voleva che si preoccupasse di ferire i suoi sentimenti, rifiutandole l’ingresso tra le fila del quidditch tassorosso. Sarebbe stato da locos affidare un ruolo tanto importante a qualcuno che, come lei aveva appena candidamente ammesso, aveva paura di volare. La passione era importante, certo, ma non sempre bastava.
    Un altro moto di istintivo affetto tornò a invaderla nel vedere l’elettrocineta emozionarsi per la propria popolarità. Non sembrava costruito. Anzi, non lo era e basta. Era sincero, e vero. Sorrise allegra. «Piacere mio!!» Oddio, le stava chiedendo come voleva essere chiamata?? Lui??? A LEI???? Arrossì di piacere e alzò appena le mani. «Non… non lo so? Non ho mai avuto un vero soprannome?? A parte Cielita…» Si rabbuiò per un istante, un velo di tristezza davanti agli occhi al pensiero della madre. Tuttavia si sforzò di riscuotersi subito, non volendo turbare ancora di più il ragazzo. Che però… «No…?» Altri problemi di traduzione? «Forse, anzi, di sicuro mi confondi con qualcun altro… Ma ci sta!! Non è che io sia molto memorabile… anzi, non credo di esserlo per niente!!», si schernì sorridendo e scuotendo appena il capo.
    E invece Kaz aveva ragione. Aveva fatto il tifo per i tassorosso per almeno due anni. Così come, per due anni, era stata al quinto anno. Ma il multiverso è un concetto di cui sappiamo spaventosamente poco e, al tempo, non c’era ancora stato lo zampino del daddy TM Javi.
    Aracoeli sapeva di essere una ragazza latina come tante, ma, tendenzialmente, la irritava non poco, giusto per continuare con gli stereotipi, l’essere confusa con un’altra persona solo perché latina. Ma se a farlo era il capitano dei tassorosso, il popolare e coraggioso (e bello) Kaz Oh… «Però grazie!! Se fossi stata qui sicuramente avrei fatto il tifo per voi!!!» Sorrise ancora, genuina. «E lo farò a partire dalla prossima partita, questo è certo. Conosco un sacco di cori!!»
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  6. .
    Aracoeli
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    on our own, then…
    I want to be with you
    ‘til the world ends.
    Miranda
    Iglesias
    A quel punto, nei suoi sogni, qualcosa cominciava a sgretolarsi. All’inizio era quasi impercepibile, una crepa così piccola da passare inosservata. Un sorriso un po’ troppo largo, che finiva per risultare velatamente inquietante. Una nota stonata in una voce altrimenti melodiosa.
    O la realizzazione che le persone che intorno a lei non erano davvero chi dicevano di essere.
    Che non erano nemmeno persone.
    Quel sogno, quell’incubo, in realtà, la perseguitava da sempre.
    Aveva perso il conto delle volte in cui, negli anni, aveva sognato situazioni totalmente normali, di vita quotidiana, dove però, a un tratto, si rendeva conto che qualcosa non andava. Sua madre, in quei sogni, era onnipresente. Ed era proprio lei il fulcro di tutto. Perché Aracoeli, all’improvviso, capiva che quella al suo fianco, quella che parlava come sua madre, che sorrideva come lei, che profumava, persino, come la donna, non era realmente lei. Indossava il suo viso, le sue espressioni, il suo carattere. Ma non era lei.
    Era qualcun altro.
    Era qualcos’altro.
    E allora l’Aracoeli del sogno si agitava, terrorizzata non solo dal momento in cui la verità sarebbe stata rivelata, ma, ancora di più, dalla crescente consapevolezza che non avrebbe più rivisto sua madre, dal momento che era stata sostituita da una presenza che le assomigliava in tutto e per tutto, ma che non era lei.
    Razionalmente sapeva che si trattava di puri e semplici sogni d’ansia, ma una parte di lei non era mai riuscita a scrollarsi di dosso il sentore che, dietro, ci fosse qualcosa di più.
    Una maledizione?
    Un presagio?
    Poi, nelle settimane precedenti, quei sogni, quegli incubi, si erano mescolati a tutti gli altri, facendole tirare un erroneo sospiro di sollievo. Certo, non era tutto normale, visto che sua madre, adesso, non c’era più, ma c’era comunque la sua famiglia. C’era Mira. C’era suo padre.
    E c’era Julieta.
    Aracoeli sapeva di non averne del tutto il diritto, dal momento che non aveva mai conosciuto la zia dal vivo, ma solo dai racconti di Mireia e dalle prove fotografiche e a video sparse per l’appartamento. Tuttavia, era più forte di lei aggrapparsi a quella famiglia che non aveva fatto quasi in tempo a trovare, prima di vedersela strappare via.
    In quei sogni erano tutti e quattro insieme, tutti e sei, anzi, compresi Dante e Vergil. Come una famiglia, appunto.
    Ma poi qualcosa si incrinava.
    Un sorriso, una risata.
    Non era loro. Non davvero.
    E Aracoeli era piccola e spaventata, di nuovo.
    Era sola, di nuovo.
    In quei sogni, negli occhi della sua famiglia ritrovata, da un certo momento in avanti, non c’era assolutamente nulla.
    Proprio come negli occhi di Julie in quel momento. Aracoeli cercò di farsi forza per non rabbrividire, ma non ebbe davvero il tempo di rifletterci, perché tutto cambiò. Un lampo. Un luccichio. Quelli non erano gli occhi delle presenze che, nei suoi incubi, indossavano i corpi delle persone che, sebbene assurdamente, già sentiva di amare. Quelli erano gli occhi di quelle persone. I loro veri occhi.
    E in quei sogni stavano tutti bene. Julieta le disse proprio così, ma entrambe sapevano quanto quelle parole fossero una menzogna. Tutto, in lei, gridava il contrario. Con una mano tremante si arrischiò a sfiorare i capelli di Julie con una carezza, nell’inutile speranza di rassicurarla, e di rassicurare sé stessa. «Sì… sì… starai bene… starai bene… adesso… estás en casa!»
    Riuscì a trattenere le lacrime per tutto il tragitto, ma solo perché troppo occupata a sorreggere la zia, terrorizzata all’idea di farla cadere e quindi peggiorare ancora la sua situazione. Aveva paura per lei, ma era davvero convinta di quello che le aveva detto: ora che era tornata a casa, sarebbe stata bene. Sarebbero state bene, tutte e tre.
    Doveva essere così.
    Ma quando vide Julie accarezzare Dante, il groppo che aveva in gola e che quasi le impediva di respirare si sciolse, lasciando spazio alle lacrime. Dolore, sollievo, paura, pena, tristezza, speranza. Ogni lacrima era un’emozione, e ogni emozione le bruciava sul viso e nel petto. Così intontita, rimase immobile a fissare Mireia che si precipitava su Julieta, ringraziando mentalmente il suo essere arrivata così in fretta, dimentica di aver urlato con tutta la forza che aveva nei polmoni, solo una manciata di istanti prima.
    Le sue zie.
    La sua famiglia.
    Rendendosi conto che quel singhiozzo così forte era uscito proprio da lei, si riscosse. Nei mesi passati in ospedale con sua madre aveva imparato dapprima a piangere silenziosamente, per non farsi sentire mentre lei dormiva, e poi addirittura a piangere solo all’interno, in modo che la donna non vedesse le sue lacrime. Nelle ultime settimane avevano invece ripreso a sgorgare, come d’altronde avevano sempre fatto, ma ancora senza emettere un suono.
    Adesso, invece, il suo pianto era tornato quello più autentico e vero.
    «¡Sí, sí, lo siento!», esclamò con voce rotta, collegando finalmente la richiesta che le aveva fatto Mira. Rischiando di inciampare nei suoi stessi piedi corse a prendere tutto quello che le aveva detto, aggiungendoci anche buona parte del mobiletto delle medicine, babbane o magiche che fossero.
    Ma Julieta si sarebbe ripresa.
    Sarebbe andato tutto bene.
    E suo padre…
    Di corsa tornò in sala, dove appoggiò, o meglio, quasi lanciò, il bottino sul tappeto, buttandosi in ginocchio accanto a Mira, proprio davanti al divano. «Come sta?? ¿Te ha dicho algo?», le chiese senza fiato, vedendo gli occhi socchiusi di Julie. «Io… io posso provare a fare un incantesimo di guarigione!!» Su sua madre nulla aveva funzionato, ma stavolta… stavolta sarebbe stato diverso.
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  7. .
    Aracoeli Miranda-Iglesias
    wanna be beater
    ‘Cause everyone hurts,
    Everyone cries.
    Everyone tells each other all kinds of lies.
    Everyone falls,
    Everybody dreams and doubts…
    Got to keep dancing when the lights go out.
    Tutto era nuovo, per lei, tra le mura di Hogwarts, ma Aracoeli aveva fatto i compiti. Il sangue latino scorreva potente nelle sue vene e, in quanto tale, la rendeva una comare perfetta. Uno stereotipo, certo, proprio come dare per scontato che le piacesse la musica e che si infuriasse per un nonnulla, proprio a causa del calore del suo sangue.
    Eppure, nel suo caso, era tutto vero, e non se ne vergognava affatto. Al contrario, ne andava orgogliosa, perché ognuna di quelle caratteristiche la facevano sentire vicina a sua madre e, anche se non poteva saperlo, in fondo anche a suo padre.
    Così, in quei primi giorni al castello, aveva messo a frutto le sue doti naturali e cercato di scoprire il più possibile su tutto e, ancora di più, tutti. In buona parte il suo era puro e semplice gusto per il pettegolezzo, coltivato tanto sul campo quanto per sentito dire, grazie alle infinite telenovelas che avevano costellato la sua infanzia e la sua adolescenza. Quello che più la affascinava erano i rapporti umani e, con loro, le persone stesse. Adorava le persone, sfaccettate e complesse e imperfette com’erano. E adorava le relazioni che si venivano a creare tra loro.
    Ma al dilettevole aveva associato anche il cosiddetto utile. Non era una calcolatrice, Aracoeli. Le importava davvero di ciò, e soprattutto di chi, la circondava. Tuttavia, non era stupida. Sapeva benissimo che ricominciare da zero in una nuova scuola, specie poi dopo quell’improvviso ribaltamento scatenato dall’esito della guerra, non sarebbe stato per nulla facile. Di conseguenza, cercare di carpire più informazioni possibili sui suoi compagni e su ogni cosa concerneva la vita a Hogwarts, in particolar modo i non detti, era essenziale per la sua sopravvivenza.
    Ecco perché, in cima alla sua lista, aveva tentato di tracciare un primo, abbozzatissimo ritratto di Kaz Oh. I suoi interessi, la sua storia, il suo modo di fare. Quidditch a parte, le era subito apparso chiaro quanto lo special fosse coraggioso, in tutto ciò che faceva e che aveva fatto.
    Ancora prima di parlargli per la prima volta, Aracoeli si era ritrovata ad ammirare profondamente Kaz.
    Anche se ovviamente non poteva essere lì per lei, fu comunque bello, quindi, vederlo comparire in infermeria. Forse il ragazzo non se ne rendeva conto, ma la sua presenza lì era prima di tutto un simbolo. Un simbolo delle sue buone intenzioni, del suo preoccuparsi davvero per gli altri.
    Lo guardò avvicinarsi, preparandosi a salutarlo e a vederlo sfilare davanti a sé per avvicinarsi a quella che doveva essere la sua vera meta. Ma lui rimase fermo, a pochi passi dalla porta, e abbassò lo sguardo. Il sorriso di Aracoeli vacillò per un istante: aveva fatto qualcosa di sbagliato? Detto qualcosa di sbagliato? Cosa doveva fare?
    Per fortuna, però, quando incontrò gli occhi di lui, il suo sorriso si era tornato a stabilizzare, anche se ancora non sapeva bene cosa dire. Anzi, non lo sapeva e basta.
    «sono arrabbiati»
    «¿Enfadados?», ripeté in un mormorio, confusa. Chi? Chi era arrabbiato? Avrebbe voluto chiederglielo, ma Kaz sembrava così turbato… C’era un che di supplichevole, nel suo sguardo, quasi una richiesta implicita. Aracoeli si sforzò di capire, sentendosi terribilmente stupida. A chi si riferiva? L’Oh diceva che avevano sbagliato…
    Le faceva strano non dire nulla, lei che, di solito, parlava e parlava e parlava. Parlava persino nel sonno, incapace com’era di tacere! Ma adesso… Sospirò e scosse appena il capo, sforzandosi di minimizzare con quel gesto e un piccolo sorriso, nel tentativo di rassicurare lo special. «Tutti hanno il diritto di sentirsi come vogliono, senza soffocare le proprie emozioni.» Di questo era certa e così le era sempre stato insegnato.
    Eppure non era la prima ad aver imparato a nascondere il dolore? La perdita di sua madre, quella di suo padre, addirittura del mondo stesso…
    «Sì, sì, estoy bien, va tutto bene!», si affrettò a rispondergli, forse con un po’ troppo fervore, sia per l’emozione di aver scoperto che Kaz era lì (anche) per lei sia per non farlo preoccupare. «Nulla che un po’ di ossofast e di riposo non possano curare!» Gli sorrise ancora di più, vedendolo fare lo stesso, e percepì in lui la stessa sincerità che sentiva nascere dentro di lei.
    Quel primo ritratto abbozzato di Kaz cominciava ad acquisire qualche tratto più sicuro. Sembrava davvero una brava persona. Ma, dopotutto, Aracoeli ne era convinta già in partenza, sapendo che le sue prime impressioni difficilmente sbagliavano.
    «e poi magari ti eri spaventata, e volevi parlarne con qualcuno?»
    Eppure l’Oh continuava a stupirla. In positivo.
    Deglutì il magone che in un attimo le era salito in gola, ma non riuscì a scacciare gli occhi che, altrettanto velocemente, si erano fatti lucidi nel sentirlo dire così. «Scusa… e grazie…!» Con il sorriso sulle labbra un po’ tremanti, si strofinò gli occhi. «Sono caduta perché… sì, ero spaventata. Sono spaventata. Ma non lo sono perché sono caduta!!», cercò di spiegarsi, ingarbugliandosi però nelle sue stesse parole. «¡Ay! ¡Perdóname! Intendo dire che… mi fa paura volare. Da sempre.» Si fermò un attimo a riprendere fiato e solo allora si rese conto di quanto doveva apparire non solo sconclusionato, ma anche e soprattutto assurdo, il suo discorso. «Giustamente mi dirai: e allora por qué fare i provini per entrare nella squadra?»
    Una risata le proruppe dalle labbra, interrompendo i suoi stessi vaneggiamenti.
    «mi dispiace che sia capitato»
    «Gracias, davvero.» Un’altra conferma. «Vorrei dire di essere così perché ho sbattuto la testa…» Un’altra risata. «Ma mentirei. Sono…»
    «io sono kaz»
    Un altro sorriso. «… Lo so. Tú eres famoso. Io sono… caotica. Ma forse non intendevi questo… Sono Aracoeli!»
    hufflepuff
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  8. .
    Sì ok lo so che il battitore è l'unico che abbiamo (ciao Kaz tvttttttttttbxs), ma avevo detto che volevo provarci, quindi eccomi qui.

    (sì, sono una pagliaccia)


    nome pg: Aracoeli Miranda-Iglesias
    ruolo: battitrice (riserva)
    altro: perché ama il quidditch (e Kaz. Cosa? Cosa)!!!!!!!!!!!!
  9. .
    Aracoeli Miranda-Iglesias
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    Aracoeli aveva un disperato bisogno di normalità.
    Certo, cosa mai era stato normale nella sua vita?
    Fino a undici anni, era cresciuta convinta di essere normale, appunto, babbana, per dirla in altri termini, convinta che la normalità fosse scorrazzare per Vega Alta, a Porto Rico, sempre e solo in compagnia di tutta la famiglia che avesse mai avuto e conosciuto, sua madre. Le era andato bene così, anzi, aveva amato che fosse così, che ci fossero solo e soltanto loro due, e il loro piccolo, grande mondo.
    Poi era arrivata quella lettera, e dopo un’iniziale titubanza, la sua mamá le aveva confessato la verità, il volto serio dagli occhi asciutti: era una strega, come tutta la loro famiglia. Quella famiglia che aveva rifiutato e allontanato lei, condannandola alla damnatio memoriae, perché era una sporca magonò. E questa era diventata la nuova normalità, una normalità che faceva bruciare una rabbia a cui non sapeva dare un nome dentro di lei, ma pur sempre una normalità.
    Persino quando la sua mamita si era ammalata Aracoeli si era sforzata di riportare il tutto a una parvenza di ordinario, per convincere la sua intera, e unica, famiglia, che sarebbe tutto bene, che tutto si sarebbe risolto e sarebbero ritornare a passeggiare mano nella mano sulla spiaggia di Vega Alta. Aveva cercato di crederci fino alla fine, tentando disperatamente di tranquillizzare sua madre, di rasserenarla in quell’inevitabile, ma in fondo normale, passaggio.
    L’aveva ripetuto ancora e ancora a sé stessa, che era tutto normale, quando quell’uomo dagli occhi malinconici identici ai suoi l’aveva condotta con sé quasi dall’altra parte del mondo. Aveva cercato di riempire con la propria voce il silenzio di suo padre, per rassicurarlo che quella nuova realtà avrebbe fatto bene a entrambi, che avrebbero trovato il modo, insieme, per farla diventare normale. Che lo era già, perché in fondo erano una famiglia.
    Aveva tentato di tenerla insieme, quella normalità nuova di zecca, visto che si era infranta quasi nell’istante stesso in cui era diventata non più solo Aracoeli Miranda, ma Aracoeli Miranda-Iglesias. L’aveva stretta così forte da ferirsi, mentre aveva guardato quel padre ancora sconosciuto uscire dalla porta dell’appartamento che divideva con la sorella Mira, leggendo nei suoi occhi una promessa già frantumata in partenza, quella di tornare.
    Mentre il mondo fuori cadeva su sé stesso, fra quelle quattro mura aveva finto che fosse tutto normale, che quella famiglia non ancora davvero nata ce l’avrebbe fatta, che avrebbero trovato un equilibrio, tutti insieme. Si era appoggiata, anzi, aggrappata a sua zia con una disperazione così feroce da farle bruciare le guance di vergogna, ma non aveva potuto fare altrimenti.
    E quando alla fine quei pochi, malconci pezzi che rappresentavano ciò che rimaneva del mondo, e della sua famiglia, erano riemersi dal fumo, anche lei si era spezzata. Non c’era nulla di normale. Non poteva essere la normalità, quella.
    Ecco perché, quando le porte dell’Hogwarts Express si erano richiuse alle sue spalle, solo una manciata di giorni prima, quel desiderio si era trasformato in necessità. Aveva bisogno di ritrovare la normalità perduta, o, almeno, di provare a cercarla. E quale miglior posto se non Hogwarts?
    Tuttavia, i suoi piani andarono in frantumi nell’attimo stesso in cui mise piede al castello. Già sul treno aveva percepito qualcosa, ma si era trincerata dietro il suo proverbiale buonumore, nonostante tutto. Hogwarts sarebbe stata proprio come gliel’aveva descritta in quei mesi sua zia Mira, e come aveva letto nei libri che le aveva prestato. Simile a Castelobruxo, certo, eppure diversissima. E in effetti Hogwarts era diversa, ma non nel modo che aveva immaginato. Era diversa perché fingeva di essere normale. Lo faceva sforzandosi così tanto da risultare quasi corrosiva.
    Nascosta sotto sorrisi di circostanza e belle parole, la guerra era arrivata fin lì, lasciando il suo indelebile segno.
    Ma Aracoeli era pur sempre figlia di sua madre, la donna che non aveva mai visto piangere, nemmeno dopo essere stata ripudiata dalla sua famiglia perché priva di magia convenzionale, nemmeno in quel letto di ospedale, a un passo dalla morte. Era forte. Era testarda. Si sarebbe conquistata la normalità. L’avrebbe trovata, nonostante tutto, anche in quel mare di falsità.
    E l’avrebbe fatto in sella a una scopa, sebbene la terrorizzasse tanto.
    Perché Aracoeli amava il volo, amava il quidditch, ma aveva sempre avuto troppa paura per volare. Si era sempre limitata a guardare gli altri farlo, sostenendoli a gran voce, organizzando cori e quant’altro, convincendo sua madre ad abbonarsi alla televisione sportiva magica per non perdere neanche una partita. Non aveva mai trovato il coraggio di salirci in prima persona, su una scopa.
    Eppure adesso l’aveva fatto. Aveva partecipato ai provini per la squadra della sua nuova casa, i tassorosso. Aveva spiccato il volo, sicura di avvicinarsi, così facendo, anche solo di un soffio, alla sua mamacita.
    Quando quindi era precipitata, non aveva opposto resistenza, perché era normale. Era normale che cadesse, perché non ne era capace. Ma si sarebbe rialzata e avrebbe riprovato. Ancora e ancora.

    Nonostante lo stordimento, percepì comunque il suono. Ci mise qualche secondo a realizzare che si trattava di un battito. Un battito sul legno, per la precisione. Qualcuno stava… bussando. Inumidendosi le labbra, si sforzò di mettere a fuoco, giusto in tempo per intravedere una chioma scura fare capolino dalla porta.
    «posso…?»
    Sorrise, sincera, e cercò di tirarsi su a sedere, provocandosi una smorfia, e soprattutto una fitta, di dolore. «¡Adelante, adelante!» Era lì per vedere lei? Improbabile, visto quanto poco aveva resistito sulla scopa… E poi l’infermeria era piena di persone infortunate durante i provini per la squadra tassorosso. Però era veramente ammirevole da parte di Kaz Oh, il capitano, venire a trovare chi non ce l’aveva fatta. «Vieni pure! Voglio dire, se vuoi, ecco, claro!»
    hufflepuff
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    Hhhh scusa, non voleva essere /così/ depresso come post.
    Ma è andata così............................
  10. .
    Aracoeli
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    Aracoeli si era sempre sentita piccola. Lo era, in effetti, sotto tutti i punti di vista. Non aveva mai avuto fretta di crescere, a differenza di tante sue amiche. Non era una questione di paura, la sua; semplicemente, sapeva, sentiva di non essere pronta. E qualcosa le diceva che, anche quando lo sarebbe stata, una parte di lei sarebbe rimasta piccola per sempre.
    Eppure, non si era mai sentita così piccola come in quel momento. Un momento che le sembrava durare al contempo da un’eternità e da un battito di ciglia. Un momento che si protendeva come un susseguirsi di incubi, uno più assurdo dell’altro. Prima la malattia di sua madre, così inaspettata e fulminea da sembrare quasi una farsa. Poi il suo funerale, in una giornata troppo calda, troppo soffocante per essere solo fine febbraio. Era tutto così… irreale. Non poteva essere successo davvero. E quell’ultimo discorso di lei, in quel letto di ospedale a San Juan. Rivolte a lei e a lui. Quell’uomo. Quello sconosciuto. Suo padre.
    Se non fosse stato per le fotografie che costellavano un po’ ovunque l’appartamento, Aracoeli avrebbe persino faticato a ricordare del tutto i tratti del suo viso, tanto poco tempo aveva potuto osservarli. Ma il volto di Javier Iglesias Mendoza la osservava malinconico da tutte le pareti, ricordandole in ogni istante quella nuova perdita.
    Non riusciva a concepirlo. Non voleva farlo. Non poteva pensare di essere diventata, in un soffio, un’orfana a tutti gli effetti. Non aveva ancora accettato, né desiderava farlo, la scomparsa della madre. Lo sapeva, naturalmente, eppure non se ne rendeva conto. E in parte era così perché quel giorno, prima che gli occhi di lei si chiudessero, al suo fianco c’era quel padre che non aveva mai nemmeno osato sognare.
    Quel padre che, adesso, non sarebbe più rientrato da quella porta, in quella vita in cui, suo malgrado, si era ritrovata catapultata.
    Si sentiva egoista, Aracoeli. Fuori da quelle quattro mura imperversava la guerra, la muerte, un mondo sull’orlo del cambiamento, o forse del collasso. Ma tutto quello a cui riusciva a pensare era che non avrebbe rivisto mai più nessuno dei suoi genitori. Né quella madre che, per quattordici anni, era stata il centro della sua vita, né quel padre che vi si era affacciato per una manciata di istanti, per strapparla al più totale oblio, finendo però per caderci dentro in prima persona.
    Si sentiva ingrata, Aracoeli. Mentre tutto, e tutti, sparivano e soffrivano, lei era lì, in una sorta di irreale e assurda vacanza forzata, a condividere ogni istante con una donna che, nel giro di poche ore, era passata dall’essere una sconosciuta a tutto ciò che rimaneva della sua famiglia. Non meritava quella suerte. Non meritava le attenzioni e l’amore che in quella manciata di settimane Mireia, sua zia, le aveva dedicato. Non meritava quel piccolo mondo in cui l’aveva portata, facendo di tutto per farle dimenticare il dolore che imperversava fuori e dentro di lei.
    Tutto, in quella casa, parlava di una vita che avrebbe potuto essere anche la sua, ma che non lo sarebbe stata mai davvero. Quella vita era finita ancora prima di cominciare. Sarebbe stata grata per sempre a Mira, e avrebbe fatto di tutto per provare a ripagarla, ma sapeva di non poter riempire completamente quel vuoto nella sua vita. Gli occhi buoni di Javier. Quelli accesi di Julieta. I sorrisi di entrambi che, dalle fotografie, sembravano rivolti a lei, ma che mai lo sarebbero stati davvero.
    All’improvviso, il campanello suonò, distogliendola dai suoi pensieri con un sobbalzo. Rimase ferma sul divano, tesa, ricordando tutte le volte in cui, da piccola, sua madre le aveva ripetuto di non rispondere nemmeno, quando lei non era in casa. Di fingere di non esserci.
    Vergil la guardò, un po’ infastidito. « ¡Perdóname!», esclamò carezzandolo, rendendosi conto solo in quel momento di averlo fatto saltare via dalle proprie gambe, quando, un attimo prima, il campanello l’aveva fatta tremare. Si guardò intorno, domandandosi cosa fare. Doveva svegliare zia Mira, che finalmente, dopo una notte insonne, stava riuscendo a riposare un po’? Doveva fingere di non esserci? «¿Qué hago?» Spostò lo sguardo da Vergil a Dante, da Dante a Vergil, poi sospirò.
    Aracoeli si era sempre sentita piccola. Ma ora non poteva più esserlo.
    Si alzò e, un po’ titubante, andò alla porta. Dante le trotterellò dietro. Sollevò la cornetta del videocitofono e, ancora prima di riuscire a chiedere chi fosse, capì.
    Corse giù per le scale, il cane alle calcagna, dimentica di ogni avvertimento e paura. Doveva fare qualcosa. Doveva aiutarla. Lo avrebbe fatto in ogni caso, certo, di chiunque si fosse trattato, ma, egoisticamente, in testa le continuava a risuonare un concetto: “Familia”. Insieme a suo padre, dalle fotografie sparse per casa Iglesias Mendoza, c’era sempre lei a sorriderle.
    «Julie!!», esclamò concitata, piena di preoccupazione, mentre Dante si agitava intorno alla padrona. «¡Vamos! Tieniti a me!» Incurante dello sporco, del sangue, fece appoggiare a sé come poteva la zia e si infilò con lei nell’ascensore prima e in casa poi. Nemmeno per un istante le passò per la testa che, mentre lei aveva imparato a conoscerla dai racconti di Mireia, Julieta, su di lei, non doveva sapere nulla. E solo quando infine furono in casa, al sicuro, e l’ebbe fatta sdraiare sul divano, si permise di realizzare davvero cos’era appena successo. «Estás… viva!» Si coprì la bocca con le mani, sentendo le lacrime già sul punto di strabordarle dagli occhi. «MIRA! MIRA! ¡VEN AQUÍ!»
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10 replies since 20/3/2023
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