i'm past the breaking point, i set my soul on fire

ft. hans

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    Era abituato al silenzio.
    Era abituato a tornare a casa e sentire soltanto il cigolio della porta d’ingresso che si trascinava sul pavimento, le chiavi della moto tintinnare solitarie nella ciotola sulla mensola, il lontano eco della televisione accesa su documentari o televendite che lasciavano il tempo che trovavano.
    Era abituato a muoversi nel buio, tra gli scatoloni mai disfatti e quelli vuoti, in un ordine sparso che s’impegnava a mantenere tale – troppo ossessivo compulsivo, l’emocineta, per vivere nel caos più totale: lo amava, ma fuori dalle mura di casa sua; lì dentro riusciva ad avere il controllo che spesso gli sfuggiva all’esterno.
    Era abituato a non ricevere alcuna risposta, o ad accontentarsi di mugugni soffusi a scivolare tra gli spiragli lasciati accostati.
    Gli piaceva, tutto quello. Non c’era stato un momento, da quando aveva deciso di convivere con il Belby, in cui si fosse pentito di averlo fatto – ché forse per l’altro era stato naturale, oppure una scelta ovvia data dalla convenienza del condividere un appartamento con qualcuno che già conosceva abbastanza bene ed al quale non avrebbe dovuto chiedere molto, o spiegare alcunché; erano sempre stati simili, si erano trovati nel primo momento in cui avevano incrociato lo sguardo.
    Non per Twat. Di scontato, mandatorio, in quella proposta fatta allo scadere del loro ultimo anno scolastico, non c’era stato niente.
    Non aveva mai avuto una casa, il norvegese. L’aveva cercata spesso, l’aveva cercata ovunque – e mai volontariamente. Un senso di appartenenza che consciamente non avrebbe saputo ammettere di desiderare, perché mai si era fermato abbastanza a rifletterci.
    L’aveva anelata nella famiglia in cui era cresciuto, ma incapace di provare alcunché nei confronti dei Cömmstaj. L’aveva bramata nel laboratorio, perdendosi nei suoi cunicoli solo per trovare la faccia familiare di Finn ed aggrappandosi alla vana speranza che potesse portarlo fuori di lì, un giorno, inconsapevole di quanto caduca potesse essere una qualsiasi aspettativa in un luogo del genere. L’aveva sperata in Hogwarts, disilluso e sconfitto, ridendo della propria stupidità dopo ogni giornata fallimentare trascorsa nel castello. L’aveva temuta con Mac – e considerando che l’aveva trascinato con sé in un viaggio di andata e ritorno per l’inferno in terra, forse aveva fatto bene ad ignorare quella pulsione nel petto: non sapeva chi fosse Dexter, o chi fosse Levi; ma sapeva chi fosse Tvättbjörn, e non era mai stato un bene per nessuno.
    Aveva paura a dire che in Hans, con Hans, credeva di aver trovato qualcosa in quello stupido appartamento governativo – un posto in cui tornare senza dover accampare scuse per non farlo, nel quale sapeva di essere ben accetto.
    «hans?» quello a cui non era abituato, era quel vuoto: il mutismo dell’amico era normale; quell’assenza a premere nelle orecchie, no.
    Si erano dati delle regole. Poche, minime, ma essenziali; il pirocineta sapeva bene quanto il coinquilino ci tenesse alla routine, al programmare anche l’imprevedibile. Quelle poche volte che metteva piede fuori casa, sapeva di dover lasciare un biglietto – unica eccezione qualora fosse stato rapito, ma anche su quello aveva da ridire – così che Twat potesse regolarsi, e viceversa. Per preparare la cena, attendere che l’altro tornasse per la canna prima di andare a dormire, in caso registrare la puntata di qualche serie che capitava guardassero insieme.
    Ma non c’era nessun biglietto, sul tavolo della sala.
    E il battito solitario a pulsare nelle orecchie non era normale.
    Così aveva bussato alla porta del bagno, e non aveva ricevuto niente in cambio.
    Non si preoccupava che non gli rispondesse, perché sentiva il cuore battergli nel petto.
    Si era avvicinato alla porta della sua camera, e l’aveva trovata socchiusa.
    Non rimaneva mai aperta.
    Aveva provato ad aprirla, ma non era stato facile.
    Ed il brutto presentimento si mescolò al ricordo delle guardie siberiane cadute pochi giorni prima, i corpi ancora caldi che avevano dovuto spostare per poter uscire dalle stanze.
    «hans-» immobile, le bionde sopracciglia corrugate sulla fronte; il tono fermo, confuso, e gli occhi celesti a seguire la silhouette dello svedese – partendo dai piedi, scivolando sulle gambe distese a terra, salendo sul torso statico, arrivando al viso pallido e cianotico, alle labbra dischiuse e alla schiuma che le bagnava.
    Non era abituato a voler bene a qualcuno, Tvättbjörn Cömmstaj – perché non ne era mai stato capace, non era scritto nel suo DNA; e perché ogni volta doveva andare a finire fottutamente male.
    E dunque si era avvicinato, impattando le ginocchia contro il pavimento ad un dito di distanza dal torace magro e troppo piatto del migliore amico. Non aveva avuto bisogno di premere le dita contro il polso di lui, contro la sua giugulare, per avere alcun tipo di conferma: mai come in quel momento si era ritrovato a maledire quel potere infame, la capacità di sentire nitidamente il sangue scorrere nei vasi delle altre persone; quello di Hans era debole, impazzito, una melodia lontana e priva di alcun ritmo suonata da un pianista folle.
    Lo aveva preso a schiaffi, perché era uno scherzo di merda – ma non era successo niente. Lo aveva girato di lato, cercando quanto più possibile di liberargli la gola da schiuma e vomito – ed aveva ottenuto poco.
    Lo aveva chiamato, lo aveva scosso – ma non aveva aperto gli occhi, non più di quello spiraglio azzurro tra le palpebre appena dischiuse.
    Le dita di una mano a stringere l'altra sullo sterno del ragazzo, il telefono lanciato a terra con una chiamata in attesa di risposta, un «testa di cazzo» sibilato tra i denti stretti; Twat aveva iniziato a spingere.
    Uno.
    Due.
    Tre.
    Dieci.

    «twat?»
    Dodici.
    Aveva pochi numeri in rubrica, Twat, e non aveva davvero idea di chi chiamare – avrebbe dovuto fare un numero di emergenza, ma cosa avrebbe detto? Che un ex mago, attualmente manipolatore di fuoco, era andato in overdose da chissà quanto – ma ehi!, poteva svegliarsi e mandare in fiamme tutto senza rendersene conto –? Era felice che cliccando a caso avesse chiamato il Telly.
    «moka,» strinse i denti
    Quindici.
    «ho bisogno di te.» chiuse la telefonata. Conciso, pragmatico: non aveva il tempo di spiegare all’altro, né quello di perdere la concentrazione; confidava che il ribelle avesse capito, in quei pochi giorni, che il Cömmstaj non fosse affatto il tipo da chiamare qualcuno, o che chiedesse aiuto. E gli serviva rapidamente –
    Venti.
    – abitava lì, sarebbe arrivato presto; ed era un fottuto defibrillatore umano; e si fidava di lui.
    Venticinque.
    «mac? devi venire a casa, subito. hans – ti prego e quando mai, quando mai, Tvättbjörn Cömmstaj aveva supplicato qualcuno.
    Trenta.
    Qualcosa lo aveva sentito di diverso, ma non abbastanza. E Dio, quanto bruciava.
    Gli aveva strappato la maglia di dosso, gli aveva inclinato la testa. Tutti gesti estremamente meccanici, distaccati: manovre di primo soccorso apprese dall’Artman quelli che sembravano, in quel momento, essere eoni prima – soltanto che non sapeva se fossero più per sé, o se per il Belby. Automatismi che lo aiutavano a non pensare al respiro praticamente assente, o alle palpitazioni fibrillanti.
    Stava succedendo tutto così in fretta, aveva bisogno di estraniarsi il più possibile da quella situazione.
    Così si era tirato indietro i capelli, aveva aperto maggiormente la bocca di Hans, aveva soffiato – uno, due.
    «dammi il cambio.» aveva ordinato al Telly, arrivato chissà quando e chissà come, senza spiegazioni.
    Uno. Due. Tre. Cinque. Dieci. Quindici. Venti. Trenta.
    Un’altra volta.
    Lo aveva tenuto fermo, bloccato la testa tra le mani così che le convulsioni non lo uccidessero prima della droga. Aveva stretto i denti, tanto forte da far male, mentre imparava di nuovo a respirare quasi normalmente – lui, Hans.
    «puoi portarlo?» una richiesta che chiamava retorica da ogni punto dal quale la si guardasse: dubitava Mac potesse rifiutare. «ti raggiungo subito.»
    Le labbra secche, il respiro affannato, la schiena a scivolare sulla parete mentre il fratello portava via un semi-cosciente pirocineta al San Mungo; gli occhi chiusi, le mani tremanti. Aveva aspettato che anche Moka se ne andasse, la mano del maggiore stretta sulla spalla che non aveva avuto le forze, la voglia di scansare – ne aveva bisogno.
    Solo allora, si era lasciato andare; mani sul volto, sulle labbra, iridi chiare a perlustrare la stanza così vuota.
    Rimbombava, la risata grezza e amara e stanca.

    I giorni successivi, erano stati strani. Non era nemmeno certo ci fossero stati.
    Ricordava di aver minacciato più gente del necessario, all’ospedale magico. Di aver attanagliato le arterie del Kane nel pugno: siamo amici, ma giuro su Dio che- un sacco di cose: dovevano salvarlo; dovevano permettergli di stare lì quando cazzo ne avesse avuto voglia; dovevano far entrare Ty, e Mac, e non sapeva chi altro avesse ma chiunque volesse essere lì.
    Ricordava di essersene andato, e di essere tornato, e di averlo visto stare male, e di non avergli detto assolutamente nulla perché lo fottutamente odiava – davvero, e non quanto avrebbe dovuto. E di non essere mai stato a casa più del dovuto, perché era vuota e non era lì.
    Era stata nelle volte in cui era andato a trovare Mac al Ministero; nelle volte in cui aveva contattato Reggie, senza niente da dire e solo caos da stringere tra le dita; negli addestramenti con Jericho; nel Quartier Generale, tra i tavoli di lavoro e gli attimi di silenzio con Moka e Ptolemy. In quella maledetta stanza d’ospedale, e nella reception della clinica dove aveva dovuto firmare più fogli di quanti ne avesse mai potuto immaginare.

    Schioccò la lingua sul palato, un filo di fumo a scivolare dalle narici. Non degnò l’amico di un vero saluto; piuttosto rimase a guardarlo da dietro le lenti scure degli occhiali da sole, spegnendo la sigaretta sotto la punta della scarpa, mentre usciva dal portone principale della struttura e si avvicinava alla moto.
    «sali.» fu l’unico ordine che gli diede, prendendo la borsa che si teneva sulle spalle e stipandola nel piccolo bagagliaio della moto.
    Non disse nient’altro. Guidò e basta, per più tempo del necessario; se l’altro chiese dove stessero andando, dal momento che casa loro era esattamente dall’altra parte di Londra, finse di non sentire: il diritto di fare domande, al momento, non ce l’aveva.
    Si fermò quando raggiunsero un campo sperduto, dove sapeva perfettamente che non passasse mai nessuno. Il luogo perfetto per un omicidio, e per nascondere un cadavere.
    Lo aveva scelto apposta.
    Scese dalla moto senza dire una parola, conducendo l’altro tra le sterpaglie fino ad un barile solitario.
    «dagli fuoco.» affondò le mani nelle tasche dei jeans. «è tutta la tua roba ed era più di quanto avesse immaginato di trovare, ma questo lo tenne per sé: aprire gli scaffali del Belby, violare la sua privacy, non lo aveva minimamente scalfito; vedere quanta droga avesse nascosta in giro, l’aveva impressionato – e se il contesto fosse stato diverso, l’avrebbe anche entusiasmato. «è la seconda volta che libero la tua stupida stanza prima che lo faccia qualcun altro. fai in modo che sia anche l’ultima.» si accese un’altra sigaretta, senza mai distogliere lo sguardo dall’oggetto solitario.
    TVÄTTBJÖRN
    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
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    metto lo spoiler sopra perché sono ribelle, e solo per dirvi che potete non leggere.
    lele tu invece sì, sei obbligato moralmente.
    ah, hai presente quella cosa che dicevamo da c1b0? "ma si, veloce e indolore, 300 parole e si vola"? bene, dimenticala.
    e non rileggo nemmeno perché sono quasi le cinque e mezza del mattino .


    Il passo più difficile era il primo.
    Così continuavano a ripetergli.
    Lui l’aveva fatto.
    Così continuavano a ripetergli.
    Uno dietro l’altro, avrebbe raggiunto la metà; non che Hans sapesse quale fosse, poi. Erano loro a dirglielo, ad averla scelta per lui. Il pirocineta si limitava ad ascoltare le loro voci e annuire.
    Un cammino difficile, ma non sarebbe stato da solo. Sapeva molto di minaccia; forse perché lo era. Ma se era un cammino, perché a lui sembrava ci cadere nel vuoto da giorni? Ogni notte, e ogni mattino, e ogni pomeriggio; immaginava di compiere quel passo, e sotto i suoi piedi non c’era terreno, ma solo il vuoto. Una caduta libera, e nessuno a tendere la mano per aiutarlo.
    Qualche appiglio, una volta riaperti gli occhi, lo trovava; non erano quelli che sperava.
    L’avevano definita “riabilitazione spontanea”, ma di spontaneo, o volontàrio, non avave un bel niente. Le minacce velate del ministero affnché entrasse nel programma, di certo non lo erano state; gli ammonimenti di Kiel, non lo erano stati; le sedute obbligatorie, i mucchi di depliant lasciati sul suo comodino, i “caldi suggerimenti” di fare la scelta giusta, non lo erano stati.
    Non aveva davvero avuto una scelta, Hans; da quando aveva riaperto gli occhi, al San Mungo, per l’ennesima volta, e li aveva tenuti aperti per più di una manciata di minuti, aveva avuto guaritori e legionari col fiato sul collo. Non lo avrebbero costretto, ma era molto importante che facesse la scelta migliore per tutti. E quale altra scelta aveva potuto fare, se non cedere alle loro pressioni.
    E ai silenzio di Twat.
    E allo sguardo addolorato di Dominic.
    E ai consigli austeri di Kiel.
    E al dolore nell’espressione di Narah.
    E alla vergogna che sentiva dentro.
    Non era stata sua intenzione; mai, neppure una volta aveva pensato che sarebbe andata così. Ed era quello il problema: non era mai stato in grado di rendersene conto, di capire, di realizzare dove lo avrebbero portato i suoi comportamenti distruttivi. Si stava autosabotando da anni, e a poco erano serviti gli ammonimenti, e le preoccupazioni, di chi gli stava intorno; aveva proseguito dritto sulla sua strada, Hans. Ma non era stata sua intenzione. Valeva comunque, la sua parola? Se avesse giurato che non voleva tutto quello, qualcuno gli avrebbe creduto? Non lo sapeva. E di conseguenza, non lo diceva.
    Aveva ceduto, alla fine, perché non c’era altra cosa che potesse fare. Tornare a casa dopo qualche giorno al San Mungo era fuori discussione, non l’avrebbero mai dimesso in quell stato; e l’idea di farsi rinchiudere volontariamente in una clinica per le riabilitazioni lo aveva rotto quasi più della stessa overdose.
    Ma aveva accettato.
    E aveva accettato di avere un problema.
    Non voleva sapere se fosse merito del lavoro degli Psicomaghi, o se gli venisse da dentro; arrivato a quel punto, sinceramente, voleva solo tornare a casa.
    Allo stesso tempo, però, aveva temuto quel giorno per due settimane intere; nel momento stesso in cui i guaritori lo avevano accompagnato alla clinica, e lo avevano affidato agli inservienti del posto, aveva desiderato e temuto il giorno in cui lo avrebbero dimesso. Perché lo sapeva – oh, se lo sapeva! – che non si poteva più tornare indietro .
    Avrebbe voluto, non poteva negare il contrario — non c’era stato giorno in cui non avesse desiderato almeno un po’, almeno un attimo, di poter tornare a non sentire nulla. Non era forse meglio prima?
    Prima degl incubi.
    Prima degli incidenti.
    Prima di tornare a provare qualcosa.
    Si era così abituato ad avere tutto lo spazio di cui avesse bisogno in quel guscio vuoto che era diventato che ora non sapeva come accoglierci dentro tutto se stesso. Ogni tanto si specchiava e scorgeva una luce più azzurra negli occhi, gli stessi occhi di Freja — e poi si ricordava che no, erano gli stessi occhi di Joey, e scoppiava a ridere.
    E a piangere.
    E aveva perso il conto delle volte che erano dovuti intervenire per spegnere un principio di incendio. Avevano preso l’abitudine di lasciare un estintore sempre pronto fuori dalla porta della sua stanza.
    Era un fottuto casino; cosa se ne faceva di tutte quelle emozioni che non sapeva – non voleva – gestire? Aveva passato gli ultimi anni ad evitare proprio quello, ad evitare di averci a che fare, evitare di avere tutti gli sbagli e tutte le colpe e tutti i ricordi sbattuti nero su bianco, impressi a fuoco nella mente. Era bastato un incidente di troppo per portarlo di nuovo al punto di partenza. Non era certo di sapere come continuare, da quel punto in poi.
    Un passo alla volta, gli suggeriva lo Psicomago che lo seguiva. E Hans, in più di un’occasione gli aveva chiesto se fosse possibile imparare nuovamente a camminare, dopo tutto quel tempo; temeva di aver dimenticato anche le nozioni base. Come camminare, come parlare, come respirare.
    Un passo alla volta.
    Ne aveva compiuti ancora troppo pochi.
    Ne aveva ancoa moltissimi da fare.
    «Sali.»
    In quel momento non si sentiva in grado di farne neppure uno; né avanti, né indietro. E — oh Dio, se voleva. La clinica non gli era mai sembrava un’ipotesi così invitante come in quel momento, quando l’alternativa era affrontare lo sguardo di Twat nascosto dietro le lenti scure, e il tono gelido, e l’idea di salire sulla sua moto.
    Sono sopravvissuto a tanto solo per morire spiaccicato su una strada a scorrimento veloce, ottimo.
    Un passo alla volta, e sentiva che non sarebbe andato da nessuna parte.

    La prima volta che aveva aperto gli occhi, e anche la seconda e ogni volta dopo quella, aveva ringraziato il cielo di non riuscire a ricordare nulla. Non una singola immgine di quella sera erano rimaste impresse nella sua mente — si era domandato più di una volta dopo quanto tempo il Commstaj l’avesse trovato; ogni volta aveva deciso che non voleva sapere la risposta.
    Un minuto più tardi, e non sarebbe stato lì per raccontare un post overdose.
    Un minuto prima, e probabilmente avrebbe vissuto un giorno in più solo per caderci di nuovo, più in la nel tempo.
    Ma mai come in quel momento desiderava ricordare qualcosa. Letteralmente qualsiasi cosa; anche il più stupido dei dettagli con il quale lasciare intendere all’amico che fosse stato vigile, cosciente, in quei momenti. Che non l’avesse lasciato completamente solo.
    C’aveva pensato per tutto il viaggio — pur di non pensare a quanto cazzo corresse quella moto e oddio se volevi uccidermi potevi farlo in altri mille modi diversi, vaffanculo. C’aveva pensato, e non aveva trovato nulla. Ricordava di essere rimasto solo a casa – quella volta, come molte altre; e di non aver nemmeno pensato a dove stesse andando Twat – non glielo chiedeva mai, e l’amico non glielo diceva; i giorni che si mescolavano alle notti, teneva a malapena il conto e solo per seguire il ciclo lunare — perché, perché.
    Ma di quei momenti, non ricordava nulla.
    E con gli occhi bassi, torturandosi le dita, aveva seguito Twat nella radura.
    Perché no, infondo, uh? Non si erano schiantati in un incidente a 200km/h, il piano b era chiaramente quello di assassinarlo nella foresta. Trattenne a stento la risata nervosa che sentì sfuggire dalle labbra secche; la mascherò con un finto colpo di tosse. Ci mancava solo che ridesse di lui e gli facesse credere di prenderlo in giro.
    Si sentiva uno schifo.
    Si sentiva se stesso.
    Quello che da anni non conosceva più, e con il quale non aveva più familiarità.
    Quello che solo Freja ed Elizavetha avevano conosciuto davvero.
    Quello che non sapeva se era pronto a mostrare ad altri.
    I maledetti ricordi, comunque, non erano riaffiorati. Nemmeno uno, nemmeno uno piccolo piccolo. L’espressione di Twat, o cosa avesse indossato; dove fosse stato nei giorni precedenti. Come fosse arrivato all’ospedale.
    (Forse quel dettaglio era meglio che non lo sapesse; avrebbe scoperto di dover avere una persona in più sulla coscienza, e non era ciò di cui aveva bisogno in quel momento.)
    E ora l’emocineta li faceva fermare entrambi davanti ad un barile pieno di — «è tutta la tua roba.»
    Se avesse avuto qualcosa nello stomaco, Hans lo avrebbe rigettato seduta stante. E invece una delle cose che la prospettiva di uscire gli aveva tolto, era stata proprio l’appetito. Per fortuna.
    Dagli fuoco.
    Dagli fuoco.
    No— no.
    La vedeva lì, molta più di quanta ne ricordasse – chissà dove l’aveva trovata tutta quella roba, era davvero tutta sua? – e voleva al contempo far sparire ogni traccia e cedere al loro richiamo. Non sapeva se quell’istinto sarebbe mai passato, era stato facile sopprimerlo in clinica, lontano da ogni tipo di tentazione; ma lì? Non era così fote, Hans; non lo era mai stato.
    Riprese a giocare con i polsini della felpa, con le pellicine scorticate, con i bordi sfilacciati del giubotto, con i capelli; a mordere le unghie, qualsiasi cosa. Non c’era più la staticità di un corpo in apparenza morto, a cui il Commstaj si era abituato nel corso degli anni. C’era Hans, quello vero, irrequieto e con il bisogno di impegnarsi sempre in qualche cosa, incapace di stare fermo al suo posto. Gli anni, e l’abuso di droga, gli aveva tolto anche quello; funzionava al contrario, il Belby.
    Non voleva farlo.
    Lo avrebbe fatto lo stesso.
    Allungò la mano per chiedere in prestito l’accendino dell’amico — lo erano ancora? Non riusciva a leggere nulla sul viso – sul profilo – di Twat. Neppure quando si voltò a guardarlo, Hans riuscì a cogliere nulla che il tono di voce già non dicesse.
    Scosse la testa una volta, due. Tre. «No» Spalle basse e sguardo a saettare un po' ovunque e da nessuna parte. Era inutile che lo guardasse intensamente senza proferire parola; era intuile, era— «Non posso–» bruciare tutto? Sì, anche; non pensava di esserne in grado, di essere abbastanza forte da resistere dall’allungare la mano e mandare a puttane gli ultimi quindici giorni.
    Twat l'avrebbe ucciso prima ancora che potesse fare un passo in direzione del barile.
    Ma intendeva dire che non poteva farlo lui.
    Si stava sforzando tanto per mantenere il controllo, per non lasciare che il fuoco che bruciava dentro, bruciasse anche fuori. Tutto. Aveva perso il conto delle volte che era successo in struttura, perché incapace di trattenersi; se avesse lasciato libera anche solo una scintilla, in quel momento, dubitava sarebbe stato in grado di controllare l'incendio che ne sarebbe scaturito.
    Scosse la testa, un’altra volta, un passo indietro anziché in avanti, uno sforzo enorme, dita a stringersi più forte le une alle altre, come a voler impedire al formicolio che sentiva di diventare altro. «No.»
    Non voleva farlo — ma avrebbe accettato il poco cordiale invito di Twat, ad altre condizioni.
    «Twat–»
    Un passo alla volta — eppure, era in caduta libera.
    «Dammi l’accendino.» Potevano trovare una via di mezzo, un punto di incontro; cedere un po’ per guadagnare altrettanto.
    Ma era davvero nella posizione per poter negoziare, il Belby? Gli doveva la vita. E cosa aveva chiesto in cambio il norvegese? Poco, tutto sommato.
    Dagli fuoco.
    Avrebbe dovuto essere semplice, no? Anni e anni di lezione dovevano pure aver portato a qualcosa.
    (Nulla, zero; scusa Nathaniel.)
    Di scuse, in effetti, Hans doveva fornirne molte. Troppe.
    Abbssò lentamente le palpebre sugli occhi stanchi, e lucidi, stringendo le labbra tra loro; non avrebbe fatto incazzare Twat ancora di più, non lo avrebbe fatto. Ma non poteva fare quello che chiedeva.
    Era una stupidaggine — ma non per Hans.
    Non lo voleva, quel potere. Non lo aveva mai voluto. Non voleva usarlo. Voleva imparare da capo, da zero, come fingere che non esistesse affatto; l’unico rimedio che avesse mai avuto, dopo Freja, era contenuto in quel barile e si presupponeva che lui lo mandasse in cenere.
    Fottuta ironia della sorte.
    «No,» e vaffanculo perché gli doveva tutto, ma non quello. «dammi l’accendino e lo faccio.»
    johannes
    hans belby

    I've gone for too long living like I'm not alive
    so I'm gonna start over tonight:
    when this memory fades I'm gonna make sure
    it's replaced with chances taken
    hope embraced
    19 | 13.01.04 | malmö, swe
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    2043 | wesley farr
     
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    Voleva l'accendino.
    Voleva l’accendino.
    Quasi rise, Tvättbjörn, guardando il Belby – ma non lo fece: avrebbe significato essere programmati per esternare emozioni complesse, ed era abbastanza certo che quella stringa nel suo codice avesse qualche difetto di fabbrica; avrebbe dovuto essere estremamente divertito, o nervoso dalla punta dei capelli fino all'unghia dell'alluce, per anche soltanto sbuffare un sorriso. Tuttavia, non era nessuno dei due – e dubitava fortemente che alcuno sviluppo di quella vicenda potesse farlo sbilanciare da una parte o dall'altra. O che, più in generale, potesse togliergli quel mantello di pacatezza dalle spalle; figurarsi la serietà che aveva dipinta in volto.
    Avvicinò la sigaretta alle labbra, iridi celesti sul viso dell'amico mentre cercava di studiarlo; di decifrarlo. Glielo avevano detto che sarebbe stato difficile – per Hans trovare un equilibrio dopo ciò che aveva passato e vissuto, per lui stargli vicino –, e Twat agli operatori della clinica aveva semplicemente annuito, credendo di essere perfettamente consapevole di ciò che sarebbe venuto da quel momento in poi. Sicuro di esserlo: non era mai stato particolarmente ferrato nei rapporti sociali, e non aveva mai saputo gestire al meglio i cambiamenti che la vita continuava a presentargli giorno dopo giorno; cercava di organizzarsi come meglio gli era possibile, e nell’unico modo che conosceva.
    Leggendo, informandosi, studiando. Libri su libri riguardo la riabilitazione, articoli scientifici, testimonianze online; in quelle due settimane, il norvegese aveva preso tutto quello che la letteratura medica poteva concedergli e – nonostante quello non fosse mai stato il suo campo, più ferrato nella meccanica e affascinato dall’astronomia piuttosto che dalla biologia umana – aveva assimilato tutto l’assimilabile. Doveva, e più verosimilmente voleva, farlo.
    Aveva creduto, in uno slancio di ottimismo che non l’aveva mai contraddistinto, di essere pronto a quello che sarebbe successo quando fosse andato a recuperare il migliore amico.
    Non aveva considerato che avrebbe dovuto imparare a conoscere una persona completamente nuova. Perché in quei tic nervosi, nell’irrequietezza che distingueva nei rapidi cambi espressivi del pirocineta, Twat non riusciva a riconoscere quella persona alla quale si era avvicinato senza nemmeno rendersene conto pochi anni prima – quel ragazzo taciturno e distante con cui aveva legato senza mai dover dire una parola di troppo, così naturale e spontaneo, e che forse nemmeno era consapevole di quanto gli avesse dato. Era un estraneo, quel Johannes. L’avrebbe quasi potuto considerare un impostore, se solo non sapesse che ad esserlo era stato quello al quale si era affezionato.
    E se l’era chiesto, e se lo stava chiedendo, se fosse stato in grado di ricominciare da capo. O se quell’Hans avrebbe capito che non aveva niente da che spartire con una persona che non aveva conosciuto realmente. Che aveva accettato, forse; che si era semplicemente fatta andar bene, perché tanto non era lui a tenere il timone di quella nave alla deriva.
    Non gli importava – non davvero, non in quel momento. Aveva un compito, ed avrebbe lasciato che il dovere surclassasse ogni lecito dubbio.
    Anche perché si stava dimostrando molto più complicato del necessario fare quei primi passi, e non aveva tempo o forze da perdere domandandosi se sarebbe cambiato qualcosa. Immaginava che un po’ fosse anche colpa sua – ma nessuno gli aveva dato un progetto da seguire e, privo di istruzioni chiare, al Cömmstaj piaceva affidarsi al caos e delineare le proprie regole.
    «no.» soffiò una nuvola di fumo, impassibile nel rispondere alla richiesta dello svedese: non gliene fregava un cazzo, che fosse disperato. Che avesse paura, che si rifiutasse, che volesse liberarsene; che qualsiasi cosa. Se avesse voluto coccole e rassicurazioni, non sarebbe dovuto salire sulla sua moto: avrebbe potuto declinare il passaggio, inventarsi una scusa qualunque dicendogli che sarebbe passato Ty, o Bri, o Mac a prenderlo, e Twat l’avrebbe accettato; ma non l’aveva fatto, e lo sapeva che con il biondo gli sarebbe toccata o un’indifferenza assoluta, o una terapia d’urto.
    Doveva, saperlo.
    Che fosse terrorizzato dal proprio potere, poteva rispettarlo; non capirlo, perché con il proprio lui ci aveva fatto i conti ed aveva imparato a renderlo nient’altro che un’appendice del proprio essere, e quando l’universo aveva distribuito il dono dell’empatia probabilmente l’emocineta era stato trattenuto al metal detector per le troppe armi che aveva addosso.
    Si sedette a terra, togliendosi distrattamente la pistola che aveva tra i pantaloni e la schiena e poggiandola al proprio fianco. «non ce ne andremo di qui fino a che non avrai dato fuoco a quel barile.» umettò le labbra, tornando a guardare Hans in silenzio. Non era compito suo rendergli più semplice quei passi, anzi, ma non trovava alcun appagamento nel metterlo così in difficoltà: voleva solo che capisse che lo stava facendo per lui – magari non nei metodi più convenzionali, ma in fin dei conti Tvättbjörn Cömmstaj non lo era mai stato. «o vuoi tornare ad usare quella roba per evitare di scoppiare senza alcun controllo?»
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    Hans era abituato ai no secchi e che non ammettevano repliche; ma solitamente quei no venivano da lui. Non era abituato, al contrario, ad essere colui che li riceveva. Perché troppo a lungo non gli era importato abbastanza dell'opinione altrui, al punto da fermarsi a riflettere, o da permettersi di domandare qualcosa per cui avrebbe potuto rischiare un no.
    Ma ora?
    Ora quel divieto da parte di Twat pesava in una maniera che non sapeva spiegare, lo svedese — e suscitava emozioni che non sapeva descrivere. Bile, rimasta incastrata in gola e che non ne voleva sapere di farlo respirare correttamente; fastidio, e un pizzico di rancore. Risentimento, forse? E di certo incomprensione: perché Twat non poteva mettersi nei suoi panni? Perché non provava a capire?
    Ma non disse nulla, limitandosi a serrare ancora di più la mascella e tirare le labbra in una linea dura e severa, riservandogli l'occhiata più gelida che potesse trovare.
    «non ce ne andremo di qui fino a che non avrai dato fuoco a quel barile.»
    Maledetto Twat, e maledette le sue pretese. Non per la prima volta da quando erano arrivati nella radura, Hans sentì l'istinto suggerirgli - quasi comandargli - di levare le tende. Sarebbe bastato girare i tacchi, e camminare testardamente fino al limitare del bosco, o dovunque fossero, e raggiungere la strada.
    Ma non fece nemmeno quello.
    Rimase invece immobile, per quanto l'irrequietezza nelle ossa glielo permettesse, ricambiando lo sguardo impassibile dell'emocineta. Dischiuse appena le labbra per chiedergli cosa volesse da lui, ma lo sapeva già bene: a modo suo, e non necessariamente uno che Hans condividesse, stava cercando di aiutarlo. Lo faceva per lui. Chissà se aveva mai preso in considerazione l'ipotesi che ad Hans non interessasse nulla — che non volesse nulla. Che non se lo meritasse. Conoscendolo, probabilmente sì: e aveva deciso di ignorare la risposta.
    Erano tante le cose che ora Hans percepiva (fine) diversamente, libero finalmente dal torpore delle droghe, e lo avevano avvisato che molte altre sarebbero cambiate — o forse, per come l'avevano messa loro, sarebbero rimaste uguali e a cambiare sarebbe stato il suo modo di vederlo. Ma di certo non era cambiata la testardaggine di Twat.
    O quella di Hans.
    Lo era sempre stato testardo, Hans. Ed era sempre stato una testa di cazzo. Serrò maggiormente mascella e sguardo, e osservò Twat seduto in terra con aria di sfida, promettendo silenziosamente che va bene, allora immagino rimarremo qui a lungo. Non voleva cedere; non poteva permetterselo.
    Gli occhi indugiarono solo brevemente sull'arma, convinto quanto bastava che l'amico non l'avrebbe puntata contro di lui; su quello, non aveva dubbi. In quegli anni aveva dimostrato, in molti modi, l'esatto contrario, e solo ora, a mente lucida, Hans se ne rendeva conto. Le maniere dure, le parole forti, e persino le misure estreme che Twat era disposto a prendere, non erano mai contro di lui, ma per lui.
    Forse era meglio quando la nebbia chimica gli impediva di rimuginare su quelle informazioni, perché ora non sapeva cosa farsene. Non era mai stato friend material, il Belby, e non vedeva come poteva esserlo adesso, difettoso e rotto, incapace di ricambiare quell'affetto con la stessa ferocia. O di ricambiare quella di Nah con la stessa dedizione, o quella di Mac con la stessa tolleranza. O quella di Taichi, con la stessa goffagine. Non credeva di avere tutte quelle cose in lui, non le ricordava. Non aveva più nulla dietro cui nascondersi, se non se stesso e tutte le sue innumerevoli colpe; non poteva essere un pregio, no? O una buona cosa.
    «o vuoi tornare ad usare quella roba per evitare di scoppiare senza alcun controllo?»
    Colpito, ferito, distolse lo sguardo e lo lasciò vagare verso il barile, senza registrarne i contorni, né il suo contenuto. Si sentiva sopraffatto, conscio di aver superato il baratro già da tempo, e che quella caduta libera era ben lontana dall'arrestarsi.
    C'erano troppo pensieri a vorticare nella sua mente, e troppe emozioni a combattere per prevalere; nessuna a cui Hans volesse davvero dare retta, e di conseguenza tutte libere di rosicchiare via un pezzo della sua anima, della sua calma, fino a che non rimaneva nulla se non un mosaico inconsistente di emozioni spezzate. In contrasto tra loro, e troppo rumorose.
    Aveva sempre provato troppo, Hans, prima che Freja decidesse di aiutarlo a focalizzare le proprie attenzioni su una sensazione alla volta; non era mai stata una vera lezione, più un aiuto forzato da parte della telepate, e a lui non era rimasto impresso nulla. A vent'anni, non sapeva come concentrarsi su una e lasciare fuori le altre più di quanto non l'avesse saputo a sei; il suo rimedio era sempre stato spegnerle del tutto. Risolvere il problema alla radice.
    A quanto pareva, non il metodo ideale, o quello più funzionale. Perché ora che non aveva più quella barriera fatta di intorpidimento e dissociazione dal resto del mondo, non gli restava altro se non farci i conti. Per davvero.
    E avere Twat così poco incline a cedere, a provare a mettersi nei suoi panni, e le ultime due terribili settimane a gravare sulle spalle, e la stanchezza intrinseca nelle ossa per tutto quello che aveva sopportato e tutto quello gli avevano detto e tutto quello che avevano preteso — era troppo. Molto più che sufficiente a far scattare qualcosa in Hans, l'autocontrollo mai davvero un'opzione, non per lui, capace di trasformare anche una scintilla in un incendio. No pun intended.
    Non dovette nemmeno pensarlo, gli bastò al contrario non farlo, ed ecco che subito delle piccole fiamme iniziarono a lambire i pugni serrati; era sempre lì, quel potere bastardo, pronto ad emergere al primo momento di debolezza. Evocarlo non era mai stato il problema.
    Fermarlo, d'altro canto...
    «Sei contento adesso?»
    C'era rabbia nella sua voce, dolore; c'era terrore e c'era disperazione, una che avrebbe preferito non mostrare, ma fingere per quasi un decennio di non provare assolutamente nulla non lo aveva reso una persona funzionale in grado di esprimersi con cognizione di causa; al contrario.
    Twat lo sapeva, perché erano così simili, sotto certi aspetti, pur essendo molto diversi in altri. E forse, proprio per quello, le sue parole erano un po' troppo ingiuste: non era l'emocineta, il problema. Era lui. Era sempre stato lui.
    Era tutto lì, quello che per anni aveva compresso e negato a se stesso, nascosto e rilegato in cassetti della mente di cui giurava di aver buttato la chiave; era tutto lì, e di quei tempi gli bastava una parola di troppo, o un pensiero più forte degli altri, per atticchire e per suscitare qualcosa in lui. Cose che erano sempre state presenti, ma tenute a bada da un rimedio che aveva lo scopo di controllare ben più degli incubi e della pirocinesi. E non era colpa di Twat, come poteva esserlo, Hans per primo aveva dimenticato di essere stato, in passato, molto di più di un guscio vuoto e uno sguardo inespressivo; non gli piaceva doverlo ricordare a quel modo, con le brutte, ma non poteva nemmeno negarlo quando, senza più le sostanze chimiche dietro cui nascondersi, era tutto ciò che poteva offrire al mondo.
    E quando, ancora una volta, si dimostrava la ragione dietro il suo inesistente autocontrollo.
    Seppur con riluttanza, abbassò lo sguardo sulle mani ora portate all'altezza del petto, occhi sgranati come se vedesse il fuoco per la prima volta. Cosa diavolo stava facendo? Non poteva— non poteva, fine; non poteva e basta. Se solo Twat non lo avesse istigato, se solo non l'avesse fatto scattare come una molla, andando a toccare nervi scoperti che Hans non poteva più ignorare; se solo lui avesse saputo come scindere le emozioni dal proprio potere, come evitare che le prime alimentassero il secondo; sesolosesolosesolo.
    Diede le spalle Twat, ogni pensiero ad amplificare qualsiasi cosa stesse provando in quel momento (niente di positivo, a giudicare da come le mani, ora aperte, tremavano sotto le fiamme sempre più alte) e prima di poter registrare ciò che stava facendo, le alzò contro il contenitore di metallo, nel tentativo di evitare di bruciare la radura tutta intorno a loro. Cercò di ignorare la fitta al petto nel vedere le pasticche (tante, troppe) bruciare e sciogliersi; ignorò persino l'istinto che gli diceva di allungare una mano e salvare il salvabile — non ti farai nulla, gli suggeriva. E lo sapeva, lo sapeva, lo sapeva. Si morse l'interno della guancia, con forza, fino a sentire il sapore metallico del sangue riempire la bocca, chiudendo gli occhi e implorando le fiamme intorno alle sue mani di spegnersi, tentando di respirare in maniera regolare e scoprendo di non riuscirci. Ecco, lo sapevo. Cazzo, se lo sapeva! Annaspò in cerca di aria, inutilmente; e nell'agitazione riuscì solo ad aumentare l'intensità del fuoco, che minacciava di salire ai gomiti. «No...» Appena un sussurro, il suo, ancora piegato sul barile già in fiamme, l'unico posto che potesse toccare senza rischiare di incenerire tutto il resto.
    Il peso sul petto non aveva più niente a che vedere con le droghe ormai andate, ma si faceva sempre più ingombrante e lo divorava da dentro; e per un fottutissimo equilibrio karmico, più quello mangiava ogni cosa all'interno, più alimentava le fiamme all'esterno. Odiava tutto, Hans: se stesso per aver involontariamente ceduto; Twat per averlo istigato; il potere, semplicemente perché esisteva; sua mamma per non aver mai fatto sì che imparasse davvero come controllarsi; ad onor del vero, in quel momento non gli serviva una motivazione per odiare tutto e tutti. Vedeva solo fiamme, metaforiche e letterali, e sapeva già come sarebbe andata a finire.
    E sarebbe stata solo colpa sua, come sempre.
    «Te l'avevo detto che era una pessima idea.» Forse non con così tante parole, ma la sua riluttanza non era stata dettata solo dall'ostinazione, e Twat quello doveva averlo saputo. Si permise di osservare appena l'amico, riservandogli uno sguardo pieno di delusione verso se stesso, oltre la spalla; credeva ancora che ne valesse la pena? Battè le palpebre una, due volte, concentrandosi a fatica sui lineamenti difficili da leggere dell'amico.
    «Hai un estintore a portata di mano?» Non stava scherzando: era l'unica cosa, ultimamente, in grado di spegnerlo. «E ti giuro su Dio che se mi dici di respirare e stare calmo, ti brucio.» Parole un po' troppo dure, forse, ma che, conoscendo l'altro special, non avrebbero sortito alcun effetto o provocato alcuna preoccupazione nel norvegese.
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    «sei contento adesso?» le iridi chiare rimasero puntate sul profilo del ragazzo, la coda dell’occhio a registrare vaga la presenza delle fiamme che divampavano sui pugni chiusi del coinquilino. Non si scompose, dietro gli occhiali da sole: non c’era soddisfazione a brillare nello sguardo del norvegese, né confusione o stupore alla domanda dell’altro. «dovrei?» una domanda retorica, sebbene il tono secco ed impassibile potesse indurre in dubbio il Belby: faticava ad elaborare le emozioni come il resto del genere umano, ma c’erano momenti come quello in cui non aveva dubbi su come si sentisse.
    Ed era sicuramente tante cose, Twat, fuorché contento. Non soltanto perché avrebbe preferito essere in qualsiasi altro luogo, persino alla serata karaoke del Better Run con un microfono in mano e storpiando Careless Whisper senza nemmeno un’oncia di alcol in corpo a giustificare la sua esistenza in quel dato momento dello spazio-tempo, piuttosto che seduto in una radura nascosta al mondo intero, con un barile pieno di droga ed un migliore amico sull’orlo di una crisi di nervi appena uscito da un centro di recupero per tossicodipendenti: mai in vita sua avrebbe potuto anche solo lontanamente immaginare che si sarebbe ritrovato in una situazione del genere, o che avrebbe desiderato così ardentemente tornare indietro nel tempo ed impedire che molte cose succedessero, e se avesse potuto avrebbe evitato ad entrambi tutto quello. Né perché rispondere positivamente a quel quesito, troppo stupida per essere stato consapevolmente formulato da Hans, avrebbe significato essere compiaciuto della sofferenza a zampillare da ogni suo poro – e non lo era; fosse stato qualcun altro il rischio ci sarebbe stato, ma in quel caso si sentiva esattamente all’opposto: triste, avrebbe detto, se solo fosse riuscito a metabolizzare un sentimento simile ed esternarlo com’era giusto e lecito fare.
    Non era appagato, non era compiaciuto, non era felice, perché non aveva alcun motivo al mondo per esserlo. Raramente Tvättbjörn Cömmstaj faceva qualcosa che non fosse unicamente per sé, per la propria soddisfazione ed un personale tornaconto: ma lì, ad osservarlo mentre dava fuoco al contenuto del barile e si disperava al suo cospetto – vuoi per aver appena bruciato anni di collezionismo tossico; vuoi perché l’aveva portato al limite che aveva tanto cercato di porre sempre un po’ più distante –, c’era per lui. Che poi non volesse accettarlo, e preferisse detestarlo perché lo aveva obbligato ad usare il suo potere, era un problema tutto di Hans: l’emocineta ci avrebbe comunque, e tranquillamente, dormito la notte. Lo aveva preventivato, perché non era un’idiota e aveva stilato una lista ben dettagliata su pro e contro di quella giornata: laddove di positivo c’era una terapia d’urto che sapeva lo avrebbe aiutato, era consapevole che rischiasse di perderlo in quella nuova vita che si sarebbe andato a costruire – e che Twat non lo volesse, per una volta, contava poco.
    Se ne rimase buono, le gambe piegate ed il mento poggiato sulle braccia a stringerle maggiormente al petto, come se stesse guardando un tramonto sul ciglio dei fiordi piuttosto che il principio di un incendio che aveva aiutato ad appiccare – d’altronde, non sarebbe stata la prima volta che dava alle fiamme qualcosa per il semplice gusto di farlo. «te l’avevo detto che era una pessima idea.» innanzitutto, non gli aveva detto proprio un cazzo di niente.
    In secondo luogo. Si alzò, senza lesinare un sospiro di fatica nel farlo, ricambiando lo sguardo. «anche andare in overdose e» farmi credere fossi morto, gran pezzo di merda «costringermi a farti la respirazione bocca a bocca era una pessima idea.» si strinse nelle spalle. «eppure quantomeno la sua, di pessima idea, avrebbe avuto effetti scenici più entusiasmanti del vedere il corpo emaciato del Belby riverso al suolo, con la bava alla bocca e battiti troppo lenti e scoordinati a rimbombare nelle arterie.
    «niente estintore.» mosse i passi che lo separavano dalla schiena dello svedese, cercando di ignorare il calore che emanava e che, se solo non fosse stato attento, lo avrebbe scottato. «respira,» sorrise, perché gli piacevano le sfide. «e stai calmo.» non aveva paura potesse bruciarlo – non volontariamente, almeno: si fidava di lui, più di quanto Hans non facesse con sé stesso; in caso contrario, sarebbe stato quantomeno divertente. Posò una mano sulla sua spalla e premette appena, facendo penetrare il proprio potere sottopelle ed andando a premere sul flusso sanguigno – maneggiandolo, rimodellandolo, inibendolo, fino a quando non assistette alle fiamme spegnersi sulla pelle. Allora fece scivolare il palmo, finendo per avere il gomito premuto sulla clavicola e piegando appena il capo per rivolgergli lo sguardo. «non ti ci abituare.»
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    «dovrei?»
    No che non doveva, che merda.
    Se si trovavano in quella situazione era per colpa sua, e si permetteva anche di fare dell’ironia a riguardo?
    (No, si trovavano lì per colpa dei vizi di Hans, e delle sue scelte discutibili, ma non era abbastanza umile da accettarlo, né con se stesso, men che meno con Twat.)
    Strinse i denti, il pirocineta, senza rispondergli.
    C’era qualcosa di sbagliato nella calma e impassibilità di Twat, se messe a paragone con l’irrequietezza di Hans: al Belby non piaceva sentirsi (punto) così privo di controllo e in balìa delle emozioni; aveva fatto tanto per chiuderle fuori, e ora lo costringevano ad averci a che fare, ad accettarle. Non sapeva chi fosse, Hans Belby, in quel nuovo ed irriconoscibile stato.
    Cosa avrebbero visto gli altri, se non una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro — era ciò che vedeva lui, infondo, e non era in grado di distinguere la sua percezione di se stesso da quella che avrebbe potuto avere di lui il resto del mondo. Si domandò, distrattamente, quanto ci avrebbe messo Twat a capire che fosse un problema averlo vicino; che quella nuova versione di Hans fosse imprevedibile e smaniosa, difettosa in maniera del tutto diversa da quella precedente; che nei silenzi confortevoli in cui si erano spesso chiusi entrambi, ora Hans ci stesse stretto.
    Reclinò la testa all’indietro, volgendo lo sguardo al cielo terso, nascosto dalle fronde degli alberi; una parte di lui sapeva che non fosse colpa di Twat, che non lo fosse affatto, ma non voleva dare retta alla razionalità, in quel momento; non aveva alcun diritto di lamentarsi, ma era tutto ciò che voleva fare.
    Insofferente, esausto; andava avanti solo per inerzia e perché aveva dormito così tanto nelle ultime due settimane che temeva non sarebbe più riuscito a chiudere occhio per giorni, anche (e soprattutto) per l’agitazione che ora vibrava nelle ossa, e che pizzicava la pelle rendendolo nervoso, una corda di violino così tesa da rischiare di spezzarsi da un momento all’altro.
    Sapeva non fosse colpa di Twat, eppure non riuscì comunque a trattenersi dal rinfacciargli le cose — che lo stesse facendo per lui era chiaro (almeno alla parte razionale della mente lucida del Belby) ma non voleva dire che dovesse per forza accettarlo o esserne riconoscente. Non glielo aveva chiesto Hans.
    Serrò le labbra al commento in risposta dell’amico, rivolgendogli ancora le spalle, perché non voleva che Twat leggesse nulla sul suo volto stanco e scavato; ok, va bene, avevano avuto entrambi delle idee di merda, e quindi? Costringerlo ad usare il suo potere era da stronzi; non c’era nemmeno bisogno che Hans lo avvertisse del fatto che potesse essere davvero pericoloso, vivevano insieme, Twat doveva per forza sapere quanto poco autocontrollo avesse il pirocineta, no?! C’erano cose che potevano rimanere taciute, e quella era una di esse.
    Com’era possibile che dopo tutto quel tempo ancora non lo sapesse? Che cercasse volontariamente di provocarlo, di— «niente estintore.»
    Non ebbe il tempo di registrare l’involontario salto sul posto, nel sentire la voce di Twat più vicina del previsto, e quando si voltò in direzione dell’amico era a pochi passi da lui. Hans si ritrasse, cercando di farsi ancora più piccolo, schiacciandosi contro il barile per evitare di bruciare l’emocineta; poteva anche non volerlo fare apposta (o forse sì…) ma non pensava di potersi davvero controllare — e anche se razionalmente sapeva che quello fosse Twat, che non corresse alcun pericolo e che potesse lasciarlo avvicinare e sconfinare nel suo spazio personale, non era altrettanto sicuro che il suo inconscio non reagisse a quell’affronto, alimentando le fiamme.
    «non—»
    «respira,» Oh, fanculo: l’avrebe arrostito come un arrosticino.
    «e stai calmo.» Facile parlare, eh! Non era mica lui quello pulito e in balia di settantordici emozioni diverse; cosa ne voleva sapere di cosa volesse dire stare calmo.
    Fece per aprire la bocca e (insultarlo) chiedergli gentilmente di non fare l’infame, ma la richiuse per osservare in silenzio la mano del biondo che si posava delicatamente sulla sua spalla, imprimendo una leggera forza, alla quale Hans cercò di non resistere: non gli piaceva essere toccato, ma sapeva che Twat era fan di quei gesti tanto quanto lo era lui, perciò lo lasciò fare reputando ci fosse un ottimo motivo dietro una scelta così azzardata.
    E venne ricompensato, il Belby, quando sentì gradualmente la magia bruciare sempre un po’ meno nelle proprie vene, fino a spegnersi del tutto; di riflesso, le fiamme che lambivano i pugni e gli avambracci si affievolirono, fino a sparire completamente, lasciando solo piccole nuvole di fumo destinato a disperdersi in fretta nell’aria.
    «non ti ci abituare.»
    Fottuto bastardo.
    Hans non aveva parole per replicare; solo un’unica altra volta si era sentito così, in vita sua, (libero, normale, leggero) ed aveva quasi rischiato di rimanere volontariamente in mezzo a quella via desolata di Tottington pur di sentirsi così per sempre; non l'aveva mai confessato a nessuno, ma la tentazione era stata molto forte.
    Faceva un effetto strano sapere di averlo spento, in qualche modo, e di aver sollevato almeno per il momento il macigno che gravava sulle sue spalle.
    Aveva solo una cosa da dire a Twat: (non smettere) «grazie.» Non era un estintore, era pure meglio; ed era anche meglio della droga, perché adesso Hans sentiva in maniera inconfutabile cosa volesse dire avere solo sangue a scorrere sotto la pelle chiara, nessuna magia e nessuno scherzo della natura a minacciare la sua (o altrui) incolumità. E sapeva che era così che si volesse sentire; se ci fosse stato un modo per rinunciare del tutto alla magia, Hans avrebbe pagato qualsiasi prezzo pur di liberarsene.
    Socchiuse appena gli occhi, per tenere a bada l’ennesima ondata di emozioni che minacciavano di soffocarlo, e quasi in un sussurro, offrì all’amico: «mi dispiace», per l’overdose, e per averlo costretto a svuotare ben due volte i suoi cassetti; per averlo fatto preoccupare e per avergli quasi dato fuoco; per essere il cazzo di casino che era, e per non sapere come essere un amico migliore.
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    «grazie» assottigliò le palpebre, sopracciglia corrugate e occhi ridotti ad due lame di ghiaccio, celate dalle lenti scure e premute contro il profilo del Belby.
    Sociopatico per definizione, più che per deformazione, Tvättbjörn aveva sempre avuto problemi ad empatizzare con il prossimo – anche quando avrebbe voluto farlo; anche quando ci provava davvero a mettersi nelle scarpe dell'altro e vedere come ci si camminasse. Faticava a comprendere e razionalizzare le proprie emozioni, figurarsi quelle altrui: erano un altro pianeta, sconosciuto e impervio, e lui un astronauta senza equipaggiamento né preparazione, lanciato nello spazio in balia di sé stesso.
    Ma aveva studiato, continuava a farlo e non avrebbe mai smesso. Riconosceva di peccare in ambito sociale – non riteneva semplicemente fosse un suo problema: se qualcuno doveva adeguarsi, quello non era di certo il norvegese –, così come era consapevole del fatto che l'unico modo che conoscesse per sopperire a tali mancanze fosse l'apprendimento. Tutti i libri di medicina, di psicologia e sociologia che aveva divorato negli ultimi tempi non gli avevano sicuramente dato gli strumenti necessari a comprendere le persone, condividere e accettare i loro stati d'animo più di quanto non avessero fatto gli psicofarmaci, né tantomeno più di quanto avesse desiderio di fare; tuttavia, gli avevano offerto quelli per individuare i sintomi, classificarli ed elaborarli all'interno di uno schema più ampio.
    Non pensava di aver sbagliato a bloccare il potere di Hans, ma non era nemmeno certo di aver fatto la cosa più giusta per lui in quel momento. Nemmeno quando aveva programmato di farlo, architettando ogni singolo passo e calcolando i possibili imprevisti, si era illuso quella potesse essere la scelta migliore per supportarlo. Il problema era che in fondo Twat non avesse idea di come aiutare davvero il suo migliore amico senza fare alcun danno: osservandolo mentre si beava, ad occhi chiusi e con il respiro lento, dell'effetto dell'emocinesi sul suo organismo, ebbe solo che la conferma dei contro che aveva preventivato, nonché sperato invano non si palesassero.
    Si staccò dallo svedese, muovendo qualche passo verso il barile per volgere una breve occhiata al suo interno carbonizzato prima di tornare sul ragazzo. Di non ringraziarlo, o di non dispiacersi, non glielo disse – immaginava che entrambe le cose fossero qualche stronzata da tossicodipendenti anonimi, quindi lo lasciò fare –; non voleva che gli fosse riconoscente, né per quell'ultimo gesto né per tutti quelli che aveva fatto per portarlo a quel punto, ma accettò di buon grado quelle scuse. Un po', sentiva di meritarsele per come gli aveva fatto passare quelle ultime settimane.
    C'era un punto, dietro quel grazie, che però ci teneva a chiarire. «questa non sarà la tua nuova droga.» specificò secco, sollevando la stessa mano con cui aveva placato i suoi bollenti spiriti: non lo aveva preso per la collottola sul ciglio di un burrone per spingerlo verso un altro. Sarebbe stato un attimo, per lui, passare nuovamente da quel tipo di anestesia a quello di una pasticca – ma a quel punto, anche per il Cömmstaj sarebbe stato un attimo prendere la pistola e puntargliela contro, finanche a premere il grilletto: preferiva perdere il proprio migliore amico così, che vederlo ammazzarsi da solo.
    «a me non dispiace.» si strinse nelle spalle, riferendosi un po' a tutto e un po' a niente. Avrebbe preferito non trovarsi in quella situazione, ma di certo non era amareggiato per averlo costretto a dare fuoco alle sue scorte: in primis, perché aveva altri spacciatori di fiducia cui rivolgersi se avesse avuto bisogno di qualcosa; poi, perché «devi imparare a controllarti, a controllarlo, che ti piaccia o meno.» Odino solo sapeva quanto avrebbe desiderato non avere quel dono, Twat. Aveva una meta, aveva un progetto, ed il tutto era andato a puttane quando nemmeno aveva l'età per potersi opporre a quel che stava succedendo; a diciannove anni, gli erano rimasti solo una cicatrice sul petto, ed i ricordi notturni di tutto il sangue che aveva dovuto versare per diventare poi in grado di manipolarlo. Sotto quel punto di vista, poteva seriamente capire la frustrazione di Hans – ma la sua comprensione, per loro sfortuna, non cambiava i dati di fatto. «ma non sei da solo, ok?» non lo era mai stato, ma forse a quel punto, privo di anestetici sintetici, avrebbe iniziato a capirlo.
    Chinò il capo, accendendo un'altra sigaretta. «io me ne vado.» annunciò in uno sbuffo di fumo, superando il Belby: troppi sentimentalismi, aveva bisogno di spegnersi. «vuoi accendere un cero o ti serve un passaggio?»
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    CÖMMSTAJ

    At the starting line, a never ending race
    What I've got inside isn't common place
    I've been dreaming about hopeful better days
    Time for dreaming's done, time to face the sun
    19 | dec. 2003 | modalen, no
    emokinesis | rebel
    2043: dexter bitchinski
     
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