Votes taken by sabaism

  1. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    E quindi quella era la sua vita, la sua strada – l’Aureliano di TBM, tanto la vela di Tor Vergata ce l’aveva a cinque minuti di macchina: tutto perfettamente accurato ed on character, gli mancava solo l’impero della droga ma su quello ci avrebbe potuto tranquillamente lavorare una volta uscito di lì. In fondo, aveva già il bar di Ginevra come lavoro di copertura.
    «dimmi se sei un uomo… vero… un pistolero…» tanto, dissociazione per dissociazione, tanto valeva prenderla a bene – che a prenderlo di dietro era un attimo: cazzo in culo non fa figli eccetera eccetera. Rivolse uno sguardo a Regina, dannatamente serio, e le fece cenno con l’indice sul proprio orecchio di ascoltare attentamente: già a Kredic aveva avuto modo di darle una prima infarinatura sulle leggende metropolitane del Bel Paese su Baby K e Giusy Ferreri, era il momento di portare l’istruzione al nuovo livello. «sai già dove mirare… amore criminale-eee.» un suggerimento su come usare quella pistola? Forse.
    La cosa bella è che Remo Linguini, a parte attaccare, non avrebbe fatto assolutamente nulla in quel lasso di tempo.
    «mi chiami e non rispondo su facetime, ho un bikini solo per te, ma non mando foto in direct» quindi, sì: avrebbe vagato per la stanza, roteando la semiautomatica tenendola per il grilletto con l’indice. Contributi importanti, i suoi. «non faccio mai la fila per il club, ti raggiungo dentro al privé, ma tu parli solo di te!» particolarmente preso a bene, si piegò sulle ginocchia per canticchiare allegro ad uno dei nemici ammazzati poco prima: aveva chiaramente l’aria (deceduta) di un narcisista patologico. «hai castelli di carte di credito, mi dai tutto quello che ti chiedo,» uno sguardo a Cory, richiamando a sé la fratellanza criminale appena instaurata. «promettimi l’oceano pacifico, il circolo articooo!»
    Per inciso, e per onor di causa: non era intonato. Non spaccava i timpani alla gente, ma aveva sempre e solo cantato i cori dello stadio – e lì, la tecnica vocale non serviva così tanto.
    «ma dimmi se sei un uomo, vero, un pistolerooo!» cercò di passare un braccio attorno al collo di Twat, ma il norvegese non stava vibando con lui – era piuttosto impegnato a coagulare il sangue nelle gambe dello gnomo con l’ascia, e gli puntò un sai alla gola molto più esplicativo di tante parole. Al ché, dato che non voleva farsi ficcare quell’arma nei bulbi oculari come aveva già visto succedere, retrocedette. «poi dimmi una bugiaaa» a quel punto, prese sotto la sua ala Rain e Cory, che gli sembravano molto più disposti a dargli corda, e passò attorno alle loro di spalle le braccia. «per farmi solo tuaaa» stampò un bacio sulle guance di entrambi, e si rigettò in pista. «cercavo solo un uomo, vero, un bandolerooo che mi rubi il mareee» arrivò da Reggie, e posò il gomito sulla sua spalla. Un cenno del capo verso Idris, ed un sorriso. «amore criminaleee.»
    E dunque.
    «te amo,» caricò la pistola (si caricano le semiautomatiche?, domanda lecita – ma tanto il Linguini lo fece unicamente per la coreografia).
    «te quiero,» sollevò l’arma, e socchiuse un occhio per prendere la mira.
    «tequila e sparò in testa all’uomo.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    DIFESA ROXIE: trombo alla gamba destra!
    DIFESA TWAT: trombo alla gamba sinistra!
    ATTACCO IDRIS: spara in testa

    CODICE
    <b>(3) DIFESA RAIN (clay + roxie):</b>
    <b>(6) DIFESA ROXIE (twat + reggie + styx):</b>
    <b>(11) DIFESA TWAT (twat + reggie + styx):</b>
    <b>ATTACCO IDRIS (remo + remì + cory + reggie):</b>

    <b>(2) DIFESA ADRIAN (ama + roxie + nahla):</b>
    <b>(5) DIFESA LENA  (ama + cory + nahla):</b>
    <b>(4) DIFESA MIS  (clay + cory + styx):</b>
    <b>ATTACCO VANYA (milo + clay + nahla):</b>


    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    rebel & geokinetic
    rebel & kinetikinetic
    murphy
    clay

    nemico: attacca con le ombre
    clay: i pretend do not see it.
    sicuro come l'oro, se mis non fosse intervenuto tempestivamente clay avrebbe fatto un tuffo olimpionico in piscina, e lì che poteva dire se sarebbe annegato o meno.
    se si guardava solo alla sua volontà, forse dubbio veniva.
    «hhhhhhh grazie» ed era davvero grato per essere ancora vivo, ma esprimersi con la bava del jacksson che gli gocciolava in bocca era un'esperienza così intima da sconfinare dentro molti confini. troppi, perché clay potesse ragionare e comportarsi come un adulto™ — dire all'altro di evitargli un trauma cranico, la prossima volta. ma è solo un esempio. invece si limitò a sollevare la mano destra per fargli un grattino dietro l'orecchio peloso, e in quel momento il cervello del Morales realizzò di non aver colpito il pavimento forte quanto si era aspettato.
    qualcuno lo aveva afferrato, proprio all'ultimo secondo.
    istintivamente, piegò la testa riccia all'indietro roteando gli occhi all'insù « Stai bene, piccino? » oh my. clayton nella sua principessa era. o magari più Oliver Twist che chiede una seconda scodella di zuppa, ma perché dirglielo e rovinare così un sogno proibito? «eh???» gli ci vollero ben dieci secondi per trovare l'amor proprio perduto e rimettersi in piedi; qualcuno in più per scrollare via i peli di mis e asciugare la saliva dalla faccia «ah si, certo. sto benissimo. grazie per avermi preso» aveva visto film che cominciavano così, il cinetico — romcom ovviamente, lo specifico per voi malpensanti. « Ciao cagnolino!!! Ma sei venuto a salvare degli ostaggi con anche il tuo cagnolino? Ma che cosa carina, come Belle e Sebastien... » se possibile (e non lo era) ancora più confuso di prima, clay aprì la bocca per tentare una spiegazione, ma poi decise che non era il caso. chi era lui per infrangere la visione™ di Selena?
    soprattutto se lei nel mentre gli dava piccole pacche di incoraggiamento sulla spalla, facendolo sentire estremamente combattuto: comportamento da mamma (creepy) vs bella ragazza troppo grande per lui che lo vede solo come uno sgagnetto.
    the same old story all over again (ciao Heather un bacio ❤)
    e questo è il momento in cui scrivo le combo perché la pausa sta finendo — come passa veloce il tempo quando ci si diverte.
    «AAAAHHHHH» era il minimo che potesse fare, urlare: capita, quando vedi un pazzo furioso imbracciare un fucile (credo) e girare su se stesso cercando di trivellare quanti più corpi possibile. vide i primi proiettili conficcarsi nei cadaveri mutilati abbandonati a pavimento, gente ancora viva lanciarsi a terra nel tentativo di sfuggire alla raffica. lo avrebbe fatto anche clay, parlando fuori dai denti, se la figura immobile di Rain non fosse stata nel suo campo visivo «MA CHE STAI FACENDO» lì impalato, deciso a sfidare la sorte proprio davanti ai suoi stanchi occhi — decisamente un altro livello di roulette russa, quello.
    senza pensarci oltre, agendo più per istinto che senso del dovere, clay si lanciò addosso al mago, afferrandolo per i fianchi (come gli avevano insegnato sin e ptolemy) e spingendo il corpo dell'altro a terra insieme al suo.
    [cory in the background che non basta capendo assolutamente nulla e vede clay volare addosso a rain] «ok» dal canto suo, nella posizione leggermente defilata nella quale si trovava, Leonard si sentiva quasi al sicuro; aveva una colonna nella parete a proteggerlo in parte dalla raffica di proiettili, e fu dietro a questa che andò a premere la schiena, valutando le sue opzioni.
    la prima, inutile dirlo, era togliere le tende.
    un tizio l'aveva ammazzato, no? sul sasso che teneva stretto nel palmo il sangue non si era ancora asciugato.
    di tutti i presenti, compresa la task-force di recupero, non sarebbe potuto importargli di meno.
    nel guardare la pietra sorrise, la testa bionda leggermente reclinata verso la spalla: perché la seconda ipotesi era più divertente, un passatempo come un altro. dopotutto, cosa aveva da perdere — alla peggio si beccava un colpo in fronte e moriva, questa volta per davvero. fece saltare il sasso nella mano un paio di volte, prima di caricare il braccio e lanciare il suo piccolo proiettile personale in direzione di Idris, mirando proprio in mezzo agli occhi. ed è più o meno qui che un braccio gli piombò sulle spalle e per poco Cory non tirò una testata sul naso a remo.
    storie per un altro au.
    perché, fortunatamente, riconobbe l'italiano prima di compiere l'insano gesto (fargli schizzare via due denti); e quasi se ne pentì «poi dimmi una bugiaaa» cioè, capite cosa succede quando si accetta di fare vita sociale? è il momento di trovarsi degli amici, dicevano in chat; bonding time, ripetevano sempre gli stessi, sapendo sarebbe stato terribile. scusa Remo non sei tu sono io «quando vuoi bro» gli diede una lacca sulla schiena, abbastanza forte per scollarselo di dosso, poi raggiunse vanya e dopo averle concesso un inchino trovò giusto tirare a lei quella testata che il linguini canterino si era risparmiato giusto un istante prima.
    cosa non si fa (quando è finita la pausa e bisogna tornare a lavoro) per sentire un faffanculo.
    aiuto è tardissimo scusate mi sono persa, quindi acceleriamo. lo vedete clay? bene. lui non vede voi, perché sta con gli occhi chiusi: ancora concentrato sulla figura di mis, uno scudo invisibile creato dall'energia assorbita nella stanza ad innalzarsi tra la figura dello special e la sua assalitrice. ne aveva davvero le scatole piene di vedere i suoi compagni presi di mira con tale accanimento da quei due sfigati rimasti in vita, la cui ostinazione gli impediva di fregarsene del resto e andare finalmente a liberare Kaz. era davvero ora di dire basta e andare a lavoro: a vanya lanciò ancora una volta il rampino, questa volta cercando di colpirla alle gambe per farle vedere un ginocchio e lasciare ai suoi amiki il compito di mandarla al creatore.
    fine.



    mi han detto che il destino te lo crei soltanto tu
    vai a tempo col respiro e se corri ne avrai di più
    ma se morirò da giovane, spero che sia dal ridere


    (3) DIFESA RAIN (clay + roxie): afferra rain per i fianchi e lo sposta
    ATTACCO IDRIS (remo + remì + cory + reggie): gli lancia il sasso in fronte

    (5) DIFESA LENA (ama + cory + nahla): gomitata a vanya
    (4) DIFESA MIS (clay + cory + styx): scudo di energia
    ATTACCO VANYA (milo + clay + nahla): rampinata
  2. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Bene. Hans aveva fatto la scelta giusta – come se in realtà avesse davvero la possibilità di decidere se rimanere o meno – e se n’era andato, dopo «scusa» e «non è colpa mia» ai quali aveva deciso di non rispondere perché non c’era motivo di farlo: non doveva perdonargli nulla e sapeva, razionalmente, non fosse colpa sua. Meno razionalmente, non riusciva ad accusarlo di averlo fatto nuovamente preoccupare (l’unico, insieme a Mac, in grado di fare una cosa del genere: aveva rivissuto quei quattro mesi senza sapere dove fossero finiti entrambi nel giro di dieci giorni, e piuttosto che pensare a quanto fosse terribile una sensazione simile aveva preferito odiarlo, di nuovo) ed accusarsi, perché si era preposto il compito di tenere sotto controllo lui e la sua testa di cazzo.
    Guardò chi ancora rimasto legato.
    Attentamente, e con intenzione, gli occhi chiari puntati sulle figure di Kaz e Theo. E sorrise loro, perché voleva liberarli. Sul serio.
    Aveva una ben delineata scaletta di priorità riguardo a quella missione, Tvättbjörn Cömmstaj.
    Primi tra tutti venivano Hans, Barbie e Reggie, e Kai nel piano superiore: poco contava fossero stati suoi fratelli solo in un’altra vita o che non se li cagasse di pezza nella quotidianità; aveva dei principi, anche se difficili da esternare e comprendere.
    Poi c’era Moka infame, il suo [sospiro] [bestemmia] brotellone, e c’era Dani – perché Twat non aveva dimenticato la prompose che gli aveva rifiutato anni addietro, ed onorava i suoi debiti.
    Poi c’erano i ribelli, alla fine ma solo per una questione temporale di conoscenza – Chelsey, Kyle, Sin (sebbene ormai non potesse più considerarsi tale), Kaz e Theo.
    Ma sopra a tutto c’era l’entropia, l’unica legge universale alla quale il norvegese sapeva di appartenere: tutto tendeva al disordine, al caos; così, anche lui.
    Sapeva ci fosse un non detto – nemmeno troppo celato, a dirla tutta – che aleggiava in quella stanza, e sinceramente? Lo divertiva.
    Per questo, volgendo appena l’attenzione allo stronzo che non è con noi attentava alla vita di suo fratello e decidendo di passare dall’attacco ischemico all’infarto del miocardio, gli rivolse un semplice «tenete duro.» convinto, un po’ sarcastico, prima di girarsi sul posto e tagliare le manette che costringevano Sin a Marcus.

    Nel mentre, Remo aveva deciso di dissociarsi. Tutto bello, fino a quando non ti finivano lembi di corteccia cerebrale, dita, occhi e – «ao menomale che sei schiattato frà, st’appendice tra mpo’ andava in peritonite» minchia quanto ce l’aveva gonfia: meglio morire così che con atroci sofferenze su un letto d’ospedale; am I right?
    Non era un tipo violento, il romano, ma la brutalità aveva sempre fatto parte della sua vita: quanti occhi neri, labbra spaccate, ossa rotte aveva mostrato e nascosto ai genitori nel corso di quelle due decadi e mezzo di vita, lo sapeva soltanto Romolo. A tutto c’era un limite, e sentiva di essere a tanto così dall’esprimere quanto l’avesse superato vomitando il panino che si era preparato al Bar Dello Sport prima di partire.
    Quindi: meglio assentarsi a sé stessi e all’ambiente circostante, pistola alla mano e canna (non di marijuana, tristemente) (a proposito: «A REGÀ, QUALCUNO C’HA ’NA CANNETTA?» assurdo che nessuno l’avesse ancora tirata fuori, o chiesta) puntata alla testa di Jacques. «mangia baguette de merda ma ancora campate e rompete er cazzo?» questioni personali irrisolte, okay? E niente, gli sparò in mezzo agli occhi.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    difesa mac: fa venire un infarto a jacques
    attacco jacques: spara in testa a jacques

    TWAT LIBERA

    CODICE
    <b>(2) DIFESA LENA (lena + rain):</b>
    <b>ATTACCO PILAR (lena + styx):</b>

    <b>(7) DIFESA MAC (twat + lena + styx):</b>
    <b>ATTACCO JACQUES (remo + rain):</b>

    <b>TWAT LIBERA SIN & MARCUS</b>
  3. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    «ma cosa cazzo dici.» citando un saggio (Mis): anche meno. Sollevò le mani in segno di resa, accompagnando il gesto con sopracciglia arcuate sulla fronte ed angoli delle labbra rivolti verso il basso. Poi si chiedevano perché non socializzasse, o nemmeno ci provasse: lo faceva; non era colpa sua se gli altri non erano mai disposti ad accettare i suoi modi – ed era diventato anche fin troppo accomodante, nel corso del tempo.
    Cosa aveva voluto gli dicesse, di non preoccuparsi e che andava tutto bene? Voleva che stesse zitto? Perché avrebbe dovuto farlo, quando sperava che continuasse così? A prescindere dalla spettacolarità di tutto quello che stava succedendo – che comunque aveva il suo perché –, era quello che dovevano fare: eliminare uno ad uno ciascuno stronzo che si metteva tra loro e l’obiettivo, e magari arrivare alla testa di quell’organizzazione e mozzarla di netto.
    Manco gli avesse detto di continuare a far esplodere cervelli e persone, si era trattenuto. «noiosi.» gli mancava Jericho. Fortuna che Reggie era stata liberata e si era unita al massacro, sebbene avrebbe preferito che sia lei che Barbie se ne andassero via di lì. Ma okay, erano adulti e vaccinati e potevano fare il cazzo che gli pareva. Slay.
    A proposito di adulti e vaccinati: «qualcuno gli tagli quella mano moscia, vi prego.» sempre più conquistato da Milena Shevchenko, Twat portò la mano sulla fronte. «copy that senza indugiare un istante, con il sangue sparso ovunque creò una lama affilata e accontentò le richieste di Mamma Lena, lanciandola dritta come un siluro contro il polso di Pilar nel tentativo di staccargliela di netto.
    Seguì dunque i movimenti di Mis, quelli più sconclusionati di Murphy e Clay, trovando nell’uomo concentrato poco distante da loro la fonte di quella confusione. Si concentrò intensamente, pensando a come le arterie cerebrali risalivano lungo il collo, a come le carotidi si diramavano nelle vertebrali, nella basilare, nelle cerebrali: aveva solo che l’imbarazzo della scelta, rispetto a quale vaso occludere, ma decise di premere il proprio potere sulla cerebrale media – perché casomai avesse deciso di sopravvivere, probabilità assai bassa, a quella battaglia, ne sarebbe uscito veramente male con un’ischemia del genere.
    Ma tornando alle mani mozzate, gli venne istintivo girarsi verso gli ostaggi – sempre più raggiungibili, sempre più prossimi ad essere liberati. Si lanciò senza pensarci due volte su Hans, e su quell’altra ragazza che aveva avuto l’immensa sfortuna di ritrovarcisi legata. «mi dispiace.» lo disse a lei, e lo disse a Kaz e Theo poco distanti – ma soprattutto all’Oh, palesemente distrutto da quella convivenza forzata. Per il Belby, mentre creava una tenaglia con cui distruggere le manette, aveva altre dolci parole di riserva. «sei una testa di cazzo.» gratuito e sicuramente non necessario, ma catartico. Lo guardò molto intensamente negli occhi alterati da qualsiasi droga gli avevano messo in corpo, e sentì di aver fallito come amico. Sapeva, di averlo fatto.
    Sospirò.
    Sospirò molto intensamente.
    Decise di non dirgli che gli fosse mancato, perché era uno stronzo e non se lo meritava, ma sorrise, stringendogli appena la spalla tra le dita – e sapeva che, purtroppo, quel singolo movimento delle labbra valesse più di quanto non avesse intenzione di far trapelare.
    «vai.» non una richiesta, la sua. «o ti taglio le dita una ad una.» periodo.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    (5) DIFESA CLAY (twat + mis + styx): fa venire un ictus a domnhall
    (7) DIFESA KIERAN (twat + lena + styx): taglia la mano a pilar
  4. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    A quel punto, Twat supponeva che avrebbe dovuto attivare le proprie fantomatiche “competenze sociali” vedendo il fratello mettere una pistola sotto al mento dell’avversaria, apparentemente impassibile dinnanzi al liquido oculare mischiato al sangue che le rigava le gote, e farle poi schizzare il cervello un po’ su chiunque capitasse in giro.
    Il problema, di fatto, era che clinicamente parlando il Cömmstaj non possedesse davvero delle social skills da mettere in campo quando fosse il momento giusto. Era: confuso dalla sua risata casuale dopo essere stato pugnalato alla spalla («cazzo ridi» non aggressivo, ci mancava solo; era genuinamente curioso), fiero come un padre nel vedere quella mossa, soddisfatto perché si erano tolti di mezzo un altro avversario. Per questo, la sua unica reazione fu un pollice sollevato ed un «bellissimo,» sinceramente felice, mentre approfittava della modesta quantità di sangue lasciata in giro per ostacolare i movimenti di un paio di avversari, lanciandoglielo addosso come fossero delle Carrietta White qualunque. «continua così!» un po’ di supporto morale faceva sempre bene, dicevano.
    Magari non esattamente quello – ma sociopatico era, e sociopatico sarebbe rimasto.

    Per Remo Linguini, invece, successero molte cose tutte insieme.
    Il biondo che lo salutava come zio Cataldo da Messina; un altro ragazzino che decideva di restare anziché scappare come aveva saggiamente fatto il coreano al quale era stato legato; «p- per te. se vuoi dopo ti curo.» accompagnato da una cazzo di granata come regalo. «mh.» non era sicuro fosse un dono, o una minaccia: doveva ringraziare? Non ne era così certo. «è chiusa, sì?» una domanda bisbigliata a chiunque avesse intorno, persino i nemici, perché non ne aveva mai tenuta una in mano e – beh, insomma. «tranquilla, cì,» le diede una pacca sulla spalla, un sorriso cordiale a premere gli angoli delle labbra. Non era un tipo rancoroso, il Linguini: gli bastava sclerare un po’, e passava quasi tutto. «basta che eviti de facce scoppià con queste, eh!» e sollevò la granata che non aveva idea di dove mettersi (Lollo, from the distance: “mettitela in culoooo”) (a volte gli sembrava ancora di sentire la sua voce) (come gli mancava, quel figlio di puttana – con tutto il rispetto per mamma), prima di pensare a qualcosa di più urgente e impellente.
    Tipo il suo nuovo amico strafatto che si lanciava su gente armata come se fosse una piscina di palline. «aooOOO!» si lanciò direttamente su Cory, afferrandolo (per i fianchi, cit.) per le spalle e tirandolo su. «frà. fratellì. amico mio.» gli tirò una pacca sul petto, gioviale. «a cazzo duro sì, ma un po’ meno. cioè, magari non buttatte così su quelli armati dieci volte più de te.» per dirne una. «oddio, è armato.» buongiorno principessa. «o è a cazzo o non lo è, bro. le vie di mezzo non portano mai da nessuna parte.» e sapete cosa? Aveva ragione. Preferiva evitasse di vanificare i loro sforzi di salvarli per poi farsi ammazzare così stupidamente, ma aveva ragione – come disse una grande saggia in un labirinto: “ormai siamo in ballo, balliamo”. «e adesso?» per tutta risposta, sparò al petto del nemico che il biondo aveva atterrato poco prima. «ah comunque io so remo, piacere!»
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    DIFESA AMA: spruzza il sangue
    DIFESA REMO: spruzza il sangue
    ATTACCO NIKO: spara al petto

    CODICE
    <b>(11) DIFESA AMA (twat + murphy + rain):</b>
    <b>ATTACCO IDRIS (murphy + rain):</b>

    <b>(10) DIFESA NINA (clay + adrian + roxie):</b>
    <b>ATTACCO VANYA (nina + roxie):</b>

    <b>(9) DIFESA ADRIAN (lena + adrian + roxie):</b>
    <b>ATTACCO HAKKAI (lena):</b>

    <b>(5) DIFESA REMO (twat + cory):</b>
    <b>ATTACCO NIKO (remo + cory):</b>

    <b>LENA LIBERA NAHLA E REMI</b>
  5. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Twat, qualora non si fosse già capito, si era rotto il cazzo di tutti.
    Lo aveva detto a Javier, quando era piombato senza alcun preavviso in casa sua un paio di giorni prima, e da allora il sentimento non aveva fatto che fortificarsi secondo dopo secondo.
    L’apice, per il momento, era stato raggiunto quando aveva assistito, impotente, alla lama che trapassava la carne dell’Hale. Non poté evitare che un ringhio gutturale vibrasse tra i denti stretti, gli occhi chiari fissi sulla ferita alla spalla. Non si sentiva in colpa, perché non era programmato per farlo: sapeva di non poter essere ovunque e contemporaneamente, e di non poter rimanere costantemente appiccicato al culo di Mac; allo stesso modo, non pensò nemmeno per un istante di volgere lo sguardo verso Mis o verso Ryu, perché sapeva come funzionava il suo cervello, e sapeva che li avrebbe attaccati per qualcosa di cui non avevano colpa. Mis era un suo compagno, Ryu suo fratello, e avevano fatto quanto possibile (giocando con una palla, ma chi era lui per giudicarli) (li giudicava, ndr) per proteggerlo.
    La sua rabbia, era tutta da scaricare su Parisa.
    Non le avrebbe dato il tempo di reagire, buttandola a terra sotto il suo stesso peso. Perché se c’era una cosa che avrebbe capito, evidentemente troppo tardi, era che esistevano dei paletti da non superare: uno di quelli lei, o chi al suo posto, lo aveva già superato giorni prima; l’altro, l’aveva valicato pochi istanti addietro. I più importanti, cazzo.
    E quella «lurida»
    il sai a prendere le giuste misure, la punta che cercava la pupilla e, trovandola, la spingeva più in basso contro l’occipite
    «troia.»
    le ginocchia a premere sulle braccia così che non potesse divincolarsi, e l’altro sai a percorrere gli stessi, chirurgici, movimenti del suo gemello
    non meritava nemmeno di sentirsi dire – quantomeno a parole: si esprimeva meglio con le gesta, il Cömmstaj – che suo fratello non lo dovesse nemmeno sfiorare. Doveva solo morire, e fare da esempio ai suoi compari. Spinse ancora con le else contro la testa della donna, alzandosi e trascinandosela dietro quanto più possibile per portarla alla mercé del fratello. «tutta tua, bro.» un gesto d’affetto incredibile, quello di lasciare che Mac gli rubasse la kill: confidava lo capisse.

    Deglutì, Remo, felice che sia Ciruzzo che l’altro ragazzo fossero così palesemente strafatti da capire la metà delle cose che stavano accadendo in quella stanza, e cercò di ignorare quella liquida sensazione sulle nocche, quel rumore a rimbombare nelle orecchie, nascondendosi dietro pieghe del sorriso appena più accentuate.
    Perché, grazie a Totti, esisteva la fottuta adrenalina, e poteva procrastinare la realizzazione di aver appena ammazzato una persona con un cazzo di pugno in faccia.
    Disgustoso.
    Necessario? Forse.
    Ma terribile.
    Evitabile? Magari.
    Deglutì ancora, distogliendo lo sguardo dal cugino per portarlo sugli altri ostaggi. «fai mpo’ come cazzo te pare.» perché lui ci aveva provato a dirgli di andarsene, ma quel coglione non sembrava volersi schiodare da lì («guarda che n’è un’orgia, eh» casomai non avesse ben capito), e anche se avesse voluto non poteva rimanere lì a fare conversazione. Approfittò del caos, e di un altro caduto nemico, per lanciarsi sulla coppia di ostaggi più vicina, facendo sparire anche le loro manette. «dai, su, andate!» e con un cenno del capo, indicò ai due ragazzi l’uscita dalla quale erano entrati poco prima. «moveteve»
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    difesa mis: sai nell'occhio
    difesa mac: sai nell'altro occhio
    LIBERA FINN E LIAM
  6. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Remo, qualche minuto prima: ma no Twat cosa vuoi fare siamo tutti uniti, noi, gli ostaggi, una grande famiglia felice che deve supportarsi a vicenda, non puoi mica metterti a colpire i nostri amici, orsù sii ragionevole.
    Remo, ora, qualche goccia di sangue – suo, di Pilar, chi se ne fregava – a scivolare sulla fronte fino alle sopracciglia: «A GRANDISSIMA TESTA DE CAZZO!!!» politely. Non andò sotto alla bionda per cercare la rissa, solo perché lui sapeva quali fossero le priorità e non aveva intenzione di mettersi in mezzo a una guerra civile con del fuoco amico.
    Lui!
    E un po’ anche perché aveva visto il lanciagranate: non era così stupido da andarci troppo vicino.
    «no ma famme capì, t’ha scureggiato il cervello?» questo non gli impediva certo di inveire. Vabbè che vabbè, ma mica davero davero. Allungò la mano quando vide avvicinarsi Mis con la zampetta alzata – non comprese subito se si trattasse di solidarietà tra cani, se volesse dargli la zampa o se volesse un croccantino per aver riportato la palla: andava bene così, gli voleva già bene –, trattenendosi dal fargli i grattini perché (aveva paura gli staccasse la mano a morsi) era ancora preso dalla situazione. «te sei svejata stamattina e hai detto “boh, nc’ho n’cazzo da fa oggi, quasi quasi vado a fa’ saltà in aria n’arbergo co’n sacco de persone dentro”?» e lo sapeva, lo sapeva!, che nessuno lo stesse davvero capendo, se non ascoltandolo con il cuore e gli occhi più che con le orecchie, ma gli stava bene sfogarsi con un monologo unilaterale.
    «ma ti stai zitto.» al Cömmstaj, invece, non stava poi così tanto bene. Capiva la sua frustrazione, rodeva il culo pure a lui dal momento che Murphy era stata pugnalata, mentre Mis, Lena e Clay si erano beccati lo stesso contraccolpo, ma gli aveva già rotto il cazzo e non avevano nemmeno passato così tanto tempo lì sotto. Per questo, era difficile dire il perché avesse preso per la divisa la donna che stava (con quale audacia...) minacciando di colpire Milena – alla quale rivolse un mezzo, e morbido, sorriso: dopo l’esperienza in Siberia sapeva che lei gli avrebbe guardato le spalle, così come lui avrebbe fatto lo stesso senza pensarci due volte –, lanciandola contro l’italiano. Per difesa nei confronti della Shevchenko? Per colpire lui? Mah.
    Remo però decise di prendere per buona la prima delle due ipotesi: ritrovò un po’ di pace nel tirare un cazzotto in mezzo agli occhi dell’avversaria, ma soprattutto nel notare si fosse aperto uno spiraglio tra i nemici.
    Indugiò solo il tempo necessario nel vedere se qualcun altro avesse il tempo di farlo prima di lui, o se avesse il via libera.
    Ma non oltre.
    Rapido come una faina, arrivò davanti al cugino e al suo compagno di sventure, bacchetta alla mano e punta sulle manette. Sussurrò un evanesco, constatando soddisfatto la facilità con cui sparirono.
    «cirù!» strinse un braccio attorno alle spalle del Nott, tirandoselo contro al petto per fin troppo poco tempo rispetto a quanto avrebbe voluto abbracciarselo: avrebbero avuto tempo dopo per coccolarsi. «mo vedi d’annattene a fanculo fori de qua, mh!?» e gli diede un buffetto sulla guancia, evitando di dirgli che nel piano di sopra ci fosse anche Giacomino (e Vincenzo; scusa Vincy, ma ci sono delle priorità). «te? stai bene?» diede un colpo sulla spalla del biondo capitato con il Linguini, sorridendogli cauto e caldo.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    difesa milena (twat): spinge dorina addosso a remo
    attacco dorina (remo): le da un pugno in faccia

    REMO LIBERA CIRUZZO E CORY
  7. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Rivolse un cenno del capo al ragazzo, e se il Morales nell’ultimo anno aveva iniziato a conoscerlo al Quartier Generale, sapeva bene che fosse davvero tanto da parte sua. Dire che avesse fiducia in Clay sarebbe stato poco veritiero – niente di personale: Twat, semplicemente, non si fidava di nessuno oltre che di sé stesso e pochi altri eletti –, ma sapeva che fosse un ribelle da molto più tempo di lui e che potesse, invece e senza particolari dubbi, fare affidamento nelle sue capacità. Quando vide di non essere stato rampinato come un muro qualunque, ebbe la conferma di aver fatto bene.
    Quel “ben fatto” non detto era, comunque, il massimo che avesse il tempo di rivolgergli: già normalmente non era un amante delle chiacchiere, tutto spreco di energie che la gente avrebbe fatto meglio ad usare per attivare qualche sinapsi in più, ma in battaglia ancora di meno. Soprattutto se le motivazioni per essere lì erano tra le più forti che avesse mai provato; soprattutto se aveva qualcosa da dimostrare – a più persone di quante volesse ammettere. Per questo distolse lo sguardo repentinamente, portando le iridi azzurre su altri nemici: su chi poteva raggiungere con il proprio corpo, e su chi con il potere. Questione di pensare alla tattica più sensata nel momento più giusto, che lo portò a focalizzarsi sull’uomo che aveva intenzione di catapultare via Mis – e forse, nel profondo, anche di preferenze: se doveva scegliere, meglio salvare i compagni ribelli prima degli altri –, premendo sul sistema circolatorio del nemico per occludere la magia nelle sue vene e zittirlo quanto bastasse.
    Cosa che avrebbe voluto fare anche su qualcun altro, ancor di più quando aveva notato che l’unico buono motivo che avesse per aprire bocca era pronunciare formule magiche, e aveva deciso di farlo pure male.
    Che gli incantesimi non fossero il forte di Remo, d’altronde, lo sapevano anche i muri. Dopotutto per il romano la magia a scorrergli nelle vene era sempre stato un mero optional, un soprammobile regalatogli dalla nonna così tanti anni addietro che se ne stava sulle mensole soltanto a prendere polvere: bello, per carità, ma non gli serviva davvero. Voleva continuare a lavorare dietro ai fornelli, e (per quanto volesse bene a sua cugina e ne fosse altrettanto terrorizzato) nel proprio futuro vedeva un ristorante con il suo nome; aveva sempre vissuto ai margini della società, in luoghi dove la magia veniva usata dagli animatori ai compleanni dei bambini, e quella vita gli era sempre andata bene così com’era – nemmeno sapere sin dalla prima infanzia di essere destinato ad impugnare una bacchetta aveva mai cambiato la sua visione d’insieme, tantomeno gli ultimi sviluppi della trama mondiale che aveva portato i due mondi a mescolarsi, sovrapporsi e distruggersi.
    «c’ho provato.» forse nemmeno più di tanto, a dire il vero: pronunciare uno Schiantesimo alla romana non doveva essere stata una brillante idea, ma il danno era fatto e, tutto sommato, non era andata nemmeno così male come poteva sembrare.
    Ad ogni modo, aveva altri punti di forza. Uno di quelli decise di palesarsi al momento più opportuno, quando il biondo apatico decise di lanciargli con un calcio sulla lombare una persona addosso. «MIAAA!» come se quella fosse una partita di pallavolo e, al contempo, di calcetto nei campetti disastrati del Vigor Breda. Perché quando ce l’ebbe a portata di testa, non poté resistere alla tentazione di caricare il colpo, portando indietro il capo, e di tirargli una capocciata sul setto nasale. Tristemente, non c’era nessuna rete dentro cui potesse spingere quella palla di merda che aveva sul collo.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    difesa mis: cerca di annullare il potere di sven
    difesa kier: spinge pilar contro remo
    attacco remo: dà una capocciata a pilar

    CODICE
    <b>(2) DIFESA MILO (ryu + mis):</b>
    <b>ATTACCO JACQUES (ryu):</b>

    <b>(4) DIFESA KIERAN (kier + twat):</b>
    <b>ATTACCO PILAR (remo):</b>

    <b>(14) DIFESA MIS (twat + mis):</b>
    <b>ATTACCO SVEN (mac):</b>
  8. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Remo guardò la pistola, e la pistola guardò Remo. Non si era sparato da solo, e questo era già tanto; ma poi.
    Ma poi.
    «me cojoni.» appena bisbigliato e decisamente compiaciuto, nell’ammirare il colpo andato perfettamente a segno nella spalla dell’avversaria.
    Preferiva azzuffarsi, il romano, mani nude contro alla carne, zigomi tagliati e nocche spaccate, ma ciò non significava che non sapesse come usare un’arma, né che non avesse mai stretto tra le dita una pistola – ma un grilletto non lo aveva mai premuto, se non alle fiere di borgata per vincere qualche stupido premio. Era stata una sorpresa per lui, tanto quanto per Parisa. Con l’eccezione, certo, che per quest’ultima fosse meno piacevole.
    Momentaneamente dimentico del perché fossero lì, o del fatto che fosse ancora spaparanzato a terra come la Paolina del Canova alla Galleria Borghese, alzò lo sguardo nocciola per cercare quello di Ciruzzo e piegare gli angoli delle labbra in basso, soddisfatto.
    Lo riportò alla realtà la figura a frapporsi tra sé e il cugino, e la mano sporta per dargli un appiglio a cui aggrapparsi per rimettersi in piedi. Ma l’occhiata fredda di Twat suggeriva chiaramente che non ci fosse solidarietà in quel gesto, solo analitico spirito di squadra: l’emocineta, semplicemente, non voleva pesi morti in mezzo ai piedi, ed il corpo del Linguini fino a quando fosse stato ancora caldo e non un cadavere da saltare come in una corsa ad ostacoli, gli serviva che fosse funzionale.
    «gra– oh frà, quella te vole sparà!» il Cömmstaj corrugò le sopracciglia, prima di volgere l’attenzione nella direzione indicata dalla bacchetta del ragazzo: oramai masticava bene l’inglese, senza troppi problemi nemmeno nel parlarlo; l’inglese romano, tuttavia, era un altro paio di maniche. Scattò via non appena capì davvero il significato dietro le sue parole, sentendo uno «stupeficium!» lanciato verso la donna. «comunque si dice “grazie”, eh!»
    Ok.
    Non gli interessava.
    «clay!» arrivò a ridosso di un tipo che aveva l’arma puntata contro di lui – ed oltre alle teste di cazzo che si erano fatte rapire, oltre a Mac, c’erano poche altre persone lì dentro la cui incolumità gli importasse: il Morales, come gli altri ribelli, faceva parte di questi. Colpì il braccio dell’uomo con il sai, cercando di fargli perdere la mira, e poi guardò attentamente il minore.
    Molto attentamente.
    «mira bene con quel coso.» perché era sicuramente addestrato, ma con un rampino? Eh.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    DIFESA TWAT (twat + murphy): si lancia...
    DIFESA CLAY (twat + clay): ...addosso a Thoma per colpirlo con i sai
    ATTACCO GERTRUDE (remo): stupeficium

    CODICE
    <b>(12) DIFESA CLAY (clay + twat):</b>
    <b>ATTACCO THOMA (clay):</b>

    <b>(15) DIFESA TWAT (twat + murphy):</b>
    <b>ATTACCO GERTRUDE (remo):</b>
  9. .
    I think I'll pace my apartment a few times
    && fall asleep on the couch
    1999 | chef | dork
    2003 | doctor | emok.
    remo linguini
    tvättbjörn cömmstaj
    Oh Totti, give me strength: «ao.»
    Due semplice lettere che potevano significare tanto, se non tutto, nelle stanze sotterranee del Lotus – ao, di tutte le belle stanze che doveva avere quell’albergo proprio nelle cantine umide e senza nemmeno una boccia di vino dovevano finire; ao, li mortacci vostra, quanto cazzo sete brutti; ao, saluto rivolto a Ciruzzo. Ao ad un sacco di cose, e sebbene il Linguini le pensasse e intendesse tutte allo stesso momento, ad altro era rivolto il monosillabo.
    E quel “altro”, per inciso, era un ragazzino biondo dallo sguardo ferale fisso non sulle fila dei nemici, bensì oltre le stesse, laddove suo cugino e gli altri ostaggi attendevano soltanto che loro – che poi, loro chi: l’italiano conosceva letteralmente due persone in croce, e solo perché le aveva intraviste ad Hogwarts; l’avevano persino diviso da Vincenzo e Giacomino, una cazzo di tragedia –, con una specie di palla da tennis densa e dalle tinte rossastre tra le dita. Quel «ao?», ripetuto un po’ titubante, aveva più le sfumature del “fratè, che cazzo stai a fa’?” che non altro.
    Di certo non aveva alcuna intenzione, né motivo, di giudicarlo: se ci fosse stato suo fratello dall’altra parte della stanza, gli avrebbe riservato lo stesso sguardo, oltre ad un quantitativo di parole poco lusinghiere che avrebbero rincoglionito tutti i lì presenti; ciononostante, non poteva fare a meno di pensare che non fosse il caso di... beh, fare qualsiasi cosa avesse intenzione di fare, probabilmente. Remo non aveva mai partecipato a nessuno scontro del mondo magico – non gli era mai interessato e non aveva mai avuto alcuna ragione che, come quella volta, lo spingesse a scendere in campo –, ma aveva un po’ di esperienza in questione di risse in mezzo alle quali non avrebbe dovuto trovarsi per sapere che ci fossero dei limiti.
    Paletti che, a Tvättbjörn, non erano mai interessati – nella vita, figurarsi in un momento come quello. Perché ne aveva abbastanza, un po’ sempre e un po’ di tutto, ma degli stronzi che sparivano ancora di più. Aveva dovuto accettare che Posh fosse partito per chissà dove, che Brandy fosse scomparso senza dirgli se sarebbe tornato o meno; per quanto lo riguardava, potevano anche essere morti e non gliene sarebbe potuto interessare di meno.
    Ma Reggie, Barbie. Moka. Hans.
    Tutti insieme, svaniti nel nulla e senza lasciare traccia. Era incazzato, il Cömmstaj. Era furioso.
    (Era preoccupato.)
    Li odiava da morire, e nemmeno riusciva ad essere del tutto sollevato nel trovarli vivi perché a rapporto mancava ancora il Telly.
    Aveva tutte le ragioni del mondo per mirare alla fronte del Belby e colpirlo, prima ancora di pensare a liberare lui e tutti gli altri, perché vaffanculo Hans.
    «testa di cazzo.» la sua fiducia nei fratelli lasciava il tempo che trovava, e non aveva dubbi che Reggie e Barbie fossero stati rapiti da qualche setta – alla prima era già successo, lui stesso testimone, e da quanto aveva capito non sarebbe stata la prima volta che qualcuno con torce e forconi accerchiava lo Jagger. Ma per dieci giorni, dieci fottuti giorni, aveva avuto il terrore di ritrovare il migliore amico così come lo aveva trovato quasi un anno prima, ma troppo tardi.
    Sorrise a mezza bocca, soddisfatto dopo aver colpito lo special, piegando lo sguardo verso Mac – sempre al suo fianco, perché non aveva la minima intenzione di perderlo di vista nemmeno per un secondo – sapendo che avrebbe avuto molto probabilmente da ridire (del tipo che Hans sembrava chiaramente già più di là che di qua, dettagli che all’emocineta importavano molto relativamente).
    Giusto in tempo, perché non si poteva avere nemmeno il tempo di tirare una palla di sangue in faccia al proprio migliore amico (1pa, ma solo perché non voleva farti davvero male) che qualche alberghiera frustrata pensava bene di tagliare le gambe alla gente. Vide Ryu arrivare velocemente, e decise di approfittare del colpo alla nuca della donna per afferrarla e spingerla lontano, contro uno degli altri nemici.
    Forse in tempo per evitare che il Linguini si sparasse da solo, forse (molto probabilmente) no, ma Twat sapeva bene che per fare una frittata andava rotto qualche uovo.
    Cosa di cui era a conoscenza anche Remo, a dire il vero, con la sola differenza che quest’ultimo applicava tale filosofia in un solo ambito: dietro ai fornelli del Bar dello Sport, dove fottutamente cucinava e dove voleva tornare il più in fretta possibile con tutti i suoi cugini, sani e salvi.
    Non voleva morire lì sotto, e tantomeno uccidersi da solo – ma la mano si era mossa da sola, e non aveva potuto fare niente per evitarlo.
    Aveva chiuso gli occhi.
    Quando li aveva riaperti, era a terra con un cagnolone sopra di sé. «anvedi oh!» ma chi era che si era trasformato in un cane senza dirglielo? Potevano essere in due! «bravo cucciolone, però giocamo dopo eh.» aveva delle priorità, ed al momento una di quelle era prendere nuovamente il controllo della pistola e sparare volontariamente ai nemici.
    E sono solo uno dei tanti
    Col sorriso triste e con gli occhi stanchi
    Che non riesce più a fidarsi degli altri
    Con una mano mi abbracci e con l'altra mi ammazzi


    difesa mac: prende parisa e la lancia...
    difesa remo: ... contro niko
    attacco parisa: spara
  10. .
    «grazie» assottigliò le palpebre, sopracciglia corrugate e occhi ridotti ad due lame di ghiaccio, celate dalle lenti scure e premute contro il profilo del Belby.
    Sociopatico per definizione, più che per deformazione, Tvättbjörn aveva sempre avuto problemi ad empatizzare con il prossimo – anche quando avrebbe voluto farlo; anche quando ci provava davvero a mettersi nelle scarpe dell'altro e vedere come ci si camminasse. Faticava a comprendere e razionalizzare le proprie emozioni, figurarsi quelle altrui: erano un altro pianeta, sconosciuto e impervio, e lui un astronauta senza equipaggiamento né preparazione, lanciato nello spazio in balia di sé stesso.
    Ma aveva studiato, continuava a farlo e non avrebbe mai smesso. Riconosceva di peccare in ambito sociale – non riteneva semplicemente fosse un suo problema: se qualcuno doveva adeguarsi, quello non era di certo il norvegese –, così come era consapevole del fatto che l'unico modo che conoscesse per sopperire a tali mancanze fosse l'apprendimento. Tutti i libri di medicina, di psicologia e sociologia che aveva divorato negli ultimi tempi non gli avevano sicuramente dato gli strumenti necessari a comprendere le persone, condividere e accettare i loro stati d'animo più di quanto non avessero fatto gli psicofarmaci, né tantomeno più di quanto avesse desiderio di fare; tuttavia, gli avevano offerto quelli per individuare i sintomi, classificarli ed elaborarli all'interno di uno schema più ampio.
    Non pensava di aver sbagliato a bloccare il potere di Hans, ma non era nemmeno certo di aver fatto la cosa più giusta per lui in quel momento. Nemmeno quando aveva programmato di farlo, architettando ogni singolo passo e calcolando i possibili imprevisti, si era illuso quella potesse essere la scelta migliore per supportarlo. Il problema era che in fondo Twat non avesse idea di come aiutare davvero il suo migliore amico senza fare alcun danno: osservandolo mentre si beava, ad occhi chiusi e con il respiro lento, dell'effetto dell'emocinesi sul suo organismo, ebbe solo che la conferma dei contro che aveva preventivato, nonché sperato invano non si palesassero.
    Si staccò dallo svedese, muovendo qualche passo verso il barile per volgere una breve occhiata al suo interno carbonizzato prima di tornare sul ragazzo. Di non ringraziarlo, o di non dispiacersi, non glielo disse – immaginava che entrambe le cose fossero qualche stronzata da tossicodipendenti anonimi, quindi lo lasciò fare –; non voleva che gli fosse riconoscente, né per quell'ultimo gesto né per tutti quelli che aveva fatto per portarlo a quel punto, ma accettò di buon grado quelle scuse. Un po', sentiva di meritarsele per come gli aveva fatto passare quelle ultime settimane.
    C'era un punto, dietro quel grazie, che però ci teneva a chiarire. «questa non sarà la tua nuova droga.» specificò secco, sollevando la stessa mano con cui aveva placato i suoi bollenti spiriti: non lo aveva preso per la collottola sul ciglio di un burrone per spingerlo verso un altro. Sarebbe stato un attimo, per lui, passare nuovamente da quel tipo di anestesia a quello di una pasticca – ma a quel punto, anche per il Cömmstaj sarebbe stato un attimo prendere la pistola e puntargliela contro, finanche a premere il grilletto: preferiva perdere il proprio migliore amico così, che vederlo ammazzarsi da solo.
    «a me non dispiace.» si strinse nelle spalle, riferendosi un po' a tutto e un po' a niente. Avrebbe preferito non trovarsi in quella situazione, ma di certo non era amareggiato per averlo costretto a dare fuoco alle sue scorte: in primis, perché aveva altri spacciatori di fiducia cui rivolgersi se avesse avuto bisogno di qualcosa; poi, perché «devi imparare a controllarti, a controllarlo, che ti piaccia o meno.» Odino solo sapeva quanto avrebbe desiderato non avere quel dono, Twat. Aveva una meta, aveva un progetto, ed il tutto era andato a puttane quando nemmeno aveva l'età per potersi opporre a quel che stava succedendo; a diciannove anni, gli erano rimasti solo una cicatrice sul petto, ed i ricordi notturni di tutto il sangue che aveva dovuto versare per diventare poi in grado di manipolarlo. Sotto quel punto di vista, poteva seriamente capire la frustrazione di Hans – ma la sua comprensione, per loro sfortuna, non cambiava i dati di fatto. «ma non sei da solo, ok?» non lo era mai stato, ma forse a quel punto, privo di anestetici sintetici, avrebbe iniziato a capirlo.
    Chinò il capo, accendendo un'altra sigaretta. «io me ne vado.» annunciò in uno sbuffo di fumo, superando il Belby: troppi sentimentalismi, aveva bisogno di spegnersi. «vuoi accendere un cero o ti serve un passaggio?»
    TVÄTTBJÖRN
    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
    2043: dexter bitchinski
  11. .
    «sei contento adesso?» le iridi chiare rimasero puntate sul profilo del ragazzo, la coda dell’occhio a registrare vaga la presenza delle fiamme che divampavano sui pugni chiusi del coinquilino. Non si scompose, dietro gli occhiali da sole: non c’era soddisfazione a brillare nello sguardo del norvegese, né confusione o stupore alla domanda dell’altro. «dovrei?» una domanda retorica, sebbene il tono secco ed impassibile potesse indurre in dubbio il Belby: faticava ad elaborare le emozioni come il resto del genere umano, ma c’erano momenti come quello in cui non aveva dubbi su come si sentisse.
    Ed era sicuramente tante cose, Twat, fuorché contento. Non soltanto perché avrebbe preferito essere in qualsiasi altro luogo, persino alla serata karaoke del Better Run con un microfono in mano e storpiando Careless Whisper senza nemmeno un’oncia di alcol in corpo a giustificare la sua esistenza in quel dato momento dello spazio-tempo, piuttosto che seduto in una radura nascosta al mondo intero, con un barile pieno di droga ed un migliore amico sull’orlo di una crisi di nervi appena uscito da un centro di recupero per tossicodipendenti: mai in vita sua avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere, o che avrebbe desiderato così ardentemente tornare indietro nel tempo ed impedire che molte cose succedessero, e se avesse potuto avrebbe evitato ad entrambi tutto quello. Né perché rispondere positivamente a quel quesito, troppo stupida per essere stato consapevolmente formulato da Hans, avrebbe significato essere compiaciuto della sofferenza a zampillare da ogni suo poro – e non lo era; fosse stato qualcun altro il rischio ci sarebbe stato, ma in quel caso si sentiva esattamente all’opposto: triste, avrebbe detto, se solo fosse riuscito a metabolizzare un sentimento simile ed esternarlo com’era giusto e lecito fare.
    Non era appagato, non era compiaciuto, non era felice, perché non aveva alcun motivo al mondo per esserlo. Raramente Tvättbjörn Cömmstaj faceva qualcosa che non fosse unicamente per sé, per la propria soddisfazione ed un personale tornaconto: ma lì, ad osservarlo mentre dava fuoco al contenuto del barile e si disperava al suo cospetto – vuoi per aver appena bruciato anni di collezionismo tossico; vuoi perché l’aveva portato al limite che aveva tanto cercato di porre sempre un po’ più distante –, c’era per lui. Che poi non volesse accettarlo, e preferisse detestarlo perché lo aveva obbligato ad usare il suo potere, era un problema tutto di Hans: l’emocineta ci avrebbe comunque, e tranquillamente, dormito la notte. Lo aveva preventivato, perché non era un’idiota e aveva stilato una lista ben dettagliata su pro e contro di quella giornata: laddove di positivo c’era una terapia d’urto che sapeva lo avrebbe aiutato, era consapevole che rischiasse di perderlo in quella nuova vita che si sarebbe andato a costruire – e che Twat non lo volesse, per una volta, contava poco.
    Se ne rimase buono, le gambe piegate ed il mento poggiato sulle braccia a stringerle maggiormente al petto, come se stesse guardando un tramonto sul ciglio dei fiordi piuttosto che il principio di un incendio che aveva aiutato ad appiccare – d’altronde, non sarebbe stata la prima volta che dava alle fiamme qualcosa per il semplice gusto di farlo. «te l’avevo detto che era una pessima idea.» innanzitutto, non gli aveva detto proprio un cazzo di niente.
    In secondo luogo. Si alzò, senza lesinare un sospiro di fatica nel farlo, ricambiando lo sguardo. «anche andare in overdose e» farmi credere fossi morto, gran pezzo di merda «costringermi a farti la respirazione bocca a bocca era una pessima idea.» si strinse nelle spalle. «eppure quantomeno la sua, di pessima idea, avrebbe avuto effetti scenici più entusiasmanti del vedere il corpo emaciato del Belby riverso al suolo, con la bava alla bocca e battiti troppo lenti e scoordinati a rimbombare nelle arterie.
    «niente estintore.» mosse i passi che lo separavano dalla schiena dello svedese, cercando di ignorare il calore che emanava e che, se solo non fosse stato attento, lo avrebbe scottato. «respira,» sorrise, perché gli piacevano le sfide. «e stai calmo.» non aveva paura potesse bruciarlo – non volontariamente, almeno: si fidava di lui, più di quanto Hans non facesse con sé stesso; in caso contrario, sarebbe stato quantomeno divertente. Posò una mano sulla sua spalla e premette appena, facendo penetrare il proprio potere sottopelle ed andando a premere sul flusso sanguigno – maneggiandolo, rimodellandolo, inibendolo, fino a quando non assistette alle fiamme spegnersi sulla pelle. Allora fece scivolare il palmo, finendo per avere il gomito premuto sulla clavicola e piegando appena il capo per rivolgergli lo sguardo. «non ti ci abituare.»
    TVÄTTBJÖRN
    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
    2043: dexter bitchinski
  12. .
    Voleva l'accendino.
    Voleva l’accendino.
    Quasi rise, Tvättbjörn, guardando il Belby – ma non lo fece: avrebbe significato essere programmati per esternare emozioni complesse, ed era abbastanza certo che quella stringa nel suo codice avesse qualche difetto di fabbrica; avrebbe dovuto essere estremamente divertito, o nervoso dalla punta dei capelli fino all'unghia dell'alluce, per anche soltanto sbuffare un sorriso. Tuttavia, non era nessuno dei due – e dubitava fortemente che alcuno sviluppo di quella vicenda potesse farlo sbilanciare da una parte o dall'altra. O che, più in generale, potesse togliergli quel mantello di pacatezza dalle spalle; figurarsi la serietà che aveva dipinta in volto.
    Avvicinò la sigaretta alle labbra, iridi celesti sul viso dell'amico mentre cercava di studiarlo; di decifrarlo. Glielo avevano detto che sarebbe stato difficile – per Hans trovare un equilibrio dopo ciò che aveva passato e vissuto, per lui stargli vicino –, e Twat agli operatori della clinica aveva semplicemente annuito, credendo di essere perfettamente consapevole di ciò che sarebbe venuto da quel momento in poi. Sicuro di esserlo: non era mai stato particolarmente ferrato nei rapporti sociali, e non aveva mai saputo gestire al meglio i cambiamenti che la vita continuava a presentargli giorno dopo giorno; cercava di organizzarsi come meglio gli era possibile, e nell’unico modo che conosceva.
    Leggendo, informandosi, studiando. Libri su libri riguardo la riabilitazione, articoli scientifici, testimonianze online; in quelle due settimane, il norvegese aveva preso tutto quello che la letteratura medica poteva concedergli e – nonostante quello non fosse mai stato il suo campo, più ferrato nella meccanica e affascinato dall’astronomia piuttosto che dalla biologia umana – aveva assimilato tutto l’assimilabile. Doveva, e più verosimilmente voleva, farlo.
    Aveva creduto, in uno slancio di ottimismo che non l’aveva mai contraddistinto, di essere pronto a quello che sarebbe successo quando fosse andato a recuperare il migliore amico.
    Non aveva considerato che avrebbe dovuto imparare a conoscere una persona completamente nuova. Perché in quei tic nervosi, nell’irrequietezza che distingueva nei rapidi cambi espressivi del pirocineta, Twat non riusciva a riconoscere quella persona alla quale si era avvicinato senza nemmeno rendersene conto pochi anni prima – quel ragazzo taciturno e distante con cui aveva legato senza mai dover dire una parola di troppo, così naturale e spontaneo, e che forse nemmeno era consapevole di quanto gli avesse dato. Era un estraneo, quel Johannes. L’avrebbe quasi potuto considerare un impostore, se solo non sapesse che ad esserlo era stato quello al quale si era affezionato.
    E se l’era chiesto, e se lo stava chiedendo, se fosse stato in grado di ricominciare da capo. O se quell’Hans avrebbe capito che non aveva niente da che spartire con una persona che non aveva conosciuto realmente. Che aveva accettato, forse; che si era semplicemente fatta andar bene, perché tanto non era lui a tenere il timone di quella nave alla deriva.
    Non gli importava – non davvero, non in quel momento. Aveva un compito, ed avrebbe lasciato che il dovere surclassasse ogni lecito dubbio.
    Anche perché si stava dimostrando molto più complicato del necessario fare quei primi passi, e non aveva tempo o forze da perdere domandandosi se sarebbe cambiato qualcosa. Immaginava che un po’ fosse anche colpa sua – ma nessuno gli aveva dato un progetto da seguire e, privo di istruzioni chiare, al Cömmstaj piaceva affidarsi al caos e delineare le proprie regole.
    «no.» soffiò una nuvola di fumo, impassibile nel rispondere alla richiesta dello svedese: non gliene fregava un cazzo, che fosse disperato. Che avesse paura, che si rifiutasse, che volesse liberarsene; che qualsiasi cosa. Se avesse voluto coccole e rassicurazioni, non sarebbe dovuto salire sulla sua moto: avrebbe potuto declinare il passaggio, inventarsi una scusa qualunque dicendogli che sarebbe passato Ty, o Bri, o Mac a prenderlo, e Twat l’avrebbe accettato; ma non l’aveva fatto, e lo sapeva che con il biondo gli sarebbe toccata o un’indifferenza assoluta, o una terapia d’urto.
    Doveva, saperlo.
    Che fosse terrorizzato dal proprio potere, poteva rispettarlo; non capirlo, perché con il proprio lui ci aveva fatto i conti ed aveva imparato a renderlo nient’altro che un’appendice del proprio essere, e quando l’universo aveva distribuito il dono dell’empatia probabilmente l’emocineta era stato trattenuto al metal detector per le troppe armi che aveva addosso.
    Si sedette a terra, togliendosi distrattamente la pistola che aveva tra i pantaloni e la schiena e poggiandola al proprio fianco. «non ce ne andremo di qui fino a che non avrai dato fuoco a quel barile.» umettò le labbra, tornando a guardare Hans in silenzio. Non era compito suo rendergli più semplice quei passi, anzi, ma non trovava alcun appagamento nel metterlo così in difficoltà: voleva solo che capisse che lo stava facendo per lui – magari non nei metodi più convenzionali, ma in fin dei conti Tvättbjörn Cömmstaj non lo era mai stato. «o vuoi tornare ad usare quella roba per evitare di scoppiare senza alcun controllo?»
    TVÄTTBJÖRN
    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
    2043: dexter bitchinski
  13. .
    Era abituato al silenzio.
    Era abituato a tornare a casa e sentire soltanto il cigolio della porta d’ingresso che si trascinava sul pavimento, le chiavi della moto tintinnare solitarie nella ciotola sulla mensola, il lontano eco della televisione accesa su documentari o televendite che lasciavano il tempo che trovavano.
    Era abituato a muoversi nel buio, tra gli scatoloni mai disfatti e quelli vuoti, in un ordine sparso che s’impegnava a mantenere tale – troppo ossessivo compulsivo, l’emocineta, per vivere nel caos più totale: lo amava, ma fuori dalle mura di casa sua; lì dentro riusciva ad avere il controllo che spesso gli sfuggiva all’esterno.
    Era abituato a non ricevere alcuna risposta, o ad accontentarsi di mugugni soffusi a scivolare tra gli spiragli lasciati accostati.
    Gli piaceva, tutto quello. Non c’era stato un momento, da quando aveva deciso di convivere con il Belby, in cui si fosse pentito di averlo fatto – ché forse per l’altro era stato naturale, oppure una scelta ovvia data dalla convenienza del condividere un appartamento con qualcuno che già conosceva abbastanza bene ed al quale non avrebbe dovuto chiedere molto, o spiegare alcunché; erano sempre stati simili, si erano trovati nel primo momento in cui avevano incrociato lo sguardo.
    Non per Twat. Di scontato, mandatorio, in quella proposta fatta allo scadere del loro ultimo anno scolastico, non c’era stato niente.
    Non aveva mai avuto una casa, il norvegese. L’aveva cercata spesso, l’aveva cercata ovunque – e mai volontariamente. Un senso di appartenenza che consciamente non avrebbe saputo ammettere di desiderare, perché mai si era fermato abbastanza a rifletterci.
    L’aveva anelata nella famiglia in cui era cresciuto, ma incapace di provare alcunché nei confronti dei Cömmstaj. L’aveva bramata nel laboratorio, perdendosi nei suoi cunicoli solo per trovare la faccia familiare di Finn ed aggrappandosi alla vana speranza che potesse portarlo fuori di lì, un giorno, inconsapevole di quanto caduca potesse essere una qualsiasi aspettativa in un luogo del genere. L’aveva sperata in Hogwarts, disilluso e sconfitto, ridendo della propria stupidità dopo ogni giornata fallimentare trascorsa nel castello. L’aveva temuta con Mac – e considerando che l’aveva trascinato con sé in un viaggio di andata e ritorno per l’inferno in terra, forse aveva fatto bene ad ignorare quella pulsione nel petto: non sapeva chi fosse Dexter, o chi fosse Levi; ma sapeva chi fosse Tvättbjörn, e non era mai stato un bene per nessuno.
    Aveva paura a dire che in Hans, con Hans, credeva di aver trovato qualcosa in quello stupido appartamento governativo – un posto in cui tornare senza dover accampare scuse per non farlo, nel quale sapeva di essere ben accetto.
    «hans?» quello a cui non era abituato, era quel vuoto: il mutismo dell’amico era normale; quell’assenza a premere nelle orecchie, no.
    Si erano dati delle regole. Poche, minime, ma essenziali; il pirocineta sapeva bene quanto il coinquilino ci tenesse alla routine, al programmare anche l’imprevedibile. Quelle poche volte che metteva piede fuori casa, sapeva di dover lasciare un biglietto – unica eccezione qualora fosse stato rapito, ma anche su quello aveva da ridire – così che Twat potesse regolarsi, e viceversa. Per preparare la cena, attendere che l’altro tornasse per la canna prima di andare a dormire, in caso registrare la puntata di qualche serie che capitava guardassero insieme.
    Ma non c’era nessun biglietto, sul tavolo della sala.
    E il battito solitario a pulsare nelle orecchie non era normale.
    Così aveva bussato alla porta del bagno, e non aveva ricevuto niente in cambio.
    Non si preoccupava che non gli rispondesse, perché sentiva il cuore battergli nel petto.
    Si era avvicinato alla porta della sua camera, e l’aveva trovata socchiusa.
    Non rimaneva mai aperta.
    Aveva provato ad aprirla, ma non era stato facile.
    Ed il brutto presentimento si mescolò al ricordo delle guardie siberiane cadute pochi giorni prima, i corpi ancora caldi che avevano dovuto spostare per poter uscire dalle stanze.
    «hans-» immobile, le bionde sopracciglia corrugate sulla fronte; il tono fermo, confuso, e gli occhi celesti a seguire la silhouette dello svedese – partendo dai piedi, scivolando sulle gambe distese a terra, salendo sul torso statico, arrivando al viso pallido e cianotico, alle labbra dischiuse e alla schiuma che le bagnava.
    Non era abituato a voler bene a qualcuno, Tvättbjörn Cömmstaj – perché non ne era mai stato capace, non era scritto nel suo DNA; e perché ogni volta doveva andare a finire fottutamente male.
    E dunque si era avvicinato, impattando le ginocchia contro il pavimento ad un dito di distanza dal torace magro e troppo piatto del migliore amico. Non aveva avuto bisogno di premere le dita contro il polso di lui, contro la sua giugulare, per avere alcun tipo di conferma: mai come in quel momento si era ritrovato a maledire quel potere infame, la capacità di sentire nitidamente il sangue scorrere nei vasi delle altre persone; quello di Hans era debole, impazzito, una melodia lontana e priva di alcun ritmo suonata da un pianista folle.
    Lo aveva preso a schiaffi, perché era uno scherzo di merda – ma non era successo niente. Lo aveva girato di lato, cercando quanto più possibile di liberargli la gola da schiuma e vomito – ed aveva ottenuto poco.
    Lo aveva chiamato, lo aveva scosso – ma non aveva aperto gli occhi, non più di quello spiraglio azzurro tra le palpebre appena dischiuse.
    Le dita di una mano a stringere l'altra sullo sterno del ragazzo, il telefono lanciato a terra con una chiamata in attesa di risposta, un «testa di cazzo» sibilato tra i denti stretti; Twat aveva iniziato a spingere.
    Uno.
    Due.
    Tre.
    Dieci.

    «twat?»
    Dodici.
    Aveva pochi numeri in rubrica, Twat, e non aveva davvero idea di chi chiamare – avrebbe dovuto fare un numero di emergenza, ma cosa avrebbe detto? Che un ex mago, attualmente manipolatore di fuoco, era andato in overdose da chissà quanto – ma ehi!, poteva svegliarsi e mandare in fiamme tutto senza rendersene conto –? Era felice che cliccando a caso avesse chiamato il Telly.
    «moka,» strinse i denti
    Quindici.
    «ho bisogno di te.» chiuse la telefonata. Conciso, pragmatico: non aveva il tempo di spiegare all’altro, né quello di perdere la concentrazione; confidava che il ribelle avesse capito, in quei pochi giorni, che il Cömmstaj non fosse affatto il tipo da chiamare qualcuno, o che chiedesse aiuto. E gli serviva rapidamente –
    Venti.
    – abitava lì, sarebbe arrivato presto; ed era un fottuto defibrillatore umano; e si fidava di lui.
    Venticinque.
    «mac? devi venire a casa, subito. hans – ti prego e quando mai, quando mai, Tvättbjörn Cömmstaj aveva supplicato qualcuno.
    Trenta.
    Qualcosa lo aveva sentito di diverso, ma non abbastanza. E Dio, quanto bruciava.
    Gli aveva strappato la maglia di dosso, gli aveva inclinato la testa. Tutti gesti estremamente meccanici, distaccati: manovre di primo soccorso apprese dall’Artman quelli che sembravano, in quel momento, essere eoni prima – soltanto che non sapeva se fossero più per sé, o se per il Belby. Automatismi che lo aiutavano a non pensare al respiro praticamente assente, o alle palpitazioni fibrillanti.
    Stava succedendo tutto così in fretta, aveva bisogno di estraniarsi il più possibile da quella situazione.
    Così si era tirato indietro i capelli, aveva aperto maggiormente la bocca di Hans, aveva soffiato – uno, due.
    «dammi il cambio.» aveva ordinato al Telly, arrivato chissà quando e chissà come, senza spiegazioni.
    Uno. Due. Tre. Cinque. Dieci. Quindici. Venti. Trenta.
    Un’altra volta.
    Lo aveva tenuto fermo, bloccato la testa tra le mani così che le convulsioni non lo uccidessero prima della droga. Aveva stretto i denti, tanto forte da far male, mentre imparava di nuovo a respirare quasi normalmente – lui, Hans.
    «puoi portarlo?» una richiesta che chiamava retorica da ogni punto dal quale la si guardasse: dubitava Mac potesse rifiutare. «ti raggiungo subito.»
    Le labbra secche, il respiro affannato, la schiena a scivolare sulla parete mentre il fratello portava via un semi-cosciente pirocineta al San Mungo; gli occhi chiusi, le mani tremanti. Aveva aspettato che anche Moka se ne andasse, la mano del maggiore stretta sulla spalla che non aveva avuto le forze, la voglia di scansare – ne aveva bisogno.
    Solo allora, si era lasciato andare; mani sul volto, sulle labbra, iridi chiare a perlustrare la stanza così vuota.
    Rimbombava, la risata grezza e amara e stanca.

    I giorni successivi, erano stati strani. Non era nemmeno certo ci fossero stati.
    Ricordava di aver minacciato più gente del necessario, all’ospedale magico. Di aver attanagliato le arterie del Kane nel pugno: siamo amici, ma giuro su Dio che- un sacco di cose: dovevano salvarlo; dovevano permettergli di stare lì quando cazzo ne avesse avuto voglia; dovevano far entrare Ty, e Mac, e non sapeva chi altro avesse ma chiunque volesse essere lì.
    Ricordava di essersene andato, e di essere tornato, e di averlo visto stare male, e di non avergli detto assolutamente nulla perché lo fottutamente odiava – davvero, e non quanto avrebbe dovuto. E di non essere mai stato a casa più del dovuto, perché era vuota e non era lì.
    Era stata nelle volte in cui era andato a trovare Mac al Ministero; nelle volte in cui aveva contattato Reggie, senza niente da dire e solo caos da stringere tra le dita; negli addestramenti con Jericho; nel Quartier Generale, tra i tavoli di lavoro e gli attimi di silenzio con Moka e Ptolemy. In quella maledetta stanza d’ospedale, e nella reception della clinica dove aveva dovuto firmare più fogli di quanti ne avesse mai potuto immaginare.

    Schioccò la lingua sul palato, un filo di fumo a scivolare dalle narici. Non degnò l’amico di un vero saluto; piuttosto rimase a guardarlo da dietro le lenti scure degli occhiali da sole, spegnendo la sigaretta sotto la punta della scarpa, mentre usciva dal portone principale della struttura e si avvicinava alla moto.
    «sali.» fu l’unico ordine che gli diede, prendendo la borsa che si teneva sulle spalle e stipandola nel piccolo bagagliaio della moto.
    Non disse nient’altro. Guidò e basta, per più tempo del necessario; se l’altro chiese dove stessero andando, dal momento che casa loro era esattamente dall’altra parte di Londra, finse di non sentire: il diritto di fare domande, al momento, non ce l’aveva.
    Si fermò quando raggiunsero un campo sperduto, dove sapeva perfettamente che non passasse mai nessuno. Il luogo perfetto per un omicidio, e per nascondere un cadavere.
    Lo aveva scelto apposta.
    Scese dalla moto senza dire una parola, conducendo l’altro tra le sterpaglie fino ad un barile solitario.
    «dagli fuoco.» affondò le mani nelle tasche dei jeans. «è tutta la tua roba ed era più di quanto avesse immaginato di trovare, ma questo lo tenne per sé: aprire gli scaffali del Belby, violare la sua privacy, non lo aveva minimamente scalfito; vedere quanta droga avesse nascosta in giro, l’aveva impressionato – e se il contesto fosse stato diverso, l’avrebbe anche entusiasmato. «è la seconda volta che libero la tua stupida stanza prima che lo faccia qualcun altro. fai in modo che sia anche l’ultima.» si accese un’altra sigaretta, senza mai distogliere lo sguardo dall’oggetto solitario.
    TVÄTTBJÖRN
    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
    2043: dexter bitchinski
  14. .
    gifs19 yoemokinetictvättbjörn cömmstaj
    currently playing
    part time psycho
    shaed, two feet
    Wake up and I'm right as rain
    Smiling out the windowpane
    Something pulling on my chain
    Twisting the wires in my brain
    Era sicuramente uno sbaglio, quello di Tvättbjörn Cömmstaj.
    Se l’era detto quando, dopo la prima notte insonne dal ritorno dalla Siberia, aveva preso il biglietto sul comodino ed aveva cominciato a pensare più del dovuto ai numeri scritti su di esso, alle parole con cui era stato accompagnato pochi giorni prima. Se l’era ripetuto prendendo il telefono e digitando sullo schermo; e poi quando aveva attaccato prima che qualcuno potesse rispondere, gli occhi chiusi a domandarsi quanto fosse una cazzata quella che stava perpetuando.
    Ne era stato certo nel momento in cui aveva aspettato di sentire la voce dall’altra parte della cornetta, e ancor di più quando aveva accettato l’invito.
    A quel punto, appollaiato sul manubrio ad osservare il portone d’ingresso del locale, sapeva di non potersi tirare indietro. Aveva vissuto, e viveva anche in quel preciso istante, una lotta interna troppo rumorosa per essere completamente ignorata: la sua più scientifica era letteralmente scissa in due, e la razionalità a suggerirgli fosse più opportuno fare dietrofront e dare buca al proprio appuntamento puntava le proprie lame contro la curiosità, infida bastarda, che premeva la canna della pistola contro la propria avversaria. Era il tipo di persona che sapeva quando lasciar perdere, Twat, ed allo stesso tempo incapace di non portare a termine qualcosa che aveva iniziato egli stesso. Doveva sapere come le cose andassero a finire, che fosse una questione di stato o la più infima delle quisquilie; un problema che, alla fine dei giochi, tendeva ad evitare isolandosi dal resto della società. Meno aveva a che fare con le persone, più piccola era la possibilità di cacciarsi in situazioni scomode che non avrebbero dovuto competergli.
    E fu tentato – oh!, così tentato – di girare le chiavi ed accendere la moto, di tornare a casa e lasciare che fosse il getto freddo della doccia, o le droghe, a fargli passare la voglia di farsi gli affari altrui. Era anche la cosa migliore da fare: se ignorava abbastanza a lungo la questione, poteva sperare che le immagini del laboratorio siberiano scemassero col tempo anziché tornare periodicamente ad insinuarsi nelle notti prive di sogni.
    Anche quello era stato un errore – ne stava facendo troppi, non era normale e forse aveva fallito a qualche punto imprecisato della vita durante gli ultimi mesi: doveva trovare un modo per ripristinare lo status quo –, credere che le scene viste in quel posto non potessero intaccarlo in alcun modo. Perché era stato così sul momento, e nei primi giorni a seguire.
    Non aveva provato niente.
    Non quando era stata presa la decisione, né quando era stato aperto il fuoco. Nemmeno sentendo le urla dei bambini, o vedendoli cadere a terra tra pozze di sangue e lacrime. Quando aveva saputo che i corpi sarebbero stati bruciati, si era acceso una sigaretta. Nel momento in cui aveva pensato che avrebbe potuto essere uno di loro, dieci anni prima, aveva poi nuovamente pensato che avrebbe apprezzato la stessa fine che avevano concesso a loro – perché forse erano stati loro i fortunati alla fine.
    In nessuno di quegli istanti, freddo e distaccato dal resto del mondo che più veloce di quanto volesse gli girava attorno, si era chiesto se ci fosse qualcosa che non andava in lui – già lo sapeva.
    Già sapeva di essere nato difettoso, e di essere stato rotto lungo la via; già sapeva di non funzionare come gli altri, o come questi avrebbero voluto; già sapeva di non andare bene.
    Allora – perché. Perché si ripresentavano, se non poteva fare niente per cambiarle? Se non gli facevano né caldo e né freddo?
    Schioccò la lingua contro il palato, decidendosi a scendere dalla motocicletta. Aveva atteso abbastanza di veder entrare Ptolemy, ma forse era troppo in anticipo perché si palesasse prima di lui; tutto sommato, preferiva essere il primo a sedersi e ad aspettare l’arrivo dell’altro piuttosto che il contrario. Controllò di avere con sé almeno il pugnale, nascosto in una fodera sotto la giacca di pelle, prima di varcare la soglia.
    Non si soffermò a chiedersi il motivo per il quale il proprietario aveva accennato un sorriso nella sua direzione, indicandogli poi con il capo un tavolo poco più isolato rispetto agli altri: non gli interessava, ed apprezzava non dover star troppo appiccicato ad altre persone.
    Sperava soltanto di non dover aspettare troppo tempo.
    sooner or later you're gonna tell me a happy story. i just know you are.
  15. .
    I don't trust anything
    Or anyone, below the sun.
    race
    special muggle
    alignment
    neutral
    weapon
    bowie
    power
    emokinesis
    Non disse a Mac di avere ragione quando, dopo aver deciso che Ptolemy che si slinguazzava Moka non era uno spettacolo che meritasse d’essere visto dai suoi occhi poco innocenti, lo raggiunse e vide Jeremy Milkobitch; non gli sorrise, non si mostrò soddisfatto, non fece un fiato. Nell’occhiata che gli rivolse c’era qualcosa di più simile a delle scuse, che ad altro.
    Perché aveva sperato di sbagliarsi con tutte le proprie forze, inoltrandosi sempre di più in quel laboratorio così diverso da quello che aveva conosciuto ed in cui era cresciuto – e che aveva chiamato casa così a lungo, da sentirne la nostalgia. Non era il tipo, Twat, da sentirsi a disagio in situazioni del genere: quando doveva affrontare la società, le convenzioni umane, le persone, allora sì; ma non in missione, non uccidendo un bersagli, non vagando tra delle rovine che ancora non sapevano d’esserlo. Eppure – eppure. Volle pensare che fossero i residui della maledizione scagliatagli dalla Bulstrode, se si sentiva così strano, ma non riusciva a crederci quanto avrebbe desiderato.
    E l’idea di portare via Jeremy – e poi Ryu, e Grey, fratelli che forse nemmeno sapevano chi fosse – non lo affascinava più quanto aveva fatto giorni addietro. Stavano potenzialmente portando con sé delle maledette bombe a mano, e la spoletta era tra le dita di Dio solo sapeva.
    Avrebbe preferito scoprire non ci fosse nessuno lì, giungere alla conclusione che chi era sparito fosse morto.
    E quando scesero dal secondo gruppo di volontari, quando vide il bambino emaciato tra le braccia di uno di loro, quando aprirono la porta per trovarsi di fronte ad un armamento di bambini geneticamente modificati, quel sentimento si fortificò.
    Agì d'istinto, quando Ptolemy suggerì alla comitiva di muovere i suoi stessi passi; di pancia, sarebbe stato meglio affermare, assottigliandosi contro la parete apparentemente disarmato - ché il proprio istinto, a dire il vero, l'avrebbe portato a lanciarsi in avanti, che fosse sui bambini o sui due adulti. Riconobbe sui loro volti, negli sguardi vacui e apatici, il proprio stesso viso - la stessa paura che aveva tenuto nascosta agli occhi di qualsiasi dottore o paziente gli capitasse dinnanzi; il medesimo, forse malsano legame che univa tutti gli individui dall'altra parte della stanza con un unico filo rosso.
    Aveva la loro età, quando Agnes lo aveva venduto ai laboratori per motivi che ancora gli erano ignoti. Aveva la loro età, quando avevano premuto la prima volta la punta di un ago troppo grande per un corpo tanto minuto nell'incavo del braccio. Aveva la loro età, quando aveva desiderato per la prima volta di vivere davvero.
    Ed aveva la loro età, quando aveva chiesto a un'entità superiore nella quale mai aveva creduto di ucciderlo.
    Se deglutì, se chiuse per un istante di troppo le palpebre, se respirò un po' più forte di quanto fosse solito fare, non lo diede a vedere. Se fosse rimasto interdetto per qualche secondo, non permise a nessuno di farci caso.
    Era stato fortunato, Tvättbjörn Cömmstaj. Non sempre, ma per la maggior parte del tempo sì - e tanto gli bastava per ricomporsi, per gettare nell'oblio i tentennamenti e quelle ansie immotivate a drizzare i peli sulle braccia.
    Si rese conto di aver digrignato i denti, solo quando aprì bocca per parlare, un sorriso freddo a piegare le labbra: preferiva passare per uno psicopatico assetato di sangue di bambini innocenti, sì; ad ognuno la sua comfort zone. «te lo puoi scordare.» non guardò Tolè, preferendo tenere le iridi chiare fisse sui movimenti dei due adulti dall'altra parte della stanza. Nel tono di voce non c'era altro che fermezza, nessuna traccia di irriverenza o di offesa: era arrivato alla conclusione che l'uomo agisse in buona fede, per quanto possibile, e sentiva che se aveva suggerito agli altri di portarli fuori di lì era per salvaguardare qualche cosa che il norvegese aveva perso da tempo. Non gli avrebbe fatto né caldo né freddo veder cadere uno dopo l'altro tutti quei bambini - e se ci fosse stato un modo consono per dirlo, o il tempo per spiegarlo, gli avrebbe detto che non poteva uscire di lì, doveva vederlo.
    Doveva accertarsi che ricevessero la stessa grazia che avrebbe voluto ricevere lui, dieci anni prima.
    «sono un’emocineta, posso ucciderli senza sprecare munizioni.» scosse la testa, passando in rassegna il quantitativo di bambini. «no, non puoi.» non sapeva da quanto tempo fosse un'emocineta la Larson, ma dai propri quattro anni di esperienza alle spalle sapeva per certo che quell'idea fosse fin troppo utopica e azzardata. «sono troppi, ci metteremmo troppo tempo.» ed era lampante che quel fattore non fosse a loro vantaggio. Twat non ponderò minimamente l'idea di fare fuggire la dottoressa, il che - come aveva fatto notare Moka - metteva sul piatto della bilancia sia la donna che l'altra guardia.
    «il massimo che potremmo fare e fargli perdere conoscenza. non è assolutamente una buona idea.» un po' perché, ancora, avrebbero sprecato più tempo di quanto non stessero facendo in quel momento; un po' perché avrebbero sprecato più munizioni, puntando bersagli sdraiati piuttosto che in piedi; un po' perché «si sono portati dietro un bambino come quelli, cosa pensi che faranno quando li vedranno dormire?» lui poteva benissimo immaginarlo: un misto di ooow e aaaaw e di flash di fotocamere per immortalare quanto fossero così carini mentre dormivano che l'avrebbe portato al suicidio più presto del previsto.
    L'idea del non sprecare troppi proiettili non lo convinceva - preferiva venisse scaricato tutto il caricatore, piuttosto che avere ancora munizioni ma nessuno che potesse spararle perché un bambino psicopatico lo aveva ucciso: stan ptolemy random, if i may - ma nuovamente concordava con il Telly. Il che, la diceva lunga sul tipo di persona che quella missione lo aveva fatto diventare. «possiamo aiutare, ma dobbiamo farlo ora
    tvättbjörncömmstaj
    gif credits
    fever dream high
    code
    chuliawan kenobi
    currently playing
    king of the clouds by panic! at the disco


    parla con Darden e Tolè, è d'accordo con Moka (??)
97 replies since 20/7/2019
.
Top